di Daniele Trabucco,11-08-2025
Il progetto di legge di iniziativa parlamentare volto a disciplinare la non punibilità dell’aiuto al suicidio assistito, elaborato in attuazione della nota sentenza n. 242/2019 della Corte costituzionale, si colloca in un nodo sensibile dell’ordinamento, dove la tecnica legislativa incontra questioni di principio che ne determinano la legittimità sostanziale. Con quella pronuncia, la Corte, pur mantenendo in vigore l’art. 580 c.p., ha dichiarato la sua incostituzionalità “nella parte in cui” non esclude la punibilità di chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, formato autonomamente, da parte di una persona che: (1) sia affetta da una patologia irreversibile; (2) sia fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che essa reputa intollerabili; (3) sia pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli; (4) sia mantenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale. Questa perimetrazione è stata, in pronunce successive, confermata e in parte chiarita (così le sentenze n. 135/2024 e la n. 66/2025), ma non ha mutato la logica di fondo: la creazione, per via giudiziale, di un’area di non punibilità condizionata.
Un’eventuale disciplina legislativa che si ponga in linea con tali coordinate non sarebbe, tuttavia, al riparo da ulteriori interventi manipolativi della stessa Corte, giacché, nella giurisprudenza costituzionale, si è, da tempo, affermato il principio secondo cui il giudice delle leggi deve garantire una “funzione dinamizzante” dell’ordinamento, interpretando e adeguando le norme in modo conforme ai mutamenti sociali e culturali. In questa prospettiva, nessuna legge in materia sarebbe mai definitiva, poiché resterebbe sempre aperta alla revisione giudiziaria sotto il pretesto di “armonizzarla” con il progresso sociale percepito.
Si tratta, in realtà, di una torsione del ruolo stesso della Corte ampiamente conosciuto. La funzione di giudizio sulla legittimità costituzionale diventa, di fatto, funzione di co-legiferazione, come già avvenuto con la legge ordinaria dello Stato n. 40/2004 sulla procreazione medicalmente assistita: una disciplina approvata dal Parlamento, ma svuotata progressivamente attraverso sentenze additive e manipolative, fino a mutarne radicalmente i contenuti sostanziali.
L’intervento della Corte in materia di aiuto al suicidio si colloca nello stesso solco: non mera verifica di conformità, ma esercizio di una potestà normativa sostitutiva, in contrasto con il principio di separazione dei poteri. In questo contesto, è del tutto inutile invocare il principio personalista sancito dall’art. 2 della Costituzione e l’idea che il diritto alla vita, che in esso trova implicitamente il suo “fondamento” positivo, costituisca il presupposto di tutti gli altri diritti, appartenendo “all’essenza dei valori supremi sui cui si fonda la Costituzione italiana” (cfr. sentenza n. 35/1997 e sentenza n. 50/2022 Corte cost.). Nel Testo fondamentale, esso (il principio personalista) è sganciato da ogni riferimento esplicito all’ordine naturale e si presta a una lettura modulare: il contenuto concreto delle “pretese soggettive” non è fissato in base a un bene oggettivo radicato nella natura umana, ma modellato, di volta in volta, sulle coordinate storiche e culturali del momento. Si tratta di un’impostazione sartiana nella misura in cui, pensiamo alla prospettiva di Costantino Mortati (1891-1985) nell’ottica della Costituzione “materiale”, i principi non hanno un contenuto predeterminato e immutabile, bensì ricevono concretezza dall’esperienza storica e dalla prassi istituzionale. In tal modo, la dignità della persona può essere concepita come espressione della libertà di autodeterminarsi fino a sopprimere la propria vita.
Una legge che recepisca e sviluppi la logica della sentenza n. 242/2019 opererebbe, dunque, entro un quadro valoriale instabile, dove il fondamento della tutela giuridica della vita non è un dato ontologico, ma il risultato di una scelta politica contingente, sempre suscettibile di revisione. Si passerebbe, così, da un paradigma in cui la vita è presupposto incondizionato di ogni diritto a un sistema in cui essa diventa un bene tra altri, bilanciabile e rinunciabile secondo condizioni stabilite dalla legge e valutate dalla giurisprudenza. E questo accade perché il vero problema non è giuridico, ma teoretico: le “Costituzioni”, tra cui quella italiana, sono fondate unicamente sul potere e solo in esso trovano la loro legittimazione.
Va, infine, respinta l’idea, propria di una parte del mondo “cattolico” neomodernista, per cui, in simili casi, si possa parlare di “male minore”. Il male minore, in senso autentico, riguarda la scelta tra due beni imperfetti, mai la deliberata accettazione di un atto intrinsecamente ingiusto. La cooperazione all’eliminazione volontaria di una vita innocente costituisce un disordine intrinseco, mettendo in discussione l’essere e l’agire stesso della persona umana, e, come tale, non può essere reso buono né dal consenso della persona, né dal fine di evitare sofferenze.
Un cattolico non può approvare, votare o sostenere una legge che, in qualsiasi forma, legittimi tale condotta, perché ciò equivarrebbe a riconoscere normativamente un male intrinseco, alterando il rapporto stesso tra legge e verità morale.
Alla radice di questa questione vi è lo scontro tra due concezioni della legge: quella classica, per la quale la legge è ordinamento della ragione al bene comune, e quella contemporanea, di matrice volontaristica, per la quale la legge è formalizzazione di una volontà storicamente determinata. La prima trova il suo fondamento in un ordine naturale riconosciuto; la seconda, priva di tale radicamento, diventa inevitabilmente strumento di ridefinizione continua dei beni giuridici secondo criteri contingenti.
In definitiva, una disciplina che, pur con limiti stringenti, ammetta la non punibilità dell’aiuto al suicidio assistito non rappresenta un compromesso equilibrato, ma un cedimento strutturale dell’ordinamento a una concezione relativistica della dignità e della vita. Essa testimonia, in fondo, come il diritto costituzionale sia, e non puó che risultare così in base alle premesse della modernità, un “diritto dell’opportunità”, in cui il valore supremo dell’esistenza è messo in discussione dalla stessa legge che dovrebbe tutelarlo. Ecco le Costituzioni “nate dalla Resistenza” e più belle del mondo.

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