sabato 31 marzo 2012


Non sacra musica, ma rumori d'assalto

Dopo il coro della Cappella Sistina, anche il conservatorio della Santa Sede sta per essere conquistato dai responsabili della deriva musicale di questi ultimi decenni. Nel silenzio del papa

di Sandro Magister




ROMA, 30 marzo 2012 – L'ultimo baluardo a Roma della grande musica liturgica della Chiesa latina, edificato sulle colonne del canto gregoriano e della polifonia di Giovanni Pierluigi da Palestrina, rischia da un momento all'altro di capitolare.

Questo baluardo è il Pontificio Istituto di Musica Sacra, il conservatorio musicale della Santa Sede, istituito da Pio X un secolo fa per imprimere il giusto indirizzo alla musica sacra nelle chiese di tutto il mondo.

Lo presiede monsignor Valentino Miserachs Grau, 69 anni, catalano, che è anche direttore della Cappella Liberiana, il coro della basilica papale di Santa Maria Maggiore. Lì egli ebbe come predecessore e maestro Domenico Bartolucci, il più insigne compositore e interprete di musica liturgica che la Chiesa romana abbia avuto nell'ultimo secolo, già direttore del coro pontificio della Cappella Sistina da cui fu brutalmente estromesso nel 1996, fatto cardinale da Benedetto XVI nel 2010.

C'è una profonda identità di vedute, in materia di musica liturgica, tra papa Joseph Ratzinger e l'attuale dirigenza del PIMS. Ma come è già accaduto nel 2010 per il cambio di direttore del coro della Cappella Sistina, anche per il rinnovo della presidenza del Pontificio Istituto di Musica Sacra tutto sta per essere deciso – non dal PIMS ma contro di esso – senza un personale coinvolgimento del papa.

I motivi di questa estraniazione di Benedetto XVI – sua volontaria, con il tripudio di molti – da decisioni operative in una materia a lui così congeniale e da lui ritenuta così essenziale alla missione della Chiesa restano tuttora indecifrati.

Sta di fatto che questa estraniazione del papa dà il via libera nella Chiesa, anche ai livelli più alti, a uomini e a indirizzi musicali che sono i più lontani da quello "spirito della liturgia" che anima l'intera sua visione di teologo e di pastore.

Il caso della Cappella Sistina è emblematico. La nomina dell'attuale direttore, monsignor Massimo Palombella, è maturata nel chiuso degli uffici della segreteria di Stato vaticana, sicuramente tra i meno competenti in materia. E non ha affatto risollevato il coro che accompagna le liturgie pontificie dal degrado nel quale era precipitato.

Non basta, infatti, che la scelta degli autori e dei canti sia oggi più in linea con i desideri del papa. Sono altrettanto importanti la qualità delle esecuzioni e la visione che le ispira.

Più sotto, in questa pagina, è riportata una recensione critica a firma di un musicologo e musicista di valore, Alessandro Taverna. I suoi giudizi sul coro della Cappella Sistina diretto da Palombella sono naturalmente opinabili. Ma quando per esempio egli fa notare che alla fine di un canto a voce libera "i cantori sono calati di ben tre toni", riferisce un fatto, non una opinione.

Ebbene, per la carica di preside del Pontificio Istituto di Musica Sacra si profila oggi un avvicendamento ancor più foriero di sventura.

Il nome che la segreteria di Stato si appresta a far approvare da Benedetto XVI è quello di don Vincenzo De Gregorio, l'attuale consulente musicale dell'ufficio liturgico della conferenza episcopale italiana.

Chi è De Gregorio? Ma prima ancora, come si è arrivati alla sua quasi-nomina?

Il Pontificio Istituto di Musica Sacra dipende dalla congregazione vaticana per l'educazione cattolica, il cui prefetto, cardinale Zenon Grocholewski, è anche Gran Cancelliere dell'istituto.

L'attuale preside del PIMS, Miserachs Grau, è arrivato nel 2011 al termine del suo mandato. E in quello stesso anno il cardinale Grocholewski, a norma degli statuti, d'intesa con la presidenza del PIMS, ha scelto il successore nella persona dell'abbé Stephane Quessard, riconoscendo in esso l'uomo adatto per assicurare la continuità degli indirizzi dell'istituto, in piena sintonia con la visione di Benedetto XVI.

L'abbé Quessard ricopre importanti cariche nell'arcidiocesi di Bourges, tra cui quella di vicario episcopale e di presidente della commissione liturgica. L'arcivescovo di Bourges, Armand Maillard, oppose quindi un'iniziale resistenza a privarsi di un sacerdote di comprovato valore come l'abbé Quessard. Ma infine accettò – convinto soprattutto dall'amico Jean-Louis Bruguès, arcivescovo segretario della congregazione per l'educazione cattolica – di "offrirlo" a Roma come preside del PIMS alla sola condizione che l'incarico avesse inizio nell'autunno del 2012, non prima.

Per questo il preside uscente, Miserachs Grau, è rimasto in carica, in proroga, fino alla venuta del successore.

All'inizio dello scorso autunno, la congregazione per l'educazione cattolica trasmise dunque alla segreteria di Stato l'indicazione dell'abbé Quessard come nuovo preside del PIMS, per averne la convalida.

Ma passano i mesi e il "nulla osta" non arriva. Anzi, arrivano segnali opposti. In dicembre la congregazione ha notizia di un primo rifiuto opposto dalla segreteria di Stato. Il cardinale Grocholewski ripropone il suo candidato. E di nuovo, a fine febbraio, scatta il rifiuto. Dalla segreteria di Stato fanno sapere di aver trovato loro "un candidato italiano più adatto".

La congregazione informa l'arcidiocesi di Bourges del doppio schiaffo ricevuto da entrambe. E intanto trapela la voce che per la segreteria di Stato il dado è tratto: il nuovo preside del PIMS sarà don Vicenzo De Gregorio.

Napoletano, organista del Duomo della sua città, già direttore del conservatorio statale San Pietro a Majella, De Gregorio è dal 2010 l'esperto numero uno della CEI per la musica sacra.

Lì ha preso il posto di colui che è stato il suo mentore, don Antonio Parisi, di Bari, per trent'anni factotum dei vescovi italiani in un campo, quello della musica liturgica, nel quale la mediocrità e la confusione continuano a regnare sovrane, come prova il repertorio nazionale di canti sacri messo insieme dallo stesso Parisi, l'ultimo della serie nel 2008.

Assieme a monsignor Marco Frisina – direttore del coro della basilica di San Giovanni in Laterano, la cattedrale di Roma, e fortunato autore di colonne sonore di film – don Parisi è uno dei più seguiti compositori di canti sacri in uso nelle chiese italiane. Con uno stile leggero, da "canzonetta", che ha sempre fatto inorridire non solo un Bartolucci, ma anche, in campo profano, un sommo maestro come Riccardo Muti.

Sia Parisi che Frisina sono legati a filo doppio col direttore della Cappella Sistina, Palombella. A prova di ciò, all'ultimo concistoro, lo scorso febbraio, Palombella ha chiamato a Roma, a fare da coro-guida per i fedeli in San Pietro, un coro creato a Bari da un discepolo di Parisi, don Maurizio Lieggi. Mentre il prossimo 1 aprile, per la messa della domenica delle Palme, come già in altre numerose occasioni, Palombella avrà accanto a sé il coro diretto da monsignor Frisina.

I tre godono di sostegno anche agli alti gradi della curia vaticana. Il capocordata, Palombella, è tra i prediletti del cardinale Tarcisio Bertone, che dopo averlo insediato alla direzione della Cappella Sistina continua ad ascoltarne le indicazioni in materia musicale come fosse un oracolo. E anche il cardinale Gianfranco Ravasi, prefetto del pontificio consiglio della cultura, ha un debole sia per Palombella che per Frisina.

Con De Gregorio alla testa del Pontificio Istituto di Musica Sacra, al terzetto si aggiungerebbe un quarto uomo, per di più in una carica di grande influenza sulle sorti della musica sacra nelle chiese di tutto il mondo.

"Fu una sana apertura, ed era di qualità", ha detto De Gregorio la scorsa estate al quotidiano "la Repubblica" a proposito della "Messa beat", la celebre composizione del 1966 musicata da Marcello Giombini che ha lasciato un'impronta duratura in molti canti entrati in uso nelle parrocchie, con innesti di motivi pop, rock, jazz, spirituals, etno.

Se questo è il verbo del nuovo preside del PIMS, il futuro del conservatorio vaticano è segnato: un futuro d'abbandono, già fatto presagire dalla mancata udienza del papa all'istituto nel centenario della sua fondazione, nel marzo del 2011: un'udienza prima promessa per iscritto dalla segreteria di Stato e poi inopinatamente cancellata.

Il vero enigma è come tutto ciò possa accadere regnante Benedetto XVI, in un campo come la musica liturgica nel quale la sua visione è ogni volta contraddetta dai fatti.

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CAPPELLA SISTINA: UNA RECENSIONE CRITICA

di Alessandro Taverna



La nomina di don Massimo Palombella alla guida della Sistina aveva colto un po' di sorpresa gli "addetti ai lavori", che l'hanno creduta di motivare leggendovi un attestato di fiducia e di stima nei suoi confronti da parte del Santo Padre e del suo segretario di Stato cardinale Tarcisio Bertone.

Molte erano le speranze: la principale era che il nuovo direttore potesse risuscitare una tradizione musicale gloriosa progressivamente esauritasi, specialmente negli ultimi dieci anni, unitamente al perfezionamento di una qualità vocale del coro, non sempre encomiabile.

Ebbene, benché la Cappella Sistina sotto la direzione di Palombella abbia il merito di aver recuperato la prassi dell'esecuzione palestriniana (prima completamente dimenticata nelle messe papali), bisogna riconoscere che il livello vocale del coro è scaduto e peggiorato ulteriormente.

In particolare si coglie l'incapacità da parte dei cantori di sostenere un ritmo accettabile. La velocità di esecuzione diventa spesso lenta in modo esasperato, come nel caso del "Tu es Petrus" di Palestrina. Estendendosi praticamente fino al saluto iniziale della messa, si è ultimamente deciso di farlo terminare a "ecclesiam meam", per accorciarne la lunghezza.

L'uso delle trombe d'argento all'inizio della celebrazione (retaggio del rito della cappella papale di un tempo) è assai discutibile nella forma in cui oggi è stato ripristinato, tant'è vero che – anche qui – il prolungarsi della Marcia di Domenico Silverj ha determinato non poche difficoltà: più volte il pontefice, avendo già raggiunto la sede, ha dovuto aspettare che fosse terminata anche un'esecuzione affrettata dell'introito.

Ultimamente il "Tu es Petrus" di Palestrina è stato abbandonato per quello, più breve e troncato anch'esso, di Maurice Duruflé: si è così lasciato spazio a un'esecuzione dell'introito più articolata nelle strofe.

Circa il gregoriano, i problemi si fanno ancora più evidenti. Non si capisce, ad oggi, il motivo che spinge a lasciare la "schola cantorum" sempre sguarnita dell'accompagnamento dell'organo, col risultato che i cantori – incapaci di mantenere da soli la tonalità – calano in modo vistoso e drammatico, un calare che viene palesato ogni volta che l'organo interviene per accompagnare l'assemblea dei fedeli.

C'è da dire che anche la scelta del coro-guida dell'assemblea è infelice. Un tempo costituito da sole voci maschili, oggi è in prevalenza femminile, e ogni volta assesta il colpo esiziale alla già precaria intonazione della "schola".

Inviterei a riascoltare il canto delle Litanie dei Santi eseguite il giorno dell'Epifania per rendersi conto che dall'inizio alla fine i cantori sono calati di ben tre toni.

È evidente, a questo punto, che l'attuale coro della Sistina non dovrebbe permettersi di fare a meno, nel gregoriano, dell'accompagnamento dell'organo, utilizzato invece per sostenere gli interventi dell'assemblea. In quest'ultimo caso, d'altra parte, le armonie impiegate dall'organista hanno un sapore alquanto decadente e quasi "jazzistico", con l'impiego massiccio di settime, che stridono ancora di più con la scelta fatta poco prima dalla "schola" di cantare a cappella. Personalmente, trovo che il fraseggio dell'organo non è sempre comprensibile, alla luce dell'oggettività e della semplicità che dovrebbero caratterizzare la monodia gregoriana.

