sabato 31 agosto 2013

SE TOCCHI LA MESSA CROLLA IL PAPATO








editoriale di Radicati nella fede (settembre 2013)

  Gran parte del cattolicesimo cosiddetto “conservatore” sta commettendo un errore gravissimo: per salvare ciò che resta della presenza cattolica nel mondo, per rendere più forte la missione della Chiesa nella società secolarizzata, per tentare un sussulto di orgoglio cattolico di fronte alla stanchezza dilagante di molti settori ecclesiali, sta puntando tutto sul Papa. Inoltre gestisce questa attenzione sul Papa esattamente come fanno giornali, televisione e siti internet, che esaltano la figura umana del pontefice sottolineando con orgoglio l'attenzione popolare sulla sua persona. Si comportano esattamente come fa il mondo senza fede o non preoccupato della fede, che parla dei raduni oceanici intorno al vicario di Cristo, dei suoi gesti eclatanti, delle scelte controcorrente che sembra fare.

 No, non è dal Papa che occorre partire, per salvare la vita cattolica tra di noi, non è proprio dal Papa, bensì dalla Santa Messa, dalla Santa Eucarestia.

 Per spiegarci ricorriamo ad un autore spirituale tra i più importanti del '900, Dom Chautard, abate della Trappa di Sept-Fons. In un suo testo in cui spiega la vocazione cistercense, Les cisterciens Trappistes, l'ame cistercienne, ad un certo punto l'abate benedettino racconta di un suo colloquio con il primo ministro francese Clemenceau, il famoso “Tigre”. Si era negli anni delle soppressioni degli ordini religiosi, e Dom Chautard era incaricato del delicato compito di salvare la presenza monastica in Francia. Così si trovò a colloquio con il radicale e anticlericale “Tigre”.

 Crediamo molto utile tradurre e trascrivere ciò che l'abate riferisce del loro parlare:

 “Mi accingerò - è Dom Chautard che parla a Clemenceau - a rispondere alla vostra domanda: Che cos'è un Trappista? Perché vi siete fatto Trappista? E per non allargarmi oltre misura, mi accontenterò di questo argomento: una religione che ha per base l'Eucarestia, deve avere dei monaci votati all'adorazione e alla penitenza.

 “L'Eucarestia è il dogma centrale della nostra religione. Lo si è chiamato il dogma generatore della pietà cattolica.

 “Non lo è il papato, come sembrate credere.
 “Il papato non è che il porta parola di Cristo. Grazie ad esso i fedeli custodiscono intatto il dogma e la morale insegnata da Gesù Cristo. Esso è la protezione che ci mantiene sulla strada tracciata in modo preciso dal nostro divino fondatore. Ma è solo Cristo che resta Via, Verità e Vita.
 “Ora, il Cristo non è un essere scomparso dove non sappiamo, né un essere lontano al quale pensiamo. Egli è vivente; abita in mezzo a noi; è presente nell'Eucarestia. Ed è per questo che l'Eucarestia è la base, il centro, il cuore della religione. Da là parte ogni vita. Non da altrove.

 “Voi non ci credete. Ma noi ci crediamo, noi. Crediamo fermamente, risolutamente, nel fondo del nostro essere, che nel tabernacolo di ognuna delle nostre chiese, Dio risiede realmente sotto l'apparenza dell'Ostia.

 E' chiaro, il dogma centrale del cristianesimo è la Santa Eucarestia, tutto parte da lì, non da altrove... e se diminuisce la fede nel dogma centrale, nella Santa Eucarestia, tutto crolla nel cristianesimo, nella Chiesa. E non è stato forse così in questi anni? Pensiamo alle nostre chiese, con dentro Cristo “abbandonato”. Si è fatto di tutto per nascondere il tabernacolo, e quando non lo si è nascosto in qualche antro secondario, con la scusa che lì i fedeli avrebbero adorato meglio, quando lo si è lasciato centrale nella chiesa, lo si è coperto con tutto e di più: con i tavoli per celebrare la nuova Messa e con tutto un ciarpame di cose che rivelano solo, oltre il cattivo gusto, il disordine mentale del cattolicesimo di questi anni, che non ha certo fatto dell'Eucarestia il dogma centrale della fede. Pensiamo alla quasi scomparsa nelle chiese della genuflessione e del raccoglimento: in chiesa bisogna custodire il silenzio, sempre, perché Dio è presente nel tabernacolo: è Lui che fa vera la nostra preghiera, e non il nostro agitarci e il nostro fare baccano.

 Ma Dom Chautard nel suo lungo discorso a Clemenceau, arriva a parlare della Messa, ascoltiamolo:
 “La Messa, è il sacrificio divino del Calvario che si riproduce ogni giorno in mezzo a noi. Tutti i giorni, il Cristo offre a Dio la sua morte per le mani del prete, esattamente come in cielo nella Messa di gloria egli presenta a suo Padre le cicatrici gloriose delle sue piaghe per perpetuare l'efficacità redentrice della croce. Tutti i giorni, alla Messa, il Cristo rinnova l'opera immensa della redenzione del mondo.

 “E a questo avvenimento, il più grande che possa accadere sulla terra, più importante che il rumore degli eserciti, più salutare che la più feconda delle scoperte scientifiche, voi pensate che potremmo assistervi senza un fremere di tutto il nostro essere... non ci si abitua alla Messa. O allora che sarebbe la nostra fede?
(…) All'Amore crocifisso, noi cerchiamo di rispondere con un amore crocifiggente... Voi vi scandalizzate del nostro genere di vita; lo trovate contro natura. Sì, lo sarebbe se noi non avessimo la fede nell'Eucarestia. Ma crediamo al divino Crocifisso e l'amiamo; e vogliamo vivere come lui, noi che per la comunione partecipiamo alla sua vita.

 Carissimi, ma è ancora questa la fede realmente vissuta nella maggioranza delle nostre chiese. La Messa è ancora intesa così? Come il sacrificio divino del Calvario? Chi parla con questa chiarezza della Messa? Al di là dei cosiddetti “tradizionalisti”, c'è ancora qualcuno che si esprime in questo modo parlando dell'Eucarestia?

 È avvenuto uno spaventoso mutamento nella fede e nel vissuto di quasi tutti i cattolici, e si chiama protestantizzazione: come dicevano i Cardinali Ottaviani e Bacci a Paolo VI nel loro Breve esame critico: “il Novus Ordo Missæ, considerati gli elementi nuovi, suscettibili di pur diversa valutazione, che vi appaiono sottesi ed implicati, rappresenta, sia nel suo insieme come nei particolari, un impressionante allontanamento dalla teologia cattolica della Santa Messa, quale fu formulata nella Sessione XXII del Concilio Tridentino, il quale, fissando definitivamente i «canoni» del rito, eresse una barriera invalicabile contro qualunque eresia che intaccasse l’integrità del magistero.”

 Anche qui è ribadito ciò che è stato detto da Dom Chautard: il centro del cattolicesimo è l'Eucarestia, è la Messa; il Concilio di Trento fissando definitivamente i canoni del rito aveva eretto una barriera per salvare l'integrità del magistero...

 Così è drammaticamente avvenuto che toccando i canoni del rito tutto è andato insieme, nulla sta più in piedi nel “nuovo” cattolicesimo. Martin Lutero lo aveva detto, non perdete tempo ad attaccare il papato, combattete la Messa cattolica e il papato crollerà con essa.
 Per questo, per amore alla Chiesa tutta, della sua dottrina e della sua disciplina, per amore del Papa Vicario di Cristo in terra, siamo chiamati semplicemente a custodire il rito della Messa così come fissato da Trento e da San Pio V. Non c'è nulla di più urgente perché la Chiesa, il Papa, possano vivere.





www.radicatinellafede.blogspot.it

L’esibizionismo liturgico







padre Giovanni Cavalcoli o.p.

L’ormai ben nota tendenza a intendere la celebrazione eucaristica non come espressione del rapporto dell’uomo con Dio, ma come espressione dell’uomo o come manifestazione di Dio non è senza rapporti con una concezione generale della vita cristiana e delle sue radici teoretiche.

In questa liturgia che si è diffusa negli ultimi decenni e che abusivamente si richiama alla riforma del Vaticano II, l’azione personale del celebrante emerge sproporzionatamente rispetto alla sua funzione di mediatore del Sacro, il che lascia chiaramente intendere che dietro a questo atteggiamento c’è una certa concezione dell’uomo ed un’altra particolare concezione di Dio.

Abbiamo in sostanza un’inversione di valori: nella vita e nella propria visione di fondo e quindi di conseguenza nell’azione liturgica ciò che interessa, ciò che conta, ciò che vien preso sul serio, il “sacro” è il proprio io che appare che nella modernità e nel contesto sociale; Dio e le cose, divine, certo, continuano ad occupare un posto nella coscienza del celebrante, ma non come interesse supremo, non come cosa estremamente seria ed importante, ben superiore ad ogni altro valore, non come fons et culmen totius vitae christianae, ma bensì come modo di esprimere la propria personalità, di ottenere consensi, di rendersi simpatici, di esternare la propria genialità o la propria inventiva nel buon umore, nella bonarietà, nella battuta, nelle spiritosaggini, nell’ironia, nel volare in spensieratezza e leggiadria tra le cose divine come la farfalla volteggia allegra da fiore a fiore. Questi celebranti capovolgono il proverbio popolare che dice: “Scherza con i fanti e lascia stare i santi”. Per essi infatti vale l’inverso: “Scherza con i santi e lascia stare i fanti”.

Essi naturalmente non sono apertamente nemici della religione; ma a somiglianza di Hegel e Gentile mettono la filosofia al di sopra della religione, il profano sta sopra il sacro, l’uomo primeggia su di Dio. Non negano ovviamente l’esistenza di Dio, ma nella loro vita e nel loro modo di celebrare il loro io sembra essere più importante di Dio.

