lunedì 30 novembre 2015

Il sacrilegio più grave mai osato, fortissima reazione di Chiesa e fedeli

domenica 29 novembre 2015

Il Natale oscurato segno della nostra disgregazione

 
 
 
di Tommaso Scandroglio

Se passate dall’aeroporto di Fiumicino alcuni negozi hanno addobbato le vetrine e gli interni con sagome di abeti in cui campeggia la scritta “Season Greetings” che letteralmente significa “Auguri di stagione”. Questi auguri “stagionati” vogliono sostituire gli auguri natalizi. Già Babbo Natale aveva avuto gran parte nello sfrattare dall’immaginario collettivo, soprattutto infantile, il Bambin Gesù. Ora si sono messi pure catene commerciali ed enti pubblici in giro per il mondo a svuotare ancor più dall’interno il significato cristiano del Natale, sostituendolo con un Natale laico, che è un vero e proprio ossimoro, o con una Festa d’Inverno dal sapore tanto celtico.

Questa tendenza a candeggiare nella tinozza laicista il Santo Natale non ha risparmiato le scuole di ogni ordine e grado. Già da anni molte scuole hanno abolito i presepi e Maria, Giuseppe e Gesù sono persone non più gradite nelle aule scolari, immigrati clandestini con il foglio di via. La ventata cristianofobica ha avuto un suo picco in quel di Rozzano (Milano), in particolare nell’istituto Garofani. Marco Parma, dirigente scolastico dello stesso, ha deciso di annullare l’usuale festa di Natale che si teneva ogni anno (faranno eccezione le classi delle medie) e di sostituirla con festicciole private nelle classi in stile catacombale e con una pagana Festa d’Inverno che si svolgerà a gennaio. Banditi per tutti, poi, i canti a sfondo religioso e via dalle aule gli ultimi due crocefissi sopravvissuti non alla furia iconoclasta dei miliziani dell’Isis bensì al Consiglio di istituto. La nostra piccola Palmira l’abbiamo avuta in provincia di Milano.

Partiamo da un’evidenza (che tale non è più): si fa festa perché nasce Gesù. Proibire di intonare canti religiosi è come proibire a una festa di compleanno di cantare “Tanti auguri a te” perché potrebbe dare fastidio a quei bambini che non hanno compiuto gli anni in quel giorno. Eppure è questa la motivazione addotta dal preside: «per evitare che qualcuno potesse sentirsi escluso» si è deciso di censurare la fede cattolica in quella scuola. Mettersi a cantare Tu scendi dalle stelle «non sarebbe stato il massimo», spiega Parma, «perché questa è una scuola multietnica». Così gli esclusi e i discriminati finiscono per essere la maggioranza, cioè i bambini cattolici. Il dirigente scolastico aggiunge: «Non è un passo indietro di fronte all’islam rispettare la sensibilità delle persone che appartengono ad altre culture ad altri credo religiosi, mi pare un passo in avanti rispetto all’integrazione e rispetto reciproco». 

Un paio di riflessioni su questo frusto argomento del rispetto della libertà religiosa e dell’integrazione. Primo: se vieti canti e simboli natalizi-religiosi violi la libertà di espressione dei credenti. Trattasi di atto di violenza culturale. Secondo: il rispetto della libertà non è vietare i simboli e le espressioni della fede cattolica, ma astenersi dall’imporli. Il cattolico poi sa che la sua è l’unica vera religione: quindi ogni manifestazione del proprio credo è manifestazione di verità e l’eventuale fastidio da parte di terzi (tutto da provare perché spesso presunto) è come il fastidio nel prendere una medicina amara, ma che fa bene. Il laicismo pretende una neutralità svizzera in tema di espressione religiosa: pari dignità a tutte le fedi o, che è lo stesso, zero dignità a qualsiasi fede. Questo è erroneo perché nella prospettiva di Dio – e non degli uomini che hanno la vista corta – c’è una sola religione autentica, quella cattolica. Dio è cattolico, non protestante, né ebreo, né musulmano (per gli incerti si rimanda al documento Dominus Iesus della Congregazione della Dottrina per la Fede). 

Nella prospettiva cattolica le altre credenze si tollerano e si rispetta il libero arbitrio delle persone non cattoliche dal momento che la libertà è condizione ineludibile e necessaria perché si aderisca volontariamente al credo cattolico. Cristo chiede di essere conosciuto e amato, ma amare è un atto di libertà. Il più eccelso atto di libertà. Se poi portiamo a logica conclusione l’asserto che rispetto delle differenze significa cancellazione della propria identità, perché queste ultime potrebbero risultare urticanti per chi non è cristiano, gli effetti sono dirompenti. Infatti, la fede permea tutto il nostro vivere: anche l’ateo dice “grazie” a qualcuno come forma di cortesia, ignaro che quella espressione significa «che il Signore ti riempia di grazie». E il suo interlocutore gli risponde: «prego», che significa «prego per te». La cristianità è dappertutto: nome di vie e piazze dedicate ai santi; i nostri stessi nomi di battesimo sono nomi di santi; ci rechiamo in ospedali e università, istituzioni inventate della Chiesa; il medesimo concetto di persona è un precipitato di un approfondimento teologico sulla Trinità. Per non infastidire atei e diversamente credenti dovremmo far tabula rasa di tutto questo? E poi perché non allargare il discorso ad altre fedi, come quelle calcistiche? A Tizio dovrebbe essere vietato andare in giro con la maglia della (gloriosa) Juve per non indispettire gli interisti o i milanisti.

Terzo: integrazione significa che è l’ospite che si deve adeguare al contesto e alle regole dell’ospitante non viceversa. Se ai bambini musulmani Astro del Ciel provoca la pellagra possono ovviamente astenersi dal presenziare. Se io vado alla Mecca non mi è lecito chiedere di radere al suolo il Masjid al-Haram, cioè la più grande moschea al mondo perché ne sono infastidito. A margine, tanto per capire il senso del principio di reciprocità e di rispetto delle altre religioni così come inteso in Arabia Saudita: l’accesso alla Mecca è interdetto ai non musulmani. Se sbianchiettiamo la nostra identità non c’è integrazione perché questa prevede come presupposto logico che un’identità possa convivere pacificamente con un’altra, bensì annullamento. Non integrazione, ma disintegrazione di una fede, di una cultura, di un popolo, di una nazione. Se noi andassimo a cancellare i nostri dati anagrafici in Comune ciò significherebbe che per lo Stato noi siamo morti, siamo dei cadaveri. Quindi è erroneo ciò che dice il preside: «meno si sottolineano le differenze e più si sottolineano le convergenze meglio è». Sono le differenze che mi fanno essere me stesso, altrimenti sarei uguale in tutto e per tutto a te. Il dialogo avviene tra due persone, non tra una persona e un fantasma.

Infine, il preside in merito ai recenti fatti di Parigi così chiosa: «Se avessimo organizzato un concerto a base di canti religiosi dopo quello che è accaduto qualcuno avrebbe potuto interpretarlo come una provocazione forse anche pericolosa». Gli risponde Nostro Signore: «Non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l'anima; temete piuttosto colui che ha il potere di far perire e l'anima e il corpo nella Geenna» (Mt 10, 28). I terroristi e, in modo non violento, una buonissima parte del mondo islamico vogliono uccidere la nostra fede, vogliono sradicare dai nostri cuori e dalle nostre menti le verità rivelate. Vogliono togliere il crocifisso per metterci la mezzaluna. Il preside di Rozzano ha già fatto per loro metà del lavoro. La cosa triste, infatti, sta nel fatto che noi ci pieghiamo a questo piano. Islam, infatti, significa sottomissione (altra musica quando Gesù ci dice «Non vi chiamo più servi […] ma vi ho chiamato amici», GV 15, 15). 

Non opponiamo resistenza, ma scegliamo noi stessi l’eutanasia di fede. Anticipiamo il nemico nei suoi progetti e diamo alle fiamme la cittadella cattolica con le nostre stesse mani. Il dramma sta tutto qui: il cattolico medio - e figurarsi sul piano culturale l’italiano medio - è un imbelle. Di fronte a gente spietata che follemente si suicida per una credenza erronea, noi non siamo capaci - non diciamo di dare la vita per Cristo, di dar prova di fedeltà a Lui usque sanguinem - ma almeno di dare un’aula dove si insegnano canti cattolici. In nome di Allah ci bersagliano a colpi di kalashnikov e noi porgiamo loro le terga a braghe calate. La pavidità di affermazioni come «non offendiamo, siamo prudenti, veniamoci incontro, scegliamo ciò che ci unisce e non ciò che ci divide» è il sintomo più veritiero che la nostra fede è già morta. Ci prostituiamo con il pretesto della tolleranza, ma siamo noi che non tolleriamo più il nome di Cristo.



 


lanuovabq.it


29-11-2015


 

Per Vittorio Messori “certe parole del Papa” possono essere fraintese da persone non vicine alla Chiesa

                         Vittorio Messori

 
 
Bruno Volpe
 
Da qualche tempo, il noto scrittore e giornalista cattolico, Vittorio Messori si è imposto il silenzio sulle cose della  Chiesa e sul Papa : ” Una scelta di responsabilità “, dice. Tuttavia, ha voluto parlare con noi sul senso dell’apologia, sul proselitismo ed anche sui corvi vaticani, lanciando di tanto in tanto frecciatina che dimostrano in Messori un certo senso di malessere.
 
Messori, abbiamo bisogno dell’ apologetica, oggi?
“Mai come oggi ne sentiamo il bisogno, certo. Guardi, che il primo, vero, grande apologeta della storia, è stato il Signore. Non uno qualunque. Penso all’episodio dei discepoli di Emmaus, quando se ne tornavano stanchi e delusi, sconfortati e forse nella disperazione. Gesù appare loro e spiega il senso delle Scritture e lo fa con ardore, ma mitezza. Non è forse apologetica, quella? Pertanto, considerando che il Signore è stato il primo apologeta, reputo che questo filone sia molto, moto importante e da incoraggiare, non deprimere”.

