giovedì 29 novembre 2018

Monache di clausura. Dal “quaerere Deum” all’aggiornamento. Senza rispetto per le contemplative

 




Aldo Maria Valli, 29-11-2018

Da una parte più di trecento monache di clausura, arrivate dall’Italia e dall’estero e appartenenti a diversi ordini, dall’altra il cardinale brasiliano João Braz De Aviz, prefetto della Congregazione per gli istituti di vita Consacrata e le società di vita apostolica, e il segretario della stessa Congregazione, lo spagnolo José Rodríguez Carballo.

È il 21 novembre 2018, siamo alla Pontificia Università Lateranense e l’incontro, organizzato dal Segretariato assistenza monache in occasione della Giornata Pro Orantibus, intende fare il punto sulla costituzione apostolica Vultum Dei quaerere di Francesco sulla vita contemplativa femminile (22 luglio 2016) e su Cor orans, l’istruzione applicativa della costituzione apostolica, emanata dalla Congregazione il 1° aprile 2018.

Dirò subito che gli interventi di Braz de Aviz e Carballo suscitano parecchie perplessità a causa di una serie di ambiguità e distorsioni contenutistiche, ma anche per il tono.

Partiamo dal cardinale. Il quale, occupandosi della Vultum Dei quaerere, mette in primo piano la questione della formazione: “Occorre puntare su una formazione adeguata alle esigenze del momento presente: integrale, personalizzata e ben accompagnata. Per nutrire la fedeltà creativa al carisma ricevuto”.

La formazione, dunque, come punto decisivo. Con quale obiettivo? Una “fedeltà creativa” rispetto al carisma. E qui siamo già in presenza di una prima ambiguità. Che significa “fedeltà creativa”? Si deve essere fedeli o no?

Il cardinale aggiunge: “Poi nella costituzione si parla anche di preghiera e di tante altre cose, ma prima la formazione” .

La preghiera, dunque, viene dopo, con “tante altre cose”, rispetto alla formazione. Ma stiamo parlando di monache o di manager?

Il titolo dell’intervento del cardinale è “In ascolto del Signore di Pietro nella Chiesa per aggiornare la millenaria vita consacrata contemplativa” e qui sorgono altri motivi di perplessità: se la vita contemplativa consacrata ha una tradizione millenaria, giunta fino a noi, è proprio perché l’aggiornamento, in questo caso, non è riuscito a intaccarne la sostanza e a provocare quei danni fatti in altri settori della vita della Chiesa. Difficile poi non cogliere una nota di supponenza nella pretesa di porsi come coloro in grado di “aggiornare” un patrimonio di fede e di spiritualità che, semmai, avrebbe bisogno di essere tutelato, conservato, protetto e custodito.

Un altro concetto sul quale punta il cardinale è quello di “ascolto”, oggi di gran moda e utilizzato qui per una difesa d’ufficio del papa. Dice il prefetto: “Non si tratta di ascoltare uno di noi, un cardinale, un vescovo, il papa. No. È ascolto del Signore, che parla oggi a noi. E ci parla attraverso Pietro. A noi non interessa come si chiama Pietro. Ma in questo momento Pietro è Francesco e quindi tutte le forme di nostalgia che ci mettono fuori dal tempo o ci fanno trasportare la missione di Pietro fuori dal tempo non vanno bene. Noi dobbiamo sempre stare con Pietro. La nostalgia non va. Noi dobbiamo sempre stare con il papa che Dio ci ha dato. Non interessa il nome del Papa. In questo momento Pietro è Francesco e quindi dobbiamo stare con Francesco, un papa che è un dono impensabile, perché con chiarezza, trasparenza e semplicità ci sta dando le linee da seguire in un momento difficile per la Chiesa, caratterizzato da tanti problemi”.