Essi vedono la liturgia come espressione esterna mitologica e convenzionale dell’Autocoscienza dello Spirito, della quale essi sono apparizione e manifestazione nell’oggi della storia. Il culto religioso, per il quale l’uomo eleva il proprio spirito a Dio nell’offerta del sacrificio è visto da loro come accondiscendenza al comune realismo ingenuo che concepisce Dio come lassù in cielo.

Ma ciò che per loro ha importanza è la “fede” come coscienza dell’immanenza di Dio che nel cuore dell’uomo si manifesta come Assoluto. La liturgia per loro non è che la rappresentazione scenica ed eziologica, immaginaria e simbolica, della presa di coscienza dell’immanenza dell’Assoluto nell’io empirico del celebrante e della comunità dei fedeli. Quello che conta in questa liturgia non è Dio ma l’io. Dio è una proiezione immaginaria dell’io come Io assoluto o come Autocoscienza assoluta.

Se ammettono Dio come Assoluto, allora l’io ne è l’apparizione empirica; ma tale riconoscimento del primato di Dio si ferma alle dichiarazioni verbali o alla recita fredda delle formule liturgiche della Messa o dell’ufficio divino: nella realtà essi fanno di se stessi l’Assoluto e Dio diventa relativo all’io. Dal tono stesso della loro voce si sente che pregano tanto perchè devono pregare, ma non danno segno di essere convinti di quello che dicono né lo dicono con la necessaria devozione.

O se danno colore o calore a quello che dicono è perché confondono l’azione liturgica con una rappresentazione teatrale e capita che chi la celebra in questo modo tenda a vedere tutta la vita come una specie di teatro o di teatrino, per non dire un cabaret, dove non si è a contatto con la realtà e tanto meno con cose serie, ma tutto si risolve nell’inventiva di un’immaginazione arguta e brillante: non si distingue più la liturgia dalla “sacra rappresentazione”.

L’importante, quando non ci si abbandona alla sciatteria, è recitare bene in conformità con i gusti del pubblico e le esigenze della modernità. Regola implicita è il successo mondano e considerazione inconfessata è il rispetto umano. La Scrittura direbbe di questi celebranti: “Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me”.

Questa falsa impostazione e pratica della liturgia che si è affermata largamente, ha delle radici profonde, che hanno fatto presa in questi ultimi decenni; è l’effetto di una visione distorta della via cristiana e della concezione del rapporto dell’uomo con Dio.

La cura di questo male non può limitarsi alla denuncia delle irregolarità o degli arbitri o a generici richiami alla devozione, alla pietà ed al rispetto delle norme liturgiche o tanto meno alla discussione fra Messa di Paolo Vi e Messa Tridentina: tali questioni, per quanto importanti, sono del tutto secondarie rispetto alla gravità del problema che ci sta davanti.

Il guasto, il marcio si trova ormai nell’intimo dell’uomo, nelle coscienze, ormai abituate ad una sistematica disobbedienza alla verità ed alla realtà oggettiva, per una scelta deliberata del proprio io - il famoso cogito cartesiano - come principio della verità, dell’essere, e quindi del bene e di tutti i valori: quella che Nietzsche chiamava con prometeica audacia la “trasvalutazione di tutti i valori”. Essa non ha affatto prodotto il “superuomo”, ma lo squallido e criminale nichilismo della postmodernità.

Occorre pertanto una profonda inversione di rotta a livello non solo individuale ma collettivo ed ecclesiale. Se non fosse che la Chiesa è santa, verrebbe fatto di dire che è la Chiesa stessa che si è allontanata dal sentiero della verità, tanto è diffuso il morbo che ci ammorba.

Eppure in realtà la Chiesa, proprio perché santa, ha in sé le risorse per liberarsi da queste storture. Occorre un poderoso atto di onestà e di umiltà, nella sequela di Cristo nel suo Vicario oggi deciso come sappiamo, ad una vasta e radicale opera di riforma, tanto che molti parlano di “rivoluzione” di Papa Francesco.

Non è tanto questione dello IOR o di qualche pedofilo, è questione di una profonda conversione, di un radicale rinnovamento dello spirito, un tornare sulla retta via del sincero amore per la verità e di un deciso orientamento verso il bene.

E da dove cominciare se non dalla liturgia? Il Concilio Vaticano II ha giustamente cominciato da questo aspetto decisivo della vita di fede, così come in una vasta riforma si deve cominciare dal recupero dei principi, perché gli stessi principi sono intaccati. Siccome però essi si riprendono da soli, occorre tornare ad essi e sul loro fondamento riformare tutto il resto.













Liturgia culmen et fons

venerdì 30 agosto 2013

Il fanatismo al potere


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Stavolta il Papa e i vescovi non possono dire: chi sono io per giudicare? A Parigi, una capitale d’Europa, il ministro dell’Istruzione pubblica o Education nationale, Vincent Peillon, ha introdotto nella scuola una aperta liturgia della scristianizzazione che fa centro, e non poteva essere diversamente, sulla guerra dichiarata alla chiesa cattolica.

La retorica della laicità è una vecchia amica della cultura politica post rivoluzionaria in Francia. Ma le retoriche sono suffragate da leggi, che creano comportamenti, riflessi condizionati, obblighi e sanzioni contro i trasgressori. Il reato di opinione è ormai un ingrediente pratico della legislazione francese, il pensiero scorretto non è accettato, né quello aberrante né quello che sa di semplice visione tradizionale delle cose.

La modernità come razionalità in equilibrio con lo sfondo misterioso dell’esistenza umana è appena tollerata, la postmodernità è invece innalzata e resa obbligatoria come registrazione di uno sfrenato soggettivismo, e come idolatria di stato della coscienza indivisa, che non riconosce la differenza, specie di genere tra maschio e femmina, che fa appello alla nozione più triste e vana di progresso scientifico. Tutto è diritto e desiderio, tutto ciò che non si riconosce in quel circuito è discriminazione, è reato, è sedimento culturale da sradicare con pedagogica violenza di stato.

Il ministro Peillon ha scritto un libro per dire che la Rivoluzione francese non è finita, e lui s’impegna a compierne il tragitto giacobino e massonico, all’insegna della laicità come religione, della secolarizzazione come rigenerazione nazionale, come rieducazione delle generazioni da parte di una classe burocratica di insegnanti tenuti all’ossequio verso l’ideologia unica dominante. Se non credete a quello che scriviamo, riandate al formidabile e tremendo articolo dedicato alla faccenda ieri da Giulio Meotti in queste pagine, oppure procedete da soli a verificare le idee del governo repubblicano francese su YouTube alla voce Peillon.

Vedrete il fanatismo in azione, la chiusura deliberata di ogni spazio pubblico alla libertà di espressione della religione cattolica e delle altre religioni, l’infame che bisogna schiacciare perché le idee della République possano conformare alla propria scala di valori l’universo dei giovani allievi, tutti da formare e plasmare più che da informare in vista della libertà individuale come esercizio della critica razionale.

Padre e madre non esistono più nei formulari, esistono il responsabile legale 1 e il responsabile legale 2, e poi si troveranno altre cabbale o combinazioni più o meno esoteriche per impedire a ciò che è stato di vivere ancora, la tabula rasa sognata da tutti i fanatici.

Negli studi storici sulle origini religiose della Rivoluzione francese è già l’idea che il credo rivoluzionario sia una cieca professione di fede, che abbia una sua dogmatica la quale prevede la caccia all’eretico da ghigliottinare, il rogo inquisitorio giacobino. Ora c’è il conformismo sommato all’ostracismo. Il fanatismo è al potere, ha un volto anticristiano, Ratzinger aveva una strategia, è stato sconfitto, i veri laici in Europa sono minoranze, la caccia alle streghe cattoliche è una cosa seria come comprendemmo noi con il caso Buttiglione undici anni fa, che succederà dopo?




“Il Foglio” del 30/08/2013

mercoledì 28 agosto 2013

Nei nuovi sermoni di Erfurt sant'Agostino parla dell'attenzione verso chi ha bisogno






