sabato 29 giugno 2019

I primi Cristiani celebravano la Messa così: l'altare della Cripta delle Catacombe di Sant'Antioco (Sardegna)





Abbiamo preso questa foto da una pagina di Facebook (sotto linkata) dove ci sono diversi interessantissimi approfondimenti storico/liturgici sulla celebrazione "ad orientem" frutto dell'ammirevole conoscenza storico/liturgica di
Filiberto Maiori che ringraziamo. Rendendoci purtroppo conto che "chi si occupa di liturgia e di scienza storica liturgica parta sovente da posizioni "progressiste" e, conseguentemente, "legge la storia attraverso i filtri dell'ideologia" auspichiamo che almeno le comunità legate alla liturgia "classica" potrebbero creare quanto prima una sorta di istituto liturgico-tradizionale dove "venga insegnata la scienza liturgica senza pregiudizi ideologici".
AC




Sardegna, Sant'Antioco* : Altare nella Cripta delle Catacombe


Come si vede nella foto, la tomba del santo è divenuta l'altare.
La disposizione ad orientem e l'altare di pietra sono la diretta reminescenza di quando, nei primi secoli, così si celebrava la Santa Messa.
"Una celebrazione "rivolta al popolo" non è mai esistita.


Bisogna premettere che già l'espressione "rivolta al popolo" procede da una visione e considerazione clericale della liturgia.
L'espressione "celebrazione rivolta al popolo" è dunque figlia del clericalismo che vede il sacerdote come il centro di tutta l'azione liturgica che viene quindi definita in base al posto del presbitero e al suo orientamento.
E' dunque una espressione aberrante che nasce da una concezione aberrata della liturgia.


In antico tutti, sacerdote e fedeli laici erano rivolti verso oriente.
Tale direzione era talmente radicata e importante che la si osservava pure nella preghiera privata domestica.

Nella Roma del primo millennio addirittura, in quelle poche basiliche coll'ingresso rivolto ad est (all'incirca tutte del IV secolo) i fedeli, e pure il papa, una volta entrati in chiesa si volgevano verso la porta d'ingresso per un atto d'adorazione a Cristo.

I problemi sono nati più o meno dopo la fine delle persecuzioni, quando si sono costruite le prime chiese e il vescovo coi presbiteri lasciò il posto originario (dalla parte opposta dell'altare, in mezzo ai fedeli) per collocare il proprio seggio e i subsellia dei suoi presbiteri, proprio nell'abside dove i magistrati romani avevano il loro scranno. 

L'orientazione della preghiera è sempre rimasta verso est, ma con tale spostamento delle sedi del clero, l'assemblea liturgica è stata letteralmente spaccata in due: il clero da una parte e il popolo dall'altra.
Questo, però inizialmente continuò a posizionarsi nelle navate laterali e si volgeva alquanto verso est.
Ben presto però il popolo invase la navata centrale e, forse perchè era pure considerato inqualificabile volgersi ad est in quella nuova posizione in quanto avrebbe significato dar le spalle all'altare, finì per non voltarsi più ad est.
Tutto questo riguarda le basiliche coll'entrata ad est. 

Ma l'orientamento verso est si è mantenuto vivo per diversi secoli, e questo spiega perchè nei secoli successivi di norma verso est veniva posizionata l'abside, di modo che tutti, presbitero e fedeli laici, fossero sempre volti ad est e tutti dal medesimo lato dell'altare.

La "celebrazione rivolta al popolo" fu reclamizzata da alcuni esponenti del Movimento liturgico, come il monaco Lambert Beauduin, il quale però, versato com'era nella storia liturgica, non ha mai detto che quella fosse la posizione antica. 

Più semplicemente quella posizione (versus populum N.d.R.) era permessa dal Messale preconciliare e fu ritenuta adatta a restituire alla liturgia una certa nota di calore e familiarità.
Ma così facendo il Beauduin e i suoi amici, non si resero conto che la liturgia veniva ulteriormente clericalizzata in una maniera nauseante e inaccettabile.
Dopo il superconcilio (Concilio Vaticano II N.d.R) , pur non essendo imposta da nessuna norma, una tale forma di celebrazione, si diffuse a macchia d'olio diventando in un attimo come l'icona stessa del rinnovamento. 

Un bel rinnovamento, non c'è che dire: per sclericalizzare la liturgia la si è clericalizzata ancor di più!
E i mille tentativi dei preti di "democratizzare" la nuova liturgia affidando a laici compiti e servizi che non gli competono, non fanno altro che clericalizzare ancora, perchè muovono dall'idea, clericale in sommo grado, che la liturgia sia qualcosa che appartiene al prete il quale, benignamente ne delega alcune parti ai laici.
Solo un prete che si considera padrone della liturgia (come ha saggiamente evidenziato anche il Teologo-Liturgista Joseph Ratzinger N.d.R.) ne dispone a piacimento.
Se si considerasse servo, non lo farebbe."
...


"A parte alcune basiliche del IV secolo circa in seguito raramente si costruirono chiese con l'ingresso a est, perchè una tale sistemazione, per quanto teologicamente molto bella, liturgicamente scombussola l'assemblea. 

Anche la collocazione absidale del seggio episcopale fu presto abbandonata per riportarla "davanti" all'altare, in cornu Evangelii, pur se questa collocazione non era l'originaria; ma in tal modo almeno tutta l'assemblea, dal vescovo fino all'ultimo dei fedeli, si trova dal medesimo lato dell'altare ed è tutta rivolta nella medesima direzione.
E' interessante notare come una collocazione absidale del seggio episcopale l'ha conosciuta pure l'Oriente, e il rito bizantino tuttora la conserva.
Ma, a parte che nel rito bizantino il cosiddetto "trono alto" viene usato solo se il celebrante è vescovo (se non c'è il vescovo i presbiteri neppure si siedono sui loro subsellia) ma il suo uso è limitato alla sola prima parte della liturgia.
In pratica il vescovo e i presbiteri si siedono dietro l'altare solo per le letture e poi non più."

Fonte: Facebook QUI


continua





*Sant'Antioco (Santu Antiogu o Sant'Antiogu in sardo, San Antiòcco in tabarchino) è un comune di 11.152 abitanti della provincia del Sud Sardegna, nel Sulcis-Iglesiente da antichissime origini.
Il comune sorge sui resti di Sulki, una delle città più antiche del Mediterraneo occidentale.
È il principale comune dell'omonima isola. ( Wichipedia)







giovedì 27 giugno 2019

Una critica dell’”Instrumentum laboris” per il sinodo dell'Amazzonia





di Sandro Magister

27 giu 2019

Da quando è stato reso pubblico il 17 giugno, il documento base – o ”Instrumentum laboris” – del sinodo dell’Amazzonia ha avuto molte reazioni critiche, per l’anomalia del suo impianto e delle sue proposte, rispetto a tutti i sinodi che l’hanno preceduto.

Ma da oggi c’è di più. Ad accusare il documento addirittura di eresie e di apostasia è un cardinale, il tedesco Walter Brandmüller, 90 anni, insigne storico della Chiesa, presidente del Pontificio Comitato di Scienze Storiche dal 1998 al 2009 e coautore, nel 2016, dei celebri “dubia” sull'interpretazione e applicazione di “Amoris laetitia” ai quali papa Francesco ha sempre rifiutato di rispondere.

Ecco qui di seguito il suo “J’accuse”, reso pubblico oggi, 27 giugno, in tutto il mondo in più lingue.

Su Kath.net il testo originale in tedesco:

> Eine Kritik des "Instrumentum Laboris" für die Amazonas-Synode




*

Una critica dell’”Instrumentum laboris” per il sinodo dell'Amazzonia


di Walter Brandmüller

Introduzione
Può davvero causare stupore che, all’opposto delle precedenti assemblee, questa volta il sinodo dei vescovi si occupi esclusivamente di una regione della terra la cui popolazione è solo la metà di quella di Città del Messico, vale a dire 4 milioni. Ciò è anche causa di sospetti riguardo alle vere intenzioni che si vorrebbero attuare in modo surrettizio. Ma bisogna soprattutto chiedersi quali siano i concetti di religione, di cristianesimo e di Chiesa che sono alla base dell’”Instrumentum laboris” recentemente pubblicato. Tutto ciò sarà esaminato con l'appoggio di singoli elementi del testo.

Perché un sinodo in questa regione?
Per cominciare, occorre chiedersi perché un sinodo dei vescovi dovrebbe trattare argomenti, che – come è il caso dei tre quarti dell’”Instrumentum laboris” – hanno solo marginalmente qualcosa a che fare con i Vangeli e la Chiesa. Ovviamente, da parte di questo sinodo dei vescovi viene compiuta anche un'aggressiva intrusione negli affari puramente mondani dello Stato e della società del Brasile. C’è da chiedersi: che cosa hanno a che fare l'ecologia, l'economia e la politica con il mandato e la missione della Chiesa?

E soprattutto: quale competenza professionale autorizza un sinodo ecclesiale dei vescovi a emettere dichiarazioni in questi campi?
Se il sinodo dei vescovi davvero lo facesse, ciò costituirebbe uno sconfinamento e una presunzione clericale, che le autorità statali avrebbero motivo di respingere.

Sulle religioni naturali e l’inculturazione
C’è un altro elemento da tenere presente, che si trova in tutto l’”Instrumentum laboris”: vale a dire la valutazione molto positiva delle religioni naturali, includendo pratiche di guarigione indigene e simili, come anche pratiche e forme di culto mitico-religiose. Nel contesto del richiamo all'armonia con la natura, si parla addirittura del dialogo con gli spiriti (n. 75).

Non è solo l'ideale del “buon selvaggio" tratteggiato da Rousseau e dall'Illuminismo che qui viene messo a confronto con il decadente uomo europeo. Questa linea di pensiero si spinge oltre, fino al XX secolo, quando culmina in un'idolatria panteistica della natura. Hermann Claudius (1913) creò l'inno del movimento operaio socialista "Quando camminiamo fianco a fianco...", in una strofa del quale si legge: ”Verde delle betulle e verde dei semi, che la vecchia Madre Terra semina a piene mani, con un gesto di supplica affinché l'uomo diventi suo... “. Va notato che questo testo è stato successivamente copiato nel libro dei canti della Gioventù hitleriana, probabilmente perché corrispondeva al mito del “sangue e suolo” nazionalsocialista. Questa prossimità ideologica è da rimarcare. Questo rigetto anti-razionale della cultura "occidentale" che sottolinea l'importanza della ragione è tipico dell’”Instrumentum laboris, che parla rispettivamente di "Madre Terra" nel n. 44 e del "grido della terra e dei poveri” nel n.101.

Di conseguenza, il territorio – vale a dire le foreste della regione amazzonica – viene addirittura dichiarato essere un “locus theologicus”, una fonte speciale della divina rivelazione. In esso vi sarebbero i luoghi di un'epifania in cui si manifestano le riserve di vita e di saggezza del pianeta, e che parlano di Dio (n. 19). Inoltre, la conseguente regressione dal Logos al Mythos viene innalzata a criterio di ciò che l’”Instrumentum laboris” chiama l'inculturazione della Chiesa. Il risultato è una religione naturale con una maschera cristiana.

La nozione di inculturazione è qui virtualmente snaturata, dal momento che in realtà significa l'opposto di ciò che la commissione teologica internazionale aveva presentato nel 1988 e di quanto aveva precedentemente insegnato il decreto “Ad gentes” del Concilio Vaticano II sull'attività missionaria della Chiesa.

Sull'abolizione del celibato e l'introduzione di un sacerdozio femminile
È impossibile nascondere che questo "sinodo" è particolarmente adatto per attuare due progetti tra i più cari che finora non sono mai stati attuati: vale a dire l'abolizione del celibato e l'introduzione di un sacerdozio femminile, a cominciare dalle donne diacono. In ogni caso si tratta di “tener conto del ruolo centrale che le donne svolgono oggi nella Chiesa amazzonica” (n. 129 a3). E allo stesso modo, si tratta di “aprire nuovi spazi per ricreare ministeri adeguati a questo momento storico. È il momento di ascoltare la voce dell'Amazzonia... “ (n. 43).

Ma qui si omette il fatto che, da ultimo, anche Giovanni Paolo II ha affermato con la massima autorità magisteriale che non è nel potere della Chiesa amministrare il sacramento dell’ordine alle donne. In effetti, in duemila anni, la Chiesa non ha mai amministrato il sacramento dell’ordine a una donna. La richiesta che si colloca in diretta opposizione a questo fatto mostra che la parola "Chiesa" viene ora utilizzata esclusivamente come termine sociologico da parte degli autori dell’”Instrumentum laboris”, negando implicitamente il carattere sacramentale-gerarchico della Chiesa.

