venerdì 30 giugno 2017

CHARLIE GARD. LA CHIESA DI ROMA E LA PROFEZIA CHE NON C’E’ STATA.





MARCO TOSATTI (30/06/2017)

Un comunicato della Pontificia Accademia per la Vita tratta del dramma di Charlie Gard, e dei suoi genitori. Lo riportiamo così come lo ha dato la Radio Vaticana:

“La vicenda del piccolo bambino inglese Charlie Gard e dei suoi genitori colpisce tutti noi per il carico di dolore e di speranza che ci consegna”. Così mons. Vincenzo Paglia che assicura la sua vicinanza ai genitori e a quanti “lo hanno curato e hanno lottato con lui”. Per loro, e per quanti sono chiamati a decidere del loro futuro, si legge nella dichiarazione del presidente dell’Accademia per la Vita, “innalziamo al Signore della vita una preghiera perché nulla vada perduto”.

La Conferenza Episcopale Cattolica di Inghilterra e Galles, si legge nel documento, ha “emesso un comunicato che anzitutto riconosce la complessità della situazione, il dolore straziante dei genitori, la ricerca del bene per Charlie messo in campo da tutti i soggetti coinvolti”. Il testo, prosegue mons. Paglia, “ribadisce inoltre che non si può mai porre in essere alcun gesto che metta fine intenzionalmente a un’esistenza umana compresa la sospensione della nutrizione e dell’idratazione”. Al tempo stesso, prosegue il presule, vanno purtroppo “riconosciuti anche i limiti di ciò che si può fare, certo dentro un servizio all’ammalato che deve continuare fino alla morte naturale”.

Riprendendo la Evangelium Vitae di San Giovanni Paolo II, mons. Paglia, sottolinea che “dobbiamo compiere ogni gesto che concorra alla sua salute e insieme riconoscere i limiti della medicina”, va perciò “evitato ogni accanimento terapeutico sproporzionato o troppo gravoso”. Inoltre, riprende il presidente della Pontificia Accademia, “va rispettata e ascoltata anzitutto la volontà dei genitori e, al contempo, è necessario aiutare anche loro a riconoscere la peculiarità gravosa della loro condizione, tale per cui non possono essere lasciati soli nel prendere decisioni così dolorose”.

“Quando l’alleanza terapeutica tra paziente (in questo caso i suoi genitori) e medici si interrompe – conclude mons. Paglia – tutto diventa più difficile e ci si trova obbligati a percorrere l’estrema ratio della via giuridica, con i rischi di strumentalizzazioni ideologiche e politiche sempre da evitare e di clamori mediatici talvolta tristemente superficiali”.

Mi hanno lasciato una sensazione strana, queste parole. La prima cosa che mi è venuta in mente che d’ora in avanti bisognerebbe cambiare la dicitura dell’ Accademia: “Pontificia Accademia per la Vita, sì, ma…”. Poi mi sono venute in cuore le cose che da un’Accademia, cattolica, avrei voluto sentire.
Avrei voluto sentire dire, e magari con forza e dolore, che a fronte della volontà e della possibilità dei genitori di provare a salvarlo è mostruoso che la vita di un bambino sia decisa a maggioranza (!) in un aula di esperti legali.

Avrei voluto sentire dire che comunque la si voglia mascherare, si tratta di una condanna a morte.
Avrei voluto sentire dire che accettare come un dato di fatto che un tribunale decida chi vive e chi muore, e come, è un qualche cosa che fa rabbrividire.

Avrei voluto sentire profeticamente che chi crede nell’amore e nei miracoli, la Chiesa, è al fianco dei genitori, anche in una battaglia disperata.

Avrei voluto sentire che uccidere la speranza con la legge è tremendo, e apre la strada a un futuro di piccole, grigie sentenze di morte burocratiche.

Avrei voluto sentire l’angoscia, e il dubbio, se sia giusto che della vita dispongano tribunali ed estranei, anche contro l’amore dei parenti.

Avrei voluto sentire, nel giorno triste della vittoria dei burocrati, dei legulei e della morte, un sussulto di profezia. Ma evidentemente era già stata spesa tutta per i migranti e le Ong.












fonte: Stilium curiae






giovedì 29 giugno 2017

Quarto Oggiaro, la parrocchia-supermarket. Quando ci si vergogna del campanile







Il Talebano, 5-6-2017


A Milano si inaugura ufficialmente la chiesa senza campanile, la nuova Parrocchia della Pentecoste [QUI] di Quarto Oggiaro balzata alle cronache per il suo modernissimo e “fashionissimo” design.

Il lancio è affidato allo slogan “Una nuova chiesa X una chiesa nuova”, che fa molto campagna elettorale (la “X” sembra presa in prestito da Pisapia) e che contiene una proposta di rinnovamento stilistico e concettuale delle chiese che fa obbrobrio.

Se l’Italia è chiamato il Paese dei mille campanili e se, per sintetizzare la peculiarità delle popolazioni italiane, si parla di campanilismo è perché le chiese e i loro campanili sono state nei secoli i perni attorno ai quali si sono sviluppate le nostre città e le nostre comunità, culture incluse.

Se oggi le città sono in crisi è perché crescono in costruzioni e iniziative ma stanno perdendo la loro dimensione di comunità, di vita di quartiere, di identità territoriale, di relazioni umane. Le persone in città si sentono sempre più sole e la ricerca di una dimensione spirituale è in costante crescita. Ma le chiese sono sempre più vuote. Anche perchè, come titola La Repubblica a proposito di architettura, una chiesa brutta allontana dal sacro.

La Parrocchia della Pentecoste è un obbrobrio: un blocco di cemento bianco che andrebbe bene per nascondere i lavori della M4, ha una croce talmente stilizzata e camuffata che capire cosa sia è una fatica e dentro – come mostrano le foto sul suo sito web - è inquietantemente vuota, come quegli spazi eventi tenuti anonimi così che chi li affitta li riempia come vuole. Poco senso del bello, poco senso del sacro e poco senso del ruolo suo storico e culturale che questo luogo dovrebbe avere.

Fare chiese senza campanili significa ucciderne il valore aggiunto identitario: il campanile una volta si ergeva per indicare che lì si trovava un punto di riferimento valoriale, storico, culturale, sociale, umano. Il campanile ora a Quarto Oggiaro sembra che si abbatta per nascondere il fatto che lì ci sia il rischio di trovare tutto ciò. Il sacro però così, a Milano, diventa contrabbando e la Parrocchia però così, a Milano, diventa centro commerciale. E la sinistra però così, a Milano, raggiunge il suo scopo: trasformare la città da luogo di sviluppo di una comunità a luogo di organizzazione di vernissage.

Vincenzo Sofo









fonte: Messainlatino






mercoledì 28 giugno 2017

Anche la Corte Europea vuole la morte di Charlie Strada spianata all'obbligo di decesso per i malati




In tempi molto più rapidi del previsto la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo (Cedu) ha dato ragione ai tribunali inglesi che avevano decretato la morte per Charlie Gard, il piccolo bambino di dieci mesi affetto da una rara malattia genetica. «La decisione è finale», dicono i giudici di Strasburgo in nome del rispetto per la sovranità britannica. La sentenza segna un salto di qualità spaventoso nella deriva nichilista dell'Europa.


di Ermes Dovico (28/06/2017)

La strada perché i malati vengano obbligati a morire è spianata. Con una decisione a maggioranza resa nota attraverso un comunicato stampa ieri pomeriggio e il cui testo completo sarà diffuso oggi, la Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu), composta nell’occasione da sette giudici, ha dato ragione ai tribunali britannici e stabilito che il Great Ormond Street Hospital può staccare il supporto vitale di Charlie Gard, il bambino di dieci mesi affetto da una rara malattia genetica, che i genitori Chris e Connie avrebbero voluto portare negli Stati Uniti per un trattamento sperimentale. La Cedu ha dichiarato inammissibile il ricorso della famiglia e ritirata perciò la misura che prorogava le cure per il piccolo.

L’ospedale londinese ha comunicato ieri che non staccherà subito il respiratore. Probabilmente, come scritto in precedenza sul suo stesso sito, attenderà qualche giorno prima di togliere la ventilazione assistita e poi procederà con delle cure palliative. Il tutto mentre i siti inglesi riferiscono come i genitori, ricevuta notizia della decisione, siano “inconsolabili”. Dopo una battaglia estenuante per difendere il diritto alla vita del figlio, non potrebbe essere altrimenti. È già inconcepibile pensare che si debba ricorrere alla giustizia per domandare che il tuo bambino possa vivere, figuriamoci lo sconforto se quattro tribunali – uno dopo l’altro – te lo condannano a morte.

“La decisione è finale”, hanno sentenziato i giudici di Strasburgo, che affermano di aver tenuto conto del “considerevole margine di manovra lasciato alle autorità nella sfera che riguarda l’accesso alle cure sperimentali per malati terminali e nei casi che sollevano delicate questioni morali ed etiche, ripetendo che non è compito della Corte sostituirsi alle competenti autorità nazionali”.

Strano che questa incompetenza della Cedu, emanazione del Consiglio d’Europa e che dovrebbe garantire il rispetto della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, non sia stata affermata in diverse altre rilevanti questioni morali, in cui ha di fatto ignorato le norme nazionali favorendo la diffusione del pensiero unico, innanzitutto riguardo all’agenda omosessualista. Nel caso di Charlie, l’osservanza di quella Convenzione da parte della Cedu avrebbe richiesto come logica conseguenza l’ordine di proseguire le cure, visto che le corti britanniche ne hanno violato ben quattro articoli, cioè l’articolo 2 (diritto alla vita), 5 (diritto alla libertà), 6 (diritto a un giusto processo) e 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare). Invece, i giudici di Strasburgo sono arrivati a scrivere che le sentenze dei loro colleghi del Regno Unito sono state “meticolose, complete”.

Purtroppo, va constatato che quest’ultima decisione è sì spaventosa, ma non sorprende più. Semmai, segna un terribile “salto di qualità” di una cultura mortifera che sta demolendo l’Occidente da almeno mezzo secolo a questa parte, ratificata dalle varie leggi contro la vita e la famiglia che sono state approvate nei nostri Paesi e che ora sono approdate alla richiesta dell’eutanasia come forma di “libertà”. Un inganno diabolico, nel senso letterale del termine. Laddove viene meno l’umana pietà, che può trovare linfa solo nell’amore irradiante di Cristo crocifisso, non c’è legge civile che tenga, per quanto chiara possa essere, non ci sono paletti che possano arginare il dilagare del male.

Quell’amore gratuito l’Europa lo sta rifiutando con crescente disprezzo, sostituendolo con un nichilismo che non ammette speranza. È per questo nulla che ci ritroviamo adesso in una situazione in cui prima tre diversi tribunali britannici e poi una corte sovranazionale hanno apertamente e spudoratamente calpestato precise norme nazionali e internazionali, negando a un bimbo di pochi mesi il diritto di ricevere le cure necessarie per vivere, ratificando il suo sequestro all’interno dell’ospedale che avrebbe avuto il dovere di curarlo, strappandolo alla potestà dei suoi genitori, sostituiti arbitrariamente da un tutore che ha chiesto in continuazione di far morire Charlie.