Perchè, allora, oggi l’ apologetica sembra in disuso?
“Lei mi pone una domanda interessante. La prima risposta sta in questo. Una malintesa idea di cattolico adulto ha fatto ritenere l’apologetica come un settore minore  e persino da evitare, una cosa vecchia e superata. Questo è un grave errore di prospettiva. Per altro verso, occorre anche riconoscere che l’ apologetica specialmente prima del Vaticano II, ha avuto in qualche esponente, toni da crociata o troppo forti e una certa approssimazione culturale. Il vero apologeta deve associare competenza e intendo rigore scientifico,  e allo stesso tempo pacatezza, senza intraprendere guerre di religione. Bisogna sempre abbinare fede e ragione che non sono entità nemiche. La verità si può e  si deve dire col sorriso”.
Papa Francesco dice che il cristiano non deve fare del proselitismo, concorda?
“Io capisco quello che vuole dire il Papa e concordo quando per proselitismo si intenda quel modo di fare da piazzisti con la valigetta, invadenti e troppo fervorosi. Non ci si muove con la idea di imporre a forza, questo assolutamente no. Però bisogna riconoscere che il cristiano ha per dovere, perchè lo dice il Vangelo, quello dell’apostolato e da questo nessuno che si dica cristiano può derogare. Esiste un rischio di cattiva interpretazione delle parole del Papa. In un tempo nel quale persino la presenza alla messa domenicale è in crisi, sentire il Papa che dice basta al proselitismo o qualche volte pare bacchettare l’abitudine della celebrazione domenicale, lo ha detto a Santa Marta, potrebbe avere delle controindicazioni  in gente non molto informata e non vicina alla Chiesa”.

Crede che il concetto di “Chiesa sociale” sia maleinterpretato?
“Effettivamente noto un eccesso di Chiesa detta sociale, dei preti da strada, incline al populismo, al pauperismo e  talora anche alla demagogia. Dipende dal fatto che troviamo una sorta di inquinamento marxista nella Chiesa attuale e allora si finisce col parlare poco di Dio e  molto di altri valori quali l’economia  dando una visione diabolica della vita. Siamo sotto l’influsso della teologia della liberazione e sappiamo quanti e  quali negatività essa incarni ed abbia incarnato. Per capire come davvero bisogna muoversi, si leggano le vite dei santi sociali”.

Perchè?
“Prendiamo, io sono piemontese, la vita di san Giovanni Bosco. Indubbiamente egli pose il lavoro, la formazione professionale, il sociale tra le sue priorità. Tuttavia, la vera primizia per lui era la preghiera. Oggi si assiste alla posizione contraria: più mense, meno preghiere, con decremento del senso del sacro. La prima vera emergenza è quella di pregare di più e di rimettere Dio al centro della vita”.

Caso corvi in Vaticano: quei due libri, detto da un giiornalista famoso, andavano scritti?
“Credo che quelle due pubblicazioni siano figlie di una bella e buona dose di cinismo, nel senso letterale del termine, e figlie di interessi economici ed editoriali. Non è affatto vero, come si vuole fare intendere, che rispondano ad un intento di moralizzazione. Il giornalista non sempre deve pubblicare quello che ha, anche se vero. Esiste un senso di responsabilità nel calcolare gli effetti e nel valutare sia le notizie, sia il modo di procurarsele. Dunque sia sul contenuto, che sul metodo nutro molte riserve.  Fatta questa premessa, dico che che se i fatti narrati, dico se, sono veri, la Chiesa istituzione deve riflettere seriamente e fare un approfondito esame di coscienza”.











lafedequotidiana.it, 27 novembre 2015





 

giovedì 26 novembre 2015

Il vuoto trionfalismo degli a-teologi alla moda

img-_innerArtFb-_melloni-bianchi

    
 
di Francesco Agnoli

Caro direttore,
 
credo alle riforme, non alle rivoluzioni. Le prime appartengono alla storia della Chiesa, le seconde no. Le prime portano al bene, a rinnovare nella continuità, a pulire le incrostrazioni; le seconde nascono da uno spirito ideologico e utopico: si propongono non il rinnovamento ma la distruzione e la ricostruzione totale e portano sempre con sé, inevitabilmente, violenza e intolleranza.
 
Per questo, come tanti, sono stupito di leggere ogni giorno, da parte di uomini di Chiesa o di laici cattolici famosi alla Melloni, dichiarazioni del genere: Nasce la nuova Chiesa della tenerezza; La Chiesa ha cambiato passo; Nulla sarà più come prima; C’è aria nuova nella Chiesa…
 
Queste dichiarazioni suonano irreali e superbe. Mentre si condanna il trionfalismo curiale, mentre si predica la povertà, mentre si proclama la modestia degli appartamenti e delle macchine (ottima cosa, benché da chiarire), si fanno nel contempo proclami altisonanti, orgogliosi, stonati.
 
Ma forse non c’è nulla di nuovo. Cinquant’anni fa circa, la Chiesa fu pervasa dall’idea che si stesse vivendo una “nuova Pentecoste”, una “nuova era”, che si fosse trovata la ricetta per convertire il mondo, convertendosi ad esso. Oggi, a rileggere quelle dichiarazioni trionfalistiche, mentre si osservano le chiese, i seminari, i conventi dell’Occidente sempre più vuoti, non si può fare a meno di dire: quanto sono distanti, le dichiarazioni superbe dalla realtà!
 
Mentre penso queste cose, rileggo don Divo Barsotti, che è stato consioderato l’ultimo mistico del Novecento, un uomo ascoltato e consultato dai papi.
 
Nel 1967 scriveva: «Senso di rivolta che mi agita e mi solleva fin dal profondo contro la facile ubriacatura dei teologi acclamanti al Concilio. Si trasferisce all’avvenimento la propria vittoria personale, una orgogliosa soddisfazione che non ha nulla di evangelico. Tutto il cristiano deve compiere in ‘trepidazione e timore’; al contrario qui il trionfalismo che si accusava come stile della curia (cioè dei conservatori alla Ottaviani, ndr), diviene l’unico carattere di ogni celebrazione, di ogni interpretazione dell’avvenimento. Del resto io sono perplesso nei riguardi del Concilio, la pletora dei documenti, la loro lunghezza, spesso il loro linguaggio, mi fanno paura. Sono documenti che rendono testimonianza di una sicurezza tutta umana più che di una fermezza semplice di fede. Ma soprattutto mi indigna il comportamento dei teologi. Crederò a questi teologi quando li vedrò veramente bruciati, consumati dallo zelo per la salvezza del mondo…Tutto il resto è retorica… Solo i santi salvano la Chiesa. E i santi dove sono? Nessuno sembra crederci più».
 
Potrebbero calzare, queste parole, per i teologi alla moda che si pavoneggiano sui grandi giornali, che trovano spazio ogni giorno sul Corriere della Sera, Repubblica, la Stampa e sul Sole 24 ore (non proprio i posti adatti per esporre l’umiltà evangelica)? Potrebbero calzare per le interminabili discussioni e dichiarazioni verbose, logorroiche, dei Sinodi e dei convegni ecclesiali di oggi?
 
Sempre Barsotti, il 22 gennaio 1968 annotava: «Mi sento polemico, duro e intollerante. Certi adattamenti non li capisco, certi rinnovamenti mi sembra siano solo tradimenti. Non riesco a capire chi sia Dio per tanti teologi, per tanti scrittori, per tanti preti e religiosi. Non riesco a credere che quello che fanno, che quello che dicono, che quello che scrivono, derivi davvero da una fede vissuta, da una vita religiosa profonda, dalla preghiera. Come potrei accettare il loro discorso?».
 
Intorno a lui i teologi alla moda si pavoneggiavano sui giornali, mutavano la teologia, la liturgia, la pastorale, promettendo “magnifiche sorti e progressive” per la Chiesa tutta, in primis per quella europea, tedesca, francese, belga… cioè per le chiese che avevano riversato i loro fiumi nel Tevere della tanto vituperata Città Eterna.
 
Dirà Paolo VI: «Si credeva che dopo il Concilio sarebbe venuta una giornata di sole per la storia della Chiesa (il trionfalismo non cristiano di Barsotti, ndr). È venuta, invece, una giornata di nuvole, di tempesta, di buio».
 
Ne trarranno una lezione, i trionfalisti? Si accorgeranno che mentre le loro tesi trovano spazio sui media del potere, la fede cresce invece in quelle terra, come l’Africa, i cui pastori vivono e parlano ben altra vita e ben altra dottrina?
 
 
 
 
 
 
 
© La Nuova BQ 25-11-2015
 
 
 
 
 

mercoledì 25 novembre 2015

Sposati civilmente, vivono castamente per 25 anni

                     





 
di Guido Villa

Alcune settimane fa, il portale americano pro-life Lifesitenews ha pubblicato, a firma di Pete Baklinski, un articolo che narra la storia di Peter e Anne Stravinskas, una coppia cattolica americana sposata civilmente, che per potere fare la Comunione visse per venticinque anni in continenza assoluta, ovvero come fratello e sorella (l’articolo originale può essere letto qui). Questa è una storia di santità tanto più eroica in quanto vissuta partendo da una situazione di peccato, e può servire da sprone e da esempio a tanti nostri fratelli e sorelle che vivono la stessa situazione.