Sulla negazione del carattere sacramentale-gerarchico della Chiesa
In modo simile – sebbene con espressioni piuttosto di passaggio – il n. 127 contiene un attacco diretto alla costituzione gerarchico-sacramentale della Chiesa, quando vi si chiede se non sarebbe opportuno "riconsiderare l'idea che l'esercizio della giurisdizione (potere di governo) deve essere collegato in tutti gli ambiti (sacramentale, giudiziario, amministrativo) e in modo permanente al sacramento dell’ordine”. È da una visione così errata che deriva poi nel n. 129 la richiesta di creare nuovi uffici che corrispondano ai bisogni dei popoli amazzonici.

Tuttavia è il campo della liturgia, del culto, quello in cui l'ideologia di un'inculturazione falsamente intesa trova la sua espressione in modo particolarmente spettacolare. Qui, alcune forme delle religioni naturali sono assunte positivamente. L’”Instrumentum laboris” (n. 126 e) non si trattiene dal chiedere che i “popoli poveri e semplici" possano esprimere "la loro (!) fede attraverso immagini, simboli, tradizioni, riti e altri sacramenti (!!)”.

Questo sicuramente non corrisponde ai precetti della costituzione " Sacrosanctum Concilium", né a quelli del decreto “Ad gentes” sull'attività missionaria della Chiesa, e mostra una comprensione puramente orizzontale della liturgia.

Conclusione
“Summa summarum”: l’”Instrumentum laboris” carica il sinodo dei vescovi e in definitiva il papa di una grave violazione del “depositum fidei”, che significa come conseguenza l'autodistruzione della Chiesa o il cambiamento del “Corpus Christi mysticum” in una ONG secolare con un compito ecologico-sociale-psicologico.

Dopo queste osservazioni, naturalmente, si aprono delle domande: si può qui rinvenire, specialmente riguardo alla struttura sacramentale-gerarchica della Chiesa, una rottura decisiva con la Tradizione apostolica in quanto costitutiva per la Chiesa, o piuttosto gli autori hanno una nozione dello sviluppo della dottrina che viene sostenuta teologicamente al fine di giustificare le rotture sopra menzionate?

Questo sembra essere davvero il caso. Stiamo assistendo a una nuova forma del Modernismo classico dell’inizio del XX secolo. All'epoca, si è cominciato con un approccio decisamente evolutivo e poi si è sostenuta l'idea che, nel corso del continuo sviluppo dell'uomo a gradi più alti, devono essere trovati di conseguenza anche livelli più elevati di coscienza e di cultura, per cui può risultare che quello che era falso ieri può essere vero oggi. Questa dinamica evolutiva è applicata anche alla religione, cioè alla coscienza religiosa con le sue manifestazioni nella dottrina, nel culto e naturalmente anche nella morale.

Ma qui, allora, si presuppone una comprensione dello sviluppo del dogma che è nettamente opposta alla genuina comprensione cattolica. Quest'ultima comprende lo sviluppo del dogma e della Chiesa non come un cambiamento, ma, piuttosto, come uno sviluppo organico di un soggetto che rimane fedele alla propria identità.

Questo è ciò che i Concili Vaticani I e II ci insegnano nelle loro costituzioni "Dei Filius", "Lumen Gentium" e "Dei Verbum”.

Dunque si deve dire oggi con forza che l’”Instrumentum laboris” contraddice l'insegnamento vincolante della Chiesa in punti decisivi e quindi deve essere qualificato come eretico. Dato poi che anche il fatto della divina rivelazione viene qui messo in discussione, o frainteso, si deve anche parlare, in aggiunta, di apostasia.

Ciò è ancor più giustificato alla luce del fatto che l’”Instrumentum laboris” usa una nozione puramente immanentista della religione e considera la religione come il risultato e la forma di espressione dell’esperienza spirituale personale dell’uomo. L'uso di parole e nozioni cristiane non può nascondere che esse sono semplicemente usate come parole vuote, a prescindere dal loro significato originale.

L’”Instrumentum laboris” per il sinodo dell'Amazzonia costituisce un attacco ai fondamenti della fede, in un modo che non è stato finora ritenuto possibile. E quindi deve essere rigettato col massimo della fermezza.



















martedì 25 giugno 2019

Alterare la sana dottrina: gli scopi di un progetto perverso



Cari amici di
Duc in altum, oggi vi propongo il contributo di un amico e collega: Alessandro Forti. Una riflessione sul disastro a cui si va incontro quando si dice che occupandoci di filosofia, teologia, dottrina e idee diventiamo astratti e perdiamo il contatto con la realtà. Invece è vero proprio il contrario. È sempre dalle teorie apparentemente astratte che nascono poi i comportamenti pratici. Cattive idee determinano dunque cattivi comportamenti. Ma, per quanto riguarda la Chiesa cattolica, il dramma è che l’attacco arriva questa volta non dall’esterno, bensì, in massima parte, dal di dentro.
Aldo Maria Valli, 25-06-2019

***



Alessandro Forti


Un attacco al cuore della nostra fede
Caro Aldo, devo dire che quanto ho letto sull’insegnamento nei seminari, grazie alla testimonianza del giovane prete che ti ha scritto, è davvero sconvolgente. Non che non immaginassi un decadimento rispetto alla sana dottrina, ma fino a questo punto!

Anzi, non si tratta nemmeno di decadimento: è proprio una perversione dei principi e degli scopi. Un’operazione non casuale, ma voluta e perseguita con l’intenzione chiara di trasformare la Chiesa cattolica in qualcos’altro, e quindi, in sostanza, di distruggerla.

In fondo non è questa la vera essenza dell’eresia moderna? Dopo secoli di attacchi dall’esterno, la vera novità in atto dal Concilio in poi è che l’attacco viene dall’interno (il famoso “fumo di Satana” citato da Paolo VI). E che attacco! Un attacco al cuore, alle radici, all’essenza stessa della nostra Fede. Il più grande attacco di sempre, proprio perché attuato da chi dovrebbe esserne il difensore e il protettore.

Dante riserva ai traditori degli amici il girone più infimo dell’Inferno. E come dargli torto? Non c’è bassezza peggiore che tradire e ingannare chi si fida di te.

In questo dolore (quasi rabbia direi), mi conforta il trovare la conferma di una cosa che ho sempre sentito con forza: l’importanza della verità, della ragione, della filosofia, della dottrina, dei principi.

Filosofia? Dottrina? Tempo perso, si dice spesso; solo chiacchiere, perché quelle che contano sono le azioni, mentre ragionare e indagare sono passatempi per snob e intellettuali.

Che grande sciocchezza!

Vuoi cambiare il mondo? Cambia le sue idee, cambia i suoi principi, cambia la sua filosofia. Le azioni verranno da sé, come conseguenza.

Non è accaduto questo – tanto per fare esempi recenti – con il nazismo e il comunismo? Ideologie marce che hanno generato comportamenti marci.

Ma non c’è da stupirsi, in fondo. Il male nel mondo è entrato così: Satana ha avvicinato Eva e l’ha ingannata con una menzogna: “Dio vi ha detto questo, ma non è vero; io vi dico quest’altro”. L’azione è venuta come conseguenza dell’aver aderito a una menzogna.

Così nella Chiesa di oggi la dissoluzione parte dal disconoscimento delle sacre ed eterne Verità. Eresie proposte e insegnate dal di dentro: una volta inquinata la Verità, intaccati i principi, confusi i dogmi, tutto il resto è una conseguenza.

Ma cosa ci possiamo aspettare da una Chiesa che ritiene Lutero un “maestro comune”? Colui che ha tentato di abbattere la Chiesa fondata da Cristo dicendo che non c’è autorità e che ognuno è libero di interpretare la fede a proprio piacimento, sarebbe un “maestro”?

Basta un seme così perché i frutti siano completamente malati.

Ecco, concludo: troppo spesso ci scandalizziamo dei frutti, ma non ci accorgiamo di quando viene gettato il seme. È quello il momento di intervenire e dire no! Dopo è troppo tardi. È quando, per fare un esempio, in Nostra aetate viene scritto (testuale): “La Chiesa guarda con stima i musulmani che adorano l’unico Dio vivente e sussistente…”, che dobbiamo gridare inorriditi: no! Non è lo stesso Dio! Il loro è unico, il nostro è trinitario! Il nostro è Padre, Figlio e Spirito Santo! E infatti loro, i musulmani, ci ritengono sacrileghi e politeisti e considerano la Trinità una follia!

La Verità è una. Due cose contraddittorie non possono essere entrambe vere, e se il nostro Dio è quello vero, il loro semplicemente e necessariamente è falso.

È solo un esempio: ce ne sarebbero decine, forse centinaia. Se alteri la fede, la sana dottrina, la retta ragione (quella santa ancilla fidei esaltata da San Tommaso) crolla tutto.

Certo, Dio nella sua onnipotenza e nella sua misericordia può ben salvare anche il confuso e il disorientato, ma questo non giustifica chi confonde e chi disorienta; e non ci esime dal santo dovere di cercare la Verità, difenderla e insegnarla.

Già: insegnare. Siamo tutti peccatori, tutti possiamo commettere errori. Ma insegnarli! Che orrore.

Alessandro Forti

















lunedì 24 giugno 2019

S. Francesco ed il Sultano d'Egitto. Un'interpretazione storica da rivedere



Rilanciamo volentieri, in occasione dell’VIII centenario dell’incontro di S. Francesco con il Sultano d’Egitto (avvenuto il 24 giugno 1219), questo contributo di Mons. Nicola Bux e dell’Avv. Francesco Patruno.





di Mons. Nicola Bux e Avv. Francesco Patruno

Terrasanta, periodico della Custodia Francescana, ospitava dieci anni fa un dossier di padre Gwenolé Jeusset, ofm, San Francesco in Terra Santa (nuova serie, anno IV, n. 5, 2009, pp. 27-42). Gli articoli ruotavano intorno all’episodio dell’incontro col sultano, a Damietta, contrapponendolo al martirio dei primi frati, inviati in Marocco, dallo stesso Santo di Assisi «per ispirazione divina» (come si legge nella Cronaca dei Ministri Generali dell’Ordine dei Frati Minori, in Analecta Franciscana, 111, p. 15).

Oggi, a distanza di dieci anni, il numero di marzo-aprile 2019 della stessa rivista, dedicava un nuovo dossier a quell’incontro, per celebrarne l’VIII centenario (1219-2019). Anche questa volta non poteva mancare un nuovo articolo di padre Jeusset, dal titolo Le ragioni di un viaggio, in cui l’Autore riprende un po’, in maniera più marcata, ciò che il medesimo diceva dieci anni addietro. Con una particolarità. Viviamo, nella Chiesa attuale, ahimé, lo spirito della Dichiarazione sulla “Fratellanza Umana” di Abu Dhabi dello scorso febbraio, che ha visto il vescovo di Roma, “novello san Francesco”, incontrarsi con il Grande Imam di Al-Azhar, erede spirituale – diciamo così – e rappresentante islamico oggi di quello che fu il sultano d’Egitto, di origine curda, al-Malik al-Kamil, nipote del celebre Saladino, che il Santo d’Assisi ebbe modo di incrociare nella propria esistenza.

Tornando all’articolo di dieci anni fa di padre Jeusset, va posto in luce che, per lui, tale incontro addirittura rappresenterebbe una «svolta dell’evangelizzazione» (Gwenolé Jeusset, San Francesco in Terra Santa, cit.). Si esaltava l’ideale di fraternità universale presentandola come altra cosa rispetto alla Chiesa “delle crociate”, che aveva «i paraocchi». L’Autore giungeva ad affermare che Francesco usciva dal «ghetto» cristiano per entrare, si può supporre, nello spazio interreligioso di ampio respiro! Insomma, si anticipavano dieci anni fa quelli che sarebbero stati, in fondo, i temi, culturale ed ideologico, in cui sarebbe maturata la ricordata dichiarazione del febbraio 2019.

Ci sia permessa una chiosa: curioso che questa “svolta dell’evangelizzazione” non sia stata percepita come tale dai figli dello stesso S. Francesco per oltre 750 anni, i quali l’abbiamo, invece, “scoperta” soltanto oggi. È curioso ricordare che, non a caso, i maggiori Santi francescani furono degli strenui difensori, promotori quando non veri e propri protagonisti sui campi di battaglia del modello oggi contestato. Basti ricordare S. Bernardino da Siena, S. Giacomo della Marca, S. Giovanni da Capistrano, S. Luigi IX, beato Marco d’Aviano, tanto per citare alcuni nomi. Forse questi Santi e Beati, le cui virtù la Chiesa ha riconosciuto solennemente, erano dei traditori delle direttive ispiratrici del loro Serafico Padre?