Ora, tenuto conto che si sta parlando a monache, a persone che vivono in modo radicale la propria scelta di vita donata a Dio, è alquanto strano questo richiamo al dovere di stare con il papa. Qui si coglie in realtà un problema: evidentemente alla Congregazione sono giunte proteste e rimostranze da parte di monache, preoccupate per il fatto che Pietro oggi per molti aspetti non è in continuità con Pietro. E, se cosi è, da parte delle monache non si tratta di nostalgia per il passato, come dice il cardinale, ma di preoccupazione, che andrebbe seriamente presa in considerazione, per il presente.

Poi, a sorpresa, il prefetto afferma: “Non c’è stato nessun litigio in conclave, eravamo tutti d’accordo su Bergoglio, tanto che l’abbiamo eletto in un giorno e mezzo, anche se avevamo da mangiare e da bere per due settimane”.

Davvero curiosa questa precisazione, apparentemente fuori tema. Vuol dire che qualche monastero ha fatto arrivare alla Santa Sede perplessità circa la legittimità dell’elezione di Bergoglio?

Andiamo avanti. Dice il cardinale: “Il Concilio ci chiede di diventare discepoli di Gesù, dei fondatori e di dialogare con la cultura del momento che non è quella del passato”, senza nascondere che “tutto questo è faticoso”, ma ben sapendo che “lo Spirito Santo oggi è più segno di instabilità che di stabilità: muove le acque e ci lascia con l’acqua alla gola perché non ci fermiamo sulle nostre sicurezze”.

Ora, premesso che il Concilio chiede ai religiosi di tornare alle radici del carisma del fondatore, sentir parlare dello Spirito Santo come di un motivo di dubbio e di instabilità, quando invece il Paraclito è lo Spirito di verità e il difensore dei credenti, non può che provocare profondo sconcerto. Lo Spirito Santo non ci lascia “con l’acqua alla gola”, non ama il dubbio e l’incertezza. È invece Spirito che conforta e consola nella Verità.

Con Vultum Dei quaerere, afferma poi il cardinale, il papa ha ritenuto necessario offrire alla Chiesa una nuova costituzione apostolica sulla vita nei monasteri “alla luce del Concilio e con attenzione alle mutate condizioni socio-culturali”, perché “non possiamo soltanto guardare al passato” e “il Concilio ci chiede di dialogare con la cultura del momento, che non è più quella del passato”.

Qui siamo di fronte ad altre espressioni sorprendenti. Fino a prova contraria le monache si dedicano alla contemplazione orante: perché dunque mettere in primo piano il dialogo con il mondo? Semmai, bisognerebbe sottolineare che tipico della vita contemplativa è entrare in rapporto con il mondo facendo a meno dei mezzi umani, propri di altre vocazioni (incontri, colloqui, riunioni, studi, eccetera), con il fine di privilegiare la relazione diretta e continua con il soprannaturale.

Prosegue il cardinale: “L’aggiornamento della vita contemplativa alla luce del Vaticano II, in questo tempo di rapido progresso della storia umana, è una necessità. Silenzio, ascolto, interiorità, stabilità sono i valori da ritrovare. La vita contemplativa è una sfida per la mentalità di oggi”.

Certo, la vita contemplativa è sempre stata una sfida, ma silenzio, ascolto, interiorità e stabilità sono valori che andranno tutti persi se si continua a inseguire l’aggiornamento e a mettere al primo posto il dialogo con il mondo. Dove sono, che fine hanno fatto, l’unione con Dio, la preghiera, l’oblazione, ossia tutte quelle espressioni che la Chiesa un tempo usava per indicare il compito assegnato alle monache? Sembra quasi che il cardinale ne abbia timore. Infatti, con espressione che sembra più New Age che cattolica, non parla di preghiera ma, genericamente, di “interiorità”.

Un’altra affermazione del cardinale che suscita perplessità è la seguente: “I contemplativi non stanno isolati, non sono una ONG, ma sono parte della Chiesa. Non sono isole, sono parte di un corpo vivo”.

Certo, i contemplativi non sono isole, infatti vivono in comunità nelle quali si conduce vita fraterna. È il monastero che è un’isola, e così dev’essere, perché è nella sua natura.