Il vero frutto della fede


Ma la prima forma di misericordia è quella verso se stessi

Il frutto della fede è fare del bene a chi ha bisogno, perché è una fede infruttuosa credere in Dio in modo tale da trascurare le opere di misericordia. Infatti, come è inutile coltivare con cura una pianta sterile, innaffiare una pietra dura e arare la secchezza della sabbia, così, per un uomo che non vuole prestare ciò che è buono, non giova a nulla non negare ciò che è vero. Giustamente sta scritto che la fede senza le opere è morta in se stessa, per cui quelli che hanno una fede del genere sono anche paragonati ai demoni; infatti, a certuni che si vantano della fede e si tengono lontani dalle buone opere, così dice l'apostolo Giacomo: «Tu credi che c'è un solo Dio? Fai bene. Anche i demoni lo credono e tremano!». Appare così che non c'è nessuna differenza tra il timore di un demonio sofferente e la grazia di un uomo credente, se non il fatto che le azioni del primo sono cattive, quelle del secondo buone, benché entrambe le cose procedano dallo stesso credere, come dalla stessa acqua pullulano sia spine appuntite sia grappoli d'uva.
La prima forma di misericordia dell'uomo credente, inoltre, è quella rivolta a se stesso; è questa che la Scrittura comanda dicendo: «Abbi misericordia della tua anima, piacendo a Dio». Di qui la misericordia, crescendo, si estende al prossimo, in modo tale che sia adempiuto il precetto: «Amerai il prossimo tuo come te stesso». Dunque la vera misericordia che si spende per il prossimo va spesa a questo fine, che anche il prossimo piaccia a Dio: è a questo fine che il prossimo va chiamato, esortato, educato e istruito. Difatti anche le stesse elemosine che si offrono per le necessità corporali e per la vita temporale vanno fatte con il proposito e l'intenzione di far sì che coloro a cui sono fatte amino quel Dio per dono del quale sono fatte.
Questo ce lo ricorda anche il Signore dicendo: «Risplendano le vostre opere buone davanti agli uomini, perché vedano le vostre buone azioni e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli». L'uomo di Dio, dunque, «vaso santificato in onore, utile al Signore, pronto per ogni opera buona», tutto ciò che fa nella sua vita non è se non un'opera di misericordia, o verso se stesso o verso il prossimo. Ed è misericordioso verso se stesso, come abbiamo ricordato sopra, quando piace a Dio; e piace a Dio quando, nel bene che fa, Dio gli piace e, nel male che subisce, Dio non gli dispiace.
Difatti anche l'Apostolo, dopo aver detto, parlando delle sue buone opere: «Ho faticato più di tutti loro, subito ha aggiunto: non io però, ma la grazia di Dio che è con me». E Giobbe, durante la sua tentazione e tribolazione, disse: «Come è piaciuto al Signore, così è avvenuto. Sia benedetto il nome del Signore».
Verso il prossimo, invece, l'uomo di Dio è misericordioso quando fa tutto il possibile affinché anche il prossimo, come lui, possa gustare fino in fondo la dolcezza di piacere a Dio.
Mi ero proposto di parlare delle opere di misericordia, e per questo può già sembrare a qualcuno che io mi sia scostato da questo argomento e mi sia diretto verso un altro, dato che non dico: «Spezza il tuo pane con l'affamato; introduci in casa tua il misero e senza tetto; se vedi uno nudo, vestilo», e così via. Queste opere sono reputate e chiamate elemosine quasi in senso proprio, come se esse sole appartenessero alle opere di misericordia; esse vi appartengono certamente, ma non esse sole, al punto tale che sono anzi le più piccole, a meno che gli uomini non siano così insensati da ritenere che coloro che offrivano agli apostoli beni materiali da raccogliere siano stati più misericordiosi degli apostoli stessi, che seminavano beni spirituali. Sia ben lungi dal credere una cosa del genere chi ascolta con intelligenza le parole dell'Apostolo che dice: «Se noi abbiamo seminato per voi beni spirituali, è forse gran cosa se raccoglieremo i vostri beni materiali?».
Nel seminare poi i beni spirituali, guarda quale dispensatore egli si mostri lì dove dice: «Così, affezionati a voi, ci sembra bene farvi partecipi non solo del vangelo di Dio, ma anche delle anime nostre», e in un altro luogo: «Per conto mio ben volentieri mi prodigherò», dice, «anzi spenderò me stesso per le vostre anime».
Metti adesso a confronto chi spezza il suo pane con l'affamato e chi rende partecipe della sua anima il credente, metti a confronto chi per la vita temporale del bisognoso spende oro e chi per la vita eterna del fratello spende se stesso. Se giustamente è misericordioso, ed è detto e considerato tale, chi introduce nella sua casa lo straniero che ha bisogno di un tetto, e gli mette a disposizione una tavola per rifocillarlo e un letto per farlo riposare, quanto più misericordioso si scopre essere chi, richiamando colui che va errando per le vie dell'iniquità e prendendolo con sé, lo fa entrare nella casa di Dio e lo incorpora alle membra di Cristo, dove lo ristori la refezione della giustizia e lo rilassi la remissione dei peccati!
Queste opere di misericordia, le quali fanno sì che si piaccia a Dio, sono così tanto anteposte, dalla verace legge della sapienza, a quelle opere con le quali si fornisce il sostentamento necessario al bisogno materiale, che sovente, quanto più prudentemente si compiono le prime, tanto più misericordiosamente si tolgono le seconde. Difatti l'uomo che è misericordioso prima di tutto verso se stesso, memore del precetto divino che dice: «Abbi misericordia della tua anima, piacendo a Dio», per piacere a Dio spesso digiuna e, quando gli si ordina di amare il prossimo come se stesso, dà il pane al prossimo che ha fame e lo nega a se stesso, trattando duramente, s'intende, il proprio corpo e riducendolo in schiavitù, per non essere trovato falso proprio lui, che predica agli altri. (...) Quella misericordia, dunque, in virtù della quale spendiamo le nostre fatiche per piacere a Dio, proprio essa è in qualche modo cardinale. Tutte le altre azioni che si compiono misericordiosamente sono fatte rettamente, se non si allontanano mai dalla contemplazione di questa.

(©L'Osservatore Romano 28 agosto 2013)


Fai del bene a chi ti odia

C'è chi pensa che le elemosine si debbano fare soltanto ai giusti, e che invece ai peccatori non sia opportuno dare nulla del genere. In questo errore il primo posto per empietà lo occupano i manichei, i quali credono che in qualunque alimento siano trattenute delle membra di Dio, mescolate e legate insieme al cibo; essi sono del parere che di tali membra si debba avere riguardo, perché non siano contaminate dai peccatori e non vengano inviluppate con nodi più infelici. Questa follia forse non merita neppure di essere respinta, tanto essa offende l'intelligenza di tutte le persone sane di mente al solo venir esposta. Alcuni, invece, che non hanno affatto una tale opinione, pensano che non si debba dar da mangiare ai peccatori perché non accada che tentiamo di metterci contro Dio, il cui sdegno sopra di loro si mostra chiaramente, come se Egli potesse adirarsi anche con noi per il fatto che vogliamo soccorrere coloro che Lui vuole punire. Citano anche la testimonianza delle Sante Scritture, dove leggiamo: «Usa misericordia e non accogliere il peccatore, e verso empi e peccatori compi vendetta»; «Fa' del bene all'umile e non donare all'empio, perché anche l'Altissimo ha in odio i peccatori e verso gli empi compie vendetta». Non capendo come queste parole debbano essere intese, si rivestono di una detestabile crudeltà.
Perciò è opportuno che su questo argomento, fratelli, ci rivolgiamo con poche parole alla vostra carità, perché non succeda che voi, quando a causa di un aberrante modo di pensare non capite la volontà divina espressa nei Libri divini, acconsentiate alla malvagità umana. L'apostolo Paolo, infatti, insegnando con la massima chiarezza che a tutti va concessa misericordia, dice: «Quando ne abbiamo l'occasione, pertanto, operiamo il bene verso tutti infaticabilmente, soprattutto verso i fratelli nella fede». A dir il vero, da ciò risulta chiaro che nelle opere di questo genere bisogna preferire i giusti. Quali altre persone dovremmo infatti intendere per «fratelli nella fede», essendo stato affermato chiaramente in un altro luogo che «Il giusto vive per fede?». Le viscere di misericordia non vanno però chiuse agli altri uomini, anche se peccatori, neppure nel caso in cui essi abbiano verso di noi un animo ostile, come ci dice e ci ammonisce il nostro Salvatore stesso: «Amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano».
E ciò non è stato passato sotto silenzio nei libri dell'Antico Testamento; lì infatti si legge: «Se il tuo nemico avrà fame, dagli da mangiare; se ha sete, dagli da bere», e di questa testimonianza anche l'Apostolo ha fatto uso. Non per questo, però, sono false le parole che abbiamo citato sopra, perché anch'esse sono precetti divini: «Usa misericordia e non accogliere il peccatore». Quelle parole, infatti, sono state dette perché a nessun peccatore tu faccia del bene proprio in quanto è un peccatore, ma tu faccia del bene a chi ti odia, non in quanto è un peccatore, ma in quanto è un uomo. Così osserverai entrambi i precetti, senza essere lassista rispetto al vendicare né disumano rispetto al soccorrere. Chiunque infatti accusa giustamente un peccatore, che cos'altro vuole, se non che quello non sia un peccatore? Egli dunque odia in quello ciò che anche Dio odia, perché sia distrutto ciò che ha fatto l'uomo e sia liberato ciò che ha fatto Dio. Il peccato, infatti, l'ha fatto l'uomo, mentre l'uomo stesso l'ha fatto Dio. E quando diciamo questi due termini, “uomo” “peccatore”, essi non vengono affatto detti inutilmente. In quanto infatti è un peccatore, ammoniscilo, e in quanto è un uomo, abbine misericordia. E non libererai assolutamente l'uomo, se non l'avrai perseguito in quanto peccatore.
A questo dovere attende ogni disciplina, così com'è adatta e appropriata ad ognuno che sia dotato di responsabilità di governo: non solo al vescovo che governa il suo popolo, ma anche al povero che governa la sua casa, al ricco che governa la sua servitù, al marito che governa sua moglie, al padre che governa i suoi figli, al giudice che governa la sua provincia, al re che governa la sua nazione. Tutti costoro, quando sono buoni, vogliono senz'altro bene a quelli che essi governano e, secondo il potere loro «concesso dal Signore di tutti quanti, il quale governa anche i governanti», fanno in modo che i loro stessi governati si conservino come uomini e periscano come peccatori. Così essi adempiono ciò che sta scritto: «Usa misericordia e non accogliere il peccatore», per non volere che in lui resti salvo il fatto che è un peccatore, «e verso empi e peccatori compi vendetta», perché il fatto stesso che sono peccatori ed empi sia cancellato in loro; «fa' del bene all'umile», per la ragione che è umile, «e non donare all'empio», per la ragione che è empio, «perché anche l'Altissimo ha in odio i peccatori e verso gli empi compie vendetta»; l'Altissimo, tuttavia, poiché quelli non sono solo peccatori ed empi, ma anche uomini, «fa sorgere il suo sole sui buoni e sui cattivi, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti». Così, a nessun uomo va chiusa la propria misericordia, a nessun peccato va aperta l'impunità.
Bisogna capire come non sia da disprezzare l'elemosina che si fa a qualsiasi povero per ragioni di umanità, dal momento che il Signore alleviava l'indigenza dei poveri attingendo a quella cassa che riempiva con le ricchezze altrui. E se per caso uno dicesse che non erano peccatori né quegli invalidi e quei mendicanti che il Signore ordinò di invitare, né quelli ai quali egli era solito elargire denaro prelevandolo dalla cassa, e che pertanto dalle testimonianze evangeliche non segue che venga ordinato ai misericordiosi di accogliere o nutrire anche i peccatori, ebbene, costui faccia attenzione a quanto ho già menzionato più sopra, perché sono senz'altro peccatori e massimamente scellerati coloro che odiano e perseguitano la Chiesa, e tuttavia in riferimento ad essi si dice: «Fate del bene a quelli che vi odiano», e lo si conferma con l'esempio di Dio Padre «che fa sorgere il suo sole sui buoni e sui cattivi, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti». Non accogliamo dunque i peccatori per il motivo che sono peccatori, ma trattiamo tuttavia anch'essi umanamente, perché essi sono anche uomini.