La verità è che siamo di fronte ad una ideologia già nota, quella del Francesco ambientalista e pacifista, quasi socio ante litteram del WWF ed attivista delle “marce per la pace”, in contrasto a dir poco con quanto le fonti francescane comparate e gli studi più seri ci riferiscono, soprattutto in merito al celebrato e mitizzato incontro di Francesco col sultano. Basta ricorrere, tra tanti, allo studio, davvero pregevole, dello storico Franco Cardini (Francesco d’Assisi, Milano, 1990, II ed.), che tiene conto adeguatamente delle fonti e della loro ricezione critica, sebbene, ad onor del vero, lo stesso Autore abbia, in seguito, rivisto le posizioni assunte nel suo libro, non sulla base di nuovi studi o scoperte, ma probabilmente per una rivisitazione di quell’episodio alla luce dell’odierno spirito dei tempi. Ci riferiamo, a quest’ultimo riguardo, alla raccolta di saggi, Nella presenza del soldan superba. Saggi francescani, Spoleto, 2009.

Ad ogni modo, tornando a quello studio sulla vita del Poverello d’Assisi, il noto storico fiorentino, che peraltro conosce bene l’Oriente, ricordava che le prime iniziative dell’Ordine francescano in Francia, Germania e Marocco volte all’evangelizzazione registrarono un fallimento, non per cattiva volontà dei frati, ma perché intraprese forse in fretta sull’onda dell’entusiasmo; a provocarle era stato lo stesso Francesco al di là delle intenzioni. Di certo, a questi non interessavano le visioni palingenetiche della società – vedi la fraternità universale, come dice Gwenolet Jeusset – né tantomeno pensava che costituissero lo scopo del suo movimento mendicante ma «egli voleva mantener fermo il suo proposito di vita, la sequela Christi, l’imitazione del modello evangelico attraverso la penitenza e la povertà» (Cardini, Francesco d’Assisi, cit., p. 183). 

Certo «dalla visita di Francesco in Oriente […] data il decollo di quel missionarismo francescano che ha mutato radicalmente le prospettive dell’approccio cristiano agli infedeli» (ibidem, p. 184). Invece, si è valutata la sua posizione di fronte alla crociata, affermando che non poteva non essere contro e via dicendo: «Francesco – si è concluso alla fine di questa galleria di sciocchezze – ha dimostrato incontrando il sultano di voler convertire gli infedeli con l’amore, non con la spada» (ibidem, p. 185).
Cardini sosteneva, in effetti, che tali argomenti non meritassero d’essere confutati, tuttavia li affrontava egualmente, esordendo col lamentare «una grossolana ignoranza di quel che significasse la crociata nel contesto spirituale, disciplinare ed ecclesiale del tempo; e di come in quel contesto si situasse la proposta di Francesco» (ibidem): essa era un «pellegrinaggio armato» e non «una guerra missionaria, alla quale ci si potesse ragionevolmente opporre nel nome di un concetto pacifico di missione. In secondo luogo Francesco – che era senza dubbio uomo di pace, e che alle armi aveva rinunziato come ad ogni altra cosa che riguardasse il saeculum, il mondo – non avrebbe comunque mai potuto contestare la crociata per due motivi: uno esterno e disciplinare, che potrebbe sembrar definitivo e mettere a tacere ogni polemica; uno invece intimo, spirituale,connaturato ai tempi e a lui stesso, che potrebbe sfuggire a qualcuno e merita quindi di venir sottolineato» (ibidem, p. 186). 

La crociata era stata voluta dalla Chiesa di Roma come sforzo corale della cristianità per liberare i luoghi santi. Coloro che predicavano contro la crociata erano innanzitutto gli eretici (ad es. Arnaldo da Brescia e Valdo di Lione: cfr. C. Papini, Valdo di Lione e i “poveri nello spirito”. Il primo secolo del movimento valdese (1170-1270), Torino, ed. Claudiana, 2001, passim), e Francesco «non poteva non distinguersi da loro attraverso un solo ma inequivocabile tipo di scelta: la disciplina nei confronti della Chiesa, l’obbedienza» (F. Cardini, op. ult. cit., p. 186). Per questo, nelle fonti non si trova una sola parola di Francesco contro la crociata, come contro nessun altro. Sebbene tale silenzio non equivalga ad approvazione né, sotto altro verso, a riprovazione. Come afferma lo storico Benjamin Z. Kedar, docente emerito di storia presso l’Università ebraica di Gerusalemme, in un saggio recente, Crociata e missione. L’Europa incontro a l’Islam, Roma 1999 (riedito nel 2015), «nessuna delle fonti attribuisce a Francesco parole che possano essere interpretate come critica delle crociate» (ivi, p. 166).

L’argumentum e silentio, di per sé, dunque, non può essere sostenuto come prova della contrarietà del Santo alle crociate, sebbene – può ipotizzarsi – possa essere rimasto scandalizzato dal comportamento dei crociati, che bestemmiavano ed andavano con prostitute.

Né può trarsi un argomento di contrarietà dalla circostanza che il Santo di Assisi decidesse di varcare le linee nemiche (peraltro non senza il permesso del legato papale e guida religiosa della V crociata, l’intransigente card. Pelagio Galvani d’Albano!), entrando in campo islamico, del tutto disarmato. Ciò era, del resto, perfettamente giustificabile se si considera che egli era stato aggregato al clero fin dalla prim’ora, su ordine del papa e per la mediazione del Cardinale di San Paolo, Giovanni Colonna, tanto da ricevere la tonsura clericale (cfr. Fonti Francescane, nn. 1460, 1461, 1528) e venendo, in seguito, rivestito del diaconato. Non è, anzi, improbabile che, per facilitare il compito della predicazione di Francesco e dei suoi frati nelle chiese, fosse stato lo stesso vescovo di Assisi, o addirittura il Papa, ad averlo ordinato diacono. Scrive infatti il Celano nella sua Vita Prima a proposito del Natale del 1223 di Greccio: «Induitur sanctus Dei leviticis ornamentis, quia levita erat, et voce sonora sanctum Evangelium cantat …» (ibidem, n. 470). Perciò, quando, nel 1219, si recò in Egitto, era già diacono, poiché non portò con sé armi, stante il generale divieto canonico – almeno dal Concilio provinciale di Poitiers del 1079 («clerici arma portantes et usurarii excommunicentur»), in seguito ripreso da altri sinodi e nelle raccolte delle decretali – per i sacri ministri di indossare, salvo particolari eccezioni, armi di sorta. Addirittura, era vietata, per questo motivo, persino la caccia, come stabiliva il can. 15 del Concilio Lateranense IV del 1215! Ecco spiegato il motivo per il quale S. Francesco andò disarmato.

Franco Cardini osservava quindi che «[b]isogna forse avere il coraggio di disincantare la realtà storica di un Francesco troppo spesso ricostruito secondo i gusti e le tendenze morali odierne, e guardare alla concreta realtà storica del XIII secolo» (F. Cardini, Francesco d’Assisi, cit., p. 187). Per l’uomo di quell’epoca e per Francesco, che aveva scelto Cristo a modello di vita, la crociata era anzitutto il pellegrinaggio, la visita ai luoghi del Salvatore, la cui conoscenza e venerazione bisognava portare in Occidente; questo superava le violenze e le infamie in essa perpetrate, perché su queste trionfa la Croce. «E qui subentra il secondo, non sottovalutabile aspetto della questione. Francesco vedeva nella crociata anzitutto l’occasione del martirio; e nel martirio la forma più alta e più pura della testimonianza cristiana. Dire che l’ha cercato equivale a non valutare correttamente il peso che, nella sua vocazione, aveva l’umiltà. Certo però egli si è posto, anche in questo, a disposizione della Provvidenza» (ibidem, p. 188).

Nella regola del 1221 (la c.d. Regula non bullata) il Poverello riassumeva, come è noto, l’esperienza del viaggio in Oriente, invitando i frati ad andare tra gli infedeli (De euntibus inter saracenos et alios infideles) in due modi: il primo, senza liti né dispute, ma sottomettendosi e confessando d’essere cristiani; l’altro modo era di valutare i segni del Signore circa il momento opportuno per annunziare il suo vangelo ai «saraceni o altri infedeli», battezzarli e farli cristiani «perché chiunque non sarà rinato per acqua e Spirito Santo non potrà entrare nel regno dei cieli» (ibidem) («Fratres vero, qui vadunt, duobus modis inter eos possunt spiritualiter conversari. Unus modus est, quod non faciant lites neque contentiones, sed sint subditi omni humanae creaturae propter Deum (1 Petr 2,13) et confiteantur se esse christianos. Alius modus est, quod, cum viderint placere Domino, annuntient verbum Dei, ut credant Deum omnipotentem Patrem et Filium et Spiritum Sanctum, creatorem omnium, redemptorem et salvatorem Filium, et ut baptizentur et efficiantur christiani, quia quis renatus non fuerit ex aqua et Spiritu Sancto, non potest intrare in regnum Dei»). Le due modalità non erano contrapposte: anche la prima, per la verità, serviva a scrutare il momento per costruire la Chiesa, senza della quale non sarebbe possibile «la costruzione di un nuovo mondo, un programma di fraternità universale», tanto auspicata da p. Jeusset (San Francesco in Terra Santa, cit., p. 39). Senza la Chiesa non c’è salvezza (cfr. Catechismo della Chiesa cattolica, n. 846), perciò l’Assisiate avvertiva come suo imprescindibile compito l’evangelizzazione di tutti gli uomini. Altrimenti perché mai Cristo sarebbe venuto al mondo e l’avrebbe fondata?
Dimenticarlo, significa credere che l’uomo si salvi comunque ed a prescindere da Cristo, perché, come pensava Rousseau, esso sarebbe naturalmente buono.
Francesco andò dal sultano nella consapevolezza di tutto ciò.

Ora, contrapporre i protomartiri del Marocco (canonizzati dal Pontefice Sisto IV il 7 agosto 1481, con la bolla Cum alias, e riconosciuti dallo stesso S. Francesco come suoi veri Frati e da S. Antonio da Padova come suoi modelli ispiratori) e la «Chiesa delle crociate», come fa p. Jeusset, al comportamento del Santo a Damietta, significa assumere un atteggiamento ideologico, come si evince dalla seguente affermazione: «Serviranno più di settecento anni allo Spirito Santo […] per farci capire che l’incontro vissuto da Francesco d’Assisi era importante tanto quanto il martirio in generale, ed era il contrappunto del martirio di Marrakesh» e dalla conclusione chiastica che «Damietta è l’incontro senza martirio; Marrakesh è il martirio senza incontro. Damietta è l’incontro tra due credenti; Marrakesh è lo scontro di due sistemi e di due mentalità opposte, Marrakesh è il vicolo cieco. Damietta al contrario è la strada che apre nuovi orizzonti» (Gwenolé Jeusset,op. ult. cit., p. 32).

In realtà, è il rapporto di Francesco con i musulmani, impostato sull’umiltà d’essere “minore”, a suscitare ammirazione in Oriente. Non a caso Dante lo descrive umile «alla presenza del soldan superbo» (Par. XI, 101). È proprio l’umiltà ad essere “pericolosa”: il sultano era – secondo l’Historia Occidentalis di Jacques de Vitry, vescovo di S. Giovanni d’Acri e cardinale - «preso dal timore che qualcuno dei suoi si lasciasse convertire al Signore dall’efficacia delle sue parole» (Cardini, op. ult. cit., p. 193) («[…] Tandem vero, metuens ne aliqui de exercitu suo, verborum eius efficacia ad Dominum conversi, ad christianorum exercitum pertransirent […]»). Ipotizzando che Francesco avesse profittato della tregua sotto l’assediata Damietta per cercare d’incontrare il sultano, si può dedurre – facendo la media delle cronache di Giacomo, di Ernoul, di Tommaso da Celano e di Bonaventura – che l’avesse fatto, secondo Cardini, perché «voleva solo testimoniare: non era sua intenzione convertire nessuno» (op. cit., p. 199). A lui stava a cuore solo Cristo, non i valori, come si dice oggi, fosse pure la pace.

A nostro sommesso avviso, comunque, non poteva dirsi estranea al Poverello l’annuncio della fede tra gli infedeli e la ricerca, se necessario, della corona del martirio: «per la sete del martiro», diceva Dante (Par. XI, 100)!
Al contrario, l’idea-madre di P. Gwenolé Jeusset è la fraternità universale: «Francesco voleva andare tra i musulmani per dir loro che Gesù, sulla croce, ci aveva resi fratelli» (op. cit., p. 28; cfr. anche ibidem, p. 34). Può esser vero se si aggiunge a questa verità l’altra: bisogna riconoscere la Croce e chi vi è stato crocifisso, per tirarne come conseguenza la fraternità. È noto, invece, che proprio ciò scandalizza i musulmani, i quali ritengono fratelli solo i correligionari, mentre tutti gli altri sono sottomessi o infedeli.