La vicenda, raccontata dal figlio della coppia, Peter junior, oggi sacerdote, ha inizio negli anni quaranta del secolo scorso quando Peter Stravinskas, cattolico, venne abbandonato dalla moglie. Sebbene sapesse che il suo matrimonio, celebrato in chiesa, era indissolubile, Peter si sposò nuovamente con rito civile con Anne, una donna cattolica non praticante. Sebbene vivessero entrambi lontani dalla Chiesa, decisero di dare al figlio Peter junior, nato nel 1950, un’educazione cattolica. La loro vita cambiò radicalmente il giorno in cui il bambino, tornato a casa da scuola, confidò alla madre la sua tristezza qualora, quando sarebbe andato in Paradiso, non avesse avuto con sé i genitori. La suora che insegnava catechismo, infatti, aveva detto che «le persone che non vanno a Messa la domenica, quando muoiono, vanno all’inferno». La madre troncò lì il discorso, che ella tuttavia riprese la sera con il marito, dopo che il figlio era andato, così essi pensavano, a dormire - in realtà egli ascoltava il dialogo tra i genitori da dietro la porta. 

La donna espresse al marito il proprio disappunto per quella che ella considerava un’indebita intromissione della suora nella vita della famiglia, ripromettendosi di ammonire la stessa suora in tal senso l’indomani mattina. Il marito non fu d’accordo, disse alla moglie che non poteva aspettarsi, dalla suora, parole diverse da quelle da lei dette, e le propose un’altra soluzione: che dalla domenica successiva tutta la famiglia andasse insieme a Messa. Così avvenne, e la domenica successiva gli Stravinskas parteciparono, per la prima volta tutti insieme, alla Messa. Soprattutto Anne fu presa da un fortissimo desiderio di fare la Comunione, e fu grande la sua sofferenza quando comprese di non potere ricevere Gesù, essendo sposata con il marito solo civilmente.

La coppia espose il problema al parroco, il quale rispose loro che c’era la possibilità che Peter senior facesse verificare se il suo matrimonio era stato celebrato validamente, una procedura, aggiunse tuttavia il sacerdote, che era lunga e costosa. Egli propose alla coppia un’altra soluzione, quella di vivere come fratello e sorella, cioè di astenersi dall’avere rapporti sessuali. Essi accolsero il consiglio del parroco e poterono accostarsi alla Comunione.

Peter junior seppe della situazione dei suoi genitori solo molti anni dopo, discutendo con il padre su ciò che la Chiesa insegna a proposito del matrimonio. Il padre gli disse: «Sì, possono accadere situazioni irregolari. Ma per essere fedeli a Cristo, tua madre e io viviamo da dieci anni come fratello e sorella». Il figlio testimonia che essi vissero in questo modo tutto il resto della loro vita matrimoniale. Peter senior morì nel 1983 all’età di settantuno anni, Anne visse fino a ottantasette anni, lasciando questo mondo nel 2005.

Quello di Peter senior e Anne è un esempio di santità e di fedeltà a Dio e alla sua Legge. Vivere il cammino della santità, infatti, non significa essere perfetti, bensì, con l’aiuto della grazia di Dio, di combattere le proprie inclinazioni cattive e di dire un “no” cosciente al peccato. Nonostante la situazione matrimoniale irregolare di partenza, Peter senior e Anne seppero riconoscere Cristo, e nutrendosi di Lui, vissero nella virtù, poiché un vero incontro con Cristo è un incontro di Amore, e l’anima riconosce che Dio ama senza misura, e quindi rifiuta i compromessi con il mondo e desidera dare, a sua volta, senza misura.

Del resto la soluzione proposta dalla Chiesa ai quei coniugi che vivono in situazioni irregolari di vivere come “fratello e sorella”, soluzione adottata da quando il divorzio è divenuto un fenomeno di massa che coinvolge anche moltissimi sposi cattolici, è un grande atto di misericordia: infatti, non si chiede ai coniugi sposati civilmente di rompere il loro legame, cosa che nella maggior parte dei casi porterebbe a sofferenze ancora più grandi, soprattutto se si hanno dei figli, bensì di vivere questo legame nella castità assoluta, un sacrificio che rappresenta la decisione per la conversione e il riconoscimento dell’indissolubilità del matrimonio religioso celebrato in precedenza.

Inoltre, è interessante notare come la conversione di Peter senior e di Anne fu avviata da una suora che disse la verità: se si è lontani da Dio e se si vive nel peccato sussiste la concreta possibilità che l’anima si danni per l’eternità. Ciò li spinse a convertirsi, ad abbandonare la via del peccato nella quale essi vivevano. Essi risposero all’appello che il Signore fece loro attraverso questa suora, e cambiarono vita. Non solo guadagnarono la vita eterna, ma il loro sacrificio ottenne da Dio il dono di un figlio sacerdote, che della virtù dei genitori è testimone in parole e opere.

Oggi un sacerdote o un catechista che osasse parlare dell’inferno e della concreta possibilità di dannazione per l’eternità se ci si indurisce nel peccato, potrebbe finire nei guai, anche all’interno della Chiesa. Verrebbe accusato di essere rigido, di avere un atteggiamento da fariseo o dottore della Legge, verrebbe rimproverato di non avere un “linguaggio inclusivo”, di “giudicare”.

Dal proseguo dell’intervista di Lifesitenews, appare chiaro come padre Peter Stravinskas, figlio di Peter senior e Anne, abbia compreso come la strada seguita, a suo tempo, dalla suora che portò alla conversione dei genitori, sia l’unica strada che la Chiesa deve percorrere per guarire le ferite di tanti figli lontani. A proposito del concetto di “accompagnamento”, menzionato nella relazione finale del recente Sinodo sulla famiglia, egli afferma che ammonire i peccatori e avvertirli della natura del loro peccato è veramente «un’opera di misericordia spirituale», e aggiunge che il linguaggio cosiddetto di “integrazione” utilizzato nella stessa relazione finale del Sinodo, rappresenta un “cavallo di Troia” avente lo scopo di attaccare il cuore dell’insegnamento di Gesù sull’indissolubilità del matrimonio. 

La Chiesa, prosegue padre Stravinskas, non ha il potere di cambiare l’insegnamento sul divorzio e sul nuovo matrimonio, giacché esso viene da Dio stesso, e chi si avvicina indegnamente all’eucaristia commette un peccato di sacrilegio, il più grave tra tutti i peccati. Ricordando il luminoso esempio dei genitori, egli afferma che la posizione di cardinali quali Kasper e Marx, che considerano “irrealistica” la richiesta alle coppie sposate civilmente di astenersi dai rapporti sessuali, «disonora i miei genitori e migliaia di altre coppie come loro che hanno deciso di porre la propria fiducia alle parole di Gesù e di andare avanti nella grazia di Dio». La nostra fede, conclude padre Stravinskas, «ci insegna che Dio dà a ognuno la grazia per evitare il peccato».









lanuovabq.it




 

martedì 24 novembre 2015

Un Concilio non conciliante

 





Pochi giorni fa mi trovavo alla presentazione di un libro nella splendida cornice della sala Pietro da Cortona dei Musei Capitolini. Il libro che veniva presentato riguardava i diari del cardinal Pericle Felici, segretario generale del Concilio Vaticano II e figura chiave per capire un poco di più riguardo questo evento ecclesiale che ha segnato la vita della Chiesa negli ultimi 50 anni in modo profondo.

Il libro, curato dall’Arcivescovo Agostino Marchetto, è stato presentato in una cornice prestigiosa ed alla presenza di nomi illustri della curia romana, fra cui il segretario di stato Cardinal Pietro Parolin e numerosi vescovi, cardinali, sacerdoti e laici. Il lavoro di Monsignor Marchetto sul Concilio si muove in una direzione diversa da quello della cosiddetta scuola di Bologna facente capo un tempo a Giuseppe Alberigo ed ora capeggiata da Alberto Melloni – scuola di Bologna che avalla l’interpretazione del Concilio come momento di rottura – così come mi sembra diversa da quella revisionista che fa capo a Roberto de Mattei e Brunero Gherardini che nei loro lavori cercano, in un certo senso, di depotenziare l’importanza del Concilio e di ricentrare sugli insegnamenti tradizionali l’impatto che esso ha avuto nella vita della Chiesa.

Monsignor Marchetto, avallato anche dal gradimento autorevole di Papa Francesco, sembra sposare di più la tesi resa famosa dal predecessore dell’attuale pontefice ed attuale papa emerito Benedetto XVI, quello del Concilio che va interpretato secondo l’ermeneutica della continuità, non quella della rottura.

Ora, anche per ciò che riguarda la musica liturgica, l’impatto del Concilio è stato fragoroso, a dir poco. Certamente c’è stata una rottura violenta, andando di molto oltre le intenzioni dei documenti del Concilio (e assecondando così un misterioso spirito dell’assise ecumenica). Io penso che l’interpretazione di Benedetto XVI e Monsignor Marchetto sia la più corretta, ma non mi nascondo che il Concilio è stato usato come una sorta di chiave per scardinare tante porte che in precedenza erano precluse. Si è usato il Concilio, molto a sproposito, come un grimaldello per aprirsi varchi in ambiti che dovevano rimanere al di fuori della liceità musicale e liturgica. Questo ha portato come conseguenza tutte quelle disfunzioni che elencavo in paragrafi precedenti.

Il Concilio ha certamente segnato la Chiesa negli ultimi 50 anni in modi che sono sotto gli occhi di tutti. Per quello che riguarda i danni fatti nella musica e nella liturgia (con la scusa del Concilio e malgrado quello che i documenti dicevano) non sono ottimista ma sono possibilista. Come detto, la spinta al cambiamento non verrà dall’altro ma verrà da un movimentismo disorganizzato che si coagulerà intorno a poche idee riformistiche fondamentali. Aspettiamo quel momento con trepidazione.









ilnaufrago.com

 

La famiglia negli insegnamenti di Papa Francesco






23-11-2015 - di S. E. Mons. Giampaolo Crepaldi

Mercoledì 18 novembre, su invito del Cardinale Angelo Bagnasco, Arcivescovo di Genova e Presidente della Conferenza episcopale italiana, l’Arcivescovo Giampaolo Crepaldi, Vescovo di Trieste e presidente del nostro Osservatorio, ha tenuto a Genova una lezione sul tema: LA FAMIGLIA NEL MAGISTERO DI PAPA FRANCESCO. Pubblichiamo il testo completo della relazione.