Al bambino e alla sua famiglia è stato negato perfino il diritto a un giusto processo: ricordiamo che la Corte Suprema aveva tenuto un’udienza lampo, negando una revisione completa, e ora la Cedu si è fermata a una “prima analisi” del ricorso. La Cedu non ha aspettato nemmeno la scadenza della proroga sul mantenimento delle cure che la Corte Suprema, accettando con riluttanza la temporanea richiesta degli stessi giudici di Strasburgo, aveva fissato alla mezzanotte tra il 10 e l’11 luglio. Come se la vita di Charlie non valesse nemmeno qualche giorno di riflessione in più. Come se ci fosse fretta di eliminare un innocente inerme, amato dai genitori e dalle decine di migliaia di persone che hanno combattuto e pregato per il suo diritto alla vita, contro una giustizia ribaltata e uno Stato che ricordano i regimi totalitari, che decidono chi è degno di vivere e chi no, con la differenza che oggi il linguaggio della propaganda è diventato perfino più subdolo e usa espressioni come “dignità nel morire” e “miglior interesse del bambino”.

Una propaganda contemporanea che sta addormentando le coscienze di troppi, convinti che il potere ci voglia dare la libertà dell’“autodeterminazione”, al punto da non aprire gli occhi nemmeno quando quello stesso potere decreta l’uccisione dei bambini come Charlie, dei nostri figli, dei nostri fratelli. Dei nostri disabili e anziani. È un potere che ragiona ormai solo in termini di numeri, efficienza e “costi”, veicolando una cultura dove per il senso dell’umano non c’è più spazio.

Questa cultura che pretende di spezzare il legame inscindibile tra creatura e Creatore ormai pervade tutto. Basti ricordare che appena cinque anni fa tantissimi si scandalizzarono – giustamente – a sentire le argomentazioni di due bioeticisti italiani, secondo i quali uccidere un bambino dopo la nascita è eticamente accettabile in tutti i casi in cui è consentito l’aborto. Allora pochi notarono che anche quest’ultimo è infanticidio. Oggi siamo arrivati al punto che diversi giornali e cittadini comuni non solo non si scandalizzano, ma addirittura giustificano l’ordine di infanticidio emesso su Charlie.

A monte del cortocircuito della giustizia di cui sopra, va poi ricordato che ci sono i medici che hanno seguito il caso di Charlie e tradito la loro vocazione. Gli ospedali nacquero grazie alla diffusione del cristianesimo, si moltiplicarono nel Medioevo quando venivano chiamati “Case di Dio”, con i cristiani che iniziarono a dedicarsi alla cura di tutti gli ammalati, senza distinzioni, perché nel volto dell’ammalato scorgevano Cristo sofferente. E sentivano risuonare il richiamo potente e amorevole delle Sue parole: “Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”. Se l’Europa non tornerà cristiana, nessun malato sarà più al sicuro. Intanto, noi dobbiamo continuare a pregare con fede salda. Lo dobbiamo a Charlie, ai fratelli più piccoli e a noi stessi. “O Dio, vieni a salvarmi. Signore vieni presto in mio aiuto”.








fonte: La nuova Bussola Quotidiana 




martedì 27 giugno 2017

"Io, una vita per la Vita, soffro per le nomine PAV Si realizza il piano dei nemici di Humanae Vitae"








di Andrea Zambrano (27/06/2017)

Le nomine discutibili e ambigue alla Pontificia Accademia per la Vita indignano gli addetti ai lavori. Come Flora Gualdani, fondatrice della Casa di Betlemme. "La strategia ecclesiale sembra cedere alla pressione per sdoganare contraccezione e fecondazione. Che errore l'estromissione dalla Pav del massimo esperto di metodi naturali. Ma sotto c'è il tentativo di rottamare l'Humanae Vitae, i cui insegnamenti invece sono indispensabili per le cosiddette periferie esistenziali. Oggi Lejeune piangerebbe".


Nei giorni scorsi hanno suscitato molte perplessità le nomine dei nuovi componenti della Pontificia Accademia per la Vita con l'ingresso nel board di ecclesiastici o studiosi di bioetica che sui temi della vita hanno posizioni ambigue o critiche nei confronti del Magistero della Chiesa. Ma come è stato è stato recepito questo spoil system dagli addetti ai lavori. Da coloro i quali con la vita nascente operano da anni come testimoni combattendo la cultura dello scarto che domina la nostra società. Tra questi testimoni dell'epoca moderna vi è Flora Gualdani, fondatrice dell'Opera Casa di Betlemme. La Casa di Betlemme un luogo di preghiera, casa di accoglienza, centro di formazione sul Vangelo della vita: un'opera spirituale, sociale, culturale unica in Italia. Così come lo è la Gualdani, che ha lasciato il suo lavoro di ostetrica per dedicarsi alla sua missione. Insieme ad altre personalità scientifiche e intellettuali prolife è tra i soci fondatori dell’associazione “Vita è” e in questa lunga intervista alla Nuova BQ ha tratteggiato un quadro sufficientemente ampio sulla crisi che sta attraversando la cultura pro life nel mondo cattolico. Ecco un estratto dell'intervista.


Flora Gualdani, ha letto su Facebook? C’è chi la reclama come presidente della Pontificia Accademia per la Vita. Al di là della “provocazione”, significa che nel campo pro life ha trasmesso qualche cosa.
Non sono un accademico però ho molte cose da dire sul piano della pastorale dove ho maturato un’esperienza di oltre mezzo secolo. Casa Betlemme è come un lungo ponte che collega i marciapiedi alle università, ha attraversato le corsie degli ospedali e le sacrestie, portando tra la gente il Vangelo della vita. L’ambulatorio ostetrico è uno speciale “confessionale” più frequentato di quello dei sacerdoti: ho ascoltato la vita concreta di migliaia di donne, ho camminato con loro e lungo i decenni mi sono fatta alcune convinzioni. Per aiutare la Chiesa cattolica ad attuare la dottrina ho consumato la mia vita e tutti i miei beni. Dalla scuola di vita di Casa Betlemme sono passati in molti: vergini e prostitute, analfabeti e professori, vescovi e sbandati, artisti e giornalisti, famiglie ferite e tante coppie di innamorati.


Eppure alla PAV è successo qualche cosa di epocale: un cambio di governance con l’innesto di personaggi ambigui se non perniciosi sul fronte della cultura della vita. E’ sorpresa?
Sì. La strategia ecclesiale dà l’idea di voler alimentare l’opinionismo, che è relativismo: la cosa mi fa soffrire. Il dialogo, da mezzo quale era, mi pare si stia trasformando nel fine di tutto. Molti dei miei maestri erano membri della Pontificia Accademia della vita. Anche la psichiatra Wanda Potawska, monumento vivente della bioetica. Ma la questione di fondo è che tale posizione della Chiesa non corrisponde alla prassi del popolo di Dio. Molti cattolici infatti si rivolgono alla fecondazione in vitro, che sta diventando un fenomeno di massa. Ci sono ricercatori cattolici con i loro ospedali e università che non seguono la linea dettata dalla Congregazione. Così come la stragrande maggioranza dei cattolici fa uso della contraccezione. La dottrina appare dunque come un fastidioso intralcio alla ricerca e al “progresso della civiltà”. C’è pressione perché la Chiesa sdogani contraccezione e fecondazione extracorporea, normalizzando questi comportamenti: sono i due argomenti scottanti su cui molti vorrebbero un insegnamento più gradevole.


Oppure la retorica dei muri da abbattere…
Il mio timore è che qualcuno, con l’idea di abbattere i muri, prenda di mira le fondamenta. Ho la sensazione che si voglia usare il dialogo per mettere in discussione alcuni fondamentali della bioetica cattolica, così come si sta cercando di mettere in discussione altri “assoluti morali” riabilitando l’etica della situazione e dell’intenzione, condannate dall’enciclica Veritatis splendor. In questa resa al mondo, un altro caposaldo a rischio è il concepimento come momento iniziale di ogni esistenza umana con tutta la sua dignità di persona. C’è chi vorrebbe spostare l’inizio in avanti dopo la fecondazione, con le teorie del “preembrione” o del “prezigote”: una manovra utile a giustificare certe posizioni abortiste e sono queste che hanno sollevato lo scandalo sulla PAV.


Lei ha denunciato più volte le infiltrazioni di un pensiero anti creazionista nella Chiesa. Le nomine alla Pav crede che risentano di questo pensiero?
Ci troviamo in un momento decisivo dove la Chiesa cattolica è chiamata a rimanere un baluardo di fronte a questa deriva antropologica. San Giovanni Paolo II tuonava: «Ci alzeremo in piedi…». Voglio sperare che la nuova PAV lo farà. Dal cattoprotestantesimo emerge un atteggiamento del tipo: “credo in Dio ma la morale a modo mio”. Paolo VI ci aveva già avvisato di questo possibile scenario. L’umanità sta accelerando il suo più grave divorzio da Dio. Si sta staccando sempre più drammaticamente dal progetto originario di Dio, dall’ordine della Creazione: da quando ha messo le mani sull’albero della vita, con la tecnologia riproduttiva. Un tempo la vita umana era sacra e intangibile, oggi invece è sacro l’aborto. Il figlio era una benedizione e un dono, oggi è diventato un errore da evitare oppure un diritto a tutti i costi: un amato oggetto di proprietà, tanto desiderato che chiunque potrà pretenderlo per via giudiziaria, nella dittatura del desiderio. Il Golgota si è spostato a Betlemme.


Oggi assistiamo ad un tentativo in ambito delle nuove nomine PAV di modificare il pensiero cattolico circa aborto e contraccezione. Humanae Vitae è ancora una pietra di inciampo?
Il tentativo di cui lei parla si può notare nell’estromissione del prof. Hilgers: un segnale preoccupante che potrebbe rappresentare il tassello di un nuovo assalto contro l’Humanae vitae. Hilgers è un ginecologo tra i maggiori esperti mondiali sulla regolazione naturale delle fertilità, direttore dell’Istituto Scientifico Paolo VI con sede in Nebraska. In un testo del 1982 scrisse che il Metodo Billings «è destinato a restare nella storia della medicina fra le grandi scoperte di questo secolo». La regolazione naturale della fertilità è un’avanguardia della bioetica, anche il mondo femminista si è accorto di quanto sia prezioso questo servizio alla persona. Eppure nell’immaginario collettivo è un argomento che continua ad incontrare pregiudizi o diffidenza, oltre a disturbare sicuramente una potente lobby. Molti la considerano ancora una posizione antiquata del magistero: il «masso erratico» che il teologo Chiavacci vedeva in contraddizione con lo spirito conciliare e con la stessa enciclica di Paolo VI.


Più volte ha denunciato il tentativo di manipolare fin dagli anni ’70 l’enciclica Humanae Vitae.
In realtà quella dell’Humanae vitae è una formidabile provocazione culturale che si colloca perfettamente anche nel campo della “ecologia umana”: una grande questione posta da san Giovanni Paolo II, ripresa da Benedetto XVI ed inserita da Papa Francesco dentro il nuovo statuto della PAV (art. 1 paragrafo 3). Sappiamo che la prevenzione dell’aborto non sta in una maggiore diffusione della contraccezione, ma in una diversa visione della sessualità e della fecondità. I metodi naturali sono l’alternativa autentica alla contraccezione.