Ed eccoci a un altro punto che suscita stupore. “Il papa – dice il cardinale – parla dell’incontro di Mosè con Dio al roveto ardente e prende da lì una realtà molto importante: essere attratti dal volto di Dio e dalla terra sacra che è l’altro. Sottolineata è l’importanza della donna o dell’uomo che cammina con me nella vita contemplativa. Il rapporto con l’altro è esperienza del mistero di Dio. Dobbiamo toglierci i sandali davanti alla terra sacra dell’altro, dell’altra. Non dobbiamo lasciare i rapporti nella mediocrità. Una spiritualità troppo individuale non aiuta a entrare in questa spiritualità. In una società dominata dalla curiosità morbosa la Chiesa ha bisogno di un altro tipo di relazione: la sacralità dell’altro”.

Ora, va bene puntare sulla sacralità dell’altro e sottolineare un’espressione usata da Francesco nella Evangelii gaudium, ma mettere in primo piano il rapporto interpersonale appare come un ribaltamento di prospettiva. Nel caso della vita contemplativa tutto prende senso dal rapporto con Dio. È di fronte allo spazio e al tempo di Dio che occorre togliersi i calzari. Nella scelta di vita dei contemplativi tutto, compreso il rapporto con l’altro (minuscolo) prende senso dal rapporto con l’Altro (maiuscolo). E da qui viene un esempio che riguarda la Chiesa intera, perché tutta la Chiesa, ridotta spesso ad agenzia sociale, ha bisogno di tornare a relazionarsi con la sacralità di Dio.

Prosegue il cardinale: “Ricordiamo quanto dice Tommaso da Kempis, nel libro I dell’Imitazione di Cristo: quando andiamo in crisi nella vocazione e vogliamo uscire è meglio non andarsene, perché il Signore poi torna lì e non trova più la persona”.

Qui il riferimento, tra le righe, è alle monache che, di fronte ai soprusi vaticani, scelgono di andarsene, come nel caso clamoroso delle Piccole Suore di Maria Madre del Redentore a Laval, in Francia: trentaquattro suore su trentanove che hanno deciso di rinunciare ai voti dopo essere state commissariate perché troppo “tradizionaliste” e attaccate alla preghiera. Meglio non andarsene, implora ora il cardinale. Vuol dire che altre monache hanno manifestato lo stesso intendimento?

E ora sentite: “Dobbiamo entrare in questa costituzione apostolica senza riserve create dalle nostre tradizioni o con dubbi sulle idee del papa o sul desiderio del papa di distruggere qualcosa. Se entrasse questo modo di pensare questo farebbe male. Io mi fido di Pietro, io mi fido di questa necessità che la vita contemplativa sia attenta alla nuova mentalità che è nella nuova cultura. La cultura di oggi non vuole più persone che dominano sulle altre. Ci stanno facendo male anche nomi come superiori e inferiori. Perché superiori e inferiori? Superiori a chi e inferiori a chi? Non dobbiamo essere solo fratelli e sorelle?”.

Dunque, riassumendo: la tradizione è solo qualcosa che crea “riserve” pericolose, la vita contemplativa deve sintonizzarsi con “la nuova mentalità” e “la nuova cultura” e i superiori non devono più essere tali. Significa che nessuno ha più la potestà di insegnare? Tutti uguali? Come non avvertire qui l’eco di un’ideologia di sapore sessantottino arrivata fuori tempo massimo?

Se queste linee venissero messe in pratica avremmo uno stravolgimento non solo della vita di clausura, ma della vita religiosa in quanto tale. Senza obbedienza non esiste più vita religiosa. E, comunque, che visione bassa ha il cardinale della relazione tra chi insegna e chi riceve! Parla di persone che dominano su altre, ma le monache assicurano che nei monasteri non avviene questo. Nell’obbedienza il religioso si realizza in Cristo, perché ha la certezza che ogni azione, anche la più piccola, porta all’unione con Dio.