Papa Francesco parla con grande frequenza della famiglia. Tutti noi ricordiamo i grandi insegnamenti di Giovanni Paolo II sulla famiglia. Egli era stato chiamato “Il Papa della famiglia”. Memorabili, in particolare, le catechesi delle udienze generali dedicate all’amore umano. Non di meno l’insegnamento di Papa Francesco, che interviene sulla famiglia con un magistero organico e profondo. Ne ha parlato al presidente Obama, durante la visita negli Stati Uniti. Ne ha parlato a Cuba: «dove viene meno la famiglia le persone si trasformano in individui isolati, e dunque facili da manipolare e governare». Ne ha parlato al Presidente Mattarella il 18 aprile 2015 e nel viaggio nelle Filippine nel gennaio 2014. Ne ha parlato, proprio come Giovanni Paolo II, soprattutto nelle udienze del mercoledì, dedicate per un lungo periodo – precisamente dal dicembre 2014 al settembre 2015 – alla famiglia. Un grande patrimonio di insegnamenti.

Ho citato i due Pontefici non per fare superficiali confronti, ma per sottolineare la continuità di un unico insegnamento, pur nella diversità dei linguaggi e delle forme comunicative adoperate. Giovanni Paolo II usava un linguaggio più circolare, Papa Francesco uno più diretto. Anche San Giovanni Paolo II formulò espressioni di grande efficacia comunicativa – ricordiamo, per esempio, il fortunato riferimento al “genio femminile” contenuto nella Lettera alle Donne o la felice espressione “ecologia umana” lanciata nella Centesimus annus per dire poi che la sua prima e principale struttura è la famiglia. Nel complesso, tuttavia, il suo dire era corposo, circolare, sostenuto, ad ampie volute. Il linguaggio di Papa Francesco è diverso, più agile e ricco di immagini. Prendiamo per esempio le espressioni «la famiglia è la Carta costituzionale della Chiesa» (17 ottobre 2015) oppure «per i malati la famiglia è il primo ospedale» (10 giugno 2015), oppure la famiglia «è una palestra che allena al perdono». Una carta costituzionale, un ospedale, una palestra: sono immagini semplici ed efficaci. Non si tratta di definizioni di tipo strettamente teologico e dottrinale, ma espressioni di predicazione capaci di trasmettere in forma viva un contenuto umano e cristiano. Non possiamo poi dimenticare come Papa Francesco, quando parla della famiglia, raccolga molte immagini dalla vita, anche dalla sua vita personale, come quando, parlando della Mamma, parlò della sua mamma: «eravamo cinque figli e mentre uno ne faceva una, l’altro pensava di farne un’altra, e la povera mamma andava da una parte all’altra, ma era felice. Ci ha dato tanto» (7 gennaio 2015).

Infine, ricordo alcune espressioni molto azzeccate di Papa Francesco su alcuni temi di spinosa attualità, rispetto ai quali egli era stato ingiustamente accusato di un certo silenzio. L’ideologia del gender egli l’ha chiamata «un errore della mente umana» (22 marzo 2015, a Napoli) e ha detto che essa è «una forma di colonizzazione ideologica della famiglia». Ancora una volta un modo di esprimersi plastico ed efficace.

Le questioni di linguaggio non sono mai solo tali. Esse rispondono ad un posizionamento ed esprimono una visione teorica ed una strategia. Vorrei azzardare, su questo punto, qualche ipotesi interpretativa..

La situazione attuale della famiglia è forse tra le più problematiche che si siano dovute registrare. I dati relativi al calo dei matrimonio, all’aumento delle convivenze, alle nascite fuori del matrimonio, alla denatalità, alle separazioni e ai divorzi, all’uso di contraccettivi con possibile effetto abortivo e così via documentano –anche nell’ultimo Rapporto del Censis - una forte crisi della famiglia. Nel frattempo le legislazioni di tutto il mondo la indeboliscono considerandola una struttura non naturale ma convenzionale e poliforme, in ossequio ad una antropologia liquida che rifiuta qualsiasi identità data.

Negli interventi di Papa Francesco sulla famiglia si nota una forte consapevolezza di questa grave crisi culturale e sociale della famiglia a cui il Papa sembra far corrispondere un nuovo atteggiamento di risposta.

Il primo è di ricostruire dall’abc il lessico familiare. In un’epoca in cui si rischia di perdere il significato della parole “mamma” o “nonno”, emerge l’urgenza di risemantizzare queste parole. In un’epoca in cui le relazioni familiari si sbriciolano, i genitori non si incontrano mai con i figli se non a sera, i rapporti generazionali implodono e gli strumenti tecnologici fanno da supplenti dei ruoli familiari, è necessario tornare a spiegare cosa voglia dire parlarsi tra componenti di una famiglia. Ecco allora che Papa Francesco spiega l’importanza delle parole “grazie”, “scusa”, “permesso” nella micro vita familiare di tutti i giorni. Eccolo, come ha fatto di recente (11 novembre 2015) spiegare a genitori e figli che in famiglia bisogna anche lasciar stare smartphone e televisione e parlarsi dal vivo attorno alla tavola della cena. Nei primi mesi del 2015, il Papa ha dedicato le udienze del mercoledì a spiegare cosa significhino i termini mamma, papà, nonni, fratelli e sorelle.

Qualcuno può essere sorpreso che un Papa parli di queste piccole cose. Che, anziché discorsi di profonda teologia, spieghi che con uno switch off bisogna spegnere il cellulare quando si è a tavola. Io credo, però, che il Papa svolga così un compito indispensabile di rieducazione all’essenziale, nel tentativo di segnalare il pericolo di una degenerazione familiare che parte sì dagli attacchi ideologici e legislativi – che il Papa non manca di denunciare – ma che si concretizza anche nei piccoli baratri delle relazioni umane di tutti i giorni.

Del resto – mi chiedo – si tratta veramente solo di indicazioni povere ed elementari, oppure con questa forma colloquiale e domestica – come seduto su un divano di una delle nostre abitazioni - il Papa sceglie di far capire contenuti molto più profondi? Per rispondere a questa domanda vorrei proporre alcune osservazioni sulla base della Dottrina sociale della Chiesa.

Papa Francesco non usa molto l’espressione Dottrina sociale della Chiesa. E’ vero che nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium egli cita molte volte il Compendio della Dottrina sociale della Chiesa. E’ vero anche che in molte circostanze, soprattutto nei discorsi ai Dicasteri e alle Accademie pontificie, egli ha adoperato l’espressione. Riconosciuto questo, mi sento di dire che egli usa la Dottrina sociale della Chiesa più in modo implicito che esplicito, indiretto più che diretto. Ciò è particolarmente evidente quando si riferisce alla famiglia. Leggendo i suoi interventi sulla famiglia si riscontra la presenza di tutti i grandi temi della Dottrina sociale della Chiesa inerenti alla famiglia senza che ciò sia messo in evidenza e con un linguaggio, come già si diceva sopra, non dottorale ma piano e quotidiano. Potrei anche dire che la Dottrina sociale della Chiesa è presupposta e passa dall’interno dei suoi interventi, senza essere formalmente ripresa e ridefinita.

E’ abbastanza facile portare qualche esempio.
All’udienza generale del 2 settembre scorso, il Papa ha parlato della famiglia come antidoto all’attuale desertificazione della società. Con questa espressione immaginifica – il deserto – il Papa ha ribadito la tradizionale dottrina della famiglia come fonte di socialità, di accoglienza e come luogo dell’esperienza del dono che troviamo nella Caritas in veritate di Benedetto XVI o nella Familiaris consortio di Giovanni Paolo II. Già nell’udienza del 18 febbraio 2015 egli aveva insistito sul fatto che l’esperienza di essere fratelli e sorelle si fa in famiglia e solo perché si fa in famiglia la si può poi fare nella Chiesa e nella società. Così è per l’aiuto ai più deboli: è in famiglia che ci si abitua a farlo non per motivi ideologici, ma per amore.

Alla catechesi del 19 agosto scorso, Papa Francesco ha parlato della famiglia come scuola di lavoro, ammonendo che se si vuole salvare il lavoro bisogna salvare la famiglia, con ciò richiamando gli insegnamenti della Rerum novarum di Leone XIII e della Laborem exercens di Giovanni Paolo II.
Alle udienze del 22 e del 29 aprile di quest’anno ha parlato della reciprocità complementare tra uomo e donna, valutando negativamente le ideologie che oggi pretendono di negarla e ha poi chiesto la parità di trattamento sul lavoro tra uomo e donna. Nel primo caso ha ripreso e attualizzato gli insegnamenti di Benedetto XVI sull’ideologia del gender, contenuti soprattutto nel discorso alla Curia romana del dicembre 2012. Nel secondo ha ripreso le considerazioni di Giovanni Paolo II sulla conciliazione tra lavoro e vita familiare e l’adeguata valorizzazione del “genio femminile” nella società contenute nella Familiaris consortio e nella Mulieris dignitatem di Giovanni Paolo II.
Nell’udienza dell11 febbraio 2015, Papa Francesco ha parlato a lungo dei figli come un dono: «I figli sono un dono, sono un regalo: capito? I figli sono un dono. Ciascuno è unico e irripetibile; e al tempo stesso inconfondibilmente legato alle sue radici. Essere figlio e figlia, infatti, secondo il disegno di Dio, significa portare in sé la memoria e la speranza di un amore che ha realizzato se stesso proprio accendendo la vita di un altro essere umano, originale e nuovo». In questo modo e con questo linguaggio diretto egli ha veicolato i contenuti della bioetica e della biopolitica cattolica, dalla Humanae vitae di Paolo VI alla Evangelium vitae di Giovanni Paolo II fino ai successivi documenti della Santa Sede.