C'è inoltre da aggiungere che la dislocazione dei numerosi microfoni non giova alla comprensione delle armonie eseguite nel canto polifonico, che risultano poco chiare, specialmente nel canto dei falsobordoni, sia nell'Ordinarium Missae che in altre occasioni, come negli inni e nei salmi dei Vespri.

Per chi ascolta alla televisione, questo inconveniente mette ancor di più in evidenza i problemi di cui si è parlato poc'anzi, anche perché sembra che vi sia come un'insistenza – specie nelle nuove composizioni proposte – su armonie dissonanti che non hanno nulla di sbagliato in se stesse, ma che appare azzardato affidare a un coro che presenta i limiti suddetti (si riascolti, ad esempio, il "Tu es Petrus", versetto all'Alleluia, eseguito lo scorso 19 febbraio in occasione del concistoro).

Parlando ancora del ruolo dell'organo, mi sembra che si sia promosso un indirizzo generale che ha portato a una sostanziale sua abdicazione, a favore di altri strumenti, quali la "fanfara" degli ottoni che ci siamo abituati ad ascoltare all'ingresso e all'uscita del pontefice. Manca del tutto, duole ammetterlo, l'approfondimento e la promozione di una consolidata prassi organistica, che spazi dall'improvvisazione alla grande letteratura italiana ed europea.

Il 15 ottobre scorso Palombella ha rilasciato un'intervista al "L'Osservatore Romano", nella quale tra l'altro affermava che, facendo tesoro dell'eredità consegnataci dalla vocalità del Novecento, i cantori avrebbero dovuto migliorare l'intonazione secondo un metodo "scientifico", basato in particolare sull'intonazione delle terze e delle quinte.

Bisogna però riconoscere che proprio riguardo all'intonazione non si vede alcun progresso, ma piuttosto una generalizzata e inarrestabile involuzione, con un ulteriore difetto che molto spesso si avverte, e cioè che si sentono i cantori "urlare".

Risultati, dunque, che per adesso non corrispondono ai propositi formulati in quell'intervista.




http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1350206

Il latino diventa anglosassone


di Carlo Maria Barile

L'arte di liberarsi della propria cultura, la capacità di dimenticare o addirittura disprezzare ciò che fino a ieri era ritenuto vitale sono solo due delle caratteristiche dell'Italia degli ultimi anni, che a seguito dei miei viaggi non ho potuto fare a meno di riscontrare; in parole povere si tratta di ciò che permette ad altri popoli di appropriarsi e addirittura esaltare ciò che appartiene a un sapere che oserei definire "omerico", millenario, che dovrebbe aver dimora proprio da noi: mi riferisco in primis alle lingue latina e greca e a tutto ciò che ne deriva.

 Eppure, "neolatino" vuol dire letteralmente "nuovo latino", "nato dal latino", credo che questo sia inequivocabile e anche la lingua italiana è una lingua neolatina, ma molto spesso gli abitanti del nostro amato stivale dimenticano questo con estrema facilità, forse per quella troppa pigrizia che accomuna molti di essi, forse per mancata volontà di ricercare le proprie radici anche se, ahimè, in un passato e in una storia che di certo non danno riscontro a un'idea di stato o di spirito unitario - basti pensare alle moltitudini di dialetti o di tradizioni proprie di quell'unica tradizione che definiamo oggi sotto il comune denominatore di "italiana".

 Veniamo al dunque: mi trovavo in Germania, precisamente nel cuore di Colonia per tenere un concerto d'organo nella Basilica dedicata ai Santi Apostoli. Il giorno prima del concerto mi era stato riferito che qualche ora prima della mia esibizione ci sarebbe stata una celebrazione della Santa Messa, in lingua latina, secondo il Novus Ordo. Ciò non ha potuto non attirare la mia più totale attenzione e un mio enorme interesse. Domenica 11 Marzo 2012, ore 10, risuonano le campane della Basilica, attacca l'organo, esce il celebrante, l'organo termina la sua intonazione e attacca a cappella la schola cantorum con l'antifona di introito; ciò che ha percorso la mia mente in quel momento sarebbe banale e allo stesso tempo prolisso da descrivere ma cercherò di rendere brevemente l'idea: le voci dei cantori si diffondevano per le navate, come se le onde sonore scivolassero con dolcezza e spiritualità tra le colonne, le volte, le panche, le anime dei fedeli; un'esecuzione impeccabile, una dizione e pronuncia della "nostra" lingua latina oltre il limite della perfezione, insomma tutto concorreva a dare l'impressione che tutto ciò fosse nato lì, mi si passi questo gioco di parole al limite dell'ossimoro, che il latino fosse anglosassone.

 A questo punto, davanti a tale meraviglia, mi è sorta una domanda spontanea: perché? Com'è possibile? Come abbiamo potuto permettere che altri popoli, provenienti da altre culture, come i Tedeschi o anche i Russi, diventassero le massime espressioni della lingua latina e del canto gregoriano? Perchè in Italia, la terra dove tutto ciò è nato, sembra che queste cose, che ora si sentono quasi esclusivamente nei concerti, siano obsolete? Perchè in Germania, durante quella meravigliosa celebrazione, tutto era fuso in un meraviglioso unicum che dava l'impressione di continuità, come se le arti sacre si rincorressero reciprocamente alla ricerca del divino? 

A queste domande forse possiamo dare una risposta, troppo semplice, troppo terribile: molto spesso da noi si procede non per tradizione ma per moda, non in una storicità orizzontale dove tutto è consequenziale, ma verticale e parallela, dove tutto è interrotto, diviso, finito e molto spesso privo di logica; questo credo che sia uno dei motivi per cui ciò che ieri era sacro oggi è blasfemo, ciò che ieri era bello oggi è disgustoso, ciò che ieri era nostro, nel senso più primigenio del termine, oggi appartiene a culture che fino a non molto tempo fa erano del tutto estranee al nostro sapere. E ancora parliamo di credibilità?


Scuola Ecclesia Mater

La liturgia è cambiata e cambia ancora, per aiutare i fedeli a penetrarne il significato vero. La risposta del Papa a Fidel

Avevamo già riferito della curiosità di Fidel Castro a proposito dei cambiamenti occorsi nella liturgia della Chiesa negli ultimi 50 anni (vedi questo post). Adesso è uscito un articolo sull'Osservatore Romano, a firma dell'inviato Mario Ponzi, che ci fornisce ulteriori notizie sulla domanda di Castro e soprattutto sulla risposta del Papa, di cui in precedenza potevamo solo fare congetture. Ecco dunque la cronaca:
Castro ha mostrato subito una grande curiosità di conoscere, di sapere. Ha rivolto al Papa una serie di domande di ampio respiro. Inattesa la prima: ma perché la liturgia è cambiata così tanto? Il suo ricordo era fermo al periodo precedente il concilio e il Pontefice ha iniziato proprio dal Vaticano II la sua risposta. I padri conciliari hanno ritenuto di dover cambiare la liturgia per renderla più accessibile ai fedeli, ha spiegato il Papa. Anche se ciò — ha proseguito — ha creato situazioni tali da suggerire ulteriori modifiche, sempre per dare modo ai fedeli di penetrarne sino in fondo il significato vero e, dunque, di partecipare in modo più consapevole.
Il Papa ha spiegato a Castro quello che dovrebbe spiegare anche ad alcuni professori di liturgia arrabbiati contro quelle che chiamano le "controriforme" di Benedetto. Cioè: è vero che i padri del Concilio "hanno ritenuto di dover cambiare la liturgia per renderla più accessibile ai fedeli", che trovavano senza dubbio la barriera della lingua o quella di alcuni riti, forse, da riportare alla loro nobile semplicità. Ma - aggiunge il Pontefice - "ciò ha creato situazioni tali da suggerire ulteriori modifiche". Di che cosa parla se non di una "Riforma della riforma", per far fronte agli oggettivi dirottamenti dell'applicazione della riforma liturgica, e questo "per dare modo ai fedeli di penetrare sino in fondo il significato vero" della liturgia: non il significato soggettivo, che ogni gruppo o celebrante interpreta con parole sue. Per far "partecipare in modo più consapevole" il popolo di Dio, bisogna anche che si sappia a che cosa si partecipa. E questo significato non può essere manomesso. I sacramenti, parlando in linguaggio scolastico, causano ciò che significano. Se si cambia a piacere il loro significato, come si può pensare che non venga compromessa anche la causalità efficiente dei medesimi?
I cambiamenti fatti dalla Chiesa sono dunque sempre legittimi e spesso necessari. E a volte l'autorità della Chiesa si può accorgere che sia necessario intervenire ulteriormente a poca distanza da una riforma liturgica, se questa ha preso una piega imprevista, nella pratica, e si richiede perciò un serio aggiustamento. Magari recuperando qualcosa di ciò che - frettolosamente - si era considerato sorpassato o non più utile.


Testo preso da: La liturgia è cambiata e cambia ancora, per aiutare i fedeli a penetrarne il significato vero. La risposta del Papa a Fidel http://www.cantualeantonianum.com/2012/03/la-liturgia-e-cambiata-e-cambia-ancora.html#ixzz1qht7vUiI
http://www.cantualeantonianum.com

giovedì 29 marzo 2012

Mons. Antonio Livi critica Enzo Bianchi e Piero Coda







Dopo aver pubblicato un interessante volume di epistemologia teologica, partendo dalla filosofia del senso comune: Vera e falsa teologia. Come distinguere l'autentica "scienza della fede" da un'equivoca "filosofia religiosa", Roma 2012, Mons. Livi entro nel vivo e fa anche i nomi della falsa teologia, o esegesi che sia. E questo per un dovere pastorale, dice. Si veda su La Bussola Quotidiana anche la sua risposta al direttore di Avvenire.

Fonte: Corrispondenza Romana

Mons. Antonio Livi non fa parte di quelle correnti insipide della cosiddetta “teologia contemporanea” per la quale la parola teologia non significa affatto studio, amoroso, di Dio e della sua Parola-Legge, ma mero conseguimento di titoli accademici presso uno dei tanti pontifici istituti della Penisola. Eppure, di mons. Livi, già Decano e docente di Filosofia alla Lateranense, è impressionante la produzione teologica e filosofica, con decine di volumi pubblicati (l’ultimo e decisivo contributo è Vera e falsa teologia. Come distinguere l’autentica “scienza della fede” da un’equivoca “filosofia religiosa”, Casa Editrice Leonardo da Vinci, Roma 2012).

Si dice perfino che abbia contribuito, da par suo, alla redazione della magnifica enciclica, oggi rimossa, Fides et ratio (1998). Da tempo poi, collabora con varie iniziative di apologetica cattolica, come la Bussola quotidiana on line. Su quest’ultima rubrica ha pubblicato recentemente (13 marzo 2012) un’importante critica teologica verso l’auto-nominatosi “profeta di Bose”, quel fratel Enzo Bianchi che, oltre ad essere autore di molte opere discusse e discutibili, è stato altresì iniziatore di una comunità religiosa, di stampo eterodosso, verso la fine del Vaticano II.

Bianchi appartiene, se si vuole, all’ultima generazione del neo-modernismo post-conciliare, in compagnia di vari teologi e intellettuali cattolici che si caratterizzano da un lato per l’eterodossia delle posizioni (tutti gli autori censurati dal Magistero negli ultimi anni, da Küng a padre Sobrino, sono di questa corrente spuria) e dall’altro per l’enorme presenza sui media, purtroppo anche cattolici (“Avvenire” e “Famiglia Cristiana” in primis).