Per riconoscere la fraternità, bisogna convertirsi alla paternità di Dio, ma questo solo Gesù l’ha rivelato: perciò ci si deve convertire a Lui. Forse che Cristo non voleva la fraternità universale? Proprio per questo ha fondato la Chiesa! Oggi, piuttosto, ci si imbatte persino in chi, ecclesiastico, vorrebbe raggiungere tale risultato a prescindere non solo dalla conversione, ma anche dalla stessa Chiesa. I muri che dividono, sono già caduti col sangue di Cristo, ma lo possono riconoscere solo coloro che si convertono a Lui. La fraternità non ha frontiere sulla terra solo se ci si converte a Cristo, come affermava, d’altronde, anche S. Paolo, il quale esclamava non a caso nell’Epistola ai Galati: «Tutti voi infatti siete figli di Dio mediante la fede in Cristo Gesù, poiché quanti siete stati battezzati in Cristo vi siete rivestiti di Cristo. Non c’è Giudeo né Greco; non c’è schiavo né libero; non c’è maschio e femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù. Se appartenete a Cristo, allora siete discendenza di Abramo, eredi secondo la promessa» (Gal. 3, 26-29). Ed ancora nell’Epistola agli Efesini: «Ora invece, in Cristo Gesù, voi che un tempo eravate i lontani siete diventati i vicini grazie al sangue di Cristo. Egli infatti è la nostra pace, colui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l’inimicizia» (Ef. 2, 13-14).
Solo in Cristo, riconoscendoLo, vi può essere la fraternità universale.

Diversamente, si coltiva un’utopia: quella che porta, il p. Jeusset a vedere in Damietta addirittura «una svolta dell’evangelizzazione» (op. cit., p. 36), il passaggio dalla mentalità della conquista alla mentalità dell’incontro (ibidem, p. 37), dallo spirito delle crociate allo spirito della fraternità, al punto da avanzare la certezza che «[s]e Francesco non conseguì il martirio a Damietta, ricevette però la grazia di un incontro spirituale al di là dei paraocchi della Chiesa delle crociate» (ibidem, p. 37). Jeusset approda alla visione di un Santo che «abbandona il suo io ecclesiale. Esce dal “ghetto” cristiano e raggiunge il lebbroso spirituale, cioè il musulmano, andando ben oltre, al di là del mare …» (ibidem, p. 41). Egli giunge persino ad affermare che il Poverello «non era andato a liberare una tomba vuota a Gerusalemme, ma aveva scoperto che Gesù, uscito vivo dalla tomba, era presente col suo Spirito in coloro che lui, il pellegrino Francesco, incontrava sull’altra sponda» (ibidem, p. 38). Si può essere sicuri che costoro siano i musulmani! Ma…non ha detto Gesù che i veri adoratori avrebbero adorato il Padre in spirito e verità (cfr. Gv. 4, 24)? Siccome per arrivare al Padre bisogna passare per mezzo di Lui, per caso i musulmani sono già tali? Dunque, non travisiamo la storia e tanto meno la fede cattolica.



Frattanto, la summenzionata rivista, come detto all’inizio, è tornata sul tema di san Francesco e il Sultano, in occasione dell’VIII centenario del fatto avvenuto il 24 giugno 1219, pubblicando in copertina e all’interno le foto di nuove icone ad hoc, che canonizzano quest’ultimo con il nimbo dell’aureola e lo immaginano, fantascientificamente quanto storicamente inattendibile, abbracciato dal Santo d’Assisi!
Due chiose finali ci siano permesse.

La prima, se è questa l’idea di fondo oggi imperante nel mondo francescano, si abbia almeno la coerenza logica e l’onestà intellettuale di “de-canonizzare” e “de-beatificare” i Santi francescani che, in un modo o nell’altro, hanno rappresentato, in contrario, ciò che oggi viene contestato, giacché la loro testimonianza stride in maniera sin troppo evidente con quanto oggi viene ideologicamente proposto.
La seconda – come ci ricorda anche un recente articolo de La Verità (Fabrizio Cannone, San Francesco non costruì dei ponti. Convertì gli islamici, in La Verità, 20.6.2019, p. 19) è un ammonimento del Pontefice Pio XI, nel 1926, nell’enciclica Rite Expiatis, nel VII Centenario della morte di S. Francesco. Papa Ratti, scagliandosi contro i primi adulatori e contraffattori della vita del Santo, osservava: «Non cessiamo perciò dal meravigliarci come una tale ammirazione per San Francesco, così dimezzato e anzi contraffatto, possa giovare ai suoi moderni amatori, i quali agognano alle ricchezze e alle delizie, o azzimati e profumati frequentano le piazze, le danze e gli spettacoli o si avvolgono nel fango delle voluttà, o ignorano o rigettano le leggi di Cristo e della Chiesa». Citando le parole del Breviario romano, quindi, ammoniva: «A chi piace il merito del Santo, deve altresì piacere l’ossequio e il culto a Dio. Perciò, imiti quel che loda, o non lodi quella che non vuole imitare. Chi ammira i meriti dei Santi, deve egli stesso segnalarsi nella santità della vita» (§ 11).
















domenica 23 giugno 2019

Tutto è nulla di fronte alla presenza reale di Dio








23 giugno 2019 di Redazione Tempi



Tutto è nulla di fronte alla presenza reale di Dio

(…) Quanto più grande ti sembra quello che sei, quello che possiedi, quanto più grande ti sembra tutta quanta la vita della Chiesa, la vita del mondo, i valori dell’umanità; quanto più grandi ti sembrano, tanto più sentiti impegnato a gettarli ai piedi dell’altare, e sentire tutta la loro povertà e il loro nulla dinanzi a questa presenza immutabile di un Dio che a te oggi si dona, di un Dio che per te oggi si fa presente nel mondo. Pensate! È una constatazione anche semplice: che cosa mai sono tutte le civiltà, tutti i frutti della vita del mondo? Egli è presente e tutte le cose sono cadute, sono come non fossero.

Quante civiltà son passate! Quanti popoli son nati, hanno raggiunto una grandezza umana che sembrava insuperabile e poi sono caduti, finiti! E Cristo rimane immutabilmente presente, Dio stesso. Quello che il tempo fa, lo faccia ogni cristiano. Non dobbiamo esser costretti a riconoscere come tutti i valori umani, tutta la grandezza umana non son nulla di fronte alla presenza di Dio: questo venir meno di tutte le cose di fronte alla presenza di Dio dobbiamo compierlo noi in un atto di adorazione vera che sia un riconoscimento della presenza di Dio nel mondo. Presenza di un Dio che proprio per la sua immensa grandezza e infinita santità consuma tutte le cose, tutte quante le cose in qualche modo distrugge, eclissa, consuma. Ecco, tu sei solo per riconoscere il tuo nulla dinanzi a Dio. Tutta la Chiesa è solo per adorare questa Presenza reale. Tutta quanta la creazione è solo per venir meno costantemente, eternamente, nella presenza del Cristo, nella presenza di Colui che è, e si è fatto tuo dono, di Colui che è e ha voluto esser presente per te. 


da un’omeliadi don Divo Barsotti nella festa del Corpus Domini










EUGENETICA DI STATO. Regno Unito, giudice ordina l'aborto forzato su una disabile







Il giudice Nathalie Lieven ha autorizzato i medici a eseguire un aborto su una giovane con un ritardo mentale, nonostante la contrarietà della stessa disabile, di sua madre e dell'assistente sociale. La madre è una nigeriana che si è opposta anche in nome della propria fede cattolica e di quella della figlia, e facendo presente che sarebbe lei a prendersi cura del nipote. Ma per il giudice «il miglior interesse» della ragazza è abortire il figlio. E così, dopo l’eutanasia di Stato - vista con Charlie, Alfie e Isaiah - ecco l’aborto obbligatorio, frutto di un inganno che svela il vero volto di una falsa libertà.



VITA E BIOETICA
Ermes Dovico, 23-06-2019

Dopo l’eutanasia imposta dallo Stato
- emersa in modo spaventoso nei casi dei piccoli Charlie Gard, Isaiah Haastrup e Alfie Evans - ecco l’aborto obbligatorio. Il nodo è sempre la disabilità, la cortina fumogena è sempre quella del presunto “miglior interesse” e l’alfiere del peggior “progresso” di stampo eugenetico è, anche in questo caso, il Regno Unito.

Qui, come riferisce la Catholic News Agency, il giudice Nathalie Lieven
 ha autorizzato i medici a eseguire un aborto su una giovane cattolica che presenta un ritardo mentale ed è arrivata a 22 settimane di gravidanza. «Sono profondamente consapevole che il fatto che lo Stato ordini a una donna di avere un aborto [termination è la parola esatta usata eufemisticamente dalla Lieven, ndr], dove sembra che lei non voglia, è un’immensa intrusione», ha detto il giudice il 21 giugno nella sua sentenza presso la Corte di Protezione, un tribunale speciale i cui poteri sono definiti dal Mental Capacity Act del 2005 e che tratta casi nei quali le persone interessate sono ritenute mentalmente incapaci di prendere decisioni autonome. «Devo operare nel [suo] miglior interesse, non secondo le opinioni della società sull’aborto», ha aggiunto la Lieven. Cioè, prima ha ammesso quello che ogni persona normale penserebbe («un’immensa intrusione», che equivale qui a un’immensa ingiustizia) e poi si è presentata come colei che sarebbe in dovere di prendere decisioni impopolari per il “bene” della società. Come dire: vi uccidiamo il figlio, ma lo facciamo per voi.

Molti dettagli della vicenda vengono tenuti nascosti dall’autorità giudiziaria
, anche qui secondo un copione già visto. Della donna incinta si sa che è «nei suoi vent’anni» e si trova sotto la custodia di un trust, cioè di un’unità organizzativa del National Health Service (NHS), il servizio sanitario britannico. Si ritiene che la donna abbia la capacità mentale di una bambina in età scolare. La madre della giovane incinta è una nigeriana, appartenente al gruppo etnico degli Igbo, con esperienze da ostetrica. Questa signora ha espresso chiaramente ai medici il suo totale rifiuto dell’aborto, parlando della propria fede cattolica e di quella della figlia, e facendo presente che sarebbe lei, da nonna, a prendersi cura del nipotino. Anche l’assistente sociale che si occupa della ragazza è in disaccordo con l’aborto forzato.

Ma i medici hanno insistito sostenendo che l’aborto sarebbe un fatto meno traumatico
per la ragazza rispetto al dare alla luce il suo bambino, specie se il piccolo venisse poi dato in affido. E la Lieven ha dato loro ragione mettendo in dubbio che la nonna possa essere in grado di prendersi cura sia del nipote che della figlia e argomentando che il dare in affido o adozione il bambino sarebbe contro gli interessi della ragazza. Via il bambino, diventa così la ‘soluzione’…

«Penso che a lei piacerebbe avere un bambino
nello stesso modo in cui le piacerebbe avere una bella bambola», ha detto la Lieven riferendosi alla ragazza incinta. «Penso che soffrirebbe un maggior trauma avendo il bambino tolto [dalla sua custodia]» perché «a quello stadio», cioè da nato, «sarebbe un bambino vero». Il giudice continua nelle sue contorsioni precisando che sebbene la gravidanza sia «reale, [la donna] non ha un bambino che può toccare fuori dal suo corpo».

Evidentemente la Lieven ragiona con l’ostinazione tipica della cultura abortista
, che considera il bambino in grembo poco meno di un’appendice che si può togliere senza problemi. E ignorando, o facendo finta di ignorare, i drammi che vivono le donne dopo l’esperienza di un aborto, drammi che per la concezione moderna equivalgono a un «lutto proibito», come ha spiegato giorni fa in un’intervista alla Nuova Bussola la teologa Monika Rodman, responsabile per l’Italia della Vigna di Rachele, una missione di recupero spirituale (a luglio il prossimo ritiro) per chi porta dentro di sé il dolore di un aborto.