E ora veniamo alla relazione di monsignor José Rodriguez Carballo, dedicata all’istruzione Cor orans.

L’arcivescovo esordisce con una captatio benevolentiae che è però anche un rimprovero: “È veramente bello stare insieme! Tanto sappiamo che i muri del monastero hanno molte porte, quindi una che si apre per un incontro così è bellissima! Ditelo a chi non ha voluto venire, ditelo!”

Resta il fatto che la maggior parte delle monache (nel mondo ci sono più di 3500 monasteri) non si è presentata all’incontro di Roma. E se questa è stata la decisione un motivo ci deve essere.

Prosegue l’arcivescovo: “Cor orans è un’istruzione applicativa. Non è ripetizione di Vultum dei quaerere: lì sono i principi, qui le applicazioni. Accogliamo la voce della Chiesa con apertura e disponibilità anche se non coincide pienamente ai nostri desideri!”

Desideri? Qui non si tratta di “desideri”, ma di voti, di coscienza, di giuramenti fatti a Dio, di vita totalmente giocate nella consacrazione, di sequela dei fondatori, di tradizioni millenarie.

Prosegue Carballo: “Accompagnatele con amore fraterno trattandole sempre come donne adulte, rispettando le competenze loro proprie, senza interferenze indebite. Sono parole del papa ai delegati e vicari di vita consacrata. Donne adulte! A me piacciono tanto queste parole. Siete donne adulte! Trattate la vostra vita da adulte, non da adultere: quello che mi conviene sì, quello che non mi conviene no!”.

Ora io trovo questo tono inammissibile. Il gioco di parole tra “adulte” e “adultere” è offensivo. Il monsignore pensa di parlare a bambine inconsapevoli? Non è questione di convenienza, ma di fedeltà al carisma, di fedeltà al giuramento fatto a Dio. E poi si nota una venatura maschilista: sua eccellenza parlerebbe così se davanti a sé avesse monaci maschi?

L’uso di una parola come “adultere” è anche il segno di un tempo in cui la Chiesa non respira più nella castità. Soltanto qualche anno fa a nessun arcivescovo sarebbe venuto in mente di parlare in un modo così volgare in presenza di consacrate. Ma ora la volgarità è entrata nella Chiesa.

Prosegue Carballo: “Non fatevi manipolare! Siete voi che dovete gestire la vostra vita, da donne adulte! Non una, ma tre grate ci vogliono per dividervi da quelle persone che vi vogliono manipolare, anche se sono vescovi, cardinali, frati o altre persone. Siete voi che dovete fare discernimento, perché c’è gente che vi sta facendo molto male. Perché stanno proiettando su di voi le idee che loro hanno”.

Queste sono altre affermazioni gravi. Se il monsignore è davvero convinto che qualcuno sta manipolando le monache deve fare i nomi e precisare le circostanze. Perché inquietare così le monache che già hanno tanti problemi?

L’arcivescovo dice poi che il dicastero ha elaborato i propri documenti dopo “aver preso molto sul serio” le risposte arrivate a un questionario inviato ai monasteri: “Vi posso dire che voi siete le autrici di questi due documenti in linea di massima. Si è rispettato scrupolosamente il parere maggioritario e credo che questa è la prima volta che voi siete quelle che hanno scritto!”. In realtà, abbiamo saputo che solo una minoranza dei conventi ha risposto.

Il tono dell’arcivescovo si fa di nuovo poco rispettoso, direi canzonatorio, quando parla dell’autonomia che giustamente sta a cuore ai monasteri: “Il monastero sui iuris gode di autonomia giuridica, quindi le federazioni, dobbiamo dirlo per l’ennesima volta, non vi tolgono l’autonomia che voi tanto volete conservare. Conservatela! Se pensate che il Signore vi sta dando dei dogmi che dobbiamo difendere, va bene…”.

Sembra qui che l’autonomia sia una fissazione delle monache, invece è il cuore del problema, e l’arcivescovo non ha il diritto di burlarsi di una giusta preoccupazione.