Scrive Livi: «Grazie al non disinteressato aiuto dei media anticattolici, Enzo Bianchi ha saputo gestire molto bene la propria immagine pubblica: quando si rivolge a quanti si professano cattolici, Enzo Bianchi veste i panni del ‘profeta’ che lotta per l’avvento di un cristianesimo nuovo (un cristianesimo che deve essere moderno, aperto, non gerarchico e non dogmatico, cioè, in sostanza, non cattolico); quando invece si rivolge ai cosiddetti ‘laici’ (ossia a coloro che hanno smesso di professarsi cattolici oppure non lo sono mai stati ma desiderano tanto vedere morire una buona volta il cattolicesimo), Enzo Bianchi si presenta simpaticamente come loro alleato, come una quinta colonna all’interno della Chiesa cattolica (se non piace la metafora di ‘quinta colonna’ posso ricorrere alla metafora, ideata da Dietrich von Hildebrand, di cavallo di Troia nella Città di Dio)».

Con questa doppiezza né profetica né cristiana, il Bianchi è riuscito ad avere una popolarità incredibile che lo candida ad “anti Papa” viste le sue posizioni lontane dal Magistero e in opposizione frontale con la Tradizione. Impossibile ripercorrerle tutte! Si oppose, negli ultimi anni, al celibato sacerdotale, alla dichiarazione Dominus Jesus, al motu proprio Summorum Pontificum, e perfino alla Madonna di Fatima la quale condannando, tra le ideologie moderne, solo il comunismo (ideologia con cui solitamente simpatizzano modernisti e semi-modernisti), non sarebbe credibile!!

Qualche giorno prima mons. Livi, con la medesima acribia teologica e filosofica, aveva espresso alcune serissime riserve nei riguardi del teologo Piero Coda, certamente meno conosciuto del Bianchi, ma ben noto, come un capofila del progressismo cattolico. In questo lungo testo, pubblicato dal blog Disputationes Theologicae, Livi stila preventivamente 10 criteri per distinguere gli errori dal dogma cattolico: si tratta di punti di fondamentale importanza teologica che non abbiamo lo spazio di riprendere qui. Ma che certamente dovranno essere sapientemente valutati da chi non vorrà proporre una nuova Professio fidei che voglia escludere le ambiguità teologiche più diffuse, anche in connessione con la giusta interpretazione o applicazione delle novità conciliari.

Livi accusa Coda di essere dipendente dall’idealismo di Hegel e di identificarsi «volutamente con il metodo di quella ‘filosofia religiosa’ moderna e contemporanea» che egli ha «denunciato altrove come fonte dell’inquinamento metodologico della teologia cattolica del Novecento».

Anche Coda, come Enzo Bianchi, Hans Küng, e prima di loro Karl Rahner, ha ribaltato l’ermeneutica tradizionale: non legge infatti la filosofia e le opinioni del tempo alla luce del Vangelo, ma reinterpreta le categorie bibliche e teologiche, alla luce della modernità immanentista ed anti-teista.

Infine, secondo Livi, mons. Coda ignora «le differenze dottrinali tra cattolicesimo, ortodossia e protestantesimo». Cosa, in verità, né innocente, né rara nella teologia accreditata come scientifica nel post-Concilio. Auspichiamo che questa di Livi sia la prima di una serie di ormai indispensabili messe in guardia che dimostrino come la lettura del Concilio alla luce della Tradizione sia la strada obbligata per depurare la teologia cattolica dagli abbagli della modernità.



di Fabrizio Cannone


da Fides Catholica

mercoledì 28 marzo 2012

IN MEMORIA DEL TRANSITO DEL BEATO GIOVANNI PAOLO II



Lunedì 2 aprile 2012  
Chiesa di Maria Madre Nostra (presso l'APR)
in via san Biagio a Pistoia


 Santa Messa ore 18
presieduta da S. E. Mons. Mansueto Bianchi 



 Pistoia, 27 marzo 2012 - Lunedì prossimo 2 aprile alle ore 18 il vescovo di Pistoia, Mansueto Bianchi, presiederà una celebrazione eucaristica nella chiesa di Maria Madre Nostra presso il Centro della Associazione Pistoiese per la Riabilitazione in via S.Biagio 102 a Pistoia.

 La Messa è celebrata nella memoria del "transito" del beato Giovanni Paolo II. Come accade dal 2007, anche quest’anno l’iniziativa è promossa dalla associazione Maria Madre Nostra.

Lettera aperta di Mons. Livi a Tarquinio, Direttore dell'Avvenire, sul "Caso Enzo Bianchi"




A seguito delle dichiarazioni del Direttore di Avvenire, Tarquinio, l'autore dell'articolo "Falsi Profeti" che ha posto in evidenza gli errori ideologici - eresie di Enzo Bianchi, scrive una lettera aperta a Tarquinio e LaBussolaQuotidiana la pubblica il 27.03.2012. 




"Sig. Direttore, Il 23 marzo scorso Lei sul Suo giornale mi ingiunge di vergognarmi per quello che avevo scritto su La Bussola Quotidiana a proposito di Enzo Bianchi, accusandomi di aver orchestrato squallide manovre diffamatorie basate sulla menzogna. Siccome alcuni lettori (anche se non tutti) e i cattolici italiani in generale possono aver pensato che queste accuse (che costituiscono – queste sì – denigrazione e diffamazione nei miei confronti) siano fondate, mi vedo costretto a fornire loro pubblicamente alcune spiegazioni.

 1. Io non ho scritto contro Enzo Bianchi come persona ma contro la sua “fama di santità”, ossia contro la presentazione che se ne fa come di un vero mistico, di un autorevole interprete della Scrittura, di un venerato maestro di dottrina cristiana, di un eroico combattente per la riforma della Chiesa e per l’ecumenismo. Io vorrei invece richiamare l’attenzione di chi ha responsabilità pastorale sul fatto che i suoi scritti e i suoi discorsi – che certa stampa utilizza come se potessero essere dei validi sussidi per la catechesi ? sono inficiati di un’ideologia neognostica, incentrata sul progetto di una religione universale a carattere etico (la Welthethik), secondo la prospettiva del suo autore di riferimento, che è Hans Küng.

 2. Per questo preciso motivo ho deprecato lo spazio e il rilievo che il Suo giornale ha dato a una meditazione biblica di Bianchi, pubblicandola in un paginone a colori di “Agorà” della domenica. Io l’ho visto distribuito in alcune chiese di Roma assieme ai foglietti della Messa, e mi è sembrato assurdo che quel commento di Bianchi al Vangelo della prima domenica di Quaresima fosse presentato ai fedeli quasi come un sussidio per la pastorale liturgica. Quale approfondimento della dottrina cristiana e quale edificazione nella fede eucaristica – mi domandavano – possono venire da discorsi che presentano Gesù come un modello (umano) di quella morale umanitaria che ritiene di poter prescindere dalla grazia del Redentore? Il modo è pieno di gente che parla di Gesù in termini che sono più propri dell’umanesimo ateo che del dogma cattolico: non è questo che mi turbava: mi turbava i fatto che ancora una volta fosse presentato come un autorevole maestro della fede, con l’autorevolezza che può conferire il “giornale dei vescovi italiani”, un personaggio che, a mio avviso, la vera fede non contribuisce affatto a diffonderla. Non si tratta di un problema personale o ideologico, ma di un problema esclusivamente pastorale, e io come sacerdote lo considero l’unico problema importante.

 3. Lei, Direttore, non ha ragione quando scrive che io avrei potuto criticare Bianchi o altri collaboratori di Avvenire «su ciò che è opinabile: valutazioni storiche e socio-culturali, opinioni artistiche, scelte lessicali, giudizi politici…», mentre invece mi sarei «azzardato» a «porre in dubbio la fede altrui e l’altrui indiscutibile adesione alla buona dottrina cattolica su ciò che è opinabile non è». Lei non ha ragione perché io critico appunto il modo di commentare il Vangelo in un giornale ufficialmente cattolico, e in questa materia nella Chiesa c’è sempre stata e sempre ci sarà il diritto di critica (la teologia cattolica e lo steso dogma nascono dal confronto critico con i diversi modi di presentare il contenuto della rivelazione divina). Ciò che per un cattolico «opinabile non è» è solo il dogma enunciato dalla Chiesa con il suo magistero solenne. Le interpretazioni del dogma e la sua presentazione catechetica, così come le scelte pastorali, sono invece materia di libera discussione. Non c’è nulla di criminoso e di vergognoso nel fatto di aver voluto manifestare la mia opinione circa l’inopportunità pastorale di presentare alla meditazione dei fedeli dei discorsi, come quelli di Bianchi, così ambigui rispetto al dogma cattolico. Da quando è diventato «indiscutibile» il fatto dell’«adesione alla buona dottrina cattolica» da parte dei collaboratori dell’Avvenire? Basta la parola del Direttore? È un nuovo caso di «Roma locuta, quaestio finita»?

 4. Nel fare quei rilievi dottrinali e pastorali, peraltro, io non ho minimamente voluto «porre in dubbio la fede altrui», cioè di Enzo Bianchi. Sembra che Lei, dottor Tarquinio, non abbia presente la fondamentale distinzione tra la fede come atto interiore del soggetto che aderisce con tutto se stesso a Cristo e alla sua dottrina (e di questo atto interiore è consapevole solo il soggetto stesso) e la fede come enunciazione esteriore (professione di fede, proclamazione della fede, catechesi, evangelizzazione, teologia); io so bene di non dover giudicare la sincerità e la fermezza della fede egli altri (della coscienza di ciascuno di noi è giudice solo Dio, il quale «scruta i reni e il cuore» degli uomini), ma so anche che ho il dovere di giudicare la rispondenza di un discorso sul Vangelo alle verità fondamentali contenute nella dottrina della Chiesa: è un dovere che in primis spetta al collegio episcopale, con a capo il Papa, ma spetta, per partecipazione sacramentale, anche a un semplice sacerdote come me, impegnato da sempre nella formazione cristiana dei fedeli con il mio lavoro pastorale e con la docenza nell’«Università del Papa». Certo, il mio giudizio – di approvazione o di critica – è soggetto a errore dal punto di vista dottrinale, e anche dal punto di vista della prassi può risultare meno opportuno o conveniente: ma è pur sempre un atto legittimo, anzi doveroso, quando uno come me ritiene in coscienza che il bene comune della comunità ecclesiale lo richieda.

 5. Lei scrive che il mio è «un testo feroce, nel quale si procede con metodi degni della peggiore “disinformatsja”: estrapolando frasi, selezionando concetti, amputando verità, distillando veleni». In realtà, le frasi dello scritto di Bianchi che ho citato sono testuali, e in un breve scritto non potevo certamente riprodurre tutto il testo pubblicato nel paginone di Avvenire (chi no crede alla sintesi che io ho fatto potrà confrontarla con l’originale); sono però frasi emblematiche, che nemmeno il contesto può contribuire a “salvare” (anzi, a me sembra che tutto il discorso che Bianchi fa sul potere e sul denaro ha senso solo presupponendo che Gesù sia solo un modello morale, un uomo esemplare). Nessuno scrittore dei primi secoli, nessun letterato cristiano moderno, nessun teologo intenzionato a rispettare il dogma si è mai sognato di parlare di Gesù come di una «creatura», di un uomo cioè che insegna agli altri uomini come si deve rispettare Dio, che è il Creatore. Bianchi è un biblista: ma dove mai si trova nella Bibbia la definizione di Gesù come «creatura»? Che cosa avranno pensato quei fedeli che hanno letto il testo di Bianchi sull’Avvenire e poi a Messa hanno recitano il Credo, dicendo di Gesù che Egli è «Dio da Dio» e che è «generato, non creato»? Devono pensare che la professione di fede della Chiesa è una formula antiquata e che è meglio credere alle spiegazioni moderne e aggiornate di Bianchi? Questo è il vero problema: un problema che interessa necessariamente chi ha sensibilità pastorale e si sente responsabile dei messaggi dottrinali che vengono proposti da personaggi che (non sempre meritatamente) godono di credito presso i fedeli, soprattutto se sono veicolati dalla stampa che si presenta come la voce (almeno ufficiosa) della Chiesa italiana. Antonio Livi"

 fonte: la Bussola Quotidiana del 27.03.2012

«Lo Stato ostile a Dio è ostile all'uomo»


di Massimo Introvigne






In visita martedì 27 marzo al santuario della Virgen de la Caridad del Cobre, storico centro della Cuba cattolica, Benedetto XVI ha pregato perché Cuba «avanzi nel cammino di rinnovamento e di speranza, per il maggiore bene di tutti i cubani». Il Papa ha pregato «anche per le necessità di coloro che soffrono, di coloro che sono privi di libertà, lontani dalle persone care». Il Pontefice ha ricordato i giovani, perché «non cedano alle proposte che lasciano tristezza dietro di sé». Sull’esempio della Santissima Vergine, ha incoraggiato «tutti i figli di questa cara terra a continuare a fondare la vita sulla roccia salda che è Gesù Cristo, a lavorare per la giustizia, ad essere servitori della carità e perseveranti in mezzo alle prove. Che niente e nessuno - ha concluso - vi sottragga la gioia interiore, così caratteristica dell’animo cubano».