Ho citato qui molti documenti magisteriali i cui contenuti si riverberano negli interventi di Papa Franesco, ma senza essere esplicitati. Potremmo forse definirli dei contenuti “leggeri”, non appesantiti dalla forma accademica della citazione ma inseriti nel flusso della vita.
Ho fatto questi quattro esempi, per mostrare come gli interventi di Papa Francesco sulla famiglia sono sì effettuati con un linguaggio domestico che si concentra su immagini e frasi particolarmente evocative – “chi non vive per servire non serve per vivere” – ma con ciò non si esime dal veicolare contenuti molto alti. Mi sono occupato qui di temi legati alla Dottrina sociale della Chiesa, ma lo stesso discorso si potrebbe fare per altri ambiti dell’insegnamento della Chiesa.

Vorrei ora tornare, avviandomi alla conclusione, al metodo che, come abbiamo visto, non è mai solo un problema di metodo. A me sembra che Papa Francesco ci voglia indicare una via caratterizzata da due elementi: il primo è ripartire dall’abc dell’umanizzazione e dell’evangelizzazione, anche a proposito della famiglia. Faccio notare che non ho parlato solo di evangelizzazione ma anche di umanizzazione. Nei discorsi del Papa sulla famiglia i due elementi si intrecciano sempre e, del resto, tutti constatiamo la necessità di recuperare, insieme al cristianesimo e tramite di esso, elementari condizioni umane di vita. Il secondo è che bisogna lavorare soprattutto sulle relazioni, perché non solo la famiglia è soprattutto relazione ma la società intera oggi gioca proprio lì la sua esistenza. Ciò non significa per nulla non collocarsi correttamente anche nei confronti delle istituzioni, delle leggi, delle politiche, ma bisogna ricordare che queste tre realtà non sono statiche, ma rispondono alle sollecitazioni che giungono dal basso, nella trama delle relazioni familiari e sociali. Qui i modelli veramente vincenti sono quelli che danno vita a comportamenti, ad atteggiamenti, a pratiche di vita, a relazioni. Da qui, probabilmente, una certa ritrosia o parsimonia del Papa a dare definizioni e la sua propensione a indicare comportamenti da assumere, prassi da promuovere, dimensioni di vita da valorizzare o, come egli ama dire, processi da avviare.

In questa dimensione relazionale e vitale, va collocata naturalmente prima di tutto la vita di fede. Il 25 marzo 2015, il Papa ha proposto una preghiera per la Famiglia in vista dell’allora prossimo Sinodo ordinario sulla famiglia. Vi invito a non dimenticarla, ora che il Sinodo si è concluso. Questo per dire che mi sembra che Papa Francesco ci voglia insegnare che il cristianesimo è vita vissuta, carne incarnata. In fondo la famiglia si salverà se nelle nostre famiglie penetrerà la vita della Famiglia di Nazareth.

Conferenza a Genova








vanthuanobservatory.org





domenica 22 novembre 2015

«Una fede erosa», il Papa sferza i vescovi tedeschi

 
I vescovi tedeschi       
 Un articolo pubblicato sul Frankfurter Allgemeine Zeitung e che risale all’inizio del 2015 dava conto di un’indagine commissionata dalla Chiesa cattolica tedesca all'Istituto Allensbach sulla vita di fede in Germania. I risultati furono talmente deludenti che si pensò bene di non renderli pubblici, tuttavia quell’articolo dava alcuni dati che parlavano chiaro.  Il 60% dei fedeli, tanto per citarne uno, diceva di non credere in una vita dopo la morte, e solo un terzo credeva nella Resurrezione di Cristo.

Il numero dei praticanti poi è in costante e progressivo calo, di molto inferiore al numero dei battezzati, si parla di circa 3milioni di fedeli, un risicato 10% sul totale. Un dato che ha ricordato anche Papa Francesco nel discorso che venerdì ha tenuto proprio ai vescovi tedeschi in “visita ad limina”. «Si nota particolarmente nelle regioni di tradizione cattolica [tedesca, NdA] un calo molto forte della partecipazione alla Messa domenicale, nonché della vita sacramentale», ha ricordato il Papa ai vescovi. «Dove negli anni Sessanta ovunque ancora quasi ogni fedele partecipava tutte le domeniche alla Santa Messa, oggi sono spesso meno del 10 per cento. Ai Sacramenti ci si accosta sempre di meno. Il sacramento della Penitenza è spesso scomparso. Sempre meno cattolici ricevono la Cresima o contraggono un Matrimonio cattolico. Il numero delle vocazioni al ministero sacerdotale e alla vita consacrata è nettamente diminuito. Considerati questi fatti si può parlare veramente di una erosione della fede cattolica in Germania».

Le parole di Papa Francesco fotografano con realismo disarmante una situazione davvero difficile. Se non bastasse possiamo ricordare en passant un’altra indagine pubblicata in questo 2015 e che ha fatto un certo scalpore. Anche questa è stata commissionata dalla Conferenza episcopale e ha riguardato oltre 8.000 “operatori pastorali” in tutta la Germania. Il dato che ha fatto più riflettere è stato certamente il 54% dei preti che ha dichiarato di confessarsi solo una volta all’anno (o anche meno frequentemente). «Che cosa possiamo fare?», ha domandato il Papa ai vescovi. Innanzitutto fare in modo che «le strutture della Chiesa diventino tutte più missionarie» e «stare tra la gente con l’ardore di quelli che hanno accolto il Vangelo per primi».

Sul piano dei sacramenti il Papa ha ricordato l’occasione del Giubileo della Misericordia per far riavvicinare i fedeli alla Confessione, perché, ha detto Francesco, «nella Confessione ha inizio la trasformazione di ogni singolo fedele e la riforma della Chiesa. Confido che si darà maggiore attenzione a questo sacramento, così importante per un rinnovamento spirituale, nei piani pastorali diocesani e parrocchiali durante l’Anno Santo e anche dopo». Un richiamo a una vita spirituale più intensa, mettendo in guardia i presuli dalla piaga della  “mondanità” che attanaglia in particolare il nostro mondo occidentale e «deforma le anime, soffoca la coscienza della realtà: una persona mondana vive in un mondo artificiale», ha detto il Papa. Questo richiamo viene offerto ad una Chiesa particolarmente ricca, basti pensare che la diocesi di Monaco-Frisinga, retta dal cardinale Marx, uno dei più stretti collaboratori del Papa nel famoso C9, ha speso qualcosa come 8 milioni di euro per ristrutturare il bellissimo palazzo barocco arcivescovile e 130 milioni di euro per un centro servizi multifunzionale diocesano.

D’altra parte la Chiesa tedesca è una delle più ricche al mondo, anche grazie al perdurare della Kirchensteuer, la tassa moralmente obbligatoria per i fedeli che rende alle casse qualcosa come 4-5 miliardi di euro all’anno, e la Chiesa è anche il secondo datore di lavoro dopo lo Stato Federale. Una chiesa quindi molto ricca di struttura, ma che ha a che fare con quella che il Papa ha definito una vera e propria «erosione della fede». Anche Benedetto XVI, che la Germania la consoce bene, nel suo viaggio del 2011 aveva detto: «In Germania la Chiesa è organizzata in modo ottimo. Ma, dietro le strutture, vi si trova anche la relativa forza spirituale, la forza della fede nel Dio vivente?».

La risposta in un certo senso la dà oggi papa Bergoglio quando, senza mezzi termini, dice ai vescovi tedeschi che «vengono inaugurate strutture sempre nuove, per le quali alla fine mancano i fedeli. Si tratta di una sorta di nuovo pelagianesimo, che ci porta a riporre la fiducia nelle strutture amministrative, nelle organizzazioni perfette». Pare proprio che la mondanità non riguardi solo certi ambienti che vengono dipinti come resistenti alle novità pastorali, ma anche quelle Chiese più aperte, addirittura ritenute “progressiste”.







lanuovabq.it



 

Crisi della Bellezza e crisi della Fede

arte





|

Da tempo ormai sociologi, teologi e pure cardinali ci dicono che la fede cristiana è in calo nel vecchio continente. Fenomeno, che al momento, non sembra invece interessare le così dette “periferie esistenziali”, ovvero il continente africano e parte dell’Asia. Perché questa tendenza?

Da dove viene questa crisi? Tentare di elencare le cause in un articolo risulterebbe realisticamente impossibile poiché sono diversi i fattori riscontrabili che hanno portato ad una vera e propria secolarizzazione della fede in Europa e nel resto dell’Occidente. Se però volessimo tentate almeno di cogliere un aspetto di questa crisi dovremmo fare i conti con un fatto che ormai sembra diventato “dogma”, ovvero la santificazione dell’umano e la laicizzazione del Divino. Mi spiego. È facile notare come, non solo architettonicamente ma anche sostanzialmente, la presenza di Dio all’interno degli edifici religiosi sia stata decisamente marginalizzata. Laddove l’altare era presieduto dal Tabernacolo contenente le Specie Eucaristiche, oggi trova posto la figura e la persona del sacerdote.

Non di rado nelle nostre chiese la cappella del Santissimo Sacramento è posta fuori dalla stessa chiesa, lasciando l’edificio senza la presenza constante del Redentore. Ci si è, piano piano, abituati all’assenza di Dio e alla presenza (per non dire, a volte, invadenza) del sacerdote. Entrando nelle nostre chiese si è persa, conseguentemente, l’antica usanza di segnarsi e genuflettersi verso il Tabernacolo. Stessa cosa dicasi durante la funzione liturgica nel momento della Consacrazione. Sempre più fedeli rimangono ritti (come farisei nelle sinagoghe) al cospetto dell’Onnipotente. Mi si obietterà che sono tutte cose formali, che la fede è anzitutto sostanza, che non dipende da un gesto o da quell’altro. Purtroppo per i difensori delle liturgie “liberty” la Chiesa ha sempre pensato e creduto che la forma è anche sostanza. Che forma dare, allora, alla liturgia in cui nuovamente il Signore viene e si sacrifica per la nostra salvezza?