La Lieven, tra l’altro, ha un’ampia militanza abortista alle spalle
. Già nel 2011, da legale del British Pregnancy Advisory Service, un’associazione che promuove la «scelta riproduttiva» (altro eufemismo per l’aborto), aveva sostenuto che le donne dovrebbero poter abortire in casa anziché in ospedale. Nel 2017 aveva paragonato le norme dell’Irlanda del Nord, dove l’aborto è in buona parte vietato (a differenza che nel resto del Regno Unito, dove è legale senza restrizioni fino a 24 settimane), a una forma di «tortura», definendole discriminatorie. E oggi appunto, nel suo nuovo ruolo di giudice, ha potere di vita e di morte, nel solco di una deriva diabolica che val la pena ricordare come si sta sviluppando da qualche decennio a questa parte.

Prima si è presentato l’aborto come “libera scelta” della donna
, svilendo la maternità agli occhi di intere generazioni e inducendole a credere che la soppressione della vita che si custodisce in grembo sia una desiderabile “emancipazione”. Adesso, una volta che questa mentalità è stata digerita dalla società, siamo al passo successivo: anche chi la maternità la desidera è costretta ad abortire perché lo ha deciso un potere statale. È il disprezzo della vita fragile, dei disabili, che si accompagna al disprezzo della maternità, insieme all’idea di poter eliminare la sofferenza, di cui, avendo eliminato Gesù Cristo dall’orizzonte, si è perso il senso.

Il tutto è reso ancora più raccapricciante dal presentare l’imposizione dell’aborto
, o dell’eutanasia (lo abbiamo visto con Alfie, Charlie e Isaiah e lo stiamo vedendo in Francia con Vincent Lambert) come un atto “compassionevole”. Come aveva commentato, nel mezzo tra la richiesta dei medici e la sentenza del giudice, l’inglese Society for the protection of unborn children (Società per la protezione dei bambini non nati): «Questa è un’atrocità che dovrebbe scioccare ogni persona di buonsenso. È un livello di crudeltà e barbarie che ricorda come le persone con problemi mentali venivano trattate negli anni Trenta dai nazisti tedeschi».










venerdì 21 giugno 2019

MARINA NALESSO E IL CROCEFISSO. AGOSTINO NOBILE: GLI ATEI, E LE LORO PAURE





Marco Tosatti, 20 Giugno 2019 

Cari amici e nemici di Stilum Curiae, l’incredibile vicenda della collega Marina Nalesso, responsabile addirittura di portare al collo un crocefisso in TV, reato tale da meritarle gli strali del noiosissimo superconformista di sempre, da Cuore all’Unità a Repubblica Michele Serra, ha provocato il nostro Agostino Nobile a scrivere, nella notte una veloce commento. E Stilum Curiae con altrettanta rapidità lo pubblica. Sbalordito – ma ormai non dovremmo riuscire a sbalordirci più di nulla di ciò che viene dalla soi-disant sinistra progressista e democratica, pronta a difendere tutto, dalla tratta dei neo-schiavi alla compravendita di esseri umani in tutte le fasi – dalle reazioni. Proprio vero: quem deus vult perdere, dementat prius…





Perché gli atei temono Gesù Cristo?
Prima della mia conversione non penso di essere stato ateo, ma certamente ero agnostico. Mai mi è venuto in mente di biasimare la figura di Gesù Cristo. Pur mettendo in dubbio la sua esistenza, l’evangelo lo consideravo un potente messaggio che come nessun’altro indica la via più dignitosa per i forti mentre nobilita i sofferenti. Perché dunque un tipo come il giornalista Michele Serra, che non ha mai espresso parola contro la pornografia, la violenza fisica e mentale dilagante anche sulle reti tv, s’indigna quando la giornalista e conduttrice del Tg2 Marina Nalesso indossa il crocifisso durante il telegiornale? Cosa rappresenta di così terribile questo simbolo? Non stiamo parlando di preti improbabili, ma del messaggio che, strutturando la forma mentis europea, ha permesso alla società occidentale di diventare la comunità più feconda del pianeta. Basti pensare allo sviluppo delle scienze, della medicina, delle arti, della filosofia, della teologia. Ha alleviato la vita umana attraverso i diritti umani e, materialmente, con invenzioni come gli occhiali, la stampa, la forma del libro, l’auto, l’aeroplano, ecc. È il risultato di quella dottrina che, grazie al concetto cristiano di Compassione, ha creato sviluppo a partire dai primi monaci benedettini. È la Compassione, l’amore e il rispetto per l’altro che ha mosso le menti più brillanti a inventare e a costruire per il benessere della comunità, cosa inimmaginabile nel mondo confuciano, taoista, musulmano, induista o buddista. Per fare un esempio, gli ospedali come oggi li intendiamo sono stati creati dai monaci nel IV secolo. E non ci facevano business come gli atei.

Allora perché certi individui sono così allergici al crocifisso? Forse Gesù insegna i metodi più appropriati per massacrare i più deboli? Ha promosso Rivoluzioni consigliando vivamente di utilizzare le ghigliottine per terrorizzare e farsi rispettare dal popolino ignorante? O forse Gesù Cristo ha scritto un manuale per la guerra e come ammazzare un numero infinito di innocenti? Ha descritto come impoverire milioni di kulaki e farli morire di fame insieme alle loro donne e bambini? O forse ha imposto la persecuzione delle razze non ariane? Forse ha suggerito la costruzione di efficaci gulag, lagoai, campi concentramento, di rieducazione e forni crematori? Probabilmente sto sbagliando film. Le disumanità menzionate, come sappiamo, non fanno parte delle Beatitudini ma delle ideologie che hanno messo in pratica l’ateismo. Quell’ateismo ancora oggi ostentato come una bandiera da individui privi di empatia, ignoranti e supponenti.



Agostino Nobile













giovedì 20 giugno 2019

Sinodo Amazzonia / Signori cardinali e vescovi, davvero volete questa Chiesa?




di Aldo Maria Valli

«Taceranno i vescovi, successori degli Apostoli, e i cardinali, consiglieri del Papa nel governo della Chiesa, di fronte a questo manifesto politico-religioso che stravolge la dottrina e la prassi del Corpo Mistico di Cristo?».

Con questa domanda, più che giustificata, il professor Roberto de Mattei conclude la sua analisi, che qui vi propongo, dell’
Instrumentum laboris pubblicato dal Vaticano in vista del sinodo dei vescovi sull’Amazzonia, in programma nel prossimo ottobre.

Al di là delle aperture, previste, circa sacerdoti sposati e ministeri per le donne, il documento è sconcertante, e preoccupante, per l’idea di fede e di Chiesa che esprime.

A.M.V.

*** 


di Roberto De Mattei, 20-06-2019

Le prime reazioni di fronte dall’Instrumentum laboris per il Sinodo sull’Amazzonia si sono concentrate sull’apertura ai sacerdoti sposati e all’inserimento delle donne nell’ordine sacramentale della Chiesa. Ma l’Instrumentum laboris è qualcosa di più: è un manifesto della ecoteologia della liberazione che propone una “cosmovisione” panteista ed ugualitaria inaccettabile per un cattolico. Le porte del Magistero, come ha ben sottolineato José Antonio Ureta, vengono spalancate «alla Teologia India e alla Ecoteologia, due derivati latinoamericani della Teologia della Liberazione, i cui corifei, dopo il crollo dell’URSS e il fallimento del “socialismo reale”, hanno attribuito ai popoli indigeni e alla natura il ruolo storico di forza rivoluzionaria, in chiave marxista».

Nel documento, pubblicato dalla Santa Sede il 17 giugno, l’Amazzonia «irrompe» come «un nuovo soggetto» nella vita della Chiesa (n. 2). Ma cos’è l’Amazzonia? Non è solo un luogo fisico, una «biosfera complessa» (n.10), ma è «una realtà piena di vita e di saggezza» (n. 5), che assurge a paradigma concettuale e che ci chiama a una conversione: «pastorale, ecologica e sinodale» (n. 5). La Chiesa, per svolgere il suo ruolo profetico deve porsi in ascolto dei «popoli amazzonici» (n. 7). Questi popoli sono capaci di vivere in «intercomunicazione» con tutto il cosmo (n. 12), ma i loro diritti sono minacciati dagli interessi economici delle multinazionali che, come dicono gli indigeni di Guaviare (Colombia), «hanno tagliato le vene della nostra Madre Terra» (n. 17). La Chiesa ascolta le «grida, sia dei popoli che della terra» (n. 18), perché in Amazzonia «il territorio è un luogo teologico da cui si vive la fede ed è anche una fonte peculiare della rivelazione di Dio» (n. 19). Una terza fonte della Rivelazione si aggiunge dunque alla Sacra Scrittura e alla Tradizione: l’Amazzonia, territorio dove «tutto è connesso» (n. 20), tutto è «costitutivamente in relazione, formando un tutto vitale» (n. 21). In Amazzonia, l’ideale del comunismo è realizzato, perché, nel collettivismo tribale, «tutto è condiviso, gli spazi privati – tipici della modernità – sono minimi».

I popoli indigeni si sono liberati del monoteismo e riconquistano l’animismo e il politeismo. Infatti, come si legge al n. 25: «La vita delle comunità amazzoniche non ancora colpite dall’influenza della civiltà occidentale, si riflette nelle credenze e nei riti in merito all’agire degli spiriti, della divinità – chiamata in tantissimi modi – con e nel territorio, con e in relazione alla natura. Questa cosmovisione è raccolta nel ‘mantra’ di Francesco: “tutto è collegato” (LS 16, 91, 117, 138, 240)».

Il documento insiste affermando che la «cosmovisione» amazzonica racchiude una «saggezza ancestrale, riserva viva della spiritualità e della cultura indigena» (n. 26). Dunque, «i popoli amazzonici originari hanno molto da insegnarci. (…) I nuovi cammini di evangelizzazione devono essere costruiti in dialogo con queste sapienze ancestrali in cui si manifestano semi del Verbo» (n. 29). La ricchezza dell’Amazzonia è di non essere monoculturale, ma di essere «un mondo plurietnico, pluriculturale e plurireligioso» (n. 36) con cui è necessario entrare in dialogo. I popoli dell’Amazzonia, «ci mettono di fronte alla memoria del passato e alle ferite provocate durante lunghi periodi di colonizzazione. Per questo Papa Francesco ha chiesto “umilmente perdono, non solo per le offese della propria Chiesa, ma per i crimini contro le popolazioni indigene durante la cosiddetta conquista dell’America”. In questo passato la Chiesa è stata a volte complice dei colonizzatori e ciò ha soffocato la voce profetica del Vangelo» (n. 38).

L’«ecologia integrale» include «la trasmissione dell’esperienza ancestrale, delle cosmologie, delle spiritualità e delle teologie dei popoli indigeni, attorno alla cura della Casa Comune» (n. 50). «Nella loro saggezza ancestrale[questi popoli] hanno coltivato la convinzione che tutta la creazione è connessa, che merita il nostro rispetto e la nostra responsabilità. La cultura amazzonica, che integra gli esseri umani alla natura, diventa un punto di riferimento per la costruzione di un nuovo paradigma di ecologia integrale» (n. 56).

La Chiesa deve spogliarsi della sua romanità ed assumere «un volto amazzonico». «Il volto amazzonico della Chiesa trova la sua espressione nella pluralità dei suoi popoli, culture ed ecosistemi. Questa diversità richiede un’opzione per una Chiesa in uscita e missionaria, incarnata in tutte le sue attività, espressioni e linguaggi» (n. 107). «Una Chiesa dal volto amazzonico nelle sue molteplici sfumature cerca di essere una Chiesa “in uscita” (cf. EG 20-23), che si lascia alle spalle una tradizione coloniale monoculturale, clericale e impositiva e sa discernere e assumere senza timori le diverse espressioni culturali dei popoli» (n. 110).

Il soffio panteista che anima la natura amazzonica è un leit-motiv del documento. «Lo Spirito creatore che riempie l’universo (cf. Sap 1,7) è lo Spirito che per secoli ha nutrito la spiritualità di questi popoli anche prima dell’annuncio del Vangelo e li spinge ad accettarlo a partire dalle loro culture e tradizioni» (n. 120). Perciò, «è necessario cogliere ciò che lo Spirito del Signore ha insegnato a questi popoli nel corso dei secoli: la fede in Dio Padre-Madre Creatore, il senso di comunione e di armonia con la terra, il senso di solidarietà con i propri compagni, il progetto del “buon vivere”, la saggezza di civiltà millenarie che gli anziani possiedono e che ha effetti sulla salute, sulla convivenza, sull’educazione e sulla coltivazione della terra, il rapporto vivo con la natura e la ‘Madre Terra’, la capacità di resistenza e resilienza delle donne in particolare, i riti e le espressioni religiose, i rapporti con gli antenati, l’atteggiamento contemplativo e il senso di gratuità, di celebrazione e di festa e il senso sacro del territorio» (n. 121).