Benedetto XVI ha così proseguito sulla strada iniziata lunedì sera al momento del suo arrivo a Cuba: riconoscimento dei migliorati rapporti diplomatici fra la Chiesa e il governo: intransigente critica delle ideologie atee - pur senza mai nominare il regime -; richiamo alla libertà e al ruolo pubblico della religione; invito al popolo cubano perché cerchi la sua speranza nelle radici cristiane. Come il Papa ha ricordato al momento di sbarcare nell'isola, non si tratta di una strada nuova. Si situa nel solco «della storica visita a Cuba [del 1998] del mio Predecessore, il Beato Giovanni Paolo II [1920-2005], che ha lasciato una traccia indelebile nell’animo dei cubani. Per molti, credenti e non, il suo esempio e i suoi insegnamenti costituiscono una guida luminosa che li orienta sia nella vita personale sia nella realizzazione pubblica del servizio al bene comune della Nazione. In effetti, il suo passaggio nell’isola fu come una brezza soave di aria fresca che diede nuovo vigore alla Chiesa in Cuba, destando in molti una rinnovata coscienza dell’importanza della fede, incoraggiando ad aprire i cuori a Cristo, e, nello stesso tempo, illuminò la speranza e stimolò il desiderio di lavorare con audacia per un futuro migliore». «Uno dei frutti importanti di quella visita - ha proseguito il Pontefice - fu l’inaugurazione di una nuova fase nelle relazioni tra la Chiesa e lo Stato cubano, con uno spirito di maggiore collaborazione e fiducia, benché rimangano ancora molti aspetti nei quali si può e si deve avanzare, specialmente per quanto si riferisce al contributo imprescindibile che la religione è chiamata a svolgere nell’ambito pubblico della società».

Il richiamo al beato Giovanni Paolo II giustifica una strada stretta, contestata dai dissidenti anticastristi ma radicata nella tradizione diplomatica della Chiesa: nessuno scontro frontale con il regime ma una politica dei piccoli passi, rafforzando l'identità cristiana e la presenza della Chiesa, nella speranza che al momento opportuno - com'è avvenuto nell'Europa dell'Est - questa presenza capillare si riveli fermento per una transizione «soft» e non violenta da un regime comunista putrescente alla democrazia.
Questo spiega anche il forte richiamo all'occasione del viaggio, il quattrocentesimo anniversario del ritrovamento dell'immagine della Virgen de la Caridad del Cobre. La statuetta della Madonna del Cobre, così cara al popolo cubano, è stata infatti trovata in mare quattrocento anni fa da alcuni pescatori nella vicina Bahìa de Nipe e trasferita nella miniera di rame di El Cobre, dove nel 1684 è sorto il primo santuario.

In tutti i momenti chiave della loro storia, i cubani si sono raccolti intorno alla Madonna del Cobre. «La sua singolare figura - ha detto il Papa - è stata, fin dall’inizio, molto presente sia nella vita personale dei cubani sia nei grandi avvenimenti del Paese, in modo speciale durante la sua indipendenza, essendo da tutti venerata come vera madre del popolo cubano». A suo modo, ha aggiunto Benedetto XVI, si è trattato di una devozione politica. «La devozione a "la Virgen Mambisa" ha sostenuto la fede e ha incoraggiato la difesa e la promozione di ciò che rende degna la condizione umana e dei suoi diritti fondamentali, e continua a farlo anche oggi con più forza, dando così testimonianza visibile della fecondità della predicazione del Vangelo in queste terre, e delle profonde radici cristiane che danno vita all’identità più profonda dell’animo cubano». «Seguendo la scia di tanti pellegrini nel corso di questi secoli, anch’io desidero recarmi a “El Cobre”. - ha proseguito il Papa - a prostrarmi ai piedi della Madre di Dio, per ringraziarla dei suoi interventi in favore di tutti i suoi figli cubani e chiedere la sua intercessione, affinché guidi i percorsi di questa amata Nazione sui sentieri della giustizia, della pace, della libertà e della riconciliazione».

Per prepararsi a percorrere questi sentieri, ha aggiunto il Papa, i cubani devono rafforzare la consapevolezza delle radici cristiane e sfuggire all'utilitarismo e al relativismo che anche qui penetrano fra i giovani, ricordando tra l'altro anche l'intangibilità della vita umana e della famiglia naturale fondata sull'unione di un uomo e di una donna. Cone ha fatto in altri viaggi, il Pontefice è partito da un'analisi della crisi globale internazionale - che non è solo economica - per proporre un forte richiamo etico. «Molte parti del mondo vivono oggi un momento di particolare difficoltà economica, che non pochi concordano nel situare in una profonda crisi di tipo spirituale e morale, che ha lasciato l’uomo senza valori e indifeso di fronte all’ambizione e all’egoismo di certi poteri che non tengono conto del bene autentico delle persone e delle famiglie. Non si può proseguire a lungo nella stessa direzione culturale e morale che ha causato la dolorosa situazione che tanti sperimentano. Al contrario, il vero progresso necessita di un’etica che collochi al centro la persona umana e tenga conto delle sue esigenze più autentiche, in modo speciale della sua dimensione spirituale e religiosa. Per questo, nel cuore e nella mente di molti, si fa strada sempre di più la certezza che la rigenerazione delle società e del mondo richiede uomini retti e di ferme convinzioni morali e alti valori di fondo che non siano manipolabili da interessi limitati, e che rispondano alla natura immutabile e trascendente dell’essere umano». Se la critica dei poteri forti internazionali può andare in una direzione non sgradita alla retorica del regime cubano, il richiamo alla natura immutabile e trascendente dell'uomo si situa subito all'opposto di ogni concezione marxista.

Sempre coniugando delicati accenni alla transizione prossima ventura e richiami alle radici cristiane, Benedetto XVI si è detto «convinto che Cuba, in questo momento così importante della sua storia, sta guardando già al domani, e per questo si sforza di rinnovare e ampliare i suoi orizzonti; a ciò coopererà quell’immenso patrimonio di valori spirituali e morali che hanno plasmato la sua identità più genuina, e che si trovano scolpiti nell’opera e nella vita di molti insigni padri della patria». A questa storia e a questo processo nessuno può considerare estranea la Chiesa Cattolica. «La Chiesa, da parte sua, ha saputo contribuire con impegno alla promozione di tali valori mediante la sua generosa e instancabile missione pastorale, e rinnova i suoi propositi di continuare a lavorare senza tregua per servire meglio tutti i cubani».
Di fronte a duecentomila fedeli festanti, Benedetto XVI ha ribadito questo schema nella Messa in Piazza Maceo a Santiago di Cuba, celebrando anche qui il quarto centenario della Madonna del Cobre. A proposito della statuetta, «mi ha riempito di emozione - ha detto il Papa - conoscere il fervore con il quale Maria è stata salutata e invocata da tanti cubani, nella sua peregrinazione per tutti gli angoli e i luoghi dell’Isola».

Ma subito, a proposito della Madonna, il Pontefice si è chiesto: «qual è l’importanza che ha per la nostra vita concreta?». L'Incarnazione del Verbo nel seno della Vergine Maria, ha detto il Papa, «indica la realtà umana più concreta e tangible. In Cristo, Dio è venuto realmente nel mondo, è entrato nella nostra storia, ha posto la sua dimora in mezzo a noi, adempiendo così l’intima aspirazione dell’essere umano che il mondo sia realmente una casa per l’uomo». Dio vuole fare parte della storia degli uomini. Quando le ideologie e gli Stati lo escludono da questa storia, finiscono per costruire un mondo che non solo è ostile a Dio, ma è ostile all'uomo: «quando Dio è estromesso, il mondo si trasforma in un luogo inospitale per l’uomo, frustrando, nello stesso tempo, la vera vocazione della creazione di essere lo spazio per l’alleanza, per il "sì" dell’amore tra Dio e l’umanità che gli risponde. Così ha fatto Maria, come primizia dei credenti, con il suo "sì" al Signore, senza riserve».
E la storia di Maria è una storia di libertà, la storia di un «sì» libero a Dio. «È commovente vedere come Dio non solo rispetta la libertà umana, ma sembra averne bisogno. [...] Questa obbedienza a Dio è quella che apre le porte del mondo alla verità, alla salvezza. In effetti, Dio ci ha creati come frutto del suo amore infinito; per questo, vivere secondo la sua volontà è il cammino per trovare la nostra autentica identità, la verità del nostro essere, mentre allontanarsi da Dio ci allontana da noi stessi e ci precipita nel vuoto».

La Vergine Maria è immagine della Chiesa. Anche la Chiesa, come tutta la storia umana, «è chiamata ad accogliere in sé il Mistero di Dio che viene ad abitare in essa». Anche a Cuba, ha esortato il Papa, «nelle circostanze concrete del vostro Paese, e in questo momento storico, la Chiesa rifletta sempre più il suo vero volto come luogo nel quale Dio si avvicina e incontra gli uomini. La Chiesa, corpo vivo di Cristo, ha la missione di prolungare sulla terra la presenza salvifica di Dio, di aprire il mondo a qualcosa di più grande di se stesso, all’amore e alla luce di Dio. Vale la pena, cari fratelli, dedicare tutta la vita a Cristo, crescere ogni giorno nella sua amicizia e sentirsi chiamati ad annunciare la bellezza e la bontà della propria vita a tutti gli uomini, nostri fratelli». Dopo avere criticato le ideologie che vogliono escludere Dio dalla storia, il Pontefice ha invitato i cristiani di Cuba a «seminare il mondo con la parola di Dio e di offrire a tutti l’alimento vero del corpo di Cristo. Nell’approssimarsi della Pasqua, decidiamoci senza timori né complessi a seguire Gesú nel suo cammino verso la croce. Accettiamo con pazienza e fede qualsiasi contrarietà o afflizione, con la convinzione che, nella sua risurrezione, Egli ha sconfitto il potere del male che tutto oscura» e oggi aiuta, anche a Cuba, «a costruire una società aperta e rinnovata, una società migliore, più degna dell’uomo, che rifletta maggiormente la bontà di Dio».


fonte: La Bussola Quotidiana

martedì 27 marzo 2012

Nella gioia del più intenso desiderio spirituale







Vi è noto il rito solenne del nostro mercoledì delle Ceneri: dopo l’ora di Nona, i monaci, rivestiti della cocolla, si recano in capitolo; un fratello legge al pulpito il capitolo XLIX della Regola di san Benedetto, De Quadragesimae observatione, cui fa seguito un breve commento del Padre Abate, il quale distribuisce a ogni fratello il suo libro per la Quaresima, scelto attentamente in precedenza.

Quest’anno il Padre Abate si è soffermato sul brano della Regola in cui la lista delle mortificazioni in uso si conclude così: il monaco «attenda la santa Pasqua nella gioia del più intenso desiderio spirituale». Ecco quindi qual è il fondo della spiritualità della Quaresima: attendere la santa Pasqua! Tuttavia, sappiamo attendere? Vi sono vari modi di attendere; quello passivo del viaggiatore che aspetta un treno e quello assai diverso del naufrago che allo stesso tempo attende e spera, facendo grandi gesti.

Attendere significa allora tendere verso, essere tesi con tutto il proprio desiderio verso la grazia di una liberazione suprema. Il nostro santo Padre Benedetto precisa che questa tensione dell’anima dev’essere accompagnata dalla gioia del più intenso desiderio spirituale.