Nei secoli la Chiesa ha sempre creduto che la bellezza fosse specchio del vero Bello che è Dio. Contemplando la bellezza di gesti pacati e misurati, di chiese splendidamente addobbate e impreziosite da opere d’arte, di musiche sublimi e di profumi celestiali, si permetteva (e si permette) all’uomo di sentirsi realmente e concretamente più vicini alla vera Bellezza. Neanche i pavimenti venivano risparmiati, coperti a volte da stupendi mosaici che servivano al semplice fedele (non allo storico dell’arte o al turista) che, inginocchiandosi per pregare, aveva anche il pavimento che “parlava” di Dio e lo conduceva verso l’Altissimo. Un trionfo di fede semplice e bellezza, una sintesi perfetta di materia e forma, di corpo e anima, di cui Gesù Cristo ne è la sintesi mirabile. Vero Dio e vero Uomo, Colui in cui confluisce la povertà del galileo e lo splendore del Figlio di Dio. Rivoluzionando la forma si è impoverito il contenuto. Anzi, lo si è proprio alterato. Non è più necessario, sembra, chiedere a Dio grazie e miracoli, forza e discernimento.

Tutto diventa troppo umano.
È così che, piano piano, si fa strada l’idea che un sacramento sia vero solo se creduto in maniera incontrovertibile dai fedeli, che la Chiesa è santa solo se i fedeli sono santi. Insomma si capovolge la verità. Non siamo più noi che abbiamo bisogno di Dio per essere santi ma, paradossalmente, è Dio che ha bisogno di noi. Siamo noi che rendiamo santo Dio. L’antropocentrizzazione della liturgia ha avuto conseguenze molto pensanti, quindi, anche per la fede. Non è difficile infatti trovare chi dica che il Sacramento del Battesimo sia meglio amministrarlo quando una persona ha coscienza di quello che sta facendo, ignorando completamente la dottrina su esso. Oppure che il sacramento del matrimonio, se non più vissuto cristianamente dagli sposi, cessa di essere vero. Segni efficaci della Grazie di Dio si relativizzano al comportamento e alla fede dell’uomo. Non viene risparmiato praticamente nulla. Se si pensa che nel 1910, sotto San Pio X, venne pubblicato il decreto “Quam singualri” dove si affermava che condizione necessaria per la Comunione ai bambini non fosse la “piena e perfetta cognizione della dottrina cristiana”, ma la comprensione “per quanto lo consentano le forze della sua intelligenza” di distinguere il bene dal male e “il Pane eucaristico dal pane comune e materiale”. Per questo il documento visti i tempi (siamo nel 1910!!) consigliava vivamente di far avvicinare i bambini alla prima Comunione intorno e magari prima dei sette anni d’età. Insomma, per la Chiesa non era (e non dovrebbe essere oggi) necessaria una preparazione straordinaria che, come riferisce il testo, accompagna e non precede l’accesso al sacramento. La richiesta di una preparazione straordinaria “col protesto di tutelare il decoro dell’augusto Sacramento” è stata causa “col tempo di non pochi errori e abusi deplorevoli”.

Il più grave di tutti è quello di tenere lontani da Dio i bambini.
“Avveniva infatti che i fanciulli innocenti, distaccati da Cristo, venissero a mancare di ogni nutrimento della vita interiore; di che anche seguiva che la gioventù, priva di un aiuto efficacissimo, circondata da tante insidie, perduto il suo candore, si gittasse nel vizio prima di aver gustato i santi misteri. […]fino alla dolorosa perdita della prima innocenza, perdita che forse sarebbe potuta evitarsi, se si fosse in età più tenera ricevuta l’Eucaristia”. Viene da pensare: tutto il contrario di quello che oggi viene predicato. Non sono certamente io a dirlo ma lo stesso card. Antonio Cañizares Llovera, ex prefetto del Culto Divino, che nel centenario della “Quam Singualri” ricordava come “non è dunque raccomandabile la prassi che si sta introducendo sempre più di elevare l’età della prima comunione. Al contrario, è ancora più necessario anticiparla. Di fronte a quanto sta accadendo con i bambini e all’ambiente così avverso in cui crescono, non priviamoli del dono di Dio: può essere, è la garanzia della loro crescita come figli di Dio […] La grazia del dono di Dio è più potente delle nostre opere, e dei nostri piani e programmi”. Se i nostri piani e i nostri programmi diventano solo “nostri” allora perdiamo quell’umana dipendenza da Dio e invocando il nostro stato di “adulti” ci apriamo all’abisso sconfinato delle nostre debolezze e dei nostri peccati e ci dimentichiamo che tutti noi abbiamo bisogno, più di ogni altra cosa, non di salvarci ma di essere salvati.









libertaepersona.org



 

sabato 21 novembre 2015

Ecumenismo ed intercomunione





[Brano tratto da un editoriale del Cardinale Giuseppe Siri, pubblicato su “Renovatio”, IX - 1974]



Il problema dell’intercomunione è un problema di estrema gravità e può costituire una deviazione dal retto metodo ecumenico, presentarsi come un vero trabocchetto per molti cattolici in buona fede ed offrire una nuova testimonianza dello sviamento di teologi dalla teologia. [...]

L'unità non si farà mai sulle mezze parole, sui concetti detti a metà, sulle aperture ed interpretazioni volontarie. Se questa qualcuno la chiamasse unità, o non saprebbe quello che dice, o mentirebbe sapendo di mentire. [...]

Un falso approccio ecumenico è inficiato di relativismo sul piano dogmatico; è il tema che oggi è trattato eufemisticamente con il termine di pluralismo.

Nella sostanza della dottrina accettata come rivelata o certa dalla Chiesa Cattolica non può esistere pluralismo. Questo suppone il relativismo, il quale porta logicamente al disfacimento di tutto; non dunque unità, ma distruzione.

E' forse l'unità un'opera di distruzione? Il pluralismo sta nei gusti, negli aspetti, nelle simpatie, negli onesti adattamenti al linguaggio delle culture - salva veritate -, mai nella sostanza della verità e degli stessi fatti. Sta nelle cose umane, che «Dio ha lasciato alle dispute degli uomini», ma non certo nelle cose, che stabilmente ha definito Lui per il tempo e per l'eternità.













cordialiter.blogspot.it




venerdì 20 novembre 2015

Resoconto della festa di San Salvatore alla Badia di Vaiano



 Pubblichiamo il gradito resoconto della festa di San Salvatore alla Badia di Vaiano di domenica 15 novembre 2015, che ci ha inviato Adriano Rigoli, Coordinatore Museo della Badia di Vaiano, con una breve spiegazione delle ragioni storiche di tale festa "orientale" a Vaiano, segno di come i contatti con l'Oriente siano antichi e profondi e non siano stati sempre scontri (come spesso accade oggi). Un segno di speranza anche nell'attuale situazione mondiale.



di Adriano Rigoli

Domenica 15 novembre nell'antica chiesa romanica dell'abbazia di Vaiano, dedicata al Salvatore, è stata celebrata la santa Messa in rito romano antico in Latino, in occasione della festa titolare di San Salvatore, come accade ormai per l'ottavo anno consecutivo.
La festa è stata istituita nuovamente nel 2008 in occasione delle manifestazioni, con la partecipazione dell'Abate generale di Vallombrosa don Giuseppe Casetta, per il bicentenario della soppressione napoleonica del monastero benedettino vallombrosano di Vaiano, avvenuta nel 1808.
E infatti la festa di San Salvatore, come è stato dimostrato da un accurato studio di Adriano Rigoli basato sia sui documenti scritti che sui reperti archeologici,  è legata proprio alla fondazione nell'alto Medioevo e all'origine del monastero di Vaiano: sarebbero stati infatti alcuni monaci orientali, che venivano dal Libano, a portare a Vaiano la devozione al crocifisso miracoloso di Beirut per convertire al Cristianesimo i vari gruppi di Longobardi, di origine germanica, che si erano stabiliti in Val di Bisenzio e a Vaiano in maniera particolare, dove sono state rinvenute circa 40 tombe negli scavi archelogici degli anni passati e i resti di un villaggio abitato con una piccola chiesa a navata unica altomedievale.
 
Proprio per questo alla fine della Messa in Latino, accompagnata dagli antichi canti gregoriani e dal suono dell'organo, è stata mostrata e data al bacio dei fedeli la reliquia del sangue miracoloso sgorgato dal Crocifisso di Beirut, conservata per secoli dai monaci di Vaiano.
Nel chiostro rinascimentale della Badia di Vaiano, dovuto al mecenatismo mediceo di Carlo e Giovanni de'Medici (poi Papa Leone X), in occasione dei recenti restauri è stato ritrovato un bellissimo affresco della fine del Cinquecento in cui è rappresentata proprio la scena del miracolo del Crocifisso di Beirut: in esso si vede un Vescovo che regge in mano un crocifisso da cui sgorga un fiotto di sangue e, inginocchiati ai suoi piedi, si vedono un gruppo di malati, guariti istantaneamente al contatto con il sangue miracoloso.
Tutti i visitatori possono vedere questo importante affresco per la storia stessa del territorio di Vaiano perché è inserito nel percorso espositivo del Museo della Badia di Vaiano. L'affresco è stato attribuito da Adriano Rigoli, Coordinatore del Museo della Badia di Vaiano, al pennello di Giovanni Maria Butteri, allievo del Bronzino e amico dell'Allori, che ha dipinto altri due quadri visibili ancora oggi nella chiesa di  Vaiano, la Crocifissione con ai piedi la raffigurazione della Badia di Vaiano così come appariva nel 1500 e La Madonna con il Bambino e Santi. 
 
La Messa è stata celebrata dal can. don Enrico Bini, Parroco della Chiesa dello Spirito Santo a Prato, su invito del Proposto di Vaiano don Marco Locati. La Messa di domenica scorsa è stata dedicata alla memoria di don Pierdamiano Spotorno, Bibliotecario e Archivista dell'Abbazia di Vallombrosa, grande amico del Museo della Badia di Vaiano fin dalla sua inaugurazione il 18 settembre 1993 in cui portò i saluti dell'Abate generale della Congregazione Vallombrosana.