(©L'Osservatore Romano 28 agosto 2013)

lunedì 26 agosto 2013

La fede come luce. Nell'enciclica «Lumen fidei» un tema caro a Tommaso d'Aquino




La fede come luce

di Inos Biffi






Sulle prime può sorprendere che si parli di «luce» della fede, come fa l'enciclica che proprio dall'espressione Lumen fidei prende nome. I contenuti del Credo trascendono, infatti, le facoltà intellettive dell'uomo e per la loro stessa natura sono sottratti alla loro visione. Sembrerebbe perciò più coerente parlare di «oscurità» della fede. Effettivamente, le verità enunciate dai simboli risultano inevidenti alla ragione; il credente le professa unicamente fondandosi sulla Parola che le attesta. Solo che Dio infonde nel credente un'altra luce, oltre quella della ragione: una luce imparagonabile con quella razionale, grazie alla quale il credente diviene partecipe dell'eccesso di luminosità che definisce Dio, inabitante in «una luce inaccessibile», per cui «nessuno degli uomini lo ha mai visto né può vederlo» (1 Timòteo, 6, 16), e insieme rifulgente nei cuori dei credenti, come scrive lo stesso Paolo: «Dio, che disse: “Rifulga la luce dalle tenebre”, rifulge nei nostri cuori» (2 Corinzi, 4, 6).
Con tocco penetrante e felice l'enciclica (n. 4) cita la descrizione che Pietro fa della fede nella Commedia di Dante: «Quest'è 'l principio, quest'è la favilla/ che si dilata in fiamma poi vivace,/ e come stella in cielo in me scintilla (Paradiso XXIV, 145-147). «Chi crede, vede», afferma l'enciclica (n. 1).
E, infatti, nella tradizione della Chiesa e nel linguaggio della teologia si parla di «occhi della fede (oculi fidei)», o di «fede dotata di occhi (oculata fides)» che sanno vedere di là da quanto appare alla chiarezza dell'intelligenza naturale.
Sul tema torna spesso Tommaso d'Aquino: «La fede è la luce delle anime» [fides lumen est animarum (Summa Theologiae, III, 36, 3, 3m)]; «Con l'abito della fede la mente dell'uomo è inclinata ad assentire a ciò che conviene alla retta fede» (ibidem, ii-ii, 1, 4, 3m). «La fede è prodotta in noi dall'influsso della luce divina» [fides autem causatur in nobis ex influentia divini luminis (In III Sententiarum, dist. 21, q. 2, a. 3, c)].
In chi crede è infuso «un lume soprannaturale», che produce una «mondezza del cuore», munditia cordis (Summa Theologiae, ii-ii, 7, c), per cui riesce a conoscere con acuta penetrazione alcune cose che il lume naturale non è in grado di conoscere» (ibidem, ii-ii, 8, 1, c). Per quella luce egli diviene capace di cogliere «i primi principi della fede (ea quae primo et principaliter cadunt sub fide)» «e tutto ciò che è ordinato alla fede» (ibidem, ii-ii, 8, 3, c).
Si tratta, quindi, di una luminosità nuova, radicata non in una facoltà creata, qual è l'intelletto -- a cui Dio per altro elargisce una reale capacità di vedere --, una luminosità che irraggia -- senza mediazione creaturale -- dalla sorgente di Dio, ed è destinata a “disvelare” i misteri.
Con quel «lume intellettuale della grazia», intellectuale lumen gratiae (ibidem, ii-ii, 8, a. 5, c), l'intelletto naturale viene disposto o reso propenso alle verità rivelate e perciò portato ad avvertire o “vedere” che è giusto accoglierle e consentirvi; senza tale luce, si possono sentir risonare le parole, si può riuscire a connetterle logicamente e anche a capirne il significato, e tuttavia questo non è ancora un'accoglierle nella mente e nell'esistenza.
Senza dubbio, con la visione della fede i contenuti dei misteri non diventano oggetto di immediata contemplazione; questo avverrà soltanto nella visione beatifica, quando avremo il «dono dell'intelletto consumato», donum intellectus consummatum (ibidem, ii-ii, 7, c). Si genera però una lucida persuasione sulla loro verità, una certa qual loro percezione, che induce la volontà ad aderirvi liberamente e fermamente e ad assumerle nell'esistenza.
Di più: secondo Tommaso la piena conoscenza di Dio la visione beatifica «ha già un certo inizio in noi, in virtù della fede che aderisce, grazie al lume infuso, a quelle cose che eccedono la conoscenza naturale» [huius cognitionis supernaturalis aliquam inchoationem in nobis fieri; et hoc est per fidem, quae ea tenet ex infuso lumine, quae naturalem cognitionem excedunt (De Veritate, 14, 2, c)].
Ciononostante per l'Angelico, come già per Aristotele ma con motivazione ben maggiore, si prova una «grande gioia a poter gettare un semplice sguardo (aliquid posse inspicere) su delle realtà così elevate, per quanto in modo debole e povero» [etiam parva et debili consideratione (Summa contra Gentiles, i, 8)].
«La fede -- asserisce l'enciclica -- conosce in quanto è legata all'amore, in quanto l'amore stesso porta una luce. La comprensione della fede è quella che nasce quando riceviamo il grande amore di Dio che ci trasforma interiormente e ci dona occhi nuovi per vedere la realtà» (n. 26). La conoscenza che deriva dall'amore si avvera, secondo san Tommaso, quando uno «non si limita a ricevere nell'intelletto la scienza delle cose divine, ma, anche, amandole, vi è unito con l'affetto»; e spiega: l'unione per pura conoscenza intellettiva è più estrinseca e conosce la riduzione e il limite o la misura determinata dal soggetto che conosce; nella conoscenza affettiva invece la relazione con l'oggetto è più immediata: è l'oggetto a determinare la misura e a imprimersi nel soggetto e a “toccarlo” [sic ad ipsas res quodammodo afficitur (In Dionysii De divinis nominibus, cap. 2 , lectio: 4)]. E dice sempre l'Aquinate: «Quando la volontà è ben disposta in rapporto alla fede, essa ama la verità creduta, vi ritorna senza posa nel suo pensiero (excogitat), e abbraccia (amplectitur) tutte le ragioni che possa trovare a suo favore» (Summa Theologiae, ii-ii, 2, 10, c).
Occorre però procedere ulteriormente e risalire alla fonte concreta di tale luce, cioè a Gesù Cristo, «lo Splendore della gloria del Padre» (Splendor paternae gloriae, come lo definisce Ambrogio all'inizio dell'inno In aurora).
La fede, infatti, non è la presenza nell'intelletto di formule o di enunciazioni, ma è l'inabitazione di Cristo nei cuori: «Il Cristo abiti per mezzo della fede nei vostri cuori», auspicava Paolo per gli Efesini (Efesini, 3, 17). Ora, l'evangelista Giovanni chiama il Verbo «Luce vera», che «splende nelle tenebre» (Giovanni, 1, 9 - 1, 5), mentre Gesù diceva di se stesso: «Io sono la luce del mondo; chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita» (Giovanni, 8, 12).
Il credente è colui che accoglie questa luce che è Cristo, nel quale tutti i misteri cristiani si risolvono. A chiarirsi allora non sono tanto i contenuti dei misteri, a cui consentire, ma è Gesù Cristo stesso, che brilla così che la mente e il cuore lo ricevono e vi aderiscono. Chi riceve Cristo, crede; e, insieme, chi crede vuol dire che ha ricevuto Cristo: la fede, quindi, come sequela di Cristo, o comunione di pensiero, di visione, di sensibilità e di vita con lui e con la sua luce: infatti, «tutti coloro che vengono a Cristo, vengono a lui a partire da lui e per mezzo di lui» [omnes qui ad Christum veniunt, ab ipso et per ipsum veniunt (Summa Theologiae, III, 36, 3, 3m)].
Importa assolutamente sottolineare questo carattere personale e cristico della fede. «L'atto di fede non ha come suo termine ultimo delle proposizioni, ma la realtà» (Summa Theologiae, ii-ii, 1, 2, 2m): ebbene, questa «realtà» è Gesù Cristo, che è il mistero divino rivelato. Solo bisogna aggiungere che Gesù Cristo non è unicamente il compimento della fede, ma anche il suo principio.
Gli «occhi della fede», a cui accennavamo, sono gli «occhi di Cristo». Nella visione beatifica contempleremo il Padre con gli occhi medesimi con cui Cristo vede e contempla il Padre celeste.
A questo punto può essere pertinente osservare ancora con san Tommaso che «la fede non distrugge la ragione, ma la oltrepassa e la porta alla perfezione» [fides non destruit rationem, sed excedit eam et perficit (De Veritate, 14, 1, 9)]. Ossia, nel credente, a motivo della fede, non è spento né attenuato o sospeso il «lume dell'intelletto»; al contrario, egli è stimolato a ragionare di più. Una volta poi riconosciuta la differenza in sé tra la luce naturale dell'intelletto e la luce soprannaturale della fede, esse non vanno intese come l'una giustapposta all'altra, o indipendenti e scisse; chi ha fede possiede un intelletto trasfigurato, reso luminoso dalla luce di Cristo.
Abbiamo citato ripetutamente san Tommaso, col suo splendido, e non abbastanza valorizzato, trattato sulla fede. Vorrei, prima di terminare, ricordare due testi di sant'Ambrogio. Il primo: «Dove c'è la vera fede, là c'è la grazia della vera luce» [ubi vera est fides, ibi veri luminis gratia (Expositio Ps, 118, 8, 51)]; e il secondo: «Nei giorni del Signore Gesù è sorta la fede, che ha diffuso in tutto il mondo lo splendore del suo chiarore e della sua luce» [in diebus domini Iesu exorta est fides, quae splendorem suae claritatis et luminis toto orbe diffudit (Explanatio Palmi, 43, 6, 3)].
Possiamo, finendo, chiederci: «Questa grazia di luce, che è la fede, a chi è data?». Non esitiamo a rispondere: «È data a ogni uomo, dal momento che Cristo è stato predestinato dall'eternità ad essere Luce per tutti, nessuno escluso». La ragione umana da sempre è creata perché sia trasfigurata dallo splendore del Verbo incarnato e dalla sua gloria.