Sembra paradossale dire che la Quaresima sia un tempo di gioia, ma è questa un’idea molto ricca, assai suggestiva, pregna di molte implicazioni.

Cari oblati, vorrei che ne foste riempiti, per due ragioni. Anzitutto perché è lo spirito medesimo della liturgia, che è essenzialmente un’opera di gioia; inoltre perché la gioia della speranza, più di ogni altra cosa, apre i cuori ai grandi avvenimenti della vita: abitati dall’immagine di una gioia futura, i fidanzati pensano al matrimonio, i catecumeni al battesimo, i prigionieri alla libertà; nessuno potrebbe nutrire un qualunque desiderio se non portasse in sé stesso una certa immagine della cosa desiderata.

Tutta la nobiltà della vita proviene dalla qualità del desiderio che ciascuno porta in sé perché tale desiderio, per la sua stessa forza, ci proietta in maniera quasi invincibile verso il pieno compimento del nostro destino. È per fare nascere in noi questo santo desiderio che nel tempo quaresimale la Chiesa pone sulle nostre labbra questo inno delle Lodi che vi è ben noto: «Dies venit, dies tua, per quam reflorent omnia; laetemur in hac ut tuae per hanc reducti gratiae», «eccolo il tuo giorno, nel quale tutto rifiorisce; rallegriamoci perché è opera della tua grazia».

Cari amici, anche se siete stati privi dello splendore delle cerimonie in cui la liturgia mette in opera tutte le risorse della sua arte, cercate almeno di leggere questi grandi testi e di entrare nello spirito interiore che li anima. Cercate, ve ne supplico, di gustare quel profumo di vittoria che depone in noi il mistero della Risurrezione e di rinfrescare la vostra anima nel ritorno dell’alleluia; cercate di lasciarvi catturare dalla verità di una liberazione di cui la Chiesa ci affida il deposito in attesa del gran giorno dell’eternità.

Poi, se Dio ce ne dà la grazia, che la forza del nostro desiderio ci conduca al di là degli orizzonti terrestri, al di là dell’umano, verso il compimento definitivo della nostra ultima Pasqua, formidabile passaggio ma di una dolcezza infinita perché sfocia sulla paternità di Dio. Ascoltate anticipatamente il Cristo che parla a suo Padre nell’introito alla messa di Pasqua: «Sono risorto e sono ancora con te, alleluia. Ponesti la tua mano su di me, alleluia. Mirabile si è dimostrata la tua scienza, alleluia, alleluia!».

Ecco verso quale gioia tutta interiore, così soprannaturale e così calma, deve tendere il desiderio dell’anima in questi ultimi giorni di Quaresima.



[Dom Gérard Calvet O.S.B. (1927-2008), Avec la joie d’un désir spirituel, 29 marzo 1992, in Benedictus. Tome III. Lettres aux oblats, Éditions Sainte-Madeleine, Le Barroux 2011, pp. 79-81, trad. it. di fr. Romualdo Obl.S.B.]


fonte: Romualdica

Caffarra: Tradizione vuol dire vita







Non raramente il Vaticano II ha avuto una cattiva interpretazione. Probabilmente ciò è dovuto anche al fatto che esso ha promulgato tanti documenti di cui non sempre si tiene presente la natura diversa e la diversa autorevolezza.

I concili ecumenici vanno sempre visti all’interno della vita della Chiesa. È sbagliato pensare che siano un avvenimento a sé. Tradizione vuol dire vita e la vita è continuità nello sviluppo.




(Card. Carlo Caffarra, da Alessandra Borghese – Carlo Caffarra, La verità chiede di essere conosciuta, Milano, Rizzoli, 2009, p. 74)



da Continuitas

lunedì 26 marzo 2012

Chi tradisce la missione della Chiesa






di Luigi Negri*


Le preoccupazioni che muovono questo mio intervento non sono - come si vedrà - polemiche nei confronti di nessuno. Voglio cercare di leggere una situazione che mostra gravi elementi di preoccupazione che stanno avanti a noi; e con “noi” intendo il popolo cristiano nella sua identità, nel suo bisogno di essere educato a raggiungere una coscienza critica e sistematica della sua fede, e quindi in forza di questa cultura affrontare e giudicare serenamente ma oggettivamente tutti i problemi che la vita ci pone di fronte.

Ogni giorno noi – dico noi perché per me è così – combattiamo questo terribile confronto tra la cultura della vita e la cultura della morte. Il beato Giovanni Paolo II parlava di una vera e propria battaglia escatologica. Siamo assaliti da ogni parte da una concezione della vita – o per meglio dire, della persona umana - come di un individuo proteso a realizzare il massimo di benessere con tutto, compresi i rapporti, che sono tutti funzionali alla realizzazione del proprio benessere. E tali rapporti durano in quanto e fin tanto che questo benessere viene assicurato, e durano quali che siano questi rapporti che consentono il benessere.

Di fronte a questa cultura della morte sta la cultura della vita. La cultura della vita non è un’ideologia né di tipo religioso né di tipo etico o familiaristico. La battaglia per la cultura della vita è l’esistenza di un popolo che vive intensamente la propria identità umana nel cristianesimo. E vivendo questa identità umana offre la sua esperienza di vita come un grande annunzio, una grande possibilità offerta a tutti gli uomini, di uscire da quello che un grande filosofo tedesco definiva “il sentiero polveroso del nulla”.

Uscire da questo e cominciare a camminare sul sentiero che porta alla vita, quella vita piena di cui il Signore è stato portatore, e che ha in qualche modo identificato la pienezza storica della sua missione: «Sono venuto perché abbiano la vita, e la abbiano piena».

In questo contesto la tentazione di considerare la famiglia cristiana come un’opzione particolarissima, un’opzione che nessuno metterebbe in discussione, un’opzione del tutto particolare che non ha nessuna ampiezza umana e culturale, che non ha nessuna capacità di giocare un ruolo nel dialogo con questo mondo, questa riduzione del cristianesimo a un’opzione particolare costituisce un vero tradimento dell’identità cristiana e della sua missione nel mondo.

Così anziché battere la strada ampia e solenne, straordinaria – regale, avrebbero detto i nostri padri -, anziché battere la strada regale della missione, della condizione della vita dei nostri fratelli uomini, della proposta a loro di una umanità più autentica, più decisamente vissuta, corriamo dietro alle infrastrutture o alle particolarità - alle molte particolarità in cui si flette questo individualismo consumista e materialista - cercando di trovare valori che non si possono trovare perché nessuno li professa come tali.

L’omosessualità e l’eterosessualità non stanno una di fronte all’altra come due possibili opzioni con alcuni vantaggi e alcuni svantaggi; non stanno di fronte come se fosse necessario per tutti, e quindi anche per i cristiani, armarsi di intelligenza e di capacità di penetrazione per salvaguardare alcuni valori delle unioni gay. Ad esempio l’amicizia: si fa un discorso sull’amicizia tra due partner dello stesso sesso, senza rendersi conto che questa espressione – amicizia – copre un aspetto certamente molto particolare che non è quello che viene in mente a chi professa la sua omosessualità o a chi considera in un mondo come il nostro l’esperienza della omosessualità.

L’esperienza omosessuale considerata in qualche modo come una eguale esperienza di famiglia è assolutamente insostenibile, perché l’esperienza dell'omosessualità – come a certi livelli l’esperienza di una eterosessualità disordinata e immotivata – è un aspetto del degrado mondano che sta praticamente archiviando i rapporti che nascono da una gratuità vissuta, da una corresponsabilità in ordine alla gestione delle grandi questioni della vita, di fronte alla paternità o alla maternità come responsabilità inderogabile di fronte a Dio e di fronte alla storia.

Invece di incrementare la coscienza della situazione di questo mondo così ammalato di individualismo e di consumismo e di proporre come alternativa viva un modo d’essere affezionati, uomo e donna, nel grande orizzonte di una vera idealità umana e cristiana, di una vera esperienza di un compimento l’uno nell’altro, di una dimensione di gratuità che è la stessa dimensione dell’esistenza di Dio, andiamo alla ricerca in modo sostanzialmente molto artificioso di aspetti di positività in esperienze che il buon senso comune - ancor prima della retta ragione - ha considerato non certo deprecabili e condannabili, ma sicuramente come esperienze non autenticamente umane.

A chi nel mondo cattolico ed ecclesiastico poco o tanto sostiene questa posizione, chiedo: perché abbandonare la strada della evangelizzazione, fatta come offerta della vita cristiana, come novità della vita di Cristo partecipata da coloro che vivono la comunione ecclesiale e vi partecipano con tutta la loro libertà? Anziché questa che è la strada maestra della vita cristiana, della presenza della Chiesa nel mondo, perché correre dietro situazioni tutto sommato particolari che finiscono per avere anche per questo nostro interessamento, più importanza esistenziale e storica di quanto non ne abbiano obiettivamente?

Forse varrebbe la pena di rileggere quelle lucidissime pagine di Jacques Maritain – che non era certo un filosofo integralista - che ne “Il Contadino della Garonna” metteva in guardia la Chiesa, ma innanzitutto l’ecclesiasticità, da una operazione che considerava suicida: l’inginocchiarsi di fronte al mondo. La Chiesa tradisce se stessa - ma tradisce anche l’uomo - quando invece di svolgere tutta la forza della sua responsabilità missionaria, che è responsabilità ad un tempo culturale e caritativa, si riduce a discettare di problemi psicologici, affettivi, sessuali, stralciati dal contesto della vita vera e attiva e ridotti a espressioni di presupposti che non hanno molte volte nessun fondamento reale e quindi sostanzialmente diventano una posizione ideologica.

Giovanni Paolo II ci ha insegnato dalla Redemptor Hominis in poi che la Chiesa non deve avere alcuna preoccupazione di dialogo con le formulazioni ideologiche o socio-politiche, ma deve avere come preoccupazione quella evangelizzazione ed educazione del popolo cristiano che si attua poi come missione, perché la missione è l’autorealizzazione della Chiesa. E in questo compito di autorealizzazione incontra i problemi reali degli uomini, anche le difficoltà, anche gli aspetti di assoluta particolarità, ma che assume non con la presunzione della neutralità scientifica o filosofica o sociologica, li assume come parte viva di una condivisione dentro la quale si possono legittimamente indicare vie di una possibile soluzione esistenziale e sociale di tali problemi.

Invece di inseguire psicologismi dobbiamo preoccuparci di rafforzare l’Identità della fede così come è stata tematizzata da quel Catechismo della Chiesa cattolica che papa Benedetto XVI ha posto come strumento fondamentale dell’Anno della fede. L’anno che abbiamo davanti non è l’anno della rincorsa alle problematiche particolari, specifiche, qualche volta patologiche. L’anno che abbiamo davanti è l’anno della fede, che se si approfondisce incontra tutto e sa dare un contributo positivo alla soluzione di tutti i problemi.



* Vescovo di San Marino-Montefeltro



fonte: La Bussola Quotidiana

Il papa in Messico: "Viva Cristo Re" È un re con la corona di spine, ma solo lui ci può salvare: "Qualsiasi cosa vi dica, fatela"




 L'omelia alla messa di Léon, davanti a mezzo milione di fedeli, domenica 25 marzo di Benedetto XVI


 Cari fratelli e sorelle,
[...] "Crea in me, Signore, un cuore puro" (Sal 50,12), abbiamo invocato nel Salmo responsoriale. Questa esclamazione mostra la profondità con la quale dobbiamo prepararci per celebrare, la prossima settimana, il grande mistero della passione, morte e risurrezione del Signore. Questo ci aiuta anche a guardare nel profondo del cuore umano, specialmente nei momenti che uniscono dolore e speranza, come quelli che attraversa attualmente il popolo messicano ed anche altri popoli dell'America Latina.

 L'anelito di un cuore puro, sincero, umile, gradito a Dio, era già molto sentito da Israele, man mano che prendeva coscienza della persistenza del male e del peccato nel suo seno, come un potere praticamente implacabile ed impossibile da superare. Non restava che confidare nella misericordia di Dio onnipotente e nella speranza che Egli cambiasse dal di dentro, dal cuore, una situazione insopportabile, oscura e senza futuro. Così si aprì la strada al ricorso alla misericordia infinita del Signore, che non vuole la morte del peccatore, ma che si converta e viva (cfr Ez 33,11).