Non è un caso che un nuovo membro della PAV faccia parte della commissione di studio che dovrebbe rivedere proprio l’impatto dell’Humanae Vitae sulla società.
Noto tre atteggiamenti ecclesiali nei confronti di questa enciclica. C’è sempre stata la posizione di coloro che vorrebbero rottamarla senza mezzi termini poiché la “mancata recezione” da parte del popolo di Dio ne attesterebbe il fallimento. Dall’altra parte c’è la posizione di coloro che riconoscono la forza profetica di quell’enciclica. Il terzo atteggiamento è l’approccio interpretativo, che ho visto affacciarsi in vista del 50esimo dell’Humanae vitae. Il tentativo di questa terza via non è altro che una rottamazione in modo più raffinato, attraverso una tecnica che definirei “imbalsamazione”: lasciare intatta la dottrina all’esterno, svuotandola da dentro attraverso abili “adattamenti pastorali”. E così l’enciclica di Paolo VI finirà elegantemente nella bacheca, in vetrina. Questo approccio parte dall’obiezione della presunta impraticabilità dell’enciclica. Si insiste nell’affermare che si tratta di un “ideale astratto”, bello ma lontano dalla “vita concreta” delle persone, riservato a poche “coppie speciali”.


Nei suoi interventi ha detto che a Casa Betlemme si applica l’Humanae Vitae quindi è falso dire che è un’enciclica irrealizzabile. Quali aspetti vengono messi in opera dell’Humanae Vitae nella vostra realtà?
Casa Betlemme è la dimostrazione che, se si vuole, anche la dottrina dell’Humanae vitae è capace di diventare prassi tra la gente. Tante giovani coppie si sono affascinate e hanno deciso di spendere la loro vita in questo apostolato laico e moderno. Lo sa bene anche il neo presidente della CEI perché, quando era nostro vescovo, Bassetti ha conosciuto i miei collaboratori e volle lui riconoscere ufficialmente quest’opera come espressione della Chiesa, dopo aver capito l’urgenza di una simile missione. Ma l’enciclica di Paolo VI può funzionare ad ogni latitudine, comprese le periferie esistenziali. Il nostro stile, nell’alfabetizzazione bioetica, è quello di trasmettere una morale incarnata, realizzando una delle più urgenti opere di misericordia spirituale: “istruire gli ignoranti”. Posso attestare che l’Humanae vitae è la via per costruire famiglie solide nell’epoca dell’amore liquido. Ma c’è di più: mi accorgo sempre di più che la teologia del corpo (cioè le 129 catechesi di san Giovanni Paolo II sull’amore umano nel piano divino) è un insegnamento grandioso che fa bene ad ogni persona prima ancora che alle coppie.



E’ vero che la crisi della PAV è iniziata quando è stato eliminato l’obbligo di giuramento da parte dei suoi membri?
Giovanni Paolo II e Jerôme Lejeune sono due santi e s’intendevano bene. Se hanno inserito quella dichiarazione è perché sapevano dove saremmo potuti scivolare lentamente. Vollero porre così il tema della fedeltà alla dottrina. Per l’esattezza, con l’«Attestazione dei Servitori della Vita» gli Accademici sottoscrivevano sette affermazioni ben chiare, iniziando con il riconoscere che «ogni membro della specie umana è una persona». L’art. 6 dello Statuto precisava che si perde la qualità di Accademico in caso di «azione o dichiarazione pubblica e deliberata contraddittoria a questi principi». Anche quello Statuto prevedeva il dialogo senza discriminazioni religiose però insisteva più nella necessità di sintonia con il magistero della Chiesa. Lejeune, richiamandosi alle prime parole del pontificato di Wojtyla, esortava ad obbedire al magistero «senza paura» e di coloro che su queste materie non accettavano il magistero, diceva: «Vedrete che «hanno parole di morte». Appello simile a quello che fece san Giovanni Paolo II nel discorso del 2 marzo 1984 riferendosi a Humanae vitae e Familiaris consortio: «La fedeltà a questi due documenti deve essere spesso pagata ad un prezzo alto: si è spesso derisi, accusati di incomprensione e di durezza, e di altro ancora». Aver tolto dallo Statuto quell’attestazione vincolante ha un significato preciso.


Parlando di giuramento non possiamo non arrivare a Lejeune. Lei lo ha conosciuto. Lo descriva in poche parole.
Era un gigante della fede e della scienza. Ma si vedeva che era anche figlio di artisti. Incantava, sapeva trasmettere concetti complicati in modo semplice e affascinante, per esempio nello spiegare il momento del concepimento. Lo ascoltavo a lezione al Policlinico Gemelli e se sapevo che parlava ad un convegno a Bologna o altrove, prendevo il treno per andare ad ascoltarlo di nuovo.


Che cosa direbbe oggi Lejeune se vedesse la sua “creatura” ridotta così?
Lui è stato il precursore nella battaglia contro la “cultura dello scarto”. Diceva che «quando la natura talvolta condanna, compito della medicina non è eseguire la sentenza ma commutare la pena». Se vedesse che aria tira nell’Accademia, osservando che in Francia non nascono più bambini down (il 96% vengono eliminati prima della nascita grazie alle diagnosi prenatali) e che la Danimarca - insieme ai record di produzione biologica e sostenibile - si è data l’obiettivo sanitario di divenire la prima nazione “down free”, credo che lui piangerebbe.


Lei ha parlato di martirio delle idee e del cuore. E’ arrivato il momento per chi si occupa di tutela della vita di metterlo in conto? Lei stessa ha subito effetti per questo martirio?
Da anni ripeto ai miei collaboratori di prepararsi a questo passaggio. Martirio delle idee significa che, per rimanere fedeli alla verità tutta intera, prima o poi si è chiamati a trovare il coraggio di rinunciare alla carriera e all’indice di gradimento, accettando forme di tribolazione e isolamento in ambito professionale. Lejeune ebbe il coraggio di giocarsi il premio Nobel pur di annunciare la verità, quando prese il microfono davanti all’ONU affermando: «Ecco un’istituzione per la salute che si trasforma in un’istituzione per la morte». Anche il beato Paolo VI, firmando l’Humanae vitae, dovette bere un calice molto amaro poiché non aveva accettato di allinearsi ad un parere della maggioranza. Venne attaccato da tutto il mondo e soprattutto dall’interno della Chiesa cattolica con un’accurata strategia internazionale guidata da teologi e pastori.









http://www.lanuovabq.it/it/articoli-io-una-vita-per-la-vita-soffro-per-le-nomine-pavsi-realizza-il-piano-dei-nemici-di-humanae-vitae-20281.htm








DON MINUTELLA RIMOSSO E SOSPESO A DIVINIS. I FEDELI CHIEDONO SPIEGAZIONI AL VESCOVO: “NON ACCETTEREMO NESSUN NUOVO PARROCO”.





MARCO TOSATTI (27/06/2017)

I parrocchiani di don Alessandro Minutella, il sacerdote palermitano critico – in maniera formalmente eccessiva, e imprudente; ma al cuore non si comanda…- degli aspetti più problematici del regno del Pontefice, non ci stanno. Il Consiglio parrocchiale ha scritto al vescovo Lorefice, che ha rimosso don Minutella proibendogli di celebrare, amministrare i sacramenti, predicare e un po’ di altre cose, esprimendogli tutta la sua contrarietà, e affermando che non accetteranno nessun altro parroco. Hanno chiesto al vescovo di venire a spiegare alla base i motivi del provvedimento. e hanno chiesto a don Minutella di non andarsene. Più in basso troverete l’integrale della lettera.

Secondo alcuni parrocchiani, sentiti privatamente, e a parte le motivazioni ufficiali del provvedimento, “In concreto i motivi sono da attribuire al suo non omologarsi al magistero dell’attuale pontefice. Il problema è l’interpretazione di Amoris Laetitia, che per don Alessandro Maria Minutella non legittima la distribuzione di Gesù Eucaristia ai divorziati che vivono in condizione oggettiva di peccato. Don Minutella non fa altro che riaffermare il magistero di Giovanni Paolo II, il Papa della Famiglia – come lo ha definito Bergoglio – ed essendovi mancata chiarezza da parte dello stesso Francesco sulla questione non avendo risposto ai quattro cardinali – don Minutella si è attenuto alle disposizioni finora chiaramente vigenti in seno alla Chiesa cattolica”.

“E’ una condanna molto dolorosa” ci dice una parrocchiana “che fa trasparire l’esistenza di un vero e proprio regime autoritario di omologazione del pensiero”. Ci sono altri sacerdoti problematici a Palermo (ma in senso “iperprogressista” e gay friendly) e in Italia, che però vengono risparmiati dalla compiacenza degli ecclesiastici, sostengono i fedeli di don Minutella. Mentre invece per il parroco di San Giovanni Bosco sospensioni e anatemi sono stati fulminati rapidamente.

I parrocchiani lamentano poi che a don Minutella sia stata negata “la possibilità di celebrare l’ultima messa pubblicamente insieme ai suoi amati fedeli”. Anche don Leonardo Ricotta, della parrocchia di San Giovanni Bosco, è stato colpito in qualche modo dall’arcivescovo Lorefice, che gli ha ordinato di non tenere più le catechesi del sabato sera su “Radio Domina Nostra”, via facebook, e di astenersi dal tenere conferenze e dichiarazioni di ogni genere. Un’imposizione non facilmente comprensibile, dal momento che don Ricotta ha sempre tenuto un comportamento estremamente prudente.

Ecco la lettera:

A Sua Eccellenza

Corrado Lorefice

Arcivescovo Metropolita di Palermo

A nome di tutti i parrocchiani esprimiamo la nostra vicinanza, il nostro affetto e la nostra solidarietà al Parroco che per diversi anni ci ha amato intensamente, educandoci alla fede, guidandoci spiritualmente e spendendo tutta la sua vita, minuto per minuto, per il bene delle anime di questa Parrocchia.

Il decreto di rimozione dall’ufficio di parroco fatto conoscere a noi oggi ci lascia più che mai smarriti, sbigottiti se non addirittura confusi. Questo è un momento di grande sofferenza per noi come parrocchiani vedere rimuovere forzatamente il nostro amatissimo parroco e padre, don Alessandro Minutella. Senza questo sacerdote alla guida delle nostre anime ci sentiamo veramente smarriti e abbandonati dal nostro vescovo. Siamo come pecore senza il pastore! Lei, Eccellenza, non si è degnato di accogliere il nostro invito a venire nella nostra parrocchia. Ci chiediamo, pertanto, che problemi ha contro di noi – parrocchiani- che cerchiamo di vivere la nostra fede, speranza e carità in Cristo sotto la guida di questo umile, zelante e instancabile pastore delle anime, qual è padre Alessandro?