(©L'Osservatore Romano 21 agosto 2013)

«La fede è l’eredità degli Apostoli»

Paolo VI e la proclamazione dell’anno della fede, nel 1967, in occasione dei 1900 anni dal martirio di Pietro e Paolo a Roma. Un anno decisivo che si chiuderà con il Credo del popolo di Dio per «attestare il nostro incrollabile proposito di fedeltà al Deposito della fede». «Non possiamo minimamente ignorare che i nostri tempi richiedono questo con forza»

di Gianni Valente


Ci sono momenti, scrive Charles Péguy, in cui cadono tutte le maschere e nulla nasconde più la realtà, che ci appare nuda, così come veramente è. «Sono i soli momenti della vita in cui non si menta; in cui non si simuli affatto; in cui si sia sinceri; letteralmente, assolutamente, totalmente sinceri; in cui si vede il vero, più del vero, il reale, come esso è; in cui non ci si nasconde più niente». Sono questi i momenti in cui «vediamo chiaro, osiamo veder chiaro».

A Paolo VI, esattamente trent’anni fa, capitò di vivere un momento così. Guardò la Chiesa, che, come testimonia la sua prima enciclica, sapeva bene che era di un Altro, cioè di Cristo (Ecclesiam suam), guardò attraverso tutte le buone intuizioni, le ingenue attese, le illusioni e le chiacchiere che in quegli anni l’avevano travolta, e vide. Vide la fine del cristianesimo. Non delle strutture, delle riunioni, del Vaticano, dei piani pastorali, dei raduni oceanici, che potrebbero continuare come coreografie ad uso di chi cerca ruoli ecclesiastici e consolazioni religiose con cui riempire la vita (e magari ci fa su anche carriera). Quella che vedeva spegnersi era la fede. Il nostro tempo come un lungo sabato santo, come il tempo dell’assenza di Dio, quando anche gli ultimi discepoli si preparano tristi e col cuore spento a tornare ognuno a casa sua.

Paolo VI vide tutto questo e, nella tragedia in cui la Chiesa versava, tornò a ricordarle e a ripeterle quali erano i suoi unici tesori: la fede degli apostoli, custodita dalla Tradizione (Credo del popolo di Dio), e i poveri, i popoli della fame (Populorum progressio) chiamati per primi a godere della grazia della fede. Ripetere le cose di sempre, un Papa non può e non deve far altro.

Era il 22 febbraio 1967, quando papa Montini, con l’esortazione apostolica Petrum et Paulum apostolos, indisse un anno giubilare particolare: l’anno della fede. Millenovecento anni prima, i due apostoli Pietro e Paolo erano stati martirizzati a Roma. Uccisi, come ricorda un passo della lettera di san Clemente papa ai Corinzi riportato all’inizio della stessa esortazione apostolica, «a causa della gelosia e dell’invidia», ossia anche per la cattiveria di cristiani. In quell’anniversario, – chiedeva il Papa – tutta la Chiesa era chiamata a far memoria della fede trasmessa in eredità dai due apostoli, nella domanda umile di poter fare della realtà di quella fede la loro stessa viva esperienza, di poter incontrare e sorprendere i gesti di quella stessa Presenza che duemila anni prima aveva attratto gli occhi di poveri pescatori e di grandi peccatori e commosso il loro cuore.

Quell’anno – oggi lo riconoscono anche gli storiografi più attenti – segnò un crinale, una "svolta" nel pontificato montiniano. Alla fine dell’anno della fede Paolo VI pronunziò in piazza San Pietro una solenne professione di fede, il Credo del popolo di Dio, con cui intendeva «attestare il nostro incrollabile proposito di fedeltà al Deposito della fede». Ma i cattolici di allora non colsero l’intuizione tragica e profetica di papa Montini. Gli illuminati dissero che si trattava di pessimismo eccessivo. Per i reazionari si trattava di pentitismo tardivo, visto che secondo loro la catastrofe era stata innescata da quel rinnovamento conciliare di cui Montini era stato il timoniere. Per i chierici di ogni tendenza, la semplice riproposizione dei contenuti tradizionali della fede cattolica era una risposta troppo minimale davanti alle provocazioni della storia e anche alla crisi della Chiesa. Secondo loro occorreva una strategia più complessa: bisognava coscientizzare, ovvero rendere cultura la fede. Per entrare in dialogo e adeguarsi al mondo – dicevano gli uni. Per resistere all’assedio della modernità e combattere – dicevano gli altri. Così l’anno della fede e il Credo del popolo di Dio furono inghiottiti in un gorgo di silenzio.

Inimici hominis, domestici eius

A turbare papa Paolo VI non era tanto l’immoralità del mondo, o la negazione teorica del cristianesimo a quel tempo sfacciata e violenta.

Già negli anni che precedono il ’67, l’allarme contenuto nei discorsi di Paolo VI è un altro: la Chiesa viene demolita non dall’ateismo moderno, ma dai suoi stessi figli. La malattia è interna, è un cupio dissolvi che sembra aver avvelenato i maestri, i chierici e le accademie ecclesiastiche, prima ancora che il popolo, e li spinge a uno svuotamento dall’interno della natura e del metodo del fatto cristiano. «Vengono alle labbra le parole di Gesù: "inimici hominis, domestici eius", i nemici dell’uomo saranno i suoi di casa!», dirà il Papa il 18 settembre 1968, a nemmeno tre mesi dalla proclamazione del Credo. Ma già nel ’65, all’udienza generale del 4 agosto, il Papa si diceva preoccupato per «le voci provenienti anche dai campi migliori del popolo di Dio, dove ordinariamente la dottrina della Chiesa è alimentata da fervore di studi, è coltivata con fermezza di pensiero», che oggi fanno eco «ad errori antichi e moderni, già rettificati e condannati dalla Chiesa ed esclusi dal patrimonio delle sue verità». L’11 luglio del ’66, parlando a un gruppo di teologi e scienziati riunitisi per aggiornare la modalità di presentazione del dogma del peccato originale, Paolo VI li mette in guardia dall’acconsentire a formulazioni del peccato originale che siano subordinate alla teoria dell’evoluzionismo. Ma è all’udienza generale del successivo 30 novembre che Paolo VI descrivendo «il triste fenomeno che turba il rinnovamento conciliare e sconcerta il dialogo ecumenico», chiarisce nel dettaglio quali siano le cose essenziali del cristianesimo che si tenta di svuotare: «La resurrezione di Cristo, la realtà della sua vera presenza nell’eucaristia, ed anche la verginità della Madonna e di conseguenza il mistero augusto dell’incarnazione». Nell’ottobre ’66 era stato pubblicato il nuovo Catechismo olandese, voluto dall’episcopato d’Olanda, il prototipo di quei catechismi post-conciliari che pensano di rendere interessante il cristianesimo per l’uomo moderno sostituendo alle tradizionali formule di fede discorsi complicati e in talune parti ambigui e reticenti. Il 7 aprile dell’anno successivo, parlando all’assemblea dei vescovi italiani, Paolo VI ribadisce quale sia la priorità: «La prima questione, questione capitale, è quella della fede, che noi vescovi dobbiamo considerare nella sua incombente gravità. Qualcosa di molto strano e doloroso sta avvenendo… anche fra coloro che conoscono e studiano la parola di Dio: viene meno la certezza nella verità obiettiva e nella capacità del pensiero umano di raggiungerla; si altera il senso della fede unica e genuina; si ammettono le aggressioni più radicali a verità sacrosante della nostra dottrina, sempre credute e professate dal popolo…».


La Tradizione che ci precede
Addolora Paolo VI soprattutto chi in quest’opera di autodemolizione strumentalizza l’ultimo Concilio ecumenico, interpretandolo come l’atto di nascita di un nuovo cristianesimo e di una nuova Chiesa. Ad un anno esatto dalla sua chiusura (discorso dell’8 dicembre 1966) Montini denuncia l’errore di supporre che il Vaticano II «rappresenti una rottura con la tradizione dottrinale e disciplinare che lo precede». Quasi un mese prima, nell’udienza generale, aveva invitato a resistere alla tentazione di credere «che le novità, derivate dalle dottrine e dai decreti conciliari, possano autorizzare qualsiasi arbitrario cambiamento… Bisogna essere profondamente convinti che non si può demolire la Chiesa di ieri per costruirne una nuova oggi; non si può dimenticare e impugnare ciò che la Chiesa ha finora insegnato con autorità per sostituire alla dottrina sicura teorie e concezioni nuove».

Il 12 gennaio 1966 aveva detto: «Gli insegnamenti del Concilio non costituiscono un sistema organico della dottrina cattolica» la quale «è assai più ampia… e non è messa in dubbio dal Concilio o sostanzialmente modificata; ché anzi il Concilio la conferma, la illustra, la difende e la sviluppa con autorevolissima apologia… Non sarebbe quindi nel vero chi pensasse che il Concilio rappresenti un distacco, una rottura, ovvero, come qualcuno pensa, una liberazione dall’insegnamento tradizionale della Chiesa».

La fede, adesione a una testimonianzaDavanti a ciò che vede, Paolo VI sa bene che non basta rintuzzare gli errori dottrinali che serpeggiano tra la leadership cattolica. La confusione dottrinale è il sintomo di qualcosa di più radicale. Sembra quasi che dovunque, nella Chiesa, si vada perdendo la percezione di cosa sia veramente il cristianesimo, la natura e la dinamica della vita cristiana. Non si sa più di cosa si tratta.