 

Nelle foto si vedono alcuni momenti della Messa in rito romano antico in Latino nella suggestiva cornice della chiesa romanica di Vaiano.

giovedì 19 novembre 2015

Giubileo, appello a papa Francesco: «Deve essere un chiaro invito alla conversione»

 
 

Mentre i politici occidentali parlano di strategia di lungo periodo per fronteggiare il terrorismo islamista, e ricorrono all'armamentario dei valori della convivenza, della solidarietà, della tolleranza, del dialogo, ormai mummificati, i giovani europei muoiono nel corpo e nell'anima; anche tra i cattolici non si vuol risalire alle cause che inducono tanti ragazzi, in cerca di idee forti, ad arruolarsi nelle file dei musulmani, ed altri, succubi del pensiero debole, a inseguire i miti progressisti, al punto che, quando uno di loro muore, non si sa dire altro che 'era solare' – che significa? -, spegnendo l'interrogativo sulle condizioni dell'anima al momento della morte.

La Chiesa cattolica, “vessillo issato tra le nazioni e strumento di salvezza per tutti i popoli” a cosa è chiamata? Seguendo l'Omelia di un autore del II secolo, riprendo questo appello: "Fratelli, prendiamo questa bella occasione per far penitenza, e mentre ne abbiamo tempo, convertiamoci a Dio che ci ha chiamati e che è pronto ad accoglierci. Se lasceremo tutte le voluttà e non permetteremo che la nostra anima rimanga preda dei cattivi desideri, saremo partecipi della misericordia di Gesù".

Giovanni Paolo II richiamava le visioni di santa Faustina, che dinanzi al  purgatorio, esclama: "una prigione di dolore", della quale il Signore le fece intendere: " La mia misericordia non vuole questo, ma lo esige la giustizia".

Sembra, quindi, che non si possa ottenere misericordia senza conversione, altrimenti Dio non sarebbe giusto, né in questo mondo né, soprattutto, nell'altro: "La Misericordia esige, prima di inondarci della sua benevolenza, la verità, la giustizia e il pentimento. In Dio la misericordia si fa perdono" (R.Sarah, Dio o niente, Siena 2015,p. 266). È il Vangelo di Gesù Cristo!

Gli avvenimenti tragici di Parigi, con le minacce a Roma, portano a rivolgere l'appello al suo Vescovo, il Papa, che il Giubileo dichiari meglio l'intento per il quale fu istituito: l'invito alla conversione di tutti gli uomini per ottenere indulgenza, ossia misericordia dal Signore; un invito supplice, innanzitutto ai cristiani, affinché rinnovino la rinuncia battesimale ad ogni connivenza col mondo e guardino a Gesù Cristo, l'unica "porta santa" attraverso cui entrare nella vita eterna, come egli stesso ha detto. Bisogna che tale annuncio evangelico non escluda alcun uomo, perché è l'unico 'dialogo' che il Signore vuole - lo attestano i vangeli - e che Egli stesso ha intessuto con uomini e donne di ogni tipo: giusti e peccatori, ebrei e samaritani,romani e greci. È il dialogo che dichiara la necessità della conversione di tutto il mondo al Signore Gesù, per la salvezza dell'anima in terra e soprattutto in Cielo.

Che Gesù Cristo sia il principio e il fine del rapporto col mondo, lo dichiarò Giovanni XXIII nel discorso di apertura del Concilio Vaticano II: «Il grande problema posto davanti al mondo, dopo quasi due millenni, resta immutato. Il Cristo, sempre splendente al centro della storia e della vita; gli uomini o sono con Lui e con la Chiesa sua e allora godono della luce, della bontà, dell'ordine e della pace; oppure sono senza di Lui, o contro di Lui, e deliberatamente contro la sua Chiesa: divengono motivo di confusione, causando asprezza di umani rapporti e persistenti pericoli di guerre fratricide».

La Chiesa di Gesù Cristo, che sussiste nella Chiesa cattolica, è stata costituita e inviata ad attuare questo dialogo che consiste nel proclamare che l'uomo si salva solo se crede nel Signore Gesù: ebrei e pagani, musulmani e buddisti, atei e agnostici: nessuno può essere esentato dalla conversione. È l'invito che scaturisce dal Cuore di Cristo, affinché tutti si salvino e giungano alla conoscenza della verità. Se il parlare della misericordia - che è un aspetto della carità – non fosse finalizzato alla conversione, non servirebbe a nulla, come ha ricordato san Paolo nel celebre "inno alla carità". Se la Chiesa non fa questo annuncio, tradisce il mandato del suo Fondatore.

Non serve discettare se vi siano musulmani moderati o fondamentalisti o fanatici,e sociologismi simili: chi conosce il Corano e gli hadit di Muhammad sa bene cos'è l'islam; né serve ricorrere alla teoria rahneriana dei cristiani anonimi, stigmatizzata da Hans Urs von Balthasar, per sostenere la necessità del dialogo senza alcun intento di conversione: sarebbe alimentare l'insipienza di tanta parte della cristianità, come amava dire il cardinal Giacomo Biffi. Decenni di dialogo da parte cattolica, sostituendo la missione di annunciare Gesù Cristo, non evita la persecuzione, perché questo è lo statuto ordinario dei cristiani: «Hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi»; senza dimenticare che la persecuzione è una beatitudine proclamata da Cristo. Invece, sta accadendo ciò che descrive il cardinal Sarah: «Mentre i cristiani muoiono per la fede e la loro fedeltà a Gesù, in Occidente, degli uomini di Chiesa cercano di ridurre al minimo le esigenze del Vangelo" (Ibidem,p. 369).

Il Giubileo veda i vescovi e i sacerdoti spiegare che la misericordia del Signore e il Suo perdono, si può sperare di ottenerli solo osservando i Comandamenti, abbandonando ogni condotta malvagia, scisma ed eresia. Dio si è fatto vicino,abita in mezzo a noi, non è un Essere lontano e impersonale; il cattolico non professa un vago deismo: dopo l'Incarnazione, sarebbe imperdonabile. Non si può mescolare al giusto culto da dare a Dio -  è anche il primo comandamento della carità, insegnato da Gesù -, forme che imitino gli spettacoli mondani. Si deve difendere la famiglia da contraffazioni di cui ci si deve solo vergognare. Non si deve uccidere il prossimo per poter possedere; profittare dei poveri - che saranno sempre con noi - per risuscitare il pauperismo; mistificare con la menzogna la verità, il male col bene; spadroneggiare su persone e cose altrui. Senza la conversione, la misericordia non fa scomparire vizi e peccati, specie quelli capitali, nei quali molti stabilmente vivono.

Bisogna che il Giubileo rilanci l'esercizio delle virtù teologali e cardinali fino al grado eroico, cioè esorti alla santità, e per questo inviti a ritornare ai Sacramenti che sono lo strumento ordinario della Grazia divina. Bisogna praticare le opere di misericordia corporale senza omettere - anzi, di questi tempi, anteponendole -, quelle spirituali a cominciare dalle prime tre: consigliare i dubbiosi, insegnare agli ignoranti, ammonire i peccatori.

Nel giorno del Giudizio, da quello particolare dopo la morte a quello universale, ci sarà chiesto se avremo osservato tutti i Comandamenti e i precetti della Chiesa, in primis se saremo andati a Messa, fons et culmen del giusto culto a Dio, che è appunto l'Eucaristia, il vero atto di carità verso Colui che si è fatto povero per renderci ricchi. Memori di Colui che ha detto: “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue, ha la vita eterna, ed io lo risusciterò nell'ultimo giorno”(Gv 6,54).
Dunque: "Non anteponiamo assolutamente nulla a Cristo, che ci conduca tutti insieme alla vita eterna (San Benedetto, Reg. no. 72)












lanuovabq.it/it



 

Secondo il cardinale Sarah la Chiesa di oggi sta attraversando una crisi di fede

 



Un'anticipazione di una parte del dossier che la rivista cattolica francese "L'Homme Nouveau" si appresta a pubblicare nel numero datato 21 novembre 2015, il cui autore è il cardinale Robert Sarah, 70 anni, guineano, nominato un anno fa da papa Francesco prefetto della congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti.



Quattro obiezioni, quattro risposte e una conclusione

di Robert Sarah



1. LA DOTTRINA, VOTIAMOLA A MAGGIORANZA


D. – Secondo uno dei miei obiettori, la Chiesa cattolica "non è solo la gerarchia dei vescovi, compreso quello di Roma, ma è l'insieme dei battezzati. Per dire qual è la 'posizione della Chiesa' sarebbe quindi legittimo assumere il parere di questa maggioranza".

R. – La prima affermazione è esatta. Ma il pensiero dei fedeli non rappresenta la "posizione della Chiesa" se non è esso stesso in accordo con il corpo dei vescovi.

Concilio Vaticano II, Costituzione dogmatica "Dei Verbum", n. 10: "L'ufficio d'interpretare autenticamente la parola di Dio, scritta o trasmessa, è affidato al solo magistero vivo della Chiesa, la cui autorità è esercitata nel nome di Gesù Cristo".

Inoltre, non si tratta di maggioranza, ma di unanimità. Concilio Vaticano II, Costituzione dogmatica "Lumen gentium", n. 12:

"La totalità dei fedeli, avendo l'unzione che viene dal Santo (cfr. 1 Gv 2,20 e 27), non può sbagliarsi nel credere, e manifesta questa sua proprietà mediante il senso soprannaturale della fede di tutto il popolo, quando, dai vescovi fino agli ultimi fedeli laici, mostra l'universale suo consenso in cose di fede e di morale. E invero, per quel senso della fede, che è suscitato e sorretto dallo Spirito di verità, e sotto la guida del sacro magistero, il quale permette, se gli si obbedisce fedelmente, di ricevere non più una parola umana, ma veramente la parola di Dio (cfr. 1 Ts 2,13), il popolo di Dio aderisce indefettibilmente alla fede trasmessa ai santi una volta per tutte (cfr. Gdc 3), con retto giudizio penetra in essa più a fondo e più pienamente l'applica nella vita".