Un cuore puro, un cuore nuovo, è quello che si riconosce impotente da sé stesso e si mette nelle mani di Dio per continuare a sperare nelle sue promesse. In questo modo, il salmista può dire convinto al Signore: "torneranno a te i peccatori" (Sal 50,15). E, verso la fine del salmo, darà una spiegazione che è contemporaneamente una ferma confessione di fede: "Un cuore affranto e umiliato, tu non lo disprezzi" (v. 19). La storia di Israele narra anche grandi gesta e battaglie, ma nel momento di affrontare la sua esistenza più autentica, il suo destino più decisivo, cioè la salvezza, più che nelle proprie forze, ripone la sua speranza in Dio che può ricreare un cuore nuovo, non insensibile e arrogante.

Questo può ricordare oggi ad ognuno di noi ed ai nostri popoli che, quando si tratta della vita personale e comunitaria, nella sua dimensione più profonda, non basteranno le strategie umane per salvarci. Si deve ricorrere anche all'unico che può dare vita in pienezza, perché Egli stesso è l'essenza della vita ed il suo autore, e ci ha fatto partecipi di essa attraverso il suo Figlio Gesù Cristo. Il Vangelo di oggi prosegue facendoci vedere come questo antico anelito alla vita piena si è realizzato realmente in Cristo. Lo spiega san Giovanni in un passaggio nel quale si incrociano il desiderio di alcuni greci di vedere a Gesù ed il momento in cui il Signore sta per essere glorificato. Alla domanda dei greci, rappresentanti del mondo pagano, Gesù risponde dicendo: "È venuta l'ora che il Figlio dell'uomo sia glorificato" (Gv 12,23).

Risposta strana che sembra incoerente con la domanda dei greci. Che cosa c’entra la glorificazione di Gesù con la richiesta di incontrarsi con Lui? In realtà c'è una relazione. Qualcuno potrebbe pensare - osserva san Agostino - che Gesù si sentisse glorificato perché andavano da Lui i pagani; qualcosa di simile all'applauso della moltitudine che dà "gloria" ai grandi del mondo, diremmo oggi. Ma non è così. "Conveniva che alla sublimità della sua glorificazione precedesse l'umiltà della sua passione" (In Joannis Ev., 51, 9: PL 35, 1766).

La risposta di Gesù, che annuncia la sua passione imminente, dice che un incontro occasionale in quei momenti sarebbe superfluo e forse ingannevole. Quello che i greci vogliono vedere, in realtà lo vedranno innalzato sulla croce, dalla quale Egli attirerà tutti a sé (cfr Gv 12,32). Lì inizierà la sua "gloria", a causa del suo sacrificio di espiazione per tutti, come il chicco di grano caduto in terra, che, morendo, germina e dà frutto abbondante. Incontreranno Colui che, sicuramente senza saperlo, andavano cercando nel loro cuore: il vero Dio che si rende riconoscibile a tutti i popoli.

Questo è anche il modo in cui Nostra Signora di Guadalupe ha mostrato il suo divino Figlio a san Juan Diego. Non come un eroe portentoso da leggenda, ma come il vero Dio per il quale si vive, il Creatore delle persone, della vicinanza e della prossimità, il Creatore del Cielo e della Terra (cfr Nican Mopohua, v. 33). Ella, in quello momento, fece quello che aveva già sperimentato nelle Nozze di Cana. Davanti all’imbarazzo per la mancanza di vino, indicò chiaramente ai servi che la via a seguire era suo Figlio: "Qualsiasi cosa vi dica, fatela" (Gv 2,5).

 Cari fratelli, venendo qui ho potuto avvicinarmi al monumento a Cristo Re, in cima al "Cubilete". Il mio venerato Predecessore, il beato Papa Giovanni Paolo II, benché lo desiderasse ardentemente, non poté visitare questo luogo emblematico della fede del popolo messicano, nei suoi viaggi a questa cara terra. Sicuramente oggi si rallegrerà dal cielo che il Signore mi abbia concesso la grazia di poter stare ora con voi, così come avrà benedetto i tanti milioni di messicani che hanno voluto venerare, recentemente, le sue reliquie in tutti gli angoli del Paese. Ebbene, in questo monumento si rappresenta Cristo Re. Ma le corone che lo accompagnano, una da sovrano ed un'altra di spine, indicano che la sua regalità non è come molti la intesero e la intendono. Il suo regno non consiste nel potere dei suoi eserciti per sottomettere gli altri con la forza o la violenza. Si fonda su un potere più grande, che conquista i cuori: l'amore di Dio che Egli ha portato al mondo col suo sacrificio e la verità, di cui ha dato testimonianza. Questa è la sua signoria che nessuno gli potrà togliere e che nessuno deve dimenticare. Per questo è giusto che, innanzitutto, questo santuario sia un luogo di pellegrinaggio, di preghiera fervente, di conversione, di riconciliazione, di ricerca della verità e accoglienza della grazia.

A Lui, a Cristo, chiediamo che regni nei nostri cuori, rendendoli puri, docili, pieni di speranza e coraggiosi nella loro umiltà. Anche oggi, da questo parco, con il quale si vuole ricordare il bicentenario della nascita della Nazione messicana, che ha unito molte differenze, ma con un destino ed un’aspirazione comuni, chiediamo a Cristo un cuore puro, dove egli possa abitare come Principe della pace, "grazie al potere di Dio, che è il potere del bene, il potere dell'amore". E, affinché Dio abiti in noi, bisogna ascoltarlo, bisogna lasciarsi interpellare dalla sua Parola ogni giorno, meditandola nel proprio cuore, sull’esempio di Maria (cfr Lc 2,51). Così cresce la nostra amicizia personale con Lui, si impara quello che Egli attende da noi e si riceve incoraggiamento per farlo conoscere agli altri. In Aparecida, i Vescovi dell'America Latina e dei Caraibi hanno colto con lungimiranza la necessità di confermare, rinnovare e rivitalizzare la novità del Vangelo, radicata nella storia di queste terre "dall'incontro personale e comunitario con Gesù Cristo che susciti discepoli e missionari" (Documento conclusivo, 11).

 La Misión Continental che si sta portando avanti, diocesi per diocesi, in questo Continente, ha precisamente l’obiettivo di far arrivare questa convinzione a tutti i cristiani e alle comunità ecclesiali, affinché resistano alla tentazione di una fede superficiale e abitudinaria, a volte frammentaria ed incoerente. Anche qui si deve superare la stanchezza della fede e recuperare "la gioia di essere cristiani, l’essere sostenuti dalla felicità interiore di conoscere Cristo e di appartenere alla sua Chiesa. Da questa gioia nascono anche le energie per servire Cristo nelle situazioni opprimenti di sofferenza umana, per mettersi a sua disposizione, senza ripiegarsi sul proprio benessere" (Discorso alla Curia Romana, 22 dicembre 2011).

Lo vediamo molto bene nei Santi, che si dedicarono completamente alla causa del Vangelo con entusiasmo e con gioia, senza badare ai sacrifici, anche quello della propria vita. Il loro cuore era una opzione incondizionata per Cristo dal quale avevano imparato ciò che significa veramente amare fino alla fine. In questo senso, l’"Anno della fede", che ho convocato per tutta la Chiesa, "è un invito ad un'autentica e rinnovata conversione al Signore, unico Salvatore del mondo… La fede, infatti, cresce quando è vissuta come esperienza di un amore ricevuto e quando viene comunicata come esperienza di grazia e di gioia" (Lett. ap. Porta fidei, 11 ottobre 2011, 6.7).

 Chiediamo alla Vergine Maria che ci aiuti a purificare il nostro cuore, specialmente nell’avvicinarci alla celebrazione delle feste di Pasqua, affinché giungiamo a partecipare meglio al Mistero di salvezza del suo Figlio, come Ella lo ha fatto conoscere in queste Terre. E chiediamole anche che continui ad accompagnare e proteggere i suoi cari figli messicani e latinoamericani, affinché Cristo regni nelle loro vite e li aiuti a promuovere con coraggio la pace, la concordia, la giustizia e la solidarietà. Amen. *


 [Al termine della messa, all'Angelus]

 Cari fratelli e sorelle, nel Vangelo di questa domenica, Gesù parla del chicco di frumento che cade in terra, muore e si moltiplica, rispondendo ad alcuni greci che si avvicinano all’apostolo Filippo per chiedergli: "Vogliamo vedere Gesù" (Gv 12,21). Noi oggi invochiamo Maria Santissima e la supplichiamo: "Mostraci Gesù". Nel recitare ora l’Angelus ricordando l’Annunciazione del Signore, anche i nostri occhi si dirigono spiritualmente fino al colle del Tepeyac, al luogo dove la Madre di Dio, sotto il titolo di "la sempre vergine santa Maria di Guadalupe", è onorata con fervore da secoli, quale segno di riconciliazione e della infinita bontà di Dio per il mondo.

 I miei Predecessori sulla Cattedra di san Pietro la onorarono con titoli speciali come Signora del Messico, Celeste Patrona dell’America Latina, Madre e Imperatrice di questo Continente. I suoi fedeli figli, a loro volta, che sperimentano il suo aiuto, la invocano, pieni di fiducia, con nomi affettuosi e familiari come Rosa del Messico, Signora del Cielo, Vergine "Morena", Madre del Tepeyac, Nobile "Indita".

 Cari fratelli, non dimenticate che la vera devozione alla Vergine Maria ci avvicina sempre a Gesù, e "non consiste né in uno sterile e passeggero sentimentalismo, né in una certa qual vaga credulità, ma procede dalla fede vera, dalla quale siamo portati a riconoscere la preminenza della Madre di Dio, e siamo spinti al filiale amore verso la Madre nostra e all'imitazione delle sue virtù"(Lumen gentium, 67). Amarla significa impegnarsi ad ascoltare il suo Figlio; venerare la Guadalupana significa vivere secondo le parole del frutto benedetto del suo seno. In questi momenti in cui tante famiglie si ritrovano divise e costrette all’emigrazione, molte soffrono a causa della povertà, della corruzione, della violenza domestica, del narcotraffico, della crisi di valori o della criminalità, rivolgiamoci a Maria alla ricerca di conforto, vigore e speranza.

E’ la Madre del vero Dio, che invita a rimanere con la fede e la carità sotto la sua ombra, per superare così ogni male e instaurare una società più giusta e solidale. Con questi sentimenti, desidero porre nuovamente sotto il dolce sguardo di Nostra Signora di Guadalupe questo Paese e tutta l’America Latina e i Caraibi. Affido ciascuno dei suoi figli alla Stella della prima e della nuova evangelizzazione, che ha animato con il suo amore materno la storia cristiana di queste terre, dando caratteristiche particolari ai grandi avvenimenti della loro storia, alle loro iniziative comunitarie e sociali, alla vita familiare, alla devozione personale e alla Misiòn continental che ora si sta svolgendo in queste nobili terre. In tempi di prova e dolore, Ella è stata invocata da tanti martiri che, al grido "Viva Cristo Re e Maria di Guadalupe", hanno dato una perenne testimonianza di fedeltà al Vangelo e di dedizione alla Chiesa. Supplico ora che la sua presenza in questa cara Nazione continui a richiamare al rispetto, alla difesa e alla promozione della vita umana e al consolidamento della fraternità, evitando l’inutile vendetta ed allontanando l’odio che divide. Santa Maria di Guadalupe ci benedica e ci ottenga, per sua intercessione, abbondanti grazie dal Cielo.

domenica 25 marzo 2012

Benedetto XVI: il Vaticano II va interpretato nella Tradizione della Chiesa







Il Concilio Vaticano II è stato e continua ad essere un autentico segno di Dio per i nostri tempi. Se sappiamo leggerlo e riceverlo all’interno della Tradizione della Chiesa e sotto la guida sicura del Magistero, esso diverrà ogni giorno di più una grande forza per l’avvenire della Chiesa [...]