Il Papa decide di approfittare dell’anniversario del martirio dei santi apostoli Pietro e Paolo per indire l’anno della fede quale risposta alla vertiginosa smemoratezza seguita all’ebollizione conciliare.

Nell’esortazione apostolica Petrum et Paulum apostolos, che indice l’anno della fede, gli accenni alla crisi dottrinale sono pochi e secondari. L’unica, semplice e minimale richiesta rivolta a tutti i figli della Chiesa è quella di ripetere la professione di fede degli apostoli Pietro e Paolo, di rimanere in questa fede. «Vogliamo inoltre chiedere una cosa piccola ma importante: vogliamo pregare tutti voi singolarmente, fratelli e figli nostri, di fare memoria dei santi Apostoli Pietro e Paolo, che testimoniarono la fede di Cristo con le parole e col sangue, in modo da professare con verità e sincerità la medesima fede che la Chiesa, fondata e resa splendida da loro stessi, accolse devotamente e espose con autorità. D’altronde questa professione di fede, che, avendo per testimoni i beati Apostoli, rendiamo a Dio, conviene certo che sia individuale e pubblica, libera e consapevole, interiore ed esteriore, umile e decisa. Vorremmo inoltre che una tale professione di fede scaturisse dall’intimo del cuore di ogni uomo, e riecheggiasse una sola, identica e traboccante d’amore in tutta la Chiesa. Infatti quale più grato servizio di memoria, di onore, di comunione potremmo noi offrire a Pietro e Paolo che la dichiarazione di quella fede che abbiamo ricevuto da loro stessi quasi in eredità?». Il ripetere le formule che custodiscono la fede apostolica non risponde solo ad una devozione, ma è per Paolo VI un gesto realmente adeguato al momento storico che la Chiesa vive: «Non possiamo minimamente ignorare che i nostri tempi richiedono questo con forza».

Numerosi discorsi di quel periodo chiariscono e commentano il perché dell’anno della fede di Pietro e di Paolo. All’udienza del primo marzo ’67, pochi giorni dopo l’esortazione apostolica, Paolo VI spiega: «Ci sembra che questo tema offra a noi il filo più sicuro e più diretto per comunicare spiritualmente con quei grandi Apostoli; loro stessi ne hanno lasciato pressante raccomandazione; dice, ad esempio, san Pietro, nella sua prima lettera ai primi cristiani che essi sono "custoditi nella fede per la salvezza"», e anche san Paolo «è preso dall’ansia di garantire l’integrità e la conservazione della fede, e ripete le sue raccomandazioni perché ogni errore sia evitato e respinto e perché il "depositum sia custodito". […] Aderendo alla fede, che la Chiesa ci propone, noi ci mettiamo in comunicazione diretta con gli Apostoli che vogliamo ricordare; e, mediante essi, con Gesù Cristo, nostro primo e unico Maestro; noi ci mettiamo alla loro scuola, annulliamo la distanza dei secoli, che da loro ci separano e facciamo del momento presente una storia vivente, la storia sempre uguale a se stessa propria della Chiesa». La fede, spiega nello stesso discorso papa Paolo VI, ricorrendo alla definizione del Concilio di Trento, «"humanae salutis initium est", è il principio per l’uomo della sua salvezza».

Anche nell’udienza del successivo 19 aprile il Papa si sofferma a chiarire cosa sia la fede cristiana, distinguendola dalla assimilazione comunemente fatta «col sentimento religioso, con la credenza vaga e generica dell’esistenza di Dio». La fede, dice Paolo VI, è «l’adesione dello spirito, intelletto e volontà, ad una verità» che si giustifica «per l’autorità trascendente di una testimonianza, a cui non solo è ragionevole aderire, ma intimamente logico per una strana e vitale forza persuasiva, che rende l’atto di fede estremamente personale e soddisfacente». La fede è dunque «una virtù che ha le sue radici nella psicologia umana, ma che deriva la sua validità da una azione misteriosa, soprannaturale, dello Spirito Santo, della grazia infusa in noi, in via normale, dal battesimo». È «quella capacità spirituale che ci fa accogliere, come corrispondenti alla realtà, le verità che la parola di Dio ci ha rivelate. È perciò la fede un atto che si fonda sul credito che noi diamo al Dio vivente».

L’inaugurazione ufficiale dell’anno della fede viene celebrata solennemente sul sagrato della basilica vaticana la sera del 29 giugno 1967, festa dei santi Pietro e Paolo.


Nell’omelia il Santo Padre ribadisce che «il Concilio ecumenico, testé celebrato, ci ha esortato a risalire alle sorgenti della Chiesa e a riconoscere nella fede il suo principio costitutivo, la condizione prima d’ogni suo incremento, la base della sua sicurezza interiore e la forza della sua esteriore vitalità». Qualche giorno dopo, i pellegrini presenti all’udienza del 5 luglio possono ascoltare nuove parole del Papa sulla fede: «La fede è l’eredità degli Apostoli. È il dono del loro apostolato, della loro carità. […] Il fatto ch’essi, insieme con gli altri apostoli e con gli annunciatori autorizzati del Vangelo, sono gli intermediari tra noi e Cristo, caratterizza il cristianesimo in modo essenziale e genera un sistema di rapporti indispensabili nella comunità dei credenti.

[…] L’Apostolo è maestro; non è semplicemente l’eco della coscienza religiosa della comunità; non è l’espressione dell’opinione dei fedeli, quasi la voce che la precisa e la legalizza, come dicevano i modernisti, e come ancora oggi alcuni teologi osano affermare. La voce dell’Apostolo è generatrice della fede. […] La verità religiosa, derivante da Cristo, non si diffonde negli uomini in modo incontrollato e irresponsabile; essa ha bisogno di un canale esteriore e sociale».

L’Oriente dei grandi Concili

Il viaggio in Turchia, che il Papa visita tra 25 e il 26 luglio, è un ulteriore passo sulle orme della memoria apostolica, secondo l’intenzione dell’anno della fede. Il Papa incrocia gli itinerari che Paolo percorse durante la sua predicazione, «fondando le prime comunità cristiane, in mezzo alle peripezie, a volte drammatiche, raccontate negli Atti degli apostoli», come ricorda il Papa ad Efeso, nella chiesa di San Giovanni. Ma il filo rosso del viaggio è il ritorno nei luoghi in cui furono celebrati i primi grandi Concili che definirono e custodirono la fede apostolica, difendendo il cristianesimo dalle antiche eresie. Tornato a Roma, all’Angelus del 2 agosto il Papa celebra la preminenza dei primi quattro Concili ecumenici svoltisi in Oriente (Nicea, Costantinopoli, Efeso, Calcedonia). Un indiretto ridimensionamento della portata dell’ultimo Concilio ecumenico, che alcuni vorrebbero celebrare come l’anno zero della Chiesa. «Questi quattro Concili – dice il Papa – furono e rimangono degni di grande riverenza. Furono essi che diedero alla Chiesa, dopo i primi secoli di vita perseguitata e quasi clandestina, la coscienza della sua compagine costituzionale e unitaria. Furono essi che misero in evidenza e stabilirono in autorità i dogmi fondamentali della nostra fede, sulla Santissima Trinità, su Gesù Cristo, sulla Madonna: e che perciò diedero al cristianesimo la sua dottrina basilare». L’atto di venerazione nei confronti dei primi quattro Concili ecumenici diventa anche spunto per ribadire la comunione di fede con gli Ortodossi nei dogmi fondamentali. Paolo VI, il papa che ha cancellato le scomuniche reciproche tra Roma e Costantinopoli e che più in là si inchinerà a baciare i piedi del vescovo ortodosso Melitone di Calcedonia, durante il viaggio in Turchia approfitta degli incontri con il patriarca Atenagora e con gli ortodossi di Efeso per ripetere che «per ristabilire e conservare la comunione e l’unità, occorre infatti essere attenti a "non imporre niente che non sia necessario"». «La carità» dice ad Atenagora e ai metropoliti del Patriarcato ecumenico, nella cattedrale di San Giorgio «ci deve aiutare come ha aiutato Ilario e Atanasio a riconoscere l’identità della fede al di là delle differenze di vocabolario in un momento in cui gravi divergenze dividevano l’episcopato. […] E san Cirillo d’Alessandria non accettò forse di mettere da parte la sua teologia così bella per fare la pace con Giovanni d’Antiochia, dopo essersi accertato che al di là di espressioni differenti, la loro fede era la stessa?».

I riferimenti umani e materiali della memoria

Alla fine dell’anno della fede Paolo VI scandalizza i chierici con due gesti clamorosi. Il 26 giugno 1968, con un’allocuzione nella Basilica vaticana, annuncia l’autenticità delle reliquie di san Pietro, rinvenute durante i lavori nelle grotte vaticane tra il 1940 e il 1950. «A questa intensità di sentimenti» dice papa Montini «ci aiutano e ci impegnano le tracce storiche e locali da loro lasciate. Non possono essere trascurati da noi romani, e da quanti a Roma muovono i passi, questi riferimenti umani e materiali alla memoria degli Apostoli, "per quos religionis sumpsit exordium", per merito dei quali iniziò la nostra vita religiosa». Il risultato delle indagini sui frammenti ossei ritrovati nella necropoli vaticana viene annunciato con trattenuto entusiasmo: «Nuove indagini pazientissime e accuratissime furono in seguito eseguite con risultato che Noi, confortati dal giudizio di valenti e prudenti persone competenti, crediamo positivo: anche le reliquie di san Pietro sono state identificate in modo che possiamo ritenere convincente, e ne diamo lode a che vi ha dedicato attentissimo studio e lunga e grande fatica».