Questo decreto di rimozione dalla Parrocchia ci risulta privo di fondamenti, in quanto non riscontriamo nessuna cosa di sbagliato o erroneo nell’insegnamento e nel ministero sacerdotale di don Alessandro. Pertanto, questo decreto ci spinge, a ragione, a credere che i motivi siano altri e noi esigiamo che Lei, Sua Eccellenza, debba venire a spiegarci di persona. In spirito di rispetto e obbedienza alla Sua persona, come Vescovo di Palermo, noi sentiamo il bisogno urgente di rivolgerci direttamente a Lei, invitandoLa una volta ancora: che venga personalmente a parlarci come parrocchiani e a spiegarci il motivo per cui rimuove il nostro Parroco, altrimenti consideriamo questa rimozione come problema personale nei confronti di Don Minutella, addirittura motivato dall’antipatia personale o dalle calunnie fatte circolare da parte di alcuni confratelli presbiteri invidiosi e scomodati dal ministero fecondo, solido e consistente del nostro amatissimo parroco, don Alessandro. Questo nostro prete, noi lo riconosciamo come l’unico, coraggioso e disponibile a combattere, difendere, promuovere e propagare la dottrina vera della Chiesa Cattolica in momenti in cui sta dilagando il senso di confusione e di smarrimento nei fedeli.

Eccellenza, rendiamo noto a Lei, in modo inequivocabile, che non accoglieremo volentieri qualsiasi altro parroco senza che Lei venga a darci spiegazioni. Questa richiesta, cioè l’invito a venire nella nostra parrocchia scaturisce dal desiderio unanime dei parrocchiani che si sentono in questo momento in balia di smarrimento e abbandono da parte del Pastore della Diocesi. In tale contesto di visita, sarà Lei, Eccellenza, a rendere noto a noi l’eventuale nomina di un altro parroco alla guida delle nostre anime. Altrimenti, come detto sopra, non accetteremo volentieri che un altro sacerdote venga a prendere possesso della parrocchia. Noi, come comunità cristiana, ci prendiamo pienamente la responsabilità di questa nostra scelta, disobbedendo contestualmente a don Alessandro Minutella che ci ha voluto invitare alla calma. Qui la posta in gioco è il bene delle anime nostre! Non è neanche rispettoso nei nostri confronti – povere anime – vedere umiliare, maltrattare e infliggere di condanna dura un nostro parroco che si è speso senza riserva a servire questa nostra comunità. Le chiediamo, Eccellenza vescovo, di mostrarci un minimo di rispetto e affetto, accogliendo il nostro invito e degnarsi di visitare la nostra parrocchia.

Senza conoscere e ricevere la dimostrazione degli eventuali motivi, noi parrocchiani continueremo a considerare don Alessandro il nostro Pastore. Questo Parroco, il nostro Parroco, è uomo di Dio e si è speso sempre per noi quando tutti ci hanno abbandonati, incluso il Vescovo.

Non permetteremo l’insediamento di un nuovo pastore, perché il nostro c’è legittimamente e fedele al Magistero bimillenario della Chiesa Cattolica Apostolica Romana. Solamente accettando quanto Le chiediamo, dimostrerà il Suo rispetto e la Sua attenzione nei confronti della nostra Parrocchia.

Contestualmente ci rivolgiamo a lei, don Alessandro, a meno che lei non voglia abbandonarci come il Vescovo, e le chiediamo di non lasciarci soli, smarriti in questo momento, fino a quando il Vescovo non giustificherà il Suo provvedimento di rimozione e di condanna verso la sua persona sacerdotale, che noi parrocchiani – possiamo testimoniare – non abbiamo mai visto trattare da “figlio”. In questi anni abbiamo riconosciuto in lei, don Alessandro un pastore, un Padre, che ci ama e ci ha guidato con tutto il cuore. Se lei ci lascia ora, noi siamo abbandonati e smarriti del tutto. Non ci lasci! Resti qui finché il Vescovo spiegherà a noi i motivi. E a Lei, Sua Eccellenza, ricordiamo le Sue rassicurazioni rivolte a un membro del Consiglio Pastorale che le chiedeva se don Alessandro fosse stato eretico o disobbediente. Ebbene, Lei ha risposto di no. E di fronte all’obbedienza del nostro Parroco, vorrà Lei condannarlo nuovamente e strapparlo ai suoi parrocchiani?

Restiamo sgomenti di fronte alla Sua decisione, e ci siamo subito chiesti quale sia il grave errore compiuto dal nostro Parroco per essere dall’oggi al domani rimosso dalla Parrocchia. Ci è stato risposto che il Vescovo ha scritto nel decreto che don Alessandro fa affermazioni gravi nei confronti del Romano Pontefice con un sostanziale rifiuto della dottrina e del Magistero da Lui proposti. Le chiediamo, Monsignor Corrado, quale Magistero? Perché, se ci si riferisce – come pensiamo contestualmente – alla questione della Comunione ai divorziati risposati, proprio visto che il Vescovo Corrado Lorefice insieme a quelli di Sicilia è il primo in Italia che darà la Comunione ai divorziati risposati, sappiamo che, non solo il Papa non si è ancora del tutto apertamente espresso, ma che ci sono eminenti Cardinali sparsi nel mondo, come addirittura intere Conferenze Episcopali – come quella polacca – che hanno detto che non si potrà mai dare la Comunione ai divorziati risposati. Rammentiamo anche le esternazioni del Cardinale Muller, Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, che ha confermato il Magistero inserito in Familiaris Consortio. E’ suo grave dovere venire a spiegarci se il Magistero precedente a Francesco debba considerarsi smentito.

Inoltre, se il problema è quello relativo all’interpretazione di Amoris Laetitia, prima di essere di don Alessandro, il problema è nostro come fedeli, più che mai oggi confusi e smarriti dalla presa di posizione di questo nuovo Magistero della Chiesa universale e di una grande porzione di Chiesa che, sebbene etichettata come farisei dal cuore duro e ipocriti fondamentalisti cattolici, ha tutto il diritto di avere risposte, non condanne.

La confusione suscitata dall’Esortazione Postsinodale “Amoris Laetitia” è stata sollevata da diverse autorità ecclesiastiche nel mondo, anche illustri cardinali della Chiesa Cattolica, ed è sotto gli occhi di tutto il mondo. Forse l’errore del nostro amato parroco è di essere un povero Cristo che dice la verità, senza i vergognosi compromessi di larga parte della gerarchia..

Perché, allora, prendere di mira questo semplice e umile sacerdote che cerca semplicemente di guidare le sue pecore sulla via della verità e della dottrina sana del Magistero perenne della Chiesa? Il suo decreto di rimozione, oltre che aumentare il nostro dolore, ci lascia veramente del tutto smarriti e umiliati. E che non si tratti di una questione personale che riguardi la moralità o la dottrina o ancora la fedele gestione pastorale della Parrocchia da parte di don Alessandro lo dimostra l’impatto immediatamente mediatico della questione. L’intera Italia segue ora con attenzione la questione. In realtà non è in gioco semplicemente il futuro di don Alessandro o della Parrocchia, ma della stessa Chiesa Cattolica.

Lei, si degni di accogliere il nostro invito se veramente a Lei sta a cuore il bene delle nostre anime. Per ora, noi teniamo qui il nostro Parroco, don Alessandro Minutella che continui a guidarci, ammaestrarci e santificarci come sempre. Egli è fatto per essere chiaramente un simbolo profetico di ciò che comporta oggi difendere il Magistero della famiglia secondo il Vangelo.

Noi andiamo avanti con Maria e Gesù

Palermo, 26 giugno 2017 Il Consiglio Pastorale, a nome dei parrocchiani









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domenica 25 giugno 2017

La povertà più grande è non conoscere Cristo







di Stefano Fontana (25/06/2017)

Papa Francesco ha indetto la prima Giornata mondiale dei Poveri, che si terrà il prossimo 17 novembre e per la quale ha già reso pubblico un Messaggio nel quale dice che i poveri bisogna amarli nel concreto. Nella recente sua visita a Bozzolo e a Barbiana, in ricordo di don Primo Mazzolari e di don Lorenzo Milani, egli ha detto che questi due parroci hanno fatto parlare i poveri. Il nuovo Presidente dei Vescovi italiani, il cardinale Gualtiero Bassetti, vescovo di Perugia, all’indomani della nomina a capo della CEI ha rilasciato una lunga intervista ad Avvenire dicendo: «La povertà è la mia maestra di vita». I giornali non ne parlano, ma il Papa sta facendo molta carità personale in giro per il mondo, proprio in aiuto ai poveri.

Questa presa di posizione della Chiesa di oggi per i poveri va però intesa nel modo giusto, senza concessioni al sociologismo e cercando di assumere una visione evangelica e non sociologica o, meno che meno, ideologica e politica. Benedetto XVI, nel suo Gesù di Nazaret, parlando della beatitudine relativa ai poveri (“Beati in poveri in spirito…”) aveva sottolineato che in quel passo del Vangelo non si parlava della povertà in senso sociologico. In altre parole, chi sta sotto una certa soglia di reddito non automaticamente è più vicino a Dio di uno che sta al di sopra di quella soglia, sebbene si possa dire che Dio ha una vicinanza particolare a chi è nel bisogno. Anche il povero può avere il cuore indurito. Essere poveri non vuol dire essere automaticamente buoni. Essere ricchi non vuol dire essere automaticamente cattivi. Ci sono i poveri che sfruttano i poveri. Ci sono i ricchi che li aiutano.

Bisogna allora che il concetto di povertà sia allargato e fatto respirare. Certo, ci sono i bisogni urgenti che, anche se non sono i più importanti, vanno affrontati e soddisfatti per primi. Nell’uomo non ci sono mai bisogni solo materiali, i bisogni materiali non sono tutto e quindi non bisogna fermarsi lì. La povertà è materiale ma anche morale, intellettuale, spirituale e religiosa. Altrimenti tutti nella Chiesa dovremmo fare solo i volontari per le strade e le piazze del disagio materiale.

Possiamo addirittura dire che la povertà materiale è la conseguenza delle altre povertà elencate qui sopra e non viceversa. La causa dell’ingiustizia non è la povertà, ma il contrario. La causa dell’ignoranza non è la povertà ma il contrario. La causa dell’immoralità non è la povertà ma il contrario. La causa dell’abbandono di Dio non è la povertà ma il contrario. All’origine di ogni male, anche quello della povertà, c’è il male del peccato, che è portatore poi di infinite povertà sociali e materiali.

La prima e più radicale povertà consiste nel non conoscere Gesù Cristo. Alienato, diceva Giovanni Paolo II nella Centesimus annus, è l’uomo che non conosce Dio. Sostenere che la povertà materiale è la causa principale delle altre povertà vuol dire essere materialisti, anche se per vocazione sociale.