[possiamo] meglio conoscere i testi che i Padri Conciliari ci hanno lasciati in eredità, testi che non hanno perduta nulla del loro valore, al fine di assimilarli e da farne nascere dei frutti per l’oggi.

Questo rinnovamento, che si situa nella continuità, assume molteplici forme e l’anno della fede, che ho voluto proporre a tutta la Chiesa per quest’occasione, deve permettere di rendere più cosciente la nostra fede e di ravvivare la nostra adesione al Vangelo.



(Sua Santità Benedetto XVI, dal Videomessaggio del Santo Padre all’incontro nazionale della Chiesa di Francia per i 50 anni dall’apertura del Concilio Vaticano II)

sabato 24 marzo 2012

LA LITURGIA SACRAMENTALE, ANTICIPAZIONE ATTUALE DI QUELLA CELESTE




Una riflessione sulla Liturgia ecclesiale, firmata da Don Natale Scarpitta







di don Natale Scarpitta


La Costituzione conciliare Sacrosanctum Concilium mirabilmente insegna che «nella Liturgia terrena noi partecipiamo per anticipazione alla Liturgia celeste che viene celebrata nella santa città di Gerusalemme» (n. 8; CCC n. 1090).

Il Catechismo della Chiesa Cattolica, riprendendo questa consapevolezza squisitamente teologica, ribadisce che «coloro che celebrano il culto liturgico, vivono già in qualche modo, al di là dei segni, nella Liturgia celeste, dove la celebrazione è totalmente comunione e festa» (n. 1136).

Ed aggiunge: «è a questa Liturgia eterna che lo Spirito e la Chiesa ci fanno partecipare quando celebriamo, nei sacramenti, il Mistero della salvezza» (n. 1139).

La chiarezza espositiva dei testi magisteriali riguardanti l’indole della cosiddetta 'Liturgia cosmica' non necessita di delucidazioni ulteriori. Desideriamo comunque soffermarci su questo dato di fede perché, nonostante la sua indubbia pregnanza dottrinale, raramente trova eco escatologica nella predicazione pastorale.

Il carattere meramente storico dell’azione liturgica non esaurisce infatti l'identità del culto liturgico. La Liturgia che nel nostro pellegrinaggio terreno celebriamo è un frammento visibile che si incastona nella perenne Liturgia celeste.

Ed è proprio nella trascendenza di Dio che l’azione liturgica, attuata dalla Chiesa nel fluire della sua quotidianità, trova la sua origine. La Liturgia terrena si innesta infatti in ciò che già preesiste, in ciò che è infinitamente più grande e le dà senso.

Volendo richiamare alcune immagini usate dai Sommi Pontefici, potremmo dire che la Liturgia ecclesiale è un assaggio (cfr. Giovanni Paolo II, Udienza Generale, 28 giugno 2000), un riflesso reale seppur pallido (cfr. Benedetto XVI, Omelia alla celebrazione dei Vespri nella Cattedrale di Notre Dame a Parigi, 12 settembre 2008), di quella che incessantemente si celebra nell’alto dei cieli.

L’ineffabile unità tra la Liturgia terrena e quella celeste è peculiarmente significata nell’anafora romana quando il sacerdote, interpretando i sentimenti dell’assemblea tutta, nell’orazione del Canone supplica Dio onnipotente e Gli chiede che un Angelo santo consegni l’offerta terrena sul sublime altare del cielo (cfr. Ap 8,3).

Una delle pagine bibliche che stanno a fondamento di questa sublime verità teologica la propone il Libro dell’Apocalisse. La solenne e gloriosa visione contenuta nei capitoli 4 e 5 delinea i tratti chiari della Liturgia celeste alla quale il popolo di Dio, pur nella diversità dei suoi ministeri, misticamente si associa nelle celebrazioni ecclesiali.

L’inno si conclude con la luminosa immagine della gloria celeste: «miriadi di miriadi e migliaia di migliaia» di angeli (cfr. Ap. 5,11) elevano un’acclamazione attribuendo all’Agnello immolato potenza, ricchezza, sapienza, forza, lode, onore, gloria ebenedizione (cfr. Ap 5, 12-13).

La Liturgia terrena è poi espressione autentica della communio sanctorum. In essa avviene una mistica fusione di voci tra la lode che i fedeli, con fraterna esultanza, unanimamente elevano al Signore ed il canto che gli Angeli e gli Arcangeli, con i Troni e le Dominazioni, con la moltitudine dei Cori celesti, insieme alle schiere dei Santi, rivolgono ininterrottamente a Dio.

Queste espressioni che ascoltiamo all’interno della Preghiera Eucaristica non rappresentano i versi di una prosa pervasa di devoto sentimentalismo. Descrivono piuttosto la realtà concreta della straordinaria ricchezza di cui siamo resi partecipi nel culto liturgico.

In questa armonia sinfonica il Signore ci introduce al cospetto della bellezza indefettibile e ci ammette alla comunione con Lui nella gioia imperitura.

Nel culto terreno, allora, ciò che è umano è ordinato e subordinato al divino, il visibile all'invisibile, l'azione alla contemplazione, la realtà presente alla città futura, verso la quale il popolo di Dio, viandante nelle strade della storia, è incamminato (cfr. Sacrosanctum Concilium n. 2).

La Liturgia ecclesiale, dunque, non costituisce una imitazione più o meno fedele della Liturgia celeste, né tantomeno una celebrazione parallela o alternativa.

Essa, piuttosto, significa e rappresenta una concreta epifania sacramentale della Liturgia eterna. Il cielo si squarcia, l’eterno irrompe nel tempo dilatando gli angusti confini della storia e l’umano si immerge per grazia nell’infinito di Dio.

È così che nel suo esilio terreno l’uomo pregusta già la gloria della sua Patria eterna. L’intera creazione è così assunta e integrata nella redenzione.

L’umano intelletto può solo timidamente penetrare questa realtà. Senza mai comprenderla nella sua interezza, l’uomo, con un atto sincero di fede, può accoglierla in dono e da essa lasciarsi trasformare. «La liturgia ci porta, così, in un altro mondo, quello della grazia e della gloria, che solo ha senso per la fede. Ogni celebrazione appare così il vertice della professione di fede» (I. Biffi, L'Osservatore Romano, 18-19/10/2010).



* Don Natale Scarpitta, presbitero dell’Arcidiocesi di Salerno – Campagna – Acerno, è Dottorando in Diritto Canonico presso la Pontificia Università Gregoriana di Roma.


Zenit.org

LA VISITA ALL'AVANA







di Gian Guido Vecchi

 Quando il volo AZ 4000 atterra dopo quattordici ore di viaggio, ci sono più di centomila fedeli lungo quaranta chilometri ad accompagnare ai margini della strada Benedetto XVI verso il centro della città tra grida, preghiere e coriandoli gialli. Come di consueto, dopo il decollo da Roma e la colazione, il pontefice ha raggiunto la coda dell’aereo per rispondere alle domande preparate dai giornalisti. Sereno e sorridente, riceve tra le risate generali anche il dono di un giornalista del Paese ospite: un iPod con musica messicana. Più tardi in effetti si ballerà, ma per la forte turbolenza sopra la Groenlandia.

 Santo Padre, i viaggi del suo predecessore Giovanni Paolo II in Messico e a Cuba hanno fatto storia. Con quale animo e speranze lei si mette oggi sulle sue tracce?

 «Cari amici, anzitutto vorrei dire: benvenuti e grazie per il vostro accompagnamento in questo viaggio che speriamo sia benedetto dal Signore. Io in questo viaggio mi sento totalmente nella continuità con Papa Giovanni Paolo II, mi ricordo benissimo del suo primo viaggio in Messico che era realmente storico, in una situazione giuridica ancora molto confusa ha aperto le porte ed è cominciata una nuova fase della collaborazione tra Chiesa, società e Stato. E anche mi ricordo bene suo viaggio storico a Cuba. Quindi cerco di andare nelle sue tracce e continuare quanto lui ha continuato. Per me c’era dall’inizio il desiderio di visitare il Messico. Da cardinale sono stato in Messico con ottimi ricordi e ogni mercoledì sento l’applauso e la gioia dei messicani, per me è una grande gioia e risponde a un desiderio che ho avuto da tanto tempo. Per dire quali sentimenti mi toccano, mi vengono in mente le parole del Concilio Vaticano II, Gaudium et spes, luctus et angor: gioia e speranza ma anche lutto e angoscia. Io condivido la gioie e le speranze ma condivido anche il lutto e le difficoltà di questo grande Paese. Vado per incoraggiare e per imparare, per confortare nella fede e nella speranza e nella carità, e per confortare nell’impegno per il bene, nell’impegno per la lotta contro il male. Speriamo che il Signore ci aiuti».

 Il Messico è anche terra di violenza per il narcotraffico: si parla di cinquantamila morti negli ultimi cinque anni. Come affronta la Chiesa cattolica questa situazione? Lei avrà parole per i responsabili, i trafficanti che a volte si professano cattolici o addirittura benefattori della Chiesa?

«Noi conosciamo bene tutte le bellezze del Messico ma anche questo grande problema del narcotraffico e della violenza. E’ certamente una grande responsabilità per la Chiesa cattolica in un Paese con l’ottanta per cento di cattolici, e dobbiamo fare il possibile contro questo male distruttivo dell’umanità e della nostra gioventù. Direi che il primo atto è annunciare Dio. Dio è il giudice, Dio che ci ama ma ci ama per attirarci al bene e alla verità contro il male. Quindi è grande responsabilità della Chiesa di educare le coscienze, educare alla responsabilità morale e di smascherare il male, smascherare questa idolatria del denaro che schiavizza gli uomini solo per questa cosa, smascherare anche queste false promesse, la menzogna, la truffa che sta dietro la droga. E dobbiamo vedere che l’uomo ha bisogno dell’infinito e se Dio non c’è si crea i suoi propri paradisi, una parvenza di infinitudine che può essere solo una menzogna. Perciò è tanto importante che Dio sia presente e accessibile, grande responsabilità davanti a Dio giudice che ci guida, ci attira alla verità e al bene, e in questo senso la Chiesa deve smascherare il male, rendere presente la bontà di Dio, la sua verità, il vero infinito del quale abbiamo sete. E’il grande dovere della Chiesa. Facciamo tutti insieme il possibile sempre più».

 L’America latina, nonostante lo sviluppo, continua a essere una regione di grandi contrasti sociali dove si trovano i più ricchi accanto ai più poveri. A volte sembra che la Chiesa cattolica non sia sufficientemente incoraggiata a impegnarsi in questo campo. Si può continuare a parlare di teologia della liberazione in un modo positivo, dopo che certi eccessi sul marxismo e la violenza sono stati corretti?

 «Naturalmente la Chiesa deve sempre chiedersi se si fa abbastanza per la giustizia sociale, in questo grande Continente. Questa è una questione di coscienza che dobbiamo sempre porci. E chiederci che cosa deve fare la Chiesa e che cosa poi non deve fare. La Chiesa non è un potere politico, non è un partito, ma è una realtà morale, un potere morale. In quanto la politica fondamentalmente deve essere una realtà morale, la Chiesa su questo binario ha fondamentalmente a che fare con la politica. Ripeto quanto avevo già detto: il primo mestiere della Chiesa è educare le coscienze, e così creare una responsabilità necessaria. Educare le coscienze sia nell’etica individuale sia nell’etica pubblica. E qui forse c’è una mancanza: si vede, in America latina ma anche altrove, in non pochi cattolici, una certa schizofrenia tra morale individuale e pubblica. Personalmente, nella sfera individuale, sono cattolici, credenti, ma nella vita pubblica seguono altre strade che non corrispondono ai grandi valori del Vangelo che sono necessari per la fondazione di una società giusta. Quindi bisogna educare a superare questa schizofrenia, educare non solo alla morale individuale ma a una morale pubblica. E questo cerchiamo di fare con la dottrina sociale della Chiesa: naturalmente questa morale pubblica dev’essere una morale ragionevole, condivisa e condivisibile anche da non credenti, una morale della ragione. Certo, noi nella luce della fede possiamo vedere tante cose che anche la ragione può vedere, ma proprio la fede serve anche per liberare la ragione dagli interessi falsi e dagli oscuramenti degli interessi, e così creare nella dottrina sociale i modelli sostanziali per una collaborazione politica, soprattutto per il superamento di questa divisione sociale-antisociale che purtroppo esiste. In questo senso vogliamo lavorare. Non so se la parola "teologia della liberazione", che si può anche interpretare molto bene, ci aiuterebbe molto. L’importante è la comune razionalità alla quale la Chiesa può offrire un contributo fondamentale e deve sempre aiutare nella educazione delle coscienze sia per la vita pubblica sia per la vita privata».