Il 30 giugno 1968 una solenne liturgia chiude l’anno della fede, con la professione di fede che Paolo VI stesso definisce Credo del popolo di Dio. È il coronamento dell’anno della fede, «che avevamo dedicato – spiega Paolo VI nell’omelia – alla commemorazione dei santi Apostoli per attestare il nostro incrollabile proposito di fedeltà al Deposito della fede che essi ci hanno trasmesso, e per rafforzare il nostro desiderio di farne sostanza di vita nella situazione storica in cui si trova la Chiesa pellegrina nel mondo». Con tale professione Paolo VI intende adempiere il mandato, «affidato da Cristo a Pietro, di cui siamo il successore, sebbene l’ultimo per merito, di confermare cioè nella fede i fratelli. Il nuovo Credo, «senza essere una definizione dogmatica propriamente detta, e pur con qualche sviluppo, richiesto dalle condizioni spirituali del nostro tempo, riprende sostanzialmente il Credo di Nicea». Nel professare il Credo del popolo di Dio, Paolo VI dichiara di aver presente «l’inquietudine che agita alcuni ambienti moderni» e «la passione per il cambiamento e la novità» che ha preso molti cattolici: «è necessario avere la massima cura di non intaccare gli insegnamenti della dottrina cristiana. Perché ciò vorrebbe dire – come purtroppo oggi spesso avviene – un generale turbamento e perplessità in molte anime fedeli».

Un grande papa in tempi difficili. Come scrisse allora Carlo Falconi, leader dei vaticanisti del tempo, nel suo libro La svolta di Paolo VI, «l’enorme gorgo di silenzio che ha risucchiato la proclamazione del nuovo Credo è drammaticamente minaccioso. Tutta la campagna interventista del quotidiano vaticano, per fingerle un’eco commossa e riconoscente di consenso, è finita nel vuoto. E se non fosse seguita presto la pubblicazione dell’enciclica Humanae vitae, convogliando su di sé la più aperta reazione, l’imbarazzo di quel silenzio protestatario avrebbe toccato il limite del sopportabile».

Tutto l’establishment cattolico, salvo rare eccezioni, lascia cadere nel nulla la lucida intuizione della condizione della Chiesa nel mondo espressa dall’anno della fede e dal Credo del popolo di Dio. Per teologi e intellettuali si tratta di "atti pietistici". All’inizio dell’anno della fede, il teologo olandese Edward Schillebeeckx, commentando l’iniziativa di Paolo VI, afferma che la crisi attraversata dalla fede cristiana è «una crisi di crescita». Il suo collega tedesco Karl Rahner irride la possibilità stessa di poter avere «dopo un anno della geofisica, un anno della fede» e conclude: «Tutto dipende da una riflessione profonda per rendere questa concezione (quella cristiana) credibile per gli spiriti contemporanei». Al Papa che indica di tornare alla Tradizione, di ripetere la dottrina degli apostoli e rimanere in essa, tutti, in fondo, dicono che non basta. La congiura del silenzio che Paolo VI subisce in occasione dell’anno della fede e del Credo del Popolo di Dio manifesta qual è la vera radice dell’incomprensione, della muta ostilità e delle contestazioni sempre più frequenti che il Papa subirà all’interno della Chiesa.

L’idea che il pontificato montiniano abbia subìto a partire dal ’67-68 un’involuzione deludendo le speranze iniziali diventa tanto diffusa nell’intellighentia clericale da essere evocata a metà degli anni settanta da un relatore ufficiale, lo storico Franco Bolgiani, al convegno ecclesiale su Evangelizzazione e promozione umana, davanti a tutti gli stati maggiori della Chiesa italiana.

Il 29 giugno 1972, nell’omelia per la solennità dei santi apostoli Pietro e Paolo, Paolo VI riconosce: «Credevamo che dopo il Concilio sarebbe venuta una giornata di sole per la storia della Chiesa. È venuta invece una giornata di nuvole e tempeste, di buio, e di ricerche e di incertezze, si fa fatica a dare la gioia della comunione».

A quei tempi pochi osavano testimoniare pubblicamente la devozione e la solidarietà verso un papa irriso anche nei convegni ecclesiali. Tra questi, il patriarca di Venezia, Albino Luciani. La sua omelia pronunciata il 18 settembre 1977 al congresso eucaristico nazionale di Pescara è un’appassionata scelta di campo, un’esplicita dichiarazione di comunione nei confronti del grande Papa di tempi così difficili: «Il Pietro che abbiamo sentito nel Vangelo vive oggi nella persona di Paolo VI suo successore. Ma di Paolo VI ce ne sono due: quello che abbiamo visto iersera qui a Pescara, che si vede e si ascolta nelle udienze generali e private e quello che descrivono, alla loro maniera, inventando e stravolgendo, certi libri e giornali. Vero, autentico, è soltanto il primo: un grande papa, al quale è toccato di svolgere l’alta missione in tempi difficili…».


tratto da: http://trentagiorni.tripod.com/articoli/it-199709-3a.htm

 

domenica 25 agosto 2013

LA DISOBBEDIENZA DEI SUPERIORI

 

- di P. Giovanni Cavalcoli O.P.

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Gli anziani come me ricordano bene l’agitato, chiassoso e scomposto periodo della cosiddetta “contestazione” soprattutto giovanile degli ambienti universitari civili ma anche ecclesiastici della fine anni ’60, che vagamente e confusamente si richiamavano al Concilio Vaticano II scambiato per una specie di Rivoluzione Francese o palingenesi universale dell’umanità, ma con agganci anche ad altri pensatori sedicenti innovatori, come per esempio il teologo Harvey Cox o i “teologi della morte di Dio” per i credenti o il famoso sociologo Herbert Marcuse per i non-credenti e i cattolici sedicenti “aperti”, mentre i comunisti più o meno scopertamente soffiavano sul fuoco o facevano da bordone con i soliti pretesti della liberazione dei lavoratori oppressi dall’oppressione capitalista.

E’ quel fenomeno diffusosi nel mondo occidentale, che è rimasto alla storia col nome di ’68, iniziato negli Stati Uniti all’Università di Berkeley e poi trapiantato a Parigi con l’ancora più famoso “maggio 1968”, dove si vedevano gli studenti dare l’assalto tra le barricate all’Università come i giacobini dettero l’assalto alla Bastiglia.

Io ho vissuto in pieno quel periodo perché allora mi trovavo a studiare filosofia all’Università di Bologna. Quello che allora maggiormente si notava, che turbava e preoccupava l’ambiente civile ed ecclesiale legato nella stragrande maggioranza ad un certo rispetto per le autorità, abituato ad un comportamento sociale tranquillo ed ordinato, erano i frequenti ed impressionanti episodi di spavalda e tracotante disobbedienza e ribellione alle istituzioni della Chiesa e dello Stato, come erano per esempio in campo civile le manifestazioni di studenti all’Università che impedivano il regolare svolgimento delle lezioni, cortei di protesta per le strade urlando l’odio di classe sotto al spinta dell’estremismo comunista.

Di lì a poco sarebbero iniziati i cosiddetti “anni di piombo” per l’azione sediziosa e criminale delle Brigate Rosse, mentre in campo ecclesiastico, anche se naturalmente non con tale violenza, analoghe manifestazioni di ribellioni a docenti e superiori, preti che dichiaravano all’omelia della Messa di volersi sposare, teologi sorpresi nudi sulla spiaggia come fu il caso del famoso Edward Schillebeecxk, teologi come Karl Rahner, affiancati dalla tacita o velata complicità di alcuni Episcopati nazionali, i quali rifiutavano come sbagliato l’insegnamento di Paolo VI contenuto nell’enciclica Humanae Vitae.

Tutto ciò avvenne in nome del rinnovamento della cultura e dell’autonomia degli studenti nei confronti di quelli che allora si chiamavano i “baroni”, assai semplicemente gli insegnanti, sulla base di una concezione della cultura – ho vissuto in prima persona questi avvenimenti –, per la quale lo studente è perfettamente alla pari del professore, ossia non ha nulla da imparare da lui, soprattutto se si tratta di contenuti tradizionali, ma il rapporto studente-professore doveva limitarsi ad un “dialogo” nel quale, se lo studente poteva anche apprendere dall’insegnante, anche questi però doveva accettare quello che diceva lo studente.

Nacque l’uso di interrompere l’insegnante durante la lezione per manifestare critiche e dissenso. Nei posti più educati invece l’intervento dello studente, come era già nell’antica tradizione della scolastica medioevale (le quaestiones quodlibetales), serviva a chiarire questioni anche per il bene della classe. Si introdusse la pratica dei cosiddetti “seminari di studio”, nei quali lo studente aveva una parte organizzativa facendo già tirocinio di insegnamento nei confronti degli altri studenti, sia pur sempre assistito dal professore, qualcosa di simile al medioevale baccalaureus, uno studente intermedio fra il docente e il resto della classe. La grande rivoluzione sessantottina recuperava antiche tradizioni medioevali!

Tuttavia, in un clima di relativismo culturale, quale quello di allora e tipico della modernità, non erano generalmente ammesse verità oggettive comuni, ma i contenuti della cultura dovevano emergere dal “confronto dialettico” in continua evoluzione, dove ogni risultato, mai del tutto scontato, certo e definitivo, poteva sempre esser messo in discussione da quello successivo.

Naturalmente gli studenti in questa rivoluzione non avevano tutti i torti e non erano assenti autentici maestri e formatori ed anche il ’68 non fu privo di aspetti positivi nel sottolineare la responsabilità e l’iniziativa personale dello studente nella propria formazione, mentre certamente idee nuove penetravano nel mondo dell’Università, più favorevoli ad una comunicazione tra studenti e docenti.

Adesso non si doveva più sottostare all’insegnante come a un dio in terra, ma era ammesso proporre o anche imporre ai docenti alcune alternative o limitazioni di potere concordate attraverso trattative e nel reciproco rispetto. Allo studente venivano concesse facoltà di mutare anche i programmi per ragionevoli motivi. L’insegnante doveva tener maggior conto della considerazione nella quale era tenuto dagli studenti. E gli insegnanti più saggi ed aggiornati rinunciavano a certi privilegi che consentivano loro di avere un eccessivo potere sugli studenti.

Avvenivano comunque all’Università agitatissime ed affollatissime riunioni di cinque o sei ore, fino alle cosiddette “occupazioni”, che duravano anche giorni, al termine delle quali, dopo una successione di martellanti e strillanti slogan marxisti, anarchici, maoisti e rivoluzionari, non si concludeva assolutamente nulla e chi pretendeva una conclusione certa e chiara appariva un reazionario, servo dei padroni.