Difendere la verità, illuminare le menti, educare i giovani al bene, annunciare Cristo … significa aiutare i poveri. La Chiesa non aiuta i poveri solo con la Caritas, ma anche e soprattutto sull’altare e nel confessionale. Niente aiuta di più i poveri dei Sacramenti. L’annuncio del Vangelo è la principale forza di lotta alla povertà. Mettere i poveri al centro non vuol dire che ogni cattolico smetta di fare quanto sta facendo come cattolico. I preti non devono smettere di fare catechesi e di confessare, i religiosi non devono smettere di pregare o di dedicarsi alle attività proprie del loro ordine, le suore di clausura non devono aprire mense per i poveri e smettere la clausura. Ci sarà anche chi farà questo, perché è una cosa urgente e importante, ma l’aiuto della Chiesa ai poveri è più ampio. I riflettori sono puntati soprattutto sui cosiddetti “preti di strada”, ma la Chiesa aiuta i poveri principalmente nella sua azione ordinaria che non va sotto i riflettori e i preti di strada corrono spesso il rischio del sociologismo, quando non sono sufficientemente radicati nell’altra dimensione della lotta alla povertà.

Aiutare i poveri significa anche impegnarsi per le leggi e le politiche e non solo con interventi di sostegno e assistenza. C’è oggi un “interventismo” nella Chiesa che dimentica l’impegno ordinario e a lungo termine per la costruzione di una società secondo il progetto di Dio a vantaggio di attivismi immediati e contingenti. La prima povertà delle famiglie non è quella economica ma la divisione del divorzio provocata anche da leggi e politiche sbagliate. Poveri sono i bambini dati in adozione a coppie omosessuali. I primi poveri sono i bambini che vengono uccisi prima di nascere in modo legale e nell’indifferenza di tutti. I nuovi poveri sono anche i ragazzi ai quali la scuola non insegna il bene ma l’esaudimento dei desideri. La povertà evangelica è aperta a tutti i poveri. Il resto è ideologia.









fonte: La nuova Bussola Quotidiana 




sabato 24 giugno 2017

Müller detta le condizioni per la comunione







di Marco Tosatti (24/06/2017)

Il Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, il card Gerhard Müller, ha risposto in un’intervista via mail ad alcune domande rivoltegli da Edward Pentin, del National Catholic Register. Uno scambio di battute legato all’uscita dell’ultimo libro del porporato tedesco, “Informe sobre la esperanza. Dialogo con el cardenal Gerhard Müller”.

Edward Pentin, del National Catholic Register, ha rivolto alcune domande via e-mail al cardinale Gerhard Müller, Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede. L’occasione era fornita dall’uscita del libro del porporato, “Informe sobre la esperanza. Dialogo con el cardenal Gerhard Müller”. Fra l’altro, è stato toccato un argomento molto attuale e delicato; e cioè la necessità invocata da qualcuno per la Chiesa di cambiare con i tempi. L’intervistatore ha chiesto “quanto questo è un pericolo attuale per la Chiesa”.

Ecco la risposta di Müller: «La Chiesa deve essere presente in ogni periodo di tempo in cui si trova. Gesù è sempe con noi, quindi ogni epoca è di fronte a Dio, che è nostro Padre, a Gesù Cristo, che è nostro fratello, e al nostro amico Spirito Santo. Comunque dobbiamo distinguere le caratteristiche delle diverse epoche. A cominciare con i Padri della Chiesa, che rifiutarono le conseguenze negative della mitologia romana e greca, ma, allo stesso tempo, accettarono tutto ciò che è buono e vero nella filosofia di Platone e Aristotele e nella filosofia morale degli Stoici. Per esempio siamo contro l’ideologia gender perché abbiamo una migliore comprensione di ciò che è il genere. Uomo e donna sono egualmente persone, ma sono diverse per ciò che riguarda il loro genere. Questa realtà rende possibili le relazioni fra persone, e rende possibile l’amore del marito per la moglie, e la conseguente responsabilità nell’allevare i figli. La famiglia dà una testimonianza profetica alla società di come i figli non sono un ostacolo all’auto-realizzazione. Al contrario, i figli sono un segno per il mondo dell’amore che Dio ha posto nei nostri cuori, lo stesso amore che sostiene tutta la creazione».

Naturalmente si è toccato anche un tema di grande attualità e dibattito, cioè l’Amoris Laetitia. Pentin ha chiesto: «Parti dell’Amoris Laetitia sono criticate perché sembrano costruite troppo per giungere a compromessi con il Vangelo, cercando di seguire troppo il tempo in cui viviamo. Questo documento, e in particolare il Capitolo 8, la preoccupa?».

«L’ho detto molte volte, e lo ripeto di nuovo qui - ha detto Müller - Il Matrimonio è istituito da Dio creatore ed è elevato come un Sacramento da Gesù Cristo. Con il suo mistero di salvezza, ciò significa che il matrimonio fra cristiani è un segno e uno strumento di più profonda unità con Gesù Cristo e della sua relazione sponsale con la Chiesa come sua sposa. Gesù ha istituito in modo chiaro, e senza dubbio, l’indissolubilità del matrimonio valido. Questo è ciò che dobbiamo predicare, dichiarare, e spiegare ai fedeli cattolici. Riconoscere l’indissolubilità del matrimonio è una responsabilità per tutti i cattolici. Il matrimonio ha parte nella nuova creazione portata da Gesù Cristo ed è una scelta alta, nobile e matura per il cristiano. Dovremmo aiutare le persone che si trovano in una situazione di difficoltà matrimoniale, ma non solo con riflessioni pragmatiche secondo lo spirito del mondo, ma secondo lo Spirito Santo, con i mezzi dei sacramenti e le condizioni interne e canoniche per la ricezione della Santa comunione, il che necessariamente include la confessione di tutti i peccati gravi. La contrizione, la confessione, e la riparazione sono i tre elementi necessari per l’assoluzione. Queste sono le condizioni immediate per ricevere la Santa Eucaristia, Gesù Cristo, che è la stessa Persona Divina che perdona».

Un’ultima domanda riguarda il ruolo della Congregazione per la Dottrina della Fede, che una volta veniva chiamata “La Suprema”; e cioè era l’ente più importante nella collaborazione al Papa. Paolo VI invece attribuì questo ruolo alla Segreteria di Stato. «Pensa che la Congregazione per la Dottrina della Fede dovrebbe tornare ad essere “la Suprema”, il dicastero più importante?», ha chiesto Pentin.

«Specialmente se guardiamo il lavoro del cardinale Ratzinger - è la risposta - come Prefetto di questa Congregazione, la Dottrina della Fede è lo strumento più importante per il magistero del Papa perché Gesù Cristo ha istituito Pietro e i suoi successori come fonte principale e fondamento dell’unità di tutta la Chiesa. La confessione di San Pietro, ‘Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente’ è al centro della nostra fede cattolica. La Pace e la giustizia sociale nel mondo non sono l’essenza della missione, ma solo la sua conseguenza positiva. Noi crediamo nella fede cattolica più che nella diplomazia e nella politica».











fonte: La nuova Bussola Quotidiana 







venerdì 23 giugno 2017

Un attacco alla libertà religiosa E la Chiesa tace







di Riccardo Cascioli (23/06/2017)

A leggere i dialoghi ci sarebbe da ridere se non fosse tragico. Il processo imbastito dall’Ordine dei Giornalisti nei confronti di padre Livio Fanzaga su denuncia della senatrice Monica Cirinnà (di cui diamo conto nell’articolo di Ermes Dovico) ci riporta ai fasti dell’Unione Sovietica e della Cina maoista. Novelli inquisitori che giudicano errata l’esegesi cattolica di un brano dell’Apocalisse e pronunciano la sentenza di condanna. Da non credere. E da non sottovalutare. Anzi, è un segnale più che inquietante, che si unisce a tanti altri che stanno accadendo in questo periodo e che preparano tempi molto difficili.

Ormai la Gaystapo colpisce sistematicamente chiunque esprima un pensiero non in linea con l’ideologia omosessualista. Ma nel caso di padre Livio si è andati ben oltre, si colpisce direttamente la libertà religiosa: da oggi citare la Bibbia o ricordare a qualcuno che dovrà comparire davanti al tribunale di Dio, seppure il più tardi possibile, può costare caro. Non siamo ancora a ciò che dovette subire Giovanni Battista ma ci stiamo incamminando rapidamente su quella strada.

C’è però un dato che colpisce in questa vicenda, ovvero il profilo basso, anzi bassissimo tenuto da padre Livio. Non fosse stato per un’inchiesta di Libero – peraltro arrivata a sanzione già scontata - non ne avremmo saputo nulla.

È interessante chiedersi perché: in fondo non è solo una questione personale, una condanna del genere riguarda tutti, l’allarme va lanciato. E padre Livio non è mai stato tipo da tirarsi indietro. Perché allora questo silenzio? Azzardo un’ipotesi: Radio Maria da tempo subisce forti pressioni, dentro e fuori la Chiesa, probabilmente padre Livio sta cercando di guidare la barca a luci spente per non farsi colpire e affondare, sperando così di restare al timone fino a tempi migliori. Non è garantito.

A dare fastidio non è neanche l’emittente ma la sua azionista di maggioranza: la Madonna. Ho già avuto modo di scriverlo quando un altro trappolone gay scatenò nel novembre scorso il can can contro padre Giovanni Cavalcoli: «Radio Maria richiama non solo le apparizioni di Medjugorje, ma tutti i segni che Maria lascia nel mondo, rilancia gli appelli alla conversione, al digiuno e alla preghiera. Per quanto i toni si siano molto ammorbiditi in ossequio al nuovo corso, la radio sta lì sempre a ricordarci che Satana è scatenato, che perciò il mondo non è così amico di Cristo come lo si vuol dipingere in tanti circoli ecclesiali; ci ricorda che il nostro primo compito è cercare, mendicare la salvezza, non aggiustare ciò che nel mondo non funziona. È questo che dà veramente fastidio, così come dà fastidio il moltiplicarsi delle apparizioni della Madonna e soprattutto i messaggi: il mondo in pericolo, l’attacco sferrato contro la famiglia e la vita, l’apostasia nella Chiesa. E perciò l’appello a pregare, a convertirsi».

Il problema è che non è solo il mondo a non voler sentire, il che sarebbe anche nell’ordine delle cose. È nella Chiesa che non si vuol più sentir parlare di preghiera, conversione, penitenza, peccato, giudizio. Si ricorderà che nel caso Cavalcoli gli attacchi più velenosi contro Radio Maria vennero dal solito Alberto Melloni e addirittura dal numero 2 della Segreteria di Stato, monsignor Angelo Becciu. Un segnale chiaro.

E questa volta, davanti alla gravità per tutti i cattolici della sanzione comminata dall’Ordine dei Giornalisti, c’è stato il silenzio assoluto. Non una voce si è levata da Roma – né dalla CEI né dalla Santa Sede - a difesa della libertà religiosa. Non una presa di posizione che allertasse sul pericolo di certe sentenze che colpiscono la libertà personale. È un segnale eloquente. Da ora, chi vuole insistere nel difendere la Verità sull’uomo; chi pensa che famiglia, vita ed educazione siano davvero i princìpi fondamentali su cui costruire la società e che quindi vadano difesi fino in fondo; chi persiste nel seguire ciò che ha imparato nel Catechismo, sa che nel momento della prova sarà abbandonato – se non colpito – dai pastori che pure dovrebbero difendere il proprio gregge.





fonte: La nuova Bussola Quotidiana 






Caso padre Livio: l'Ordine dei Giornalisti processa la Bibbia






di Ermes Dovico (23/06/2017)

«È stato interessante ascoltare l’intervento introduttivo di Monica Cirinnà. Questa qui, mi sembra un po’ la donna del capitolo diciassettesimo dell’Apocalisse, la Babilonia insomma, che adesso brinda con prosecco alla vittoria (ride). Signora, arriverà anche il funerale, stia tranquilla. Glielo auguro il più lontano possibile, ma arriverà anche quello».