“Nessuno ve la toglie l’autonomia, in assoluto. L’autonomia non è un diritto, non è un privilegio che si acquista una volta per tutta la vita. È qualcosa che si acquista, ma che si può perdere”.

Va bene, l’autonomia non sarà un privilegio, però è un presupposto della vita del monastero. Sembra tuttavia che alla Congregazione interessi non valorizzarla, ma penalizzarla.

Poi, criticando certe abbadesse che restano in carica anche per trent’anni, il monsignore dice: “Finiamola con tante storie, care sorelle. Sembra che qualche sorella sia nata per governare per tutta la vita e le altre per obbedire. No, il servizio dell’autorità è un servizio che accogli per servire, e poi si lascia. E non è una catastrofe. San Francesco ha rinunciato. Nei gesuiti il preposito rinuncia. E il papa anche! Teniamone conto!”

“Finiamola con tante storie”? Di nuovo il tono è inaccettabile. Inoltre l’arcivescovo sembra dimenticare che l’abbadessa o priora è eletta ed è eventualmente riconfermata con la maggioranza dei due terzi. Non è un’usurpatrice che si impossessa di una carica. Certo, nei monasteri in genere le monache riconfermano la stessa superiora, perché non amano il cambiamento e vogliono stabilità. Ma alla Congregazione, dove si ragiona in termini ideologici, tutto ciò non va bene: per loro ciò che conta è cambiare.

Dopo aver sottolineato a sua volta l’importanza della formazione, il monsignore punta sulla questione dell’isolamento e di nuovo bacchetta le monache con un tono offensivo: “Bisogna assolutamente evitare l’isolamento dagli altri monasteri dell’istituto o della diocesi. Poco tempo fa ci scriveva un monastero che chiedeva la dispensa dalla federazione perché, diceva, ‘noi siamo le più povere, noi siamo le più osservanti, noi siamo le più le più le più le più…’. Questo è orgoglio spirituale che davanti a Dio non vi dico che cosa penso che provocherà! Abbiate cura di preservarvi dalla malattia dell’autoreferenzialità. Questa è una malattia!”.

A parte che è poco credibile che delle monache abbiano scritto davvero in quel modo, resta il fatto che molti monasteri scrivono alla Congregazione chiedendo di essere dispensati dalla federazione. Questa è la realtà. Che però, ideologicamente, si vuole negare per imporre la propria visione. E così si ricorre alla parola “autoreferenzialità”, altro termine di moda nella Chiesa di oggi e utilizzato per delegittimare ogni persona o comunità scomoda.

E sentite qui: “Non separarsi totalmente dal mondo! È importante il collegamento col mondo! Lo dice il papa. Altrimenti per chi pregate? Per un mondo che non esiste?”.

Ancora una volta la prospettiva è ribaltata. Il monsignore lo sa che sta parlando a suore di clausura, a religiose che hanno consacrato la propria vita alla preghiera nella separazione dal mondo?

E poteva mancare l’invettiva contro i media? Eccola: “Attenzione a non avere la grata portatile (espressione del santo Padre). Non frequentate i media chiacchieroni. Io mi sono convinto che voi se non fate attenzione a queste due cose state mettendo a rischio la vostra vita contemplativa. Lasciate i blog, i tweet! Adesso tutto è così. Media chiacchieroni è espressione del santo padre. Quindi collegate sì, ma attenzione a non diventare preda di questi mezzi. E io sono convinto che la clausura oggi come oggi passa di più per questi mezzi che per le grate. E io credo che qui, scusatemi, si sta esagerando nei monasteri, e dovete auto-formarvi. Che non è proibire, no, siete adulte! Per questo c’è il discernimento comunitario. La clausura fisica e la clausura del cuore devono andare insieme!”.

Che cos’è tutta questa paura dei mass media? E perché il monsignore a un certo punto mette in guardia dai blog che dicono che con i nuovi documenti vaticani i monasteri vengono snaturati e messi a rischio? Ha paura che la verità venga fuori?