Infine, questa unanimità è una condizione sufficiente per dichiarare che un'asserzione è nel deposito rivelato di Dio (come nel caso dell'Assunzione di Maria), ma non è una condizione necessaria: può avvenire che il magistero definisca solennemente una dottrina di fede prima che l'unanimità sia raggiunta (come per l'infallibilità pontificia, nel concilio Vaticano I).


2. LA COMUNIONE A TUTTI, SENZA DISCRIMINAZIONI


D. – Secondo un obiettore di cui ammiro la fedeltà nel sacerdozio, migliaia di preti non esitano a dare la comunione a tutti.

R. – Anzitutto notiamo l'assenza di autorità dottrinale di questa miriade di ministri sacri, per altri versi sicuramente rispettabili. Inoltre, checché ne sia dell'autenticità di questa "statistica", questa posizione mescola, tra le persone che vivono in uno stato notorio e abituale di peccato (ad esempio adulterio e infedeltà permanente al proprio coniuge, furti frequenti e gravi negli affari):

a) un fedele che finalmente si pente con il fermo proposito di evitare di cadere in futuro, riceve quindi la santa assoluzione e di conseguenza può accostarsi alla santa eucaristia, e

b) il fedele che non vuole cessare in futuro dal compiere atti di una colpevolezza oggettiva grave, contraddicendo la Parola di Dio e l'alleanza significata precisamente dall'eucaristia.

Quest'ultimo caso esclude il "fermo proposito" definito dal concilio di Trento come necessario per essere perdonati da Dio. Precisiamo che questo fermo proposito non consiste nel sapere che non si peccherà più, ma nel prendere con la propria volontà la decisione di impiegare i mezzi atti a evitare il peccato. Senza fermo proposito (e salvo un'ignoranza totale non colpevole), un tale cristiano resterebbe in uno stato di peccato mortale e commetterebbe un peccato grave comunicandosi.

Dal momento che nell'ipotesi il suo stato è conosciuto pubblicamente, i ministri della Chiesa, da parte loro, non hanno alcun diritto di dargli la comunione. Se lo fanno, il loro peccato sarà più grave davanti al Signore. Sarebbe inequivocabilmente una complicità e una profanazione premeditata del Santissimo Sacramento del Corpo e del Sangue di Gesù.


3. RISPOSATA E ATTIVA IN PARROCCHIA. PERCHÉ NIENTE COMUNIONE?



D. – Una persona che mi scrive e la cui età ispira il più grande rispetto evoca il caso di una cattolica, divorziata in seguito a violenze coniugali, che vive come "risposata" ma partecipa intensamente alla vita della sua parrocchia. Ciò non dovrebbe incitarci a dare la santa comunione a questa persona?

R. – Riconosco la generosità di cuore soggiacente all'obiezione. Ma questa mescola o dimentica diversi aspetti. Eccoli.

1. Se si subiscono violenze coniugali, si ha il diritto di lasciare il proprio coniuge (Codice di diritto canonico, canone 1153).

2. La Chiesa permette di chiedere con il divorzio gli effetti civili di una separazione legittima (Giovanni Paolo II, 21 gennaio 2002, discorso alla Rota romana). Il semplice divorzio non esclude dai sacramenti.

3. Un coniuge che si abbandona in modo abituale a delle violenze coniugali soffre probabilmente di una malattia psichica, che forse è causa di nullità del suddetto matrimonio fin dall'inizio (Codice di diritto canonico, canone 1095 § 3).

4. Se la Chiesa dichiara la nullità del primo matrimonio, la vittima potrebbe contrarne un altro, posto che vi siano le altre condizioni di questo sacramento.

5. Può capitare che un divorziato, per delle ragioni importanti, per esempio l'educazione di figli, non possa lasciare il suo secondo coniuge. In questo caso, per potere essere assolto e accedere alla santa comunione, la persona deve impegnarsi a non compiere più con questo secondo coniuge gli atti che, secondo la legge divina, sono riservati ai veri sposi ("Familiaris consortio", n. 84). Ora, l'esperienza di numerose coppie mostra che se ciò spesso è molto difficile, nondimeno è possibile con l'aiuto della grazia di Dio, una direzione spirituale e la pratica frequente del sacramento della riconciliazione. In effetti quest'ultima permette, in caso di cadute, di ripartire più fermamente sulla buona strada, progredendo gradualmente verso la castità.

6. La partecipazione alla vita parrocchiale di un divorziato risposato non ancora pronto a promettere la castità dispone precisamente ad aprire il proprio cuore alla grazia di fare questa promessa necessaria ("Familiaris consortio", n. 84).


4. LA FAMIGLIA AFRICANA NON È QUELLA CHE CI DITE



D. – Secondo una altro prete che si appoggia alla sua esperienza di missionario "Fidei donum" in Africa, la famiglia africana non corrisponderebbe alla descrizione che ne ho dato.

R. – Io non so di quale paese e diocesi africana parli questo prete. Ma in Africa occidentale, malgrado la presenza massiccia dell'islam, nella pura tradizione dei nostri antenati il matrimonio è monogamico e indissolubile. Ne parlo nel mio libro "Dio o niente". Ho quindi affermato che "a tutt'oggi, la famiglia in Africa resta stabile, solida, tradizionale".

Non intendevo in alcun modo dire che la famiglia africana non cristiana sarebbe un modello, poiché essa soffre evidentemente dell'impronta del peccato e conosce anch'essa le sue difficoltà. Intendevo semplicemente dire che nella cultura africana in generale:

1. la famiglia resta fondata su una unione eterosessuale;

2. il matrimonio è visto senza il divorzio, malgrado il paradigma della poligamia simultanea;

3. è aperto alla procreazione;

4. i legami familiari sono visti come sacri.

Non è proprio questo che ha voluto sottolineare il mio corrispondente missionario? (Sottolineo qui la generosità dei "Fidei donum", cioè dei preti diocesani occidentali che si fanno evangelizzatori volontari in paesi di missione).

D'altra parte, la questione che egli solleva è un altra: è quella dell'eventuale progressività graduale della pastorale dell'evangelizzazione delle famiglie non cristiane, ancora imbevute di deviazioni provocate dal peccato, ma delle quali alcune tradizioni possono essere evangelizzate e servire da punto di partenza per l'annuncio del Cristo.

In ogni caso, se il mio corrispondente sembra implicitamente accusarmi d'aver ridotto "la famiglia africana" a quella che vive l'ideale cristiano, neppure si può ridurla in senso inverso alla tipologia poligama, sia di religione "tradizionale", sia musulmana.

dossier che la rivista cattolica francese "L'Homme Nouveau" si appresta a pubblicare nel suo prossimo numeroÈ il cardinale Robert Sarah, 70 anni, guineano, nominato un anno fa da papa Francesco prefetto della congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti, quindi con competenza ed autorità proprio riguardo ai tre sacramenti al centro delle discussioni sinodali: il matrimonio, l'eucaristia e la penitenza.il suo libro intitolato "Dio o niente", edito in Italia da Cantagalli.
Dai lettori di questo suo libro sono arrivati a Sarah molti commenti, favorevoli e contrari. E nel dossier che sta per uscire su "L'Homme Nouveau" il cardinale risponde a un buon numero delle obiezioni ricevute.
Qui di seguito c'è l'anticipazione – gentilmente autorizzata da "L'Homme Nouveau" – di una parte del dossier
Il dossier uscirà sulla rivista francese nel numero datato 21 novembre 2015:


CONCLUSIONE. IL MAGISTERO DELLA CHIESA, QUESTO SCONOSCIUTO


Per concludere, mi sento ferito nel mio cuore di vescovo, nel constatare una tale incomprensione dell'insegnamento definitivo della Chiesa da parte di confratelli sacerdoti.

Non posso permettermi di immaginare come causa d'una tale confusione altro che l'insufficienza della formazione dei miei confratelli. E in quanto responsabile per tutta la Chiesa latina della disciplina dei sacramenti, sono tenuto in coscienza a ricordare che  il Cristo ha ristabilito il disegno originario del Creatore di un matrimonio monogamico, indissolubile, ordinato al bene degli sposi, come pure alla generazione e all'educazione dei figli. Egli ha inoltre elevato il matrimonio tra battezzati al rango di sacramento, significante l'alleanza di Dio con il suo popolo, proprio come l'eucaristia.

Ciò nonostante, esiste anche un matrimonio che la Chiesa chiama "legittimo". La dimensione sacra di questo matrimonio "naturale" ne fa un elemento d'attesa del sacramento, a condizione che rispetti l'eterosessualità e la parità dei due sposi quanto ai loro diritti e doveri specifici, e che il consenso non escluda la monogamia, l'indissolubilità, la perpetuità e l'apertura alla vita.

Viceversa, la Chiesa stigmatizza le deformazioni introdotte nell'amore umano: l'omosessualità, la poligamia, il maschilismo, la libera unione, il divorzio, la contraccezione, ecc. In ogni caso, essa non condanna mai le persone. Ma non le lascia nel loro peccato. Come il suo Maestro, ha il coraggio e la carità di dire loro: va e d'ora in poi non peccare più.

La Chiesa non solo accoglie con misericordia, rispetto e delicatezza. Invita fermamente ala conversione. Al suo seguito, io promuovo la misericordia verso i peccatori – lo siamo tutti – ma anche la fermezza di fronte ai peccati incompatibili con l'amore verso Dio, professata con la comunione sacramentale. Non è questo se non imitare l'attitudine del Figlio di Dio che si rivolge alla donna adultera: "Neppure io ti condanno. Va e d'ora in poi non peccare più" (Gv 8, 11)?









chiesa.espresso.repubblica.it