È il 3 febbraio 2016, il giorno prima al Senato è iniziato l’esame del disegno di legge sulle unioni civili e padre Livio Fanzaga, nel suo tradizionale commento alla stampa, ricorda alla relatrice Monica Cirinnà una verità ovvia: presto o tardi morirà. Il direttore di Radio Maria sa pure che la Cirinnà si dichiara cattolica e la similitudine biblica con la Babilonia di Apocalisse 17 serve a ricordarle che quel ddl contraddice gravemente l’ordine divino della Creazione e un giorno, come tutti, dovrà rendere conto a Dio della sua condotta in terra.

Essendo la salvezza delle anime la missione della Chiesa, fondata a tale scopo da Cristo, si comprende perché la tradizione cattolica includa l’ammonimento dei peccatori tra le opere di misericordia spirituale, sulla base di un consolidato insegnamento biblico che attraversa tanto l’Antico (Ez 33, 7-9) quanto il Nuovo Testamento, di cui citiamo su tutti la lettera di Giacomo. “Chi riconduce un peccatore dalla sua via di errore, salverà la sua anima dalla morte e coprirà una moltitudine di peccati” (Gc 5, 20; vedi anche Mt 18, 15-17; Gal 6, 1).

Verità magari politicamente scorrette per i tempi che corrono, ma salvifiche, di cui tutti possiamo avere bisogno nell’errore. Sta di fatto che l’ammonimento cristiano di padre Livio, pronunciato con la sua spontanea ironia, non ottiene l’effetto sperato. Il giorno dopo, la senatrice del Pd presenta un esposto all’Ordine dei giornalisti della Lombardia, che a strettissimo giro – il 10 febbraio – comunica a padre Livio, iscritto all’albo dei pubblicisti, l’apertura di un procedimento disciplinare per verificare “se vi sia stata violazione delle norme deontologiche che presiedono la professione e in particolare dell’articolo 2, comma 1, della stessa legge [la legge professionale 69/1963, ndr], per aver tenuto un comportamento lesivo della professione nell’inosservanza delle norme di legge dettate a tutela della personalità altrui; dell’articolo 9 del codice deontologico […] laddove nell’esercitare il diritto-dovere di cronaca il giornalista è tenuto a rispettare il diritto della persona alla non discriminazione per razza, religione, opinioni politiche, sesso, condizioni personali, fisiche o mentali”.

Come ha ricostruito per primo Libero e come si può vedere direttamente dai documenti sul sito dell’Ordine, il consiglio di disciplina territoriale ha condannato padre Livio a sei mesi di sospensione l’8 giugno 2016, nonostante nella sua memoria difensiva il sacerdote avesse allegato due interviste all’Adnkronos e all’Huffington Post, in cui spiegava benissimo il perché delle sue parole e il riferimento a Babilonia. “Chi legge i miei scritti - è riportato nell’intervista all’agenzia - sa che io chiamo Babilonia il mondo senza Dio, descritto dal romanzo di Benson «Il padrone del mondo». Intendevo dire che la proposta di legge della senatrice contribuisce a costruire questo tipo di mondo, dove l’uomo si mette al posto di Dio”.

Incredibilmente, ai primi giudici dell’Ordine la corretta esegesi di padre Livio non va bene. Nella delibera di giugno, allegano così l’intero capitolo 17 dell’Apocalisse e scrivono che a loro avviso “le spiegazioni fornite dal Fanzaga sono prive di qualsiasi fondamento”. Prive di fondamento? Poco più sotto compare la loro personale interpretazione, secondo cui “non può negarsi che le frasi pronunciate dal Fanzaga costituiscano un grave attacco alla persona della Cirinnà, che viene definita come una prostituta”. Sbalorditivo. In Apocalisse 17 compare sì più volte il termine prostituta, ma il significato allegorico del testo è evidente e, come in vari altri passi della Bibbia, il termine “prostituzione” indica l’idolatria, che in sostanza è il rifiuto di Dio.

A quel punto, il sacerdote fa ricorso e si affida a un avvocato, ma il consiglio di disciplina nazionale ribadisce la condanna il 15 dicembre 2016. Sanzione, la seconda più grave nell’ambito dell’Odg, che il direttore di Radio Maria ha già scontato, come ci ha confermato al telefono, cambiando il taglio della sua trasmissione mattutina.

I sei mesi di sospensione sono passati, ma rimane la gravità di un procedimento che ha del tragicomico, perché attacca la libertà d’espressione (che viene sempre più limitata quando in qualche modo si dissente rispetto alla propaganda dell’associazionismo Lgbt) e, in particolare, la libertà di un cattolico di professare pubblicamente la propria fede. Per pararsi dall’accusa di attentare alla libertà di espressione, nella prima delibera si fa una distinzione da azzeccagarbugli tra il sacerdote e il giornalista, affermando che “non è qui in gioco la figura morale del sacerdote”, ma il suo comportamento da giornalista. Il che è una contraddizione bella e buona: se non era in gioco la sua figura da sacerdote, com’è possibile che dei giudici-giornalisti arrivino a scrivere nero su bianco che la sua esegesi, fondata sull’insegnamento della Chiesa, è “priva di qualsiasi fondamento”?

In primo grado il consiglio di disciplina è arrivato perfino ad affermare che padre Livio “si augura, seppure in un futuro non troppo vicino, la morte” della Cirinnà. Ora, qui siamo alla falsificazione dell’italiano, sostenuta anche da alcuni quotidiani di area laicista che si sono stracciati le vesti: ricordare a una persona che morirà, in ragione dell’ammonimento cristiano di cui sopra, e “augurarle” un funerale il più tardi possibile (si rileggano le parole), è cosa ben diversa dall’augurare la morte, nel senso che lascia intendere la delibera di giugno 2016. La quale, infatti, chiosa: “Dunque la critica espressa dal Fanzaga supera ampiamente i limiti della continenza espressiva e della pertinenza consentiti dalle norme di deontologia professionale”.

La condanna in primo grado di padre Livio si basa perciò su: 1) un’interpretazione erronea della Bibbia da parte del consiglio di disciplina, che non corrisponde a quella della Chiesa, unica interprete autentica delle Scritture per volontà di Dio; 2) una distorsione dell’italiano.

Una giustizia sommaria per delle parole legittime, mentre diversi giornalisti di casa nostra continuano tranquillamente a offendere la Chiesa e i fedeli.

A nulla è poi valsa in secondo grado la documentazione di esegesi biblica allegata dal direttore di Radio Maria, laddove si spiega che “alla luce di una comprensione non scolastica dei testi biblici e della tradizione cristiana, così come di una ricerca coscienziosa, la Babilonia dell’Apocalisse non è semplicemente una prostituta e non è neppure una donna”.

La Nuova BQ ha chiesto a padre Livio un parere sull’intera vicenda. Padre Livio, intanto può dirci come mai la notizia della sospensione è emersa solo ora?
Libero sta facendo una battaglia per difendere la libertà di stampa, dopo la sanzione a Filippo Facci, e ha visto che anch’io ero stato sanzionato.

In primo grado si è limitato a presentare una memoria difensiva, mentre in secondo grado è andato personalmente al consiglio di disciplina a Roma. Com’è andata la discussione?
A Roma la riunione è durata circa un’ora, un’ora e mezza, ma purtroppo alla fin fine la discussione è stata di carattere ideologico. La cosa assurda è che io ho dovuto dimostrare, testi biblici alla mano, che la parola “prostituta” nel capitolo 17 dell’Apocalisse vuol dire “idolatra”.

Certo, come in altri passi della Bibbia.
Esatto. E poi io ho fatto presente di aver scritto vari libri in cui spiego che in quel capitolo il termine prostituta significa idolatra. Quindi, io ho dato dell’idolatra alla Cirinnà. Però l’Ordine mi ha condannato lo stesso, anche perché il procuratore della Repubblica della Corte d’appello di Milano aveva dato come consiglio di ribadire la condanna. E il consiglio di disciplina ha detto che magari alcuni ascoltatori di Radio Maria non conoscevano questa interpretazione e che hanno potuto interpretare le mie parole come un’offesa alla Cirinnà. A mio parere, quello che risulta abbastanza pericoloso in questa vicenda è che mi sono trovato a discutere con delle persone laiche su testi sacri. Cioè, queste cose non sono assolutamente di competenza dei tribunali.

Ed è singolare che l’Ordine dei giornalisti si faccia interprete della Bibbia.
Eh, sì, esatto. Infatti, anche alcuni di loro a Roma hanno detto che si trattava di una materia teologica, ma purtroppo alla fine ha prevalso la linea della condanna.

In concreto che cosa ha significato per te e il tuo lavoro la condanna dell’Ordine?
Per sei mesi non ho svolto attività giornalistiche, infatti ho dovuto cambiare radicalmente quello che prima era il mio commento alla stampa. Ho cambiato il nome della trasmissione, chiamandola “Lettura cristiana della cronaca e della storia”, e le ho dato un’impostazione più teologica, incentrandola sulla teologia della storia. Ho lasciato fuori la politica italiana e mi sono occupato di temi internazionali, della pace, della Chiesa ed è venuto fuori un programma che il nostro pubblico ha apprezzato ancora di più. E così, quando è scaduta la sanzione, ho continuato con questo programma che dà più spazio al messaggio di Medjugorje e alla battaglia escatologica. La sanzione riguardava l’attività giornalistica e la mia unica attività giornalistica era il commento alla stampa, che in quei sei mesi non ho più fatto. E le funzioni di direttore responsabile sono state svolte dalla caporedattrice, mentre io ho continuato a fare il direttore spirituale.













fonte: La nuova Bussola Quotidiana 










giovedì 22 giugno 2017

BUX: CRISI, DIVISIONI, APOSTASIA. É NECESSARIA UNA PROFESSIONE DI FEDE DEL PAPA. COME PAOLO VI.





MARCO TOSATTI

Il National Catholic Register pubblica un’interessante intervista di Eward Pentin a don Nicola Bux, un noto teologo italiano, scrittore (l’ultima sua opera è “Con i sacramenti non si scherza”) docente di teologia e consultore alla Congregazione per le cause dei Santi e per la Dottrina della Fede.

In essa si afferma che per risolvere la crisi in corso nella Chiesa relativa all’insegnamento e all’autorità del papa, il modo migliore sarebbe una dichiarazione di fede del Pontefice per correggere le sue parole e gesti “ambigui ed erronei” che sono stati interpretati in maniera non cattolica. Secondo Bux la Chiesa è “in una piena crisi di fede”, e le tempeste che la attraversano sono causate dall’apostasia, “l’abbandono della fede cattolica”.