Il disprezzo sostanziale per le monache, ma anche per la storia stessa del monachesimo, riaffiora quando monsignor Carballo passa alla difesa d’ufficio delle federazioni tra monasteri, imposte dalla Santa Sede anche contro la volontà dei monasteri stessi, in nome di un “coordinamento” che sa tanto di normalizzazione: “Non vi rendete conto! L’isolamento vi fa diventare manipolabili! Quanto più siete isolate tanto più avrete manipolatori attorno”.

Ecco così che una tradizione millenaria, quella dell’autonomia e dell’isolamento, che ha permesso al monachesimo di giungere fino a noi tramandando un tesoro di spiritualità (bisognerebbe rileggere la lezione di Benedetto XVI al Collège des Bernardins di Parigi, del 2008), è liquidata come fonte di “manipolazione”. Davvero una bella analisi.

Poi, a proposito del gran numero di monasteri che stanno chiedendo la dispensa dal federarsi, ecco di nuovo una nota di maschilismo: “Avete chiesto voi che la presidente [della federazione] abbia più autorità, ma adesso avete paura! Perché sapete che la donna mette il dito nella piaga molto più dell’uomo!”.

Ma la verità quasi sfugge di bocca al monsignore: “La presidente deve verificare la situazione amministrativa dei monasteri”. Il vero motivo per cui si insiste tanto sulle federazioni è infatti questo: potersi occupare dei beni e delle proprietà dei monasteri.

Gli interventi sopra riportati hanno dell’incredibile. Se Pio XII parlava delle vergini cristiane come della “parte più eletta del gregge di Cristo”, di “angelica vita”, di “tesori di perfezione religiosa nascosti nei monasteri”, di “fiori e frutti di santità”, ora abbiamo ecclesiastici che si permettono di rivolgersi alle monache con sarcasmo, come ad alunne scapestrate e inconsapevoli, e perfino come ad “adultere”.

Le nostre care monache che, nonostante tutto, vivono all’insegna del quaerere Deum, davvero non meritano di essere maltrattate in questo modo.

Aldo Maria Valli










domenica 25 novembre 2018

La coop? Nella chiesa. Vescovi ormai liquidatori fallimentari






A Napoli ancora polemiche sull’uso delle chiese dismesse: spunta una foto di una donna nuda in una “performance”. E L’arcivescovo Sepe che fa? “Diamo le chiese chiuse alle cooperative di giovani”. Le ragioni di una ritirata che sembra un concordato fallimentare: un convegno in Vaticano si occuperà delle chiese chiuse al culto e illustrerà le linee guida per ospitare mostre o spettacoli. Insomma: tutto fuorché tornare a dirvi messa. I vescovi ormai si comportano da liquidatori di tribunale per i quali l’unico obiettivo è vendere e chiudere col passato.



di Andrea Zambrano (24-11-2018)

L’ultima follia di chiese chiuse al culto e riaperte per altri usi
vede una profanazione riemersa soltanto pochi giorni fa, ma risalente ad un “evento” del 2013. Ritrae uno pseudo artista al termine della sua performance in San Francesco delle Monache. Siamo a Napoli, città dove da qualche giorno è letteralmente esploso il caso degli innumerevoli affidamenti che la curia partenopea ha in essere con associazioni e fondazioni per lo sfruttamento dei luoghi di culto ormai dismessi.

Ebbene. Nel pieno delle polemiche anche il Corriere del Mezzogiorno sembra
averci trovato gusto ed è andato a ripescare una foto che allora non fece clamore, ma che invece lo fa adesso. Ritrae appunto questo artista-santone che si fa chiamare psicomago, ma che al secolo fa Alejandro Jodorowsky. Questi occupò la chiesa di San Francesco delle Monache per una performance-workshop. Ora, a parte il termine workshop, che richiama evidentemente azioni di commercio al limite della simonia. E a parte ovviamente il fatto che la chiesa all’epoca non si chiamava già più così, ma Domus Art. Quel