Quanto alla situazione ecclesiale, imparai molto dal libro del Maritain Le Paysan de la Garonne, nel quale egli, con dovizia di documenti e fine umorismo, denunciava il ritorno di modernismo assai peggiore di quello dei tempi di S.Pio X, per una pretestuosa interpretazione del Concilio Vaticano II, che i neomodernisti facevano a loro vantaggio. Quasi nessuno ascoltò il grido di allarme del grande pensatore francese (che non fu il solo!) e per questo oggi ci troviamo nell’attuale situazione disastrata. E sì che Maritain non era un conservatore!

In mezzo a questa confusione e a questi disordini, trovai molta luce e conforto nella tradizione e nella dottrina della Chiesa, compresa quella conciliare e postconciliare. Ero un grande ammiratore di Papa Giovanni e Paolo VI. Proprio in quegli anni nei quali i sovversivi che si dichiaravano vittime dei baroni, preconizzavano una nuova società libera da qualunque autoritarismo, dove loro sarebbero stati i protagonisti e servi del popolo (i vari Capanna, Cohn-Bendit, Margherita Cagol, Toni Negri, ecc.), io studiavo Maritain, Gilson, Garrigou-Lagrange, S.Agostino, S.Bernardo, S.Bonaventura e S.Tommaso, insieme con i documenti della Chiesa con immensa gioia e frutto spirituale. Sentivo nella mia anima una perfetta consonanza e risonanza di quei sublimi insegnamenti e quindi la lealtà e l’onestà, la persuasività e la fondatezza delle loro motivazioni ed esposizioni.

Così maturò in me la vocazione domenicana ed entrai in convento a Bologna nel 1971. Fu allora che mi accorsi quanto il modernismo e la sovversione, sotto falso pretesto di “progresso”, avevano turbato e stavano turbando la Chiesa, dove avvenivano episodi di ribellione simili a quelli che stavano accadendo nella società civile, anche se certo non con la medesima violenza. Ma c’era una violenza più sottile: quella dell’inganno nel campo della fede e della teologia.

Nel contempo constatavo con sgomento il proliferare di errori tra teologi di grido senza che i vescovi intervenissero. Rari ed inefficaci gli interventi di Roma. Erano presi solo i pesci piccoli. Ed io mi domandavo: come mai? Ma che ci stanno fare i superiori? In tal modo gli errori si spargevano a piene mani in tutti gli ambienti ecclesiali: dalla famiglia, alla scuola, negli ambienti di lavoro, nella cultura, nelle parrocchie, nei movimenti, nelle istituzioni accademiche, come un’alluvione fangosa che all’inizio di basso livello, poi cresce e cresce sino a salire ai piani superiori delle case. O, all’inverso, come una seduzione fascinosa che sempre più avvolge fino a far perdere la testa e l’oggettività dello sguardo.

O in altre parole: una “sporcizia”, come avrebbe detto Benedetto XVI trent’anni dopo, che giungeva a contaminare vescovi, superiori, docenti ed educatori, i quali o non si rendevano conto di cosa stava succedendo o lo consideravano con un sorrisetto di compatimento o non facevano niente per non dire che alcuni erano conniventi o nascostamente o apertamente.

Certo Roma continuava sempre ad essere il faro e il centro del comando. Ma mentre il faro continuava ad illuminare – e questo come potrebbe non essere? – viceversa il comando diventava sempre più debole e disatteso da coloro stessi, collaboratori, pastori e superiori, che avrebbero dovuto trasmettere gli ordini alla base. E solo a questo titolo potevano esigere di esser obbediti a loro volta dai sudditi o dagli inferiori.

L’avvento di Giovanni Paolo II pose termine agli anni di piombo, all’espansione del comunismo ed alle manifestazioni intraecclesiali plateali, eclatanti e violente contro la gerarchia, la Chiesa, il Papa e il Magistero. Ma non smise un lavoro o sotterraneo o anche palese da parte dei teologi e moralisti modernisti nel portare avanti il loro programma di secolarizzazione della Chiesa e le loro idee sovversive nella formare i giovani.

Qui purtroppo il Pontificato di questo grande Papa non potè far nulla. Egli si dedicò con grande impegno e prodigiosa energia, senza risparmio di forze, ad un’opera mondiale e spettacolare di evangelizzazione con i suoi numerosissimi viaggi e contatti con un’infinità di persone, ma dedicò assai poco tempo a uno studio attento ed approfondito come soltanto il Papa avrebbe potuto e dovuto fare, deiprincipali problemi dottrinali e morali della Chiesa, onde fornire quei rimedi che solo il Papa avrebbe potuto offrire, ed a fornire la S.Sede di collaboratori competenti, coraggiosi e disinteressati, soprattutto nel campo della custodia della retta fede, sicchè il modernismo cominciò di soppiatto a penetrare anche nelle stanze dei bottoni.

Il Papa aveva sempre sulla bocca il problema dei giovani, e aveva con essi una grande capacità di contatto umano, ma purtroppo la formazione seminariale ed accademica, nonché quella degli studentati religiosi restava in gran parte nelle mani dei modernisti, per esempio i rahneriani. Quali preti e quali vescovi, quali educatori di giovani potevano uscire da questi formatori? Quale concetto dell’obbedienza potevano dare questi formatori, loro che per primi erano disobbedienti alla Chiesa? Lo vediamo oggi.

Ed anzi che cosa successe soprattutto verso la fine del pontificato di Giovanni Paolo II? Che quella debolezza di governo che si era cominciata a notare con Paolo VI, che parlava di “magistero parallelo”, aumentò ulteriormente e ci fu un vero salto di qualità.

Quale? Che fino ad allora la diffusione del modernismo, non repressa come si sarebbe dovuto fare, si era limitata alla sola contaminazione delle intelligenze, e quindi era rimasta ad uno stadio solo teorico, senza conseguenze nel governo della Chiesa, mentre d’altra parte i fedeli sudditi della Chiesa, teologi e buoni pastori, godevano tutto sommato della libertà di confutare i modernisti e di diffondere la sana dottrina in obbedienza al Magistero, dando essi stessi esempio di obbedienza.

Invece, con la fine degli anni ’90 e l’inizio del 2000, i modernisti cominciarono a raggiungere posti di potere sempre più numerosi ed elevati, dai quali potevanoimporre con la forza e le minacce quelle idee modernistiche che avevano liberamente assorbito dai loro maestri negli anni o del seminario o della formazione religiosa o dell’Università, intralciando e fermando nel contempo il lavoro dei fedeli obbedienti al Magistero e al Papa, i quali hanno sempre più cominciato a sembrare dei “disobbedienti”, ma disobbedienti ovviamente non al Magistero ma ai superiori modernisti.

Così i sessantottini diventati vescovi o superiori si stanno mostrando ben più duri ed autoritari dei vecchi “baroni”, che essi forse con sincerità avevano contestato da giovani, mentre i vescovi del preconcilio potevano essere sì severi, ma almeno lo facevano in nome della retta fede e dell’obbedienza alla Chiesa. Invece questi nuovi superiori, contrari all’inquisizione medioevale (del resto giustamente), hanno poi istituito clandestinamente una nuova inquisizione, senza alcuna ragione giuridica, ma basata solo sulla loro prepotenza, per imporre con la forza la linea del modernismo.

Così oggi avviene che quegli stessi che trenta o quarant’anni fa con arroganza e sicumera, dai banchi del seminario o dell’Università si ribellavano ai maestri accusati di autoritarismo reazionario, presentandosi come paladini della libertà dello studio, antesignani del progresso della cultura e del futuro della Chiesa, nonchè profeti delle “comunità di base”, adesso che hanno raggiunto il potere dopo infinite vergognose adulazioni e “obbedienze” ai maestri modernisti, considerano i loro propri comandi come precetti divini, disobbedendo ai quali piovono sul ribelle i più rigorosi castighi per aver offeso nel superiore la presenza di Cristo, quando loro stessi per primi se ne infischiano di Papi, di Santi e di Magistero, certi dell’impunità ed anzi coccolati da tutta l’ideologia laicista, massonica o modernista come uomini del dialogo, della tolleranza e del rispetto del diverso.

I loro protetti sono personaggi intoccabili, per cui chi osa criticarli scandalizza i loro devoti, meglio dire fanatici, più che se un credente vedesse profanata l’eucaristia. Viceversa i buoni cattolici sono trattati come pezze da piedi col massimo dispregio, come dementi e indegni di qualunque risposta, anche perché tali superiori, non avendo argomenti seri, non sanno controbattere alle loro obiezioni.

Per quanto un suddito faccia presente con rispettato, lealtà e competenza difficoltà od obbiezioni alle direttive di questi superiori con riferimento alla dottrina della Chiesa o la Magistero del Papa, questi superiori non ascoltano ragione, come se il loro verbo fosse la verità assoluta e la via necessaria della salvezza, castigando questi sudditi che in realtà non desiderano altro che obbedire ad un superiore decente ed obbediente. Accade così che a chi disobbedisce alla Chiesa non capita nulla, ma a chi disobbedisce al superiore modernista, si salvi chi può.

Come uscire da questa situazione gravissima, da questo male spaventoso? Ormai le forze della disobbedienza autolegalizzata sono tali che la S.Sede e i buoni vescovi non sono assolutamente in grado di governare tale la situazione.

Non resta che sperare in una resipiscenza dei responsabili, che in fin dei conti sono rivestiti quasi sempre di autorità legittima (non stiamo a verificare) e dovrebbero sapere qual è il loro dovere. Siano essi pronti ad ascoltare la loro coscienza e, rinunciando ad ogni ambizione e smania di potere, vogliano, con l’ispirazione dello Spirito Santo e l’intercessione della Beata Vergine Maria, temere l’incombente castigo divino e, mossi da un sincero spirito di pentimento, esercitare la loro sacra missione con autentico spirito di servizio alla verità e al bene delle anime.


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