Solo pochi giorni orsono è stata resa pubblica la lettera in cui il cardinale Caffarra, a nome anche di altri tre porporati, chiedeva (il 25 aprile) udienza al Pontefice per parlare dell’esortazione apostolica Amoris Laetitia e delle sue interpretazioni opposte. La lettera non ha mai ricevuto risposta. Mons. Bux commenta che “Per molti cattolici è incredibile che il Papa chieda ai vescovi di dialogare con chi la pensa in maniera differente (per esempio i cristiani non cattolici) ma non voglia lui per primo affrontare i cardinali che sono i suoi consiglieri principali”. “Se il Papa non difende la dottrina non può imporre la disciplina”.

Traduciamo qui un brano molto pregnante dell’intervista.

“Il punto è: quale idea ha il papa del ministero Petrino, così come è descritto in Lumen Gentium 18 e codificato dalla legge canonica? Di fronte alla confusione e all’apostasia, il Papa dovrebbe fare una distinzione – come Benedetto XVI fece – fra ciò che pensa e dice come studioso privato e quello che deve dire come Papa della Chiesa cattolica. Per essere chiari: il Papa può esprimere le sue idee come uno studioso privato su argomenti di discussione che non sono definiti dalla Chiesa, ma non può fare affermazioni eretiche, nemmeno privatamente. Altrimenti ciò sarebbe egualmente eretico:

Credo che il papa sappia che ogni credente – chi conosce le regole della fede o il dogma, che fornisce a ciascuno il criterio per sapere quella che è la fede della Chiesa, quello che ciascuno deve credere e ciò che ciascuno deve ascoltare – può vedere se sta parlando e agendo in un modo cattolico, o è andato contro il sensus fidei della Chiesa. Anche un solo credente può chiedergliene conto. Così chiunque pensi che presentare dubbi (Dubia) al papa non sia un segno di obbedienza, non ha capito, 50 anni dopo il Vaticano II, la relazione fra il papa e l’intera Chiesa. Obbedienza al Papa dipende solamente dal fatto che lui è legato dalla dottrina cattolica, alla fee che deve continuamente professare davanti alla Chiesa.

Siamo in una piena crisi di fede! Quindi, per fermare le divisioni in corso, il Papa, come Paolo VI nel 1967, di fronte a teorie erronne che circolavano poco dopo la conclusione del Concilio, dovrebbe fare una dichiarazione o professione di fede, affermando ciò che è cattolico e correggere quelle parole e quei gesti ambigui ed erronei – i suoi e quelli dei vescovi – che sono interpretati in maniera non cattolica.

Altrimenti sarebbe grottesco che mentre si cerca l’unità con i cristiani non cattolici e persino intese con i non cristiani, l’apostasia e la divisione siano alimentate all’interno della Chiesa cattolica. “Per molti cattolici è incredibile che il Papa chieda ai vescovi di dialogare con chi la pensa in maniera differente (per esempio i cristiani non cattolici) ma non voglia lui per primo affrontare i cardinali che sono i suoi consiglieri principali. Se il Papa non difende la dottrina non può imporre la disciplina. Come disse Giovanni Paolo II, anche il Papa ha sempre bisogno di conversione, per essere in gradi di rafforzare i suoi fratelli, secondo le parole di Cristo: ‘Et tu autem conversus, confirma fratres tuos’”.

Potete leggere l’intervista in inglese QUI.











http://www.marcotosatti.com/2017/06/22/bux-crisi-divisioni-apostasia-e-necessaria-una-professione-di-fede-del-papa-come-paolo-vi/





«Era obbligo della Regione far morire Eluana»: siamo tutti colpevoli in quel risarcimento a Englaro





di Andrea Zambrano (22/06/2017)

Englaro vince la causa contro la Regione Lombardia, condannata a pagare un risarcimento per non aver ottemperato alla sentenza che, stabilendo il distacco del sondino a Eluana, autorizzò la sua morte. Al padre andranno 133 mila euro per danni morali e per "la lesione alla dignità umana" con i sit in sotto la clinica perché per i giudici il danno più grave non è stata la sua morte, ma "la violazione della sua auto determinazione". In quel risarcimento ci sono allora anche i danni arrecati con le preghiere e le veglie dell'Italia che si oppose e si oppone ancor oggi alla cultura della morte.


Con la sentenza del Consiglio di Stato che obbliga la Regione Lombardia a pagare un risarcimento danni a Beppino Englaro, la triste vicenda di Eluana può dirsi conclusa. Un risarcimento esemplare, quantificato in 133mila euro per non aver ottemperato alla sentenza della Corte d’Appello di Milano che consentiva “lo spegnimento dei macchinari” che tenevano in vita la donna gravemente disabile ospitata per 17 anni dalle suore Misericordine di Lecco. Poco importa che Eluana fosse tenuta in vita soltanto da alimentazione e idratazione e che non ci fosse nessun macchinario a consentirle di vivere.

Il punto era proprio quello: interrompere la somministrazione dei sostegni vitali attraverso il sondino naso-gastrico. Ma per farlo bisognava trovare una clinica che ottemperasse all’ordine della magistratura, impartito nel 2009 sotto il fuoco incrociato di una polemica che aveva dilaniato in due il Paese tra favorevoli e contrari. Il presidente della Regione Lombardia di allora, Roberto Formigoni si rifiutò di prestare cliniche e ospedali lombardi per far morire Eluana.

Così il padre dovette rivolgersi alla clinica La Quiete di Udine dove il 9 febbraio cessò di vivere. Secondo Beppino, quell’estenuante braccio di ferro tra la Regione e il padre aveva provocato un danno alla figlia e a lui e alla moglie. Ragion per cui aveva intentato la strada del risarcimento in sede civile, vinto in prima istanza al Tar della Lombardia che fissò un risarcimento di 150mila euro. La Regione fece ricorso e il ricorso è stato portato avanti e condiviso anche dal nuovo governatore nel frattempo insediatosi al Pirellone, Roberto Maroni.

Ieri la sentenza del Consiglio di Stato che abbassa la cifra a 133mila euro a favore di Beppino, ma che condanna comunque l’ente.

«Non potevano sussistere seri dubbi circa la portata dell’obbligo della Regione di provvedere a fornire la necessaria prestazione sanitaria, nel rispetto dell’accertato diritto della persona assistita all’autodeterminazione terapeutica, presso una delle strutture sanitarie regionali», dice la sentenza, come se la decisione di farla morire appartenesse anch’essa all’elenco delle terapie. Un salto mortale all’indietro insomma, per giustificare la sentenza della Corte d’Appello che riconosceva nella volontà di Eluana di autodeterminarsi l’origine di tutto.

Infatti la sentenza partiva proprio dall’affermare questa intenzione di Eluana che Beppino riuscì a dimostrare: quando ancora era in vita e sana, aveva manifestato il desiderio, in caso di un incidente o una malattia, di non essere tenuta in vita artificialmente. I giudici presero per buona la tesi anche in assenza di una prova schiacciante, cioè le sue parole, ma soltanto de relato. Quindi – prosegue ancora il dispositivo – “non poteva ragionevolmente porsi in dubbio l’obbligo della Regione di adottare tramite proprie strutture le misure corrispondenti al consenso informato espresso dalla persona”.

Secondo i giudici la Lombardia era dunque “tenuta a continuare a fornirle la propria prestazione sanitaria, anche se in modo diverso rispetto al passato, dando doverosa attuazione alla volontà espressa dalla stessa persona assistita”.

Con questa sentenza il Consiglio di Stato si prende la colossale responsabilità di definire il distacco di un sondino naso-gastrico indispensabile per rimanere in vita una “prestazione sanitaria diversa rispetto al passato”, o diversa rispetto a quello che siamo abituati a pensare, cioè che mai una terapia, una prestazione sanitaria devono portare alla morte, ma semmai devono cercare di fare di tutto per evitarla.

Merito di un complesso di concezioni dell’essere umano ormai in balia dell’ideologia dell’autodeterminazione, di fronte alle quali anche i giudici hanno mostrato di accodarsi. Con la legge sul testamento biologico Regioni e ospedali sono avvertiti: il vostro compito è quello dei sicari a comando, guai a chi sgarra.

Il risarcimento riconosciuto a Englaro riguarda anche le spese di piantonamento fisso della struttura dove Eluana morì, per far fronte alla "presenza di telecamere e giornalisti", ai "sit-in sotto la clinica" alla possibile presenza di "facinorosi", con il "conseguente rischio di lesione del diritto al rispetto della dignità umana".

Infatti i giudici dicono che Eluana ha "subito" in questa vicenda il "danno più grave", la "violazione del proprio diritto all'autodeterminazione in materia di cure" per cui "contro la sua volontà" ha subito "il non voluto prolungamento della sua condizione, essendo stata calpestata la sua determinazione di rifiutare una condizione di vita ritenuta non dignitosa, in base alla libera valutazione da essa compiuta".

Quanti colpevoli assieme a Formigoni dunque, di aver recato danni morali: i giornali che ne scrissero portando motivazioni che contrastassero la cultura della morte che si stava affermando in Italia e oggi è ormai comodamente in trono; i militanti pro life che pregarono e vegliarono in quei giorni drammatici; i politici che si adoperarono per impedire il primo caso di eutanasia in Italia; tutti gli uomini di buona volontà che provarono ad opporsi con i mezzi consentiti dalla legge e dal dibattito democratico all’immane tragedia di una donna disabile portata a morire. Tutti colpevoli, infatti a risarcire è un ente pubblico che userà i soldi dei contribuenti, cioè di tutti noi. In quel risarcimento ci saranno anche i nostri soldi e le nostre lacrime spese.

Siamo al paradosso: la dignità umana calpestata non è quella di un essere umano strappato a forza dalle cure premurose delle suore Misericordine per essere condotto alla morte, ma il “disagio” subito da lei e dai familiari per una vicenda che se non ci fosse stata l’opposizione della Regione, del governo Berlusconi di allora e delle suore Misericordine, si sarebbe potuta concludere ben prima, senza scomodare così tanto l’opinione pubblica e senza arrecare stress agli attori della partita.

E noi che pensavamo che il danno più grave l’avesse subito Eluana quando è stata portata a morire da una sentenza della magistratura.











http://www.lanuovabq.it/it/articoli-era-obbligo-della-regione-far-morire-eluana-siamo-tutti-colpevoli-in-quel-risarcimento-a-englaro-20240.htm








L’imbecille globale è al potere - di Marcello Veneziani








di Marcello Veneziani 

Ogni mattina, pomeriggio e sera, ovunque tu sei e a qualunque fonte d’informazione ti colleghi – video, radio, giornali, web ma anche film, concerti, omelie, lezioni a scuola o all’università, discorsi istituzionali – c’è un Imbecille Globale che ripete sempre lo stesso discorso: “Abbattiamo i muri, niente più frontiere tra popoli, fedi, razze, sessi e omosessi, non più chiusure in nazioni, generi, famiglie, tradizioni ma aperti al mondo”.


Te lo dice come se stesse esprimendo un’acuta e insolita opinione personale, originale; finge di ribellarsi al conformismo della chiusura e al potere del fascismo (morto da 72 anni) mentre lui, che coraggioso, che spregiudicato, è aperto, non si conforma, ha la mente aperta, il cuore aperto, le braccia aperte, è cittadino del mondo. Sfida i potenti, lui, che forte.