In funzione, ancora, di una «salutare decentralizzazione» della Chiesa, «le comunità chiedono che le Conferenze episcopali adattino il rito eucaristico alle loro culture». «La Chiesa deve incarnarsi nelle culture amazzoniche che possiedono un alto senso di comunità, uguaglianza e solidarietà, per cui il clericalismo non è accettato nelle sue varie forme di manifestarsi. I popoli indigeni posseggono una ricca tradizione di organizzazione sociale dove l’autorità è a rotazione e con un profondo senso del servizio. A partire da questa esperienza di organizzazione sarebbe opportuno riconsiderare l’idea che l’esercizio della giurisdizione (potere di governo) deve essere collegato in tutti gli ambiti (sacramentale, giudiziario, amministrativo) e in modo permanente al Sacramento dell’Ordine» (n. 127).

Partendo dalla premessa che «il celibato è un dono per la Chiesa», viene espressa la richiesta che «per le zone più remote della regione, si studi la possibilità di ordinazione sacerdotale di anziani, preferibilmente indigeni, rispettati e accettati dalla loro comunità, sebbene possano avere già una famiglia costituita e stabile, al fine di assicurare i Sacramenti che accompagnano e sostengono la vita cristiana» (n. 129). Inoltre, occorre «garantire alle donne la loro leadership, nonché spazi sempre più ampi e rilevanti nel campo della formazione: teologia, catechesi, liturgia e scuole di fede e di politica» e «identificare il tipo di ministero ufficiale che può essere conferito alle donne, tenendo conto del ruolo centrale che esse svolgono oggi nella Chiesa amazzonica».

Cos’altro aggiungere? Taceranno i vescovi, successori degli Apostoli, e i cardinali, consiglieri del Papa nel governo della Chiesa, di fronte a questo manifesto politico-religioso che stravolge la dottrina e la prassi del Corpo Mistico di Cristo?

Roberto de Mattei













mercoledì 19 giugno 2019

Le domande grandi dei bambini





Aldo Maria Valli

Le domande grandi dei bambini

“Se Dio ha creato il mondo, chi ha creato Dio?”. “Io ho paura che Dio non esiste! Ma siamo sicuri che la nostra religione è quella vera?”. “Dio sa il mio nome?”. “Se Dio è amore, perché ha mandato a morire suo figlio e non è venuto lui?”.

Io non so se catechisti e genitori se ne rendono conto, ma hanno un grande privilegio. Consiste nel poter ascoltare domande come quelle appena citate. Nelle quali i bambini, come solo loro sanno fare, vanno dritti al cuore delle grandi questioni, senza timori e senza inutili giri di parole.

Le domande alle quali ho fatto riferimento, con molte altre, si trovano proprio all’inizio di tre libri belli e istruttivi. Si tratta della serie Le domande grandi dei bambini. Itinerario di prima Comunione per genitori e figli (Edizioni Itaca), tre volumi a cura di padre Maurizio Botta e don Andrea Lonardo, apprezzati maestri della divulgazione cattolica.

Il cuore della fede, Dal segno della croce alla Confessione e Da Gesù all’Eucaristia sono i titoli dei tre volumi, tutti corredati da illustrazioni e pensati, come spiegano padre Maurizio e don Andrea, “perché ogni bambino li abbia a casa e possa tornare a leggerli quando lo desidera, insieme ai genitori”. (In verità, che i bambini di oggi possano davvero fare qualcosa di simile anziché giocare alla playstation sembra un auspicio un po’ irrealizzabile, ma mai porre limiti alla Provvidenza!).

Per dare un’idea dello stile che caratterizza l’opera, ecco quanto padre Maurizio scrive all’inizio del secondo volume: “Tra tutte le preghiere ce n’è una piccolissima, così piccola che non sembra nemmeno una preghiera. In realtà è molto importante: è il segno della croce. Con i miei bambini dedico tanti incontri al segno della croce, perché questa preghiera è preziosa. Il segno della croce da subito ci dice tutta la nostra fede, ci dice le cose più vere. Farlo bene, con amore e con attenzione, ci rende ogni volta più cristiani”.

Affrontando lo stesso tema, don Andrea, rivolto ai genitori, ricorda che la più antica rappresentazione del crocifisso è un graffito del terzo secolo dopo Cristo nel quale Gesù è disegnato, appeso alla croce, con la testa d’asino. Un Dio che si fa uccidere? Incredibilmente assurdo, qualcosa da sbeffeggiare. “E invece lì si rivela la sapienza dell’amore di Dio, più sapiente della sapienza dei sapienti”.

L’itinerario proposto, spiegano gli autori, vuole essere un aiuto per gli educatori, per trovare le parole giuste in una missione tanto delicata, “ma non dimenticate che della fede non basta parlare, bisogna farne esperienza. I bambini hanno bisogno di respirare l’aria di una comunità che crede, che spera e che ama”.

Profezie dall’Ungheria
Quasi sconosciuta da noi, suor Maria Natalia Magdolna, religiosa ungherese, morta nell’aprile 1992 all’età di novantuno anni, ricevette rivelazioni da Gesù e dalla Vergine Maria sul futuro del mondo. Nel 1990 e l’anno seguente, ormai molto anziana e prossima alla fine della vita terrena, la suora concesse due interviste, nelle quali, dopo aver ribadito che la Vergine Maria chiede incessantemente la conversione, disse fra l’altro: “Quando satana darà quasi per scontata la sua vittoria, quando avrà trascinato a sé la maggior parte delle anime, quando crederà, nella sua superbia e nel suo orgoglio sconfinati, di essere in grado di distruggere il bene e tutta la creazione di Dio, comprese le anime; quando la luce della fede splenderà solo più in qualche anima, perché i deboli sempre sono stati facilmente ingannati dal maligno, è allora che la misericordia e la grazia di Dio trionferanno definitivamente. Sarà la fine della menzogna e l’inizio di un cammino verso una pace divina nel mondo”.

Alla religiosa ungherese è dedicato il libro Rivelazioni profetiche di suor Maria Natalia Magdolna mistica del XX secolo, di Claudia Matera (SugarCo, 208 pagine, 18 euro), nel quale le profezie della suora sono collocate nella linea delle grandi apparizioni mariane dei tempi moderni, da Rue de Bac a Parigi fino a Lourdes, a Fatima e alla più recenti.

Ma quale attendibilità hanno le profezie di Maria Natalia, che assegnano un compito tutto particolare all’Ungheria per l’espiazione dei peccati, la penitenza e la vittoria del bene sul male? Il padre Serafino Tognetti, primo successore di don Divo Barsotti come superiore generale della Comunità dei figli di Dio, nella presentazione spiega: “Ci sono tanti messaggi privati in questo momento storico, probabilmente non tutti autentici. Ci vuole saggezza e discernimento per capire ciò che viene dallo Spirito e quanto viene invece da esaltazione umana […] Nel caso di suor Magdolna abbiamo un testimone d’eccezione che promosse e stimò al sommo grado quanto gli veniva riferito dalla suora medesima”.

E il testimone è davvero d’eccezione: è infatti il cardinale József Mindszenty, l’eroico primate d’Ungheria, strenuo difensore della fede e della Chiesa sotto la persecuzione comunista. Proprio Mindszenty infatti ordinò un esame accurato delle esperienze mistiche della suora e ne accolse senza riserve le rivelazioni.

Ma perché una religiosa del calibro di Maria Natalia Magdolna è così poco conosciuta in Occidente? Le cause sono legate principalmente alla clandestinità della suora sotto il comunismo e alla difficoltà nel reperire i testi originali, ma ora questa lacuna viene colmata grazie al libro di Claudia Matera. E così possiamo conoscere anche noi le rivelazioni che Maria Natalia ricevette su come vivere espiazione e penitenza, parole, scrive padre Serafino, che “sono uno scossone per i fedeli di oggi”.

“Malgrado il successo momentaneo del male e del peccato – disse suor Maria Natalia nell’intervista del 1990 all’amico Julius Molnar – alla fine trionferà la purezza, perché il Cielo è superiore all’inferno, l’innocenza è superiore alla cattiveria […] Dobbiamo pregare per ottenere la grazia della consolazione e della fortezza, perché è la grazia che ci fa vivere […] Lenin e Stalin hanno tentato di distruggere l’opera della redenzione e si sono impegnati a creare un paradiso terrestre. Il maligno ha utilizzato l’ateismo, e lo fa ancora, per ingannare e affascinare l’umanità. Che ne è stato del comunismo e presto che ne sarà dell’ateismo? La grazia della vittoria è stata deposta nella mani della Regina Vittoriosa del Mondo”.

Come afferma padre Serafino Tognetti, nel quadro attuale, dominato da ateismo, relativismo, raffreddamento della fede, confusione dottrinale, abbandono della pratica religiosa e crisi delle vocazioni, le profezie trasmesse dalla religiosa ungherese ci donano speranza e al tempo stesso ci dicono che “no, non è più tempo di essere mediocri”.

Civiltà cristiana

“La cultura vera e perfetta si trova solamente nella Chiesa”.

Dite la verità: in tempi di politicamente corretto e di dialogo a ogni costo con gli altri, specie con i “lontani”, un’affermazione del genere fa, come minimo, sobbalzare sulla sedia. Non ci siamo più abituati. E in effetti una voce come quella Plinio Corrêa de Oliveira, autore della frase sopra riportata, sembra arrivare letteralmente da un altro mondo. Invece, tutto sommato, non sono passati molti anni da quando il filosofo e giornalista brasiliano (1908 – 1995), fondatore dell’associazione Tradizione, Famiglia e Proprietà, scriveva che poiché una società umana si trova “nella sua condizione normale” solo quando i suoi membri osservano la legge naturale, “ne consegue che, benché i popoli non cattolici possano avere prodotti culturali mirabili, sono sempre gravemente manchevoli in alcuni punti capitali, il che toglie alla loro cultura carattere integrale e la piena conformità alla regola, presupposto necessario di tutto quanto è eccellente oppure semplicemente normale”.

Arroganza di un tradizionalista impenitente? In realtà, di fronte a una cultura cattolica (se ancora la si può definire così) timorosa di tutto, sottoposta al dominio dei dogmi laicisti, desiderosa di apparire amica del mondo e quanto meno timida nel proclamare le verità divine, la verve di un Corrêa de Oliveira ci appare oggi come un ricostituente, magari non proprio facile da mandare giù ma certamente tonificante.

Benvenuto è dunque il libro Cristianità. Dalla periferia al centro (Chorabooks, 124 pagine) con il quale la casa editrice del maestro Aurelio Porfiri ci propone una serie di scritti in cui l’autore brasiliano, instancabile difensore della civiltà cristiana sottoposta all’attacco rivoluzionario dall’umanesimo fino al Sessantotto e oltre, ci ricorda che il Vangelo non ci chiede di andare d’accordo con il mondo e di mostrarci amabili con tutti. No, l’indicazione è un’altra: “Siate perfetti come perfetto è il Padre vostro che è nei cieli”.

Proprio cercando questa perfezione si costruisce la civiltà cristiana. Ma oggi è ancora possibile ragionare in questi termini? Come parlare di civiltà cristiana quando tutto è liquido, destrutturato, evanescente, quando l’idea stessa di civiltà, senza aggettivi, è ormai impalpabile?

Inutile nasconderlo: il mondo al quale fa riferimento Plinio Corrêa de Oliveira non esiste più. Eppure gli spunti di riflessione offerti da questo difensore della civiltà cristiana hanno una loro utilità, perché lui ci dice qualcosa che, in fondo, molti di noi ancora pensano, ma oggi, semplicemente, non lo possiamo né pensare né dire.

Per esempio, a proposito dell’anima, scrive a un certo punto l’autore: “Viviamo in un ambiente saturo di materialismo, nel quale ogni momento sentiamo opinioni che sarebbero vere, assistiamo ad azioni che sarebbero legittime, siamo posti di fronte a istituzioni e costumi che sarebbero ragionevoli se solamente l’anima umana non esistesse. Il materialismo è immanente e sottinteso in quasi tutto quanto accade attorno a noi”. E ancora: “Poiché l’uomo è costituito da due principi distinti, corpo e anima, è chiaro che di tutto quanto lo riguarda sarà molto più importante ciò che concerne l’anima di quello che concerne il corpo; quindi ciò che è spirituale e imperituro ha più valore di quanto è materiale e mortale”.

Chissà che cosa avrebbe detto il buon Corrêa de Oliveira di fronte a una Chiesa che tanto spesso, oggi, sembra decisamente più attenta al corpo che all’anima, più propensa a parlare di politica, economia, ecologia e dintorni piuttosto che a indicare la via per la salvezza dell’anima.