 Tutti ricordiamo le famose parole di Giovanni Paolo II: Cuba si apra al mondo e il mondo si apra a Cuba. Sono passati 14 anni ma sembra siano ancora attuali. Durante l’attesa del suo viaggio molte voci di oppositori o di sostenitori dei diritti umani si sono fatte sentire. Lei pensa di riprendere il messaggio di Giovanni Paolo II?

 «Come ho già detto, mi sento in assoluta continuità con le parole del Santo Padre Giovanni Paolo II, che sono ancora attualissime. Questa visita del Papa ha inaugurato una strada di collaborazione, di dialogo costruttivo, una strada che è lunga, esige pazienza, ma va avanti. Oggi è evidente che l’ideologia marxista com’era concepita non risponde più alla realtà, così non si può più rispondere e costruire una società, devono essere trovati nuovi modelli, con pazienza, in modo costruttivo. In questo processo che esige pazienza ma anche decisione, vogliamo aiutare in spirito di dialogo per evitare traumi e per aiutare verso una società fraterna e giusta come la desideriamo per tutto il mondo. E vogliamo collaborare in questo senso. E’ ovvio che la Chiesa sta sempre dalla parte della libertà, la libertà della coscienza, la libertà della religione, in questo senso contribuiamo, contribuiscono anche proprio i semplici fedeli a questo cammino avanti».

 Fra pochi mesi vi sarà sinodo nuova evangelizzazione e inizierà l’anno della fede. Anche in America latina vi sono le sfide della secolarizzazione, delle le sette. In Cuba vi sono le conseguenze di una lunga propaganda dell’ateismo, la religiosità afrocubana è molto diffusa. Pensa che questo viaggio sia un incoraggiamento per la nuova evangelizzazione e quali sono i punti che le stanno più a cuore in questa prospettiva?

«Il periodo della nuova evangelizzazione è cominciato con il Concilio, questa era fondamentalmente l’intenzione di Papa Giovanni XXIII, è stata fortemente sottolineata da Giovanni Paolo II. La sua necessità, in un mondo che è in grande cambiamento, diventa sempre più evidente. Necessità nel senso che il Vangelo deve esprimersi in modi nuovi e necessità anche nell’altro senso, che il mondo ha bisogno di una parola nella confusione e nella difficoltà di orientarsi oggi. C’è una situazione comune del mondo, cioè la secolarizzazione, l’assenza di Dio, la difficoltà di trovare accesso, di vederlo come una realtà che concerne la mia vita. E dall’altra parte ci sono i temi specifici, lei ha accennato a Cuba con il sincretismo afrocubano, con tante altre difficoltà, ma ogni Paese ha la sua situazione culturale specifica. E da una parte dobbiamo partite dal problema comune, come oggi nel contesto della nostra moderna razionalità, possiamo di nuovo riscoprire Dio come l’orientamento fondamentale della nostra vita, la speranza fondamentale della nostra vita, il fondamento dei valori che realmente costruiscono una società. E come possiamo tenere conto della specificità delle situazioni diverse. Mi sembra molto importante annunciare un Dio che risponde alla nostra ragione perché vediamo la razionalità del cosmo, vediamo che c’è qualcosa dietro, ma non vediamo come sia vicino questo Dio, come concerne me. Questa sintesi del Dio grande maestoso e del Dio piccolo che è vicino a me e orienta e mi mostra i valori della mia vita, è il nucleo dell’evangelizzazione. Quindi un cristianesimo essenzializzato, dove si trova realmente il nucleo fondamentale per vivere oggi, con tutti i problemi del nostro tempo. E dall’altra parte bisogna tener conto della realtà concreta. In America Latina è molto importante che il cristianesimo non fosse mai tanto una cosa della ragione ma del cuore. La Madonna di Guadalupe è riconosciuta e amata da tutti perché capiscono che è una madre per tutti. Ed è presente dall’inizio di questa America Latina dopo l’arrivo degli europei. E pure in cuba abbiamo la madonna del Cobre che tocca i cuori. Sanno intuitivamente che è vero che questa Madonna ci ama e ci aiuta, ma questa intuizione del cuore deve collegarsi con la razionalità della fede e con la profondità della fede che va oltre la ragione. Dobbiamo cercare di non perdere il cuore ma di collegare cuore e ragione così che cooperino perché solo così l’uomo è completo e può aiutare e lavorare per un futuro migliore. Grazie».


Corriere della sera  24/04/12

Messico e Cuba






di Massimo Introvigne

 Per il beato Giovanni Paolo II (1920-2005) i viaggi in America Latina erano sempre grandi feste. Un popolo immenso ballava, cantava e scandiva «Juan Pablo Segundo, te quere todo el mundo», «Giovanni Paolo Secondo, ti ama tutto il mondo». Per Benedetto XVI già il primo viaggio sudamericano, in Brasile nel 2007, fu piuttosto difficile. Una Chiesa percorsa da fremiti di ribellione verso Roma dovette essere energicamente richiamata all’ordine. Non mancò, peraltro, un genuino – e poco atteso dalla stampa – entusiasmo popolare, particolarmente a San Paolo in occasione della canonizzazione del francescano sant’Antonio de Sant’Ana Galvão (1739-1822), un personaggio carissimo alla devozione popolare.

 In Messico e a Cuba il Papa affronta il viaggio più difficile del suo pontificato. Ci sono infatti tre nodi delicatissimi che non sarà facile sciogliere. Il primo riguarda la tradizione anticlericale del Messico. Il film appena presentato a Roma, «Cristiada», ricorda come nella storia del Messico ci sia stata perfino una guerra, quella dei Cristeros del 1926-1929, fra chi difendeva la libertà religiosa dei cattolici e un laicismo feroce deciso a estirpare la religione a colpi di chiese distrutte e di fucilazioni. Il beato Giovanni Paolo II liquidò questa eredità anticlericale quasi come un anacronismo.

Ma oggi il vecchio anticlericalismo, che non ha mai veramente cessato di ripetere i suoi slogan nella sinistra messicana, si salda con nuove lobby come quella del matrimonio omosessuale, così che una tradizione laicista tipicamente messicana è alimentata e rafforzata da un possente laicismo internazionale, che da tempo ha messo la Chiesa e il Papa nel suo mirino.

 Il secondo nodo è quello dei preti pedofili. Dal punto di vista statistico l’America Latina – nonostante casi davvero sgradevoli – non ha mai avuto numeri alti di sacerdoti accusati di pedofilia, paragonabili all’Irlanda – un Paese dove non a caso Benedetto XVI ha appena voluto un intervento severissimo – o agli Stati Uniti. Tuttavia, era messicano padre Marcias Maciel Degollado (1920-2008), il fondatore dei Legionari di Cristo, di cui negli ultimi anni della vita – e ancor più dopo la morte – emerse una doppia vita, con una pluralità impressionante di legami e rapporti sessuali e di abusi. Come il Papa ha confessato, si tratta di uno dei casi più misteriosi della storia della Chiesa, di un’eccezione al principio indicato dal Vangelo secondo cui dai frutti si riconosce l’albero. I frutti dell’albero piantato da Maciel – i Legionari di Cristo e i laici di Regnum Christi - hanno certo i loro problemi, ma il loro apostolato – il Papa lo ricorda sempre quando parla del tema – ha dato risultati eccellenti e spesso esemplari. Su Maciel e la sua doppia o tripla vita Benedetto XVI – che, prima di diventare Papa, fu il primo in Vaticano a sospettare del sacerdote messicano e a sollecitare provvedimenti contro di lui – ha invece usato parole severissime.

Il portavoce vaticano padre Lombardi ha spiegato che non è previsto che il Pontefice in Messico affronti il caso Maciel o incontri le vittime del fondatore dei Legionari di Cristo. Ma penserà senz’altro la stampa laicista ad accompagnare il cammino del Papa con continui riferimenti a Maciel. Un antipasto si è già avuto prima ancora della partenza di Benedetto XVI , con la pubblicazione – vedi caso, proprio ora – di nuovi documenti sui misfatti di Maciel e sulla reticenza a prendere provvedimenti del beato Giovanni Paolo II il quale, non è un mistero, non riusciva a credere che il fondatore di opere tanto benemerite fosse colpevole.

Tuttavia, qualunque discussione sul caso Maciel dovrebbe sempre tenere conto del fatto che mentre molti – applicando il principio dell’albero e dei frutti – dubitavano della sua colpevolezza, fu il cardinale Ratzinger a intervenire nei suoi confronti con la massima severità. Invito a riflettere su questo punto con tanta maggiore convinzione in quanto io stesso all’epoca – convinto dalla tesi secondo cui un albero cattivo non avrebbe potuto dare frutti così buoni, e infastidito da un certo giornalismo statunitense che usava Maciel per attaccare la Chiesa in genere – scrissi un paio di articoli dove suggerivo che il sacerdote messicano potesse essere vittima di calunnie. Avevo torto, e aveva ragione il cardinale Ratzinger.

 La terza difficoltà attende il Papa a Cuba, uno degli ultimi Paesi comunisti del mondo ma insieme un Paese profondamente cattolico. Già il 9 gennaio scorso, parlando al Corpo Diplomatico, il Pontefice ha sottolineato con favore i cauti miglioramenti della situazione della libertà religiosa nell’isola. Stavolta incontrerà le autorità, e forse (non è certo), in forma privata, Fidel Castro. Come sempre in questi casi, tutto è circondato da ambiguità. Fidel Castro desidera incontrare il Papa per parlargli della possibile conversione di un uomo morente che pure si è macchiato di tanti crimini, e fare appello alla misericordia che la Chiesa non nega a nessuno, oppure si tratta dell’ennesima piroetta propagandistica di un abilissimo manipolatore? E la visita sarà un aiuto alla transizione «soft» al post-comunismo o sarà gestita dal regime in modo da rafforzare il potere castrista?

 I dissidenti cubani, a partire dallo scrittore esule negli Stati Uniti Armando Valladares, autore di pagine memorabili sulle atrocità di Castro, esprimono timori di per sé comprensibili, che diventano però inaccettabili quando mettono in dubbio le intenzioni di Benedetto XVI, o pretendono d’insegnare al Papa come si fa il Papa. Viaggi come quello cubano sono sempre ad alto rischio. Ma gioverà forse ricordare come analoghi timori che i viaggi rafforzassero o legittimassero un regime comunista al potere fossero espressi regolarmente in occasione delle prime visite del beato Giovanni Paolo II in Polonia. Si sa com’è andata a finire.

Né questi spunti delicati e polemici possono far trascurare il fatto che tra gli scopi del viaggio c’è la celebrazione del bicentenario dell’indipendenza latino-americana, su cui è da anni in corso un importante dibattito che non è solo storiografico ma che ha importanti conseguenze culturali e politiche, evocato da Marco Respinti su «La Bussola Quotidiana» del 22 marzo. Sarà interessante vedere se e come il Papa ne farà cenno. Non bisogna poi dimenticare che non si tratta di viaggi con due soli protagonisti, il Papa e l’establishment politico e giornalistico dei Paesi che va a visitare.

C’è un terzo protagonista, il popolo cattolico. I precedenti viaggi pontifici hanno tutti mostrato che, per rovesciare pronostici sfavorevoli, su questo terzo incomodo – incomodo soprattuto per i poteri forti, che non riescono a spegnerne l’entusiasmo né a controllarne le reazioni – si può sempre contare.


 La Bussola, 24 marzo 2012