Sta ripetendo all’infinito, da imbecille prestampato qual è, il Catechismo Precompilato dei Cretini Allineati al Canone del Tempo. Tutti per uno, uno per tutti. L’Imbecille è globale perché lui sa dove va il mondo e si sente cittadino del mondo. L’idiota planetario si moltiplica in mille versioni.


C’è l’Imbecille Cantante che dal palco, ispirato direttamente dal dio degli artisti, dichiara che lui canta contro tutti i muri e tutti i razzismi. Che eroe, sei tutti noi.


Poi vedi l’Imbecille Attore o Regista che dal podio lancia il suo messaggio originale e assai accorato, perfettamente uguale a quello del precedente cantautore, ma lui lo recita come se l’umanità l’ascoltasse per la prima volta dalla sua viva voce. “Io non amo i muri, non mi piace chi vuole alzare muri” Che bravo, che anticonformista.


Segue a ruota l’Imbecille Intellettuale, profeta e opinionista che per distinguersi dal volgo rozzo e ignorante, dichiara anche lui la Medesima Cosa, sui muri ci piscio, morte al razzismo, morte a Hitler (defunto sempre da 72 anni), viva l’accoglienza, i neri, i gay e i trans.


L’Idiota Collettivo, versione ebete dell’Intellettuale Collettivo post-gramsciano, non pensa in proprio ma scarica l’app ideologica che genera risposte in automatico. Poi c’è l’imbecille a mezzo stampa o a mezzobusto che riscrive o recita ispirato l’identica pisciatina contro i Muri.


E poi c’è il Presidente o la Presidente, che in veste d’Imbecille Istituzionale, esprime lo stesso, identico Concetto, col piglio intrepido di chi sfida i Poteri Forti (ai cui piedi è accucciato o funge da zerbino).
Non c’è film, telefilm, concerto, spettacolo teatrale o sportivo, gag e omelia tv in cui non si ribadisca la lotta tra il Bene e il Male: Aperti e Filantropi contro Chiusi & Ottusi, Accoglienti contro Razzisti, Omofili contro Omofobi, Xenofili contro Xenofobi e Negrofobi.
Voi quelli del Muro, noi quelli del Telepass.


Le bestie da scacciare sono quasi sempre vaghe, anonime, mitologiche; e già, il male è sempre oscuro, cospira nel buio, non ha volto, solo maschere storiche o ridicole. Ora va di moda la maschera di Trumputin, in Europa di Le Pen, da noi di Salvini.


Tu senti uno, cambi canale e ne senti un altro idem, spegni la tv e senti alla radio un altro ma il Discorso è sempre quello, apri il giornale e leggi ancora l’Identica Opinione; a scuola idem con patate, all’Università peggio-mi-sento, i Palloni Gonfiati dai media compilano lo stesso Modello Unico.


Nessuno di loro è sfiorato da dubbi, invece a te sorge un primo dubbio: è un’allucinazione o è sempre la stessa persona, l’Imbecille Globale, che cambia veste, fattezze e mansioni e ripete all’infinito l’Identico Discorso?


Segue un secondo dubbio: ricordo male o eravamo in democrazia, che vuol dire libertà e pluralismo, cioè opinioni libere e divergenti a confronto? Loro non credono alla Verità, sono relativisti, però guai a dissentire dal Discorso Obbligato con fervorino finale anti-Muro.


Ma possibile che tutti la pensino allo stesso modo, conformi, allineati e omologati, e ritengano che la cosa più urgente e più importante del momento, il Messaggio Unisono da dare all’Umanità sia sempre quello? Allora ti sorge un terzo dubbio.


E se l’Imbecille Globale a reti unificate fosse il Grande Fratello del nostro tempo? Se fosse lui il Portavoce multiplo del Non-Pensiero Unico, cioè del nuovo regime totalitario-globalitario? E se fosse proprio quell’Uniformità Totale e quel corale accodarsi la miseria prioritaria del nostro tempo?


Non so voi, ma io di quell’Imbecille Planetario che ripete il Discorso Unico e Identico all’Infinito, non ne posso più.

Marcello Veneziani, Il Tempo 19 giugno 2017

















martedì 20 giugno 2017

DUBIA. A.L. I CARDINALI. UNA LETTERA SENZA RISPOSTA, UN’UDIENZA MAI CONCESSA. IL SILENZIO DEL PAPA. PAURA DI UN CONFRONTO?




MARCO TOSATTI

La Nuova Bussola Quotidiana, il New Catholic Register e Settimo Cielo pubblicano oggi una lettera scritta il 25 aprile scorso dai quattro cardinali che hanno presentato i “Dubia” sull’Amoris Laetitia.

I cardinali Brandmūller, Burke, Caffarra, e Meisner nella lettera chiedevano un’udienza al Pontefice, per avere un chiarimento sui Dubia, e per esporre la situazione di confusione e smarrimento creatasi nella Chiesa a causa di interpretazioni opposte del documento emesso nell’aprile del 2016.

Nel settembre scorso i cardinali presentarono alla Congregazione per la Dottrina della Fede i “Dubia”, seguendo un metodo classico usato dai vescovi quando desideravano chiarimenti su un punto controverso.

Non c’è mai stata una risposta.

Ecco il testo della lettera:

Beatissimo Padre,


è con una certa trepidazione che mi rivolgo alla Santità Vostra, durante questi giorni del tempo pasquale. Lo faccio a nome degli Em.mi Cardinali: Walter Brandmüller, Raymond L. Burke, Joachim Meisner, e mio personale.

Desideriamo innanzi tutto rinnovare la nostra assoluta dedizione ed il nostro amore incondizionato alla Cattedra di Pietro e per la Vostra augusta persona, nella quale riconosciamo il Successore di Pietro ed il Vicario di Gesù: il “dolce Cristo in terra”, come amava dire S. Caterina da Siena. Non ci appartiene minimamente la posizione di chi considera vacante la Sede di Pietro, né di chi vuole attribuire anche ad altri l’indivisibile responsabilità del “munus” petrino. Siamo mossi solamente dalla coscienza della responsabilità grave proveniente dal “munus” cardinalizio: essere consiglieri del Successore di Pietro nel suo sovrano ministero. E del Sacramento dell’Episcopato, che “ci ha posti come vescovi a pascere la Chiesa, che Egli si è acquistata col suo sangue” (At 20, 28).

Il 19 settembre 2016 abbiamo consegnato alla Santità Vostra e alla Congregazione della Dottrina della Fede cinque “dubia”, chiedendoLe di dirimere incertezze e fare chiarezza su alcuni punti dell’Esortazione Apostolica post-sinodale “Amoris Laetitia”.

Non avendo ricevuto alcuna risposta da Vostra Santità, siamo giunti alla decisione di chiederLe, rispettosamente ed umilmente, Udienza, assieme se così piacerà alla Santità Vostra. Alleghiamo, come è prassi, un Foglio di Udienza in cui esponiamo i due punti sui quali desideriamo intrattenerci con Lei.


Beatissimo Padre,

è trascorso ormai un anno dalla pubblicazione di “Amoris Laetitia”. In questo periodo sono state pubblicamente date interpretazioni di alcuni passi obiettivamente ambigui dell’Esortazione post-sinodale, non divergenti dal, ma contrarie al permanente Magistero della Chiesa. Nonostante che il Prefetto della Dottrina della Fede abbia più volte dichiarato che la dottrina della Chiesa non è cambiata, sono apparse numerose dichiarazioni di singoli Vescovi, di Cardinali, e perfino di Conferenze Episcopali, che approvano ciò che il Magistero della Chiesa non ha mai approvato. Non solo l’accesso alla Santa Eucarestia di coloro che oggettivamente e pubblicamente vivono in una situazione di peccato grave, ed intendono rimanervi, ma anche una concezione della coscienza morale contraria alla Tradizione della Chiesa. E così sta accadendo – oh quanto è doloroso constatarlo! – che ciò che è peccato in Polonia è bene in Germania, ciò che è proibito nell’Arcidiocesi di Filadelfia è lecito a Malta. E così via. Viene alla mente l’amara constatazione di B. Pascal: “Giustizia al di qua dei Pirenei, ingiustizia al di là; giustizia sulla riva sinistra del fiume, ingiustizia sulla riva destra”.

Numerosi laici competenti, profondamente amanti della Chiesa e solidamente leali verso la Sede Apostolica, si sono rivolti ai loro Pastori e alla Santità Vostra, per essere confermati nella Santa Dottrina riguardante i tre sacramenti del Matrimonio, della Confessione e dell’Eucarestia. E proprio in questi giorni, a Roma, sei laici provenienti da ogni Continente hanno proposto un Seminario di studio assai frequentato, dal significativo titolo: “Fare chiarezza”.

Di fronte a questa grave situazione, nella quale molte comunità cristiane si stanno dividendo, sentiamo il peso della nostra responsabilità, e la nostra coscienza ci spinge a chiedere umilmente e rispettosamente Udienza.

Voglia la Santità Vostra ricordarsi di noi nelle Sue preghiere, come noi La assicuriamo che faremo nelle nostre. E chiediamo il dono della Sua Benedizione Apostolica.

Carlo card. Caffarra

Roma, 25 aprile 2017
Festa di San Marco Evangelista
*

FOGLIO D’UDIENZA

Richiesta di chiarificazione dei cinque punti indicati dai “dubia”; ragioni di tale richiesta.

Situazione di confusione e smarrimento, soprattutto nei pastori d’anime, “in primis” i parroci.

Si presume che la richiesta d’udienza sia giunta al Pontefice nei giorni immediatamente successivi. E l’udienza non c’è stata, ed evidentemente non c’è stato, fra il papa e i cardinali, nessun contatto di altro tipo. Per questo motivo hanno deciso di rendere pubblica la richiesta di udienza; per evitare che i problemi sottolineati nei Dubia e nella lettera si cronicizzino, portando a letture talmente divergenti da svuotare alcuni sacramenti del senso che hanno sempre avuto nella Chiesa cattolica.

Che cosa accadrà adesso è molto difficile da prevedere.

Alcune considerazioni balzano agli occhi.

Il silenzio del Pontefice è inspiegabile.

La situazione paradossale esposta nella lettera è innegabile.

In Germania è corretto fare quello che in Polonia è peccato mortale, e questo vale per molti altri luoghi e diocesi del mondo.

Non voler vedere che un problema esiste, anche solo di logica, è inspiegabile; se non nell’ottica di una confusione voluta.

E’ possibile che l’udienza sia stata rifiutata perché si temeva che fosse il primo passo di una “correzione formale” di errore? Possibile. Ma chiudere le porte e celarsi dietro muri non risolve il problema.

Non rispondere è realmente abdicare a una responsabilità; non solo verso i cardinali, ma verso la Chiesa e il popolo di Dio.







http://www.marcotosatti.com/2017/06/20/dubia-a-l-i-cardinali-una-lettera-senza-risposta-unudienza-mai-concessa-il-silenzio-del-papa-paura-di-un-confronto/