In certi momenti, come quando sottolinea la differenza tra il realismo della dottrina cattolica (per la quale gli uomini sono “naturalmente disuguali”) e l’astrattezza del pensiero rivoluzionario (che pretende di imporre l’uguaglianza mediante lo Stato) l’argomentare di Corrêa de Oliveira assume la forza di una rivelazione che spinge ad andare controcorrente.

Ogni pagina di questo libro contiene un piccolo tesoro. Costante è la polemica contro il dogmatismo rivoluzionario, profondamente anti-cristiano e dunque anti-umano, nel quale siamo immersi. E difficile è dare torto all’autore quando, parlando dei dogmi della rivoluzione francese, utilizza il presente e non il passato, visto che, spiega, “oggi vi sono più uomini del 1789 che in pieno Terrore”.

Aldo Maria Valli















martedì 18 giugno 2019

Sinodo Amazzonia, ecologismo estremo e attacco al celibato





La presentazione del documento che servirà da base nel Sinodo sull'Amazzonia che si svolgerà in ottobre, conferma quanto già era nell'aria: una forte spinta ecologista, un'esaltazione acritica dell'indigenismo con relativa condanna senza appello del periodo coloniale, e la proposta di ordinazione dei viri probati per fare fronte alla penuria di sacerdoti. Diversi passaggi sono anche una critica diretta al governo brasiliano guidato da Bolsonaro.





Nico Spuntoni, 18-06-2019

Ci si avvicina al 6 ottobre 2019, data di apertura dell'atteso Sinodo dei vescovi per la regione Pan-Amazzonica convocato da papa Francesco. Lo scorso mese si è tenuta la seconda riunione del Consiglio pre-sinodale durante il quale è stato approvato l'Instrumentum laboris, ovvero il quadro di riferimento su cui si troveranno a lavorare i padri sinodali. Il documento è stato presentato ieri in conferenza stampa dal cardinal Baldisseri, segretario generale dell'istituzione.

Diviso in tre parti
("La voce dell'Amazzonia","Ecologia integrale: il grido della terra e dei poveri", "Chiesa profetica in Amazzonia: sfide e speranze"), il documento si articola in capitoli dedicati ai temi giudicati più urgenti per il futuro di questa regione. L'idea del Sinodo nasce dalla sfida di realizzare un nuovo piano pastorale per questa terra definita dal cardinal Hummes, relatore generale dell'evento, una "regione transnazionale". La ricetta che sembra emergere in tal senso dall'Instrumentum laboris - sia per linguaggio utilizzato che per obiettivi prefissati - presenta non pochi tratti in comune con quella dei movimenti sociali critici nei confronti della globalizzazione e fino a poco tempo fa molto radicati in America Latina.

Scorrendo i capitoli, infatti, si possono rintracciare visioni riconducibili
a correnti quali l'ecologismo, il sindacalismo e l'indigenismo. Ad esempio, vi è presente un giudizio storico totalmente negativo dell'epoca coloniale nel quale, al netto del riconoscimento del sacrificio di tanti missionari che diedero la vita per la trasmissione del Vangelo, c'è spazio anche per un mea culpa ("l’annuncio di Cristo è stato fatto in connivenza con i poteri che sfruttavano le risorse e opprimevano le popolazioni"). Probabilmente anche alla luce di quelli che vengono presentati come errori del passato, la Chiesa - auspica il documento - deve prendere le distanze dalle "nuove potenze colonizzatrici" e la "crisi socio-ambientale" le dà l'opportunità di far vedere ai popoli amazzonici di essere dalla loro parte.

Il testo mette in connessione la minaccia ambientale
a quella della sopravvivenza stessa degli indigeni e pone l'attenzione su protezione della natura e rispetto dei diritti umani in quella che viene definita "la seconda area più vulnerabile del pianeta". L'uomo come parte integrante della natura il cui saccheggio rischia di mettere in discussione la sopravvivenza delle culture di migliaia di comunità indigene, compromettendo a sua volta l'equilibrio biologico della regione. La Chiesa fa sue le rivendicazioni degli indios e dei contadini espropriati contro la deforestazione, gli spostamenti forzati e gli altri interventi umani sul territorio, puntando l'indice contro soggetti chiamati in causa direttamente: "le compagnie estrattive", ma anche "i governi locali e nazionali e le autorità tradizionali" accusate di connivenza.

Potrebbe essere non casuale il momento storico
in cui avviene questo duro j'accuse: Bolsonaro, infatti, che considera "una questione secondaria" il cambiamento climatico, ha vinto le elezioni promettendo un piano di sviluppo infrastrutturale per l'Amazzonia, con l'intenzione di integrare la regione nel sistema produttivo nazionale. In una recente intervista, inoltre, il neopresidente ha manifestato la volontà di aprire all'estrazione mineraria della riserva forestale amazzonica di Renca. Uno dei numerosi motivi per cui gli indios non amano il nuovo esecutivo che, una volta insediato, ha subito tolto al Dipartimento nazionale agli Affari Indigeni FUNAI la competenza sulla regolamentazione dei confini delle riserve, trasferendola al Ministero dell’Agricoltura.

I media progressisti sono ormai soliti agitare lo spettro di un "pericolo genocidio"
per gli indigeni a causa delle politiche di Bolsonaro. Toni allarmistici a cui non è estraneo l'Instrumentum laboris presentato ieri: il testo dà spazio alla denuncia di una corruzione "protetta da una legislazione che tradisce il bene comune" e di cui sarebbero responsabili le grandi imprese che investono nello sfruttamento delle ricchezze dell'Amazzonia. Si scaglia contro la "criminalizzazione delle proteste contro la distruzione del territorio e delle sue comunità", parla di "dramma degli abitanti dell’Amazzonia" per l'abbattimento degli alberi, gli spostamenti forzati e l'espansione della frontiera agricola.

Sul banco degli imputati, inoltre, finiscono il "modello economico estrattivista occidentale"
, il "modello culturale occidentale", il "neocolonialismo nel presente"; espressioni che appartengono ad un patrimonio concettuale familiare anche ai movimenti popolari sudamericani.Tra i suggerimenti indicati per debellare quelli che vengono indicati come i mali della regione, non sfuggono alcuni "affondi" contro l'attuale esecutivo brasiliano: l'invito ad "esigere la protezione delle aree/riserve naturali, in particolare per quanto riguarda la loro delimitazione/titolarità", la promozione di "una coscienza ambientale e del riciclaggio dei rifiuti", la richiesta ai governi di "garantire le risorse necessarie per l’effettiva protezione dei popoli indigeni isolati".

C'è poi il capitolo legato al fenomeno migratorio
, trascurato politicamente e pastoralmente - secondo quanto scritto nel documento - e di fronte al quale "ogni comunità urbana" deve farsi trovare pronta ad accogliere "chi arriva inaspettatamente con necessità urgenti" offrendo loro "protezione di fronte al pericolo delle organizzazioni criminali". Le comunità ecclesiali, invece, hanno il dovere di "fare pressione sulle autorità pubbliche perché rispondano ai bisogni e ai diritti dei migranti".

La parte finale del documento, dal titolo "Chiesa profetica in Amazzonia
: sfide e speranze", è dedicata al piano ecclesiologico e pastorale. Qui vi si afferma che il volto specifico della Chiesa latinoamericana è segnato dall'"opzione preferenziale per i poveri" e si esprime la necessità di una Chiesa che sia partecipativa, creativa ed armoniosa. È una terza parte che pare ispirarsi alla cosiddetta teologia del popolo, portatrice di istanze di giustizia sociale e in cui, in forma di richieste avanzate dalle comunità locali consultati, prende forma la richiesta di "rifiutare l'alleanza con la cultura dominante e il potere politico ed economico per promuovere le culture ed i i diritti degli indigeni, dei poveri e del territorio"; ma anche quelle di "superare ogni clericalismo" e di "superare posizioni rigide che non tengono sufficientemente conto della vita concreta delle persone e della realtà pastorale".

In merito a ciò, l'aspetto più rilevante e più atteso è senz'altro quello relativo ai nuovi ministeri
. Il testo presenta la prevista apertura sulla questione dei cosiddetti "viri probati", laddove, partendo dalla premessa che "il celibato è un dono per la Chiesa", viene espressa la richiesta che "per le zone più remote della regione, si studi la possibilità di ordinazione sacerdotale di anziani, preferibilmente indigeni, rispettati e accettati dalla loro comunità, sebbene possano avere già una famiglia costituita e stabile, al fine di assicurare i Sacramenti che accompagnano e sostengono la vita cristiana". Una condizione giudicata dagli estensori necessaria al fine di passare dallo stato di "Chiesa che visita" a quello di "Chiesa che rimane".

L'altro elemento particolarmente degno di nota del documento è
, infine, l'attenzione data alla presenza delle donne nella vita ecclesiale, giudicata finora "non sempre valorizzata". Il testo va oltre la richiesta di maggiore ascolto e coinvolgimento per loro, parlando di leadership in "spazi sempre più ampi e rilevanti nel campo della formazione: teologia, catechesi, liturgia e scuole di fede e di politica". La Chiesa, afferma l'Instrumentum laboris, deve accogliere e fare suo "lo stile femminile di agire e di comprendere gli avvenimenti".

Infine, relativamente alla vita consacrata in generale
, tra i suggerimenti espressi per ritornare alla Chiesa primitiva trova spazio anche quello di favorire la partecipazione politica delle "persone consacrate vicine ai più poveri e agli esclusi" e la raccomandazione di includere processi educativi dedicati all'interculturalità, all'inculturazione e al dialogo tra le spiritualità nei processi di formazione della vita religiosa.













lunedì 17 giugno 2019

“Ecco come io, giovane prete (non) sono stato formato”




Aldo Maria Valli, 17-06-2019

Cari amici di Duc in altum, lasciatemi dire che la testimonianza che oggi vi propongo è di eccezionale importanza. L’autore è lo stesso giovane prete, ancora piuttosto fresco di seminario, che giorni fa mi ha inviato la lettera che ho intitolato Ecco perché il popolo non si riconosce più nei pastori.

Con la stessa lucidità, oggi il sacerdote affronta un tema cruciale: la formazione che si riceve nei seminari.

Vi invito a leggere la sua testimonianza con attenzione, perché il racconto fa capire i motivi per cui questa nostra Chiesa ci appare spesso allo sbando, priva di punti di riferimento, in balia di ogni vento di dottrina e con un perenne complesso di inferiorità verso ogni tipo di pensiero non cristiano e non cattolico.

Alle radici della crisi c’è il modo, sotto molti aspetti incredibile, in cui i futuri preti vengono formati.

Buona lettura.

A.M.V.


***




Alle radici della crisi del sacerdozio: la formazione teologica nei seminari
Caro Aldo Maria, torno a scriverle per affrontare un argomento di cui non si parla mai, o quasi, ma credo sia importante perché si tratta del brodo di coltura dal quale escono poi tutte le sciocchezze, le bizzarrie, gli abusi e le profanazioni che lei instancabilmente denuncia, specie nella sua rubrica Uomini giusti al posto giusto.

Di che cosa sto parlando? Ma del seminario! È proprio lì, infatti, che vengono piantati quei semi che poi producono certe piante infestanti.

Ciò che racconterò è un insieme di episodi che ho vissuto in prima persona o che mi sono stati raccontati da confratelli sparsi in varie diocesi italiane.

Prima di entrare nel racconto vorrei però fare alcune considerazioni generali.


1 – Il modello di sacerdote diocesano
A molti di noi seminaristi è apparso chiaro come da parte dei formatori non ci sia la minima idea di quale tipo di sacerdote si voglia formare. Questo è il cuore di tutti i problemi. Mi hanno raccontato addirittura che nella diocesi più importante del centro Italia i superiori hanno chiamato i seminaristi ammettendo pubblicamente: “Noi non sappiamo quale formazione darvi”. Che liberazione! Certo, sapere che coloro a cui affidi la tua vocazione hanno le idee così chiare dev’essere stato veramente consolatorio e avrà sicuramente riempito di entusiasmo il cuore di quei seminaristi. Meglio non pensare alle parole di Gesù: “Quando un cieco guida un altro cieco, tutti e due cadranno in un fosso” (Mt 15,14).

Ma da dove nasce questa confusione? Da dove arriva questa perdita di direzione? A me sembra che tutto prenda le mosse dal rifiuto di considerare il sacerdote un uomo che ha a che fare con il sacro, e questo non è casuale, ma ha una spiegazione teologica precisa. Il problema sta nella corrente teologica, i cui esiti sono ben visibili nella liturgia e nell’arte sacra, secondo la quale, poiché prima di Gesù c’era la distinzione sacro-profano ma dopo l’Incarnazione tutto diviene sacro, siamo di fatto alla “fine del sacro”. Tradotto nella prassi: se tutto è sacro, nulla lo è veramente. Questo spiega la fine della percezione della chiesa stessa come luogo sacro e perché oggi si entri in chiesa senza avvertire di entrare in uno spazio che è “altro” rispetto a ciò che sta fuori. Invano Benedetto XVI ci ha insegnato che anche in questo campo Gesù è “venuto a portare a compimento” e che quindi non ha distrutto il sacro, ma lo ha reso perfetto.

Comunque stiano le cose, quello che è certo è che oggi i formatori non guardano di buon occhio la figura del sacerdote in quanto tale, come evidenzia la scomparsa della parola latina “sacer-dote”, sostituita con la parola greca “presbitero”, e dell’espressione “ordinazione sacerdotale”, sostituita con “ordinazione presbiterale”. Come a dire: ma tu chi credi di essere? Al massimo, sei solo il “presidente” dell’assemblea celebrante.

Capite bene come questa visione indebolisca alla radice l’identità profonda del futuro sacerdote e sminuisca la sua tensione alla santità. E pensare che l’ha capito perfino lo Zio Ben dell’Uomo Ragno: “Da un grande potere derivano grandi responsabilità”. Se davanti ha la dimensione altissima dell’alter Christus(altra formula disprezzata dai formatori, anche se resta un mistero se a infastidirli di più sia l’aggettivo o il sostantivo), il prete cercherà di condurre una vita che vi assomigli; se invece tutto quello a cui può aspirare è la presidenza di una comunità, beh, in fondo in fondo, basta non scandalizzarla e il gioco è fatto. Purtroppo, però, così crescono le probabilità che il sacerdote (pardon, il presbitero) passi la sua vita ordinaria nella mediocrità e nella tristezza, come avviene in effetti in molte vite sacerdotali, di fronte alle quali non si può non provare una grande tristezza. Dico questo per esperienza personale, perché nei momenti di maggior fatica pastorale mi accorgo quanto sia salutare ricordarmi lo splendore del sacerdozio.


2 – La vita di preghiera in seminario
La vita in seminario non è in realtà pensata per sacerdoti, ma per comunità di laici impegnati. Non deve sorprenderci: non è che la conseguenza del punto 1. Non avere idea di quale sia l’identità del sacerdote porta a non calibrare il “dosaggio” della preghiera e di tutto ciò che alimenta la vita interiore e spirituale.

Mi ha sempre colpito un fatto: i superiori guardano con autentico terrore ogni comportamento che nel cammino seminaristico sveli una certa attrazione per ciò che è propriamente sacerdotale, come se fosse sinonimo di “fissazione clericale” o frutto di una personalità problematica. Faccio un esempio banale: se un giovane appassionato di calcio vedesse da lontano un suo idolo, come si comporterebbe? Beh, probabilmente gli correrebbe incontro per stringergli la mano, farsi fare un autografo o una foto. Bene, con Dio questo non vale. Se lo ami e credi di essere chiamato a servirlo come sacerdote, non devi fare nulla che vada in questa direzione “prima dell’ordinazione”! Mi spiego meglio: voi credereste mai che si diventa sacerdoti senza avere fatto prima alcuna “prova pratica” di come si celebra la Santa Messa? Eppure è così! Al massimo uno o due giorni prima dell’ordinazione il direttore spirituale ti fa vedere una volta e lentamente come si fa. Ma si può? Quello che è il centro della vita che ti attende è trattato come zona impenetrabile. E poi ci si meraviglia che ci siano preti che celebrano male, che abusano del loro ruolo e che dimostrano di non conoscere la liturgia! Per forza, la liturgia pratica (e ahimè, anche quella teologica) negli anni di seminario è un campo non calpestabile.

Apro una parentesi: quando racconto episodi simili ai laici, noto che restano senza parole, perché hanno l’idea (normale) che i sacerdoti siano preparati ai loro compiti specifici (Messa, sacramenti, processioni eccetera). Invece non è così, perché in seminario siamo trattati come laici fino al giorno dell’ordinazione sacerdotale (l’anno di diaconato è un tempo di passaggio, in cui l’unica cosa che cambia consiste nell’iniziare a curare la predicazione).

Fatte queste premesse, possiamo ora immergerci in quello che è l’oggetto specifico della mia testimonianza: la qualità del percorso di formazione che dura ben sei anni (i primi due di filosofia e gli altri quattro di teologia).

Che cosa dire? Credo di poter confermare in parte ciò che disse una volta Jean Guitton: “Nei seminari Freud, Marx e Lutero hanno sostituito Tommaso, Ambrogio e Agostino”. Dico in parte perché se continuano a non essere insegnati i grandi autori cattolici, e resta pur sempre Lutero, i poveri Freud e Marx hanno perso il loro fascino, sostituiti con Heidegger, il pensiero debole e l’immancabile Zygmunt Bauman.

In generale (vale per tutti i corsi) ho notato un grande complesso di inferiorità dei professori nei confronti delle culture laiciste, unito a una certa ignoranza circa autori che dovrebbero invece essere punti di riferimento della formazione cristiana: in sei anni non ho mai sentito nominare un dottore della Chiesa (se non di sfuggita) oppure un Rosmini, un Garrigou-Lagrange, un Fabro, un Del Noce, un Ratzinger, un Balthasar.


Veniamo ora agli aneddoti dei vari corsi.
Filosofia. Irrisoria è stata la parte concessa alla metafisica. In molti Studi teologici la prima frase che gli studenti hanno sentito pronunciare dal professore è stata più o meno questa: “Ragazzi, iniziamo il corso di Metafisica, ma vi dico subito che è morta. Tuttavia, poiché la Chiesa ci dice che dobbiamo comunque farla, eccoci qui”. Si può immaginare quale fascino avrà esercitato quel corso e con quanta veemenza i ragazzi si saranno tuffati ad affrontare le grandi questioni metafisiche. Il minimo che può essere capitato è pensare che la Chiesa sia un po’ necrofila, perché gode nell’insegnare cose morte che nulla hanno a che vedere con la vita. Tra l’altro quest’errore è macroscopico se si pensa che “chi sbaglia filosofia, sbaglia teologia”. Emblematico è il fatto che, al termine del percorso di studio, in molti scelgono di fare la tesina su qualche vescovo o comunque prendono la strada della biografia, mentre è molto raro il caso di lavori strettamente teologici. In assenza di una buona filosofia, manca del tutto la capacità di strutturare un pensiero teologico.

Mariologia
. La mia professoressa per l’intero corso non ha fatto altro che criticare la Madonna in tutti i suoi aspetti divini. Inoltre ha messo in dubbio, con sottili allusioni, la verginità di Maria: “Sapete, Gesù aveva dei fratelli…”. E ogni dogma non è stato mai spiegato e giustificato sotto il profilo teologico, ma sempre e solo dal punto di vista socio-politico. Con un esito molto curioso, per esempio, circa il dogma dell’Assunzione: Pio XII l’avrebbe infatti stabilito perché in un mondo lacerato dalla seconda guerra mondiale, con i corpi squarciati dalle bombe, c’era bisogno di ridare dignità al corpo umano… Per carità, sarà anche stata una causa remota ma, accidenti, molto remota!

Introduzione alla Storia delle religioni
. Il professore (molto quotato a livello nazionale nel dialogo interreligioso) non ha fatto che criticare il cattolicesimo a scapito di una esaltazione francamente inconcepibile dell’islam e dell’ebraismo. Dopo ore di sopportazione, un giorno non ce l’ho più fatta e gli ho detto: “Insomma professore, diciamoci la verità, sarebbe stato molto meglio che Gesù non fosse mai venuto”. Al che il professore, dopo un attimo di sorpresa, ha allargato le braccia sospirando, come a dire: “Eh sì, sarebbe stato meglio”. E tutto questo in uno Studio teologico cattolico!!!

Introduzione alle Sacre Scritture
. Il professore ci insegna che la storia dell’Antico Testamento non è provata, ma appartiene alla narrazione mitica con cui il popolo ha cercato di darsi un passato e un’identità. Poi, qualche lezione dopo, salta fuori con la Dominus Iesus, sostenendo che è un documento che sarebbe stato meglio non pubblicare perché “divisivo” in quanto nega la salvezza parallela per gli ebrei. Al che rivolgo al docente questa domanda: “Scusi professore, quindi gli ebrei si salverebbero obbedendo all’Antico Testamento che in sostanza è una favola?”. Silenzio di tomba. Panico. Parliamo d’altro. Sì, è meglio.

Patrologia
. Il professore utilizzava il corso per parlare male del Catechismo (sia quello nuovo sia quello di san Pio X) e di papa Benedetto. Le perle arrivavano quando insisteva nel dire che il Concilio aveva abolito parole come “peccato”, “redenzione”, “salvezza”. Noi la lezione dopo gli facevano notare tutti i passi dei documenti conciliari in cui quelle parole in realtà ci sono, ma niente da fare: diceva che avevano dovuto metterle per compiacere i conservatori, ma lo spirito del testo era chiaramente volto a superarle.

Teologia del XX secolo
. Il corso è stato fatto interamente su teologi protestanti. Neanche un cattolico, neanche un autore della Nouvelle Theologie, neppure Rahner!

Mistica. Il corso è stato condotto su due monografie, Meister Eckhart e un vescovo giansenista. Ma possibile che in tutta la storia della Chiesa cattolica non si riesca a proporre un autore che le appartenga chiaramente?

Ermeneutica biblica
. L’inerranza biblica riguarda ciò che è utile alla fede, non importa se quelle parole e azioni di Gesù siano davvero avvenute o meno (d’altra parte all’epoca di Gesù non c’era il registratrore, come ha spiegato il capo dei gesuiti).

Storia della Chiesa contemporanea
. Impostato secondo la linea laicista, il corso ha il suo momento magico quando il professore arriva a dire che il modernismo non è mai esistito, se non nella testa di Pio X.

Cristologia
. La professoressa a un certo punto dice che la Chiesa deve ringraziare il sionista Jules Isaac, perché è grazie a lui che ha capito come si legge la Lettera ai romani e quindi ha potuto aprirsi al dialogo con l’ebraismo. Insomma, prima di Isaac la Chiesa non sapeva leggere san Paolo.

Potrei andare avanti ancora per pagine, parlando delle omissioni negli insegnamenti morali, della denigrazione del Magistero che impedisce lo sviluppo della teologia, del Catechismo visto in opposizione allo Spirito Santo che continua a operare nella Chiesa, della derisione di chi, facendo teologia in obbedienza al Magistero, è visto come un “bigotto che fa teologia con il Denzinger”. Su tutti questi aspetti potrei ironizzare parafrasando le parole della conclusione del Vangelo di san Giovanni: “Vi sono ancora molte altre cose compiute da questi professori, che, se fossero scritte una per una, penso che il mondo stesso non basterebbe a contenere i libri che si dovrebbero scrivere”.


Ma non posso non concludere rispondendo a un’ultima domanda: qual è il frutto di questi sei anni?
È uno solo: creare un sacerdote fragilissimo, pieno di dubbi e con una grande confusione nella testa e nel cuore, perché, a causa di questa formazione frammentaria e superficiale, non riesce ad avere un quadro sicuro della dottrina e della morale cristiana.

Dopo aver ripercorso, sia pure a grandi linee, l’esperienza formativa, credo siano più chiare le ragioni profonde delle crisi sacerdotali, ma anche i motivi per cui un vescovo un giorno sa darti gioia nel suo insegnamento e il giorno dopo ti fa piombare nello sconforto. È l’esito di una formazione, disarticolata e incompleta, che anche i vescovi, come noi, hanno ricevuto nel corso degli anni, perché siamo tutti figli del post-concilio.

Urge quindi un lavoro di riscoperta delle colonne della fede e della cultura cattolica, per ritrovare la ragione della speranza del nostro Credo e della bellezza di far parte della Chiesa di Cristo, perché “una fede che non diventa cultura è una fede non pienamente accolta, non interamente pensata, non fedelmente vissuta” (san Giovanni Paolo II).

Come può infatti un sacerdote basare tutta la sua vita su Cristo se gli viene insegnato che la risurrezione non è un fatto storico ma meta-storico, instillando così il germe del dubbio proprio a proposito dell’evento cardine su cui si basa tutta la nostra fede? Infatti “se Cristo non è stato risuscitato, vana dunque è la nostra predicazione e vana pure è la vostra fede (…) Se abbiamo sperato in Cristo per questa vita soltanto, noi siamo i più miseri fra tutti gli uomini” (1Cor 15,19).

Un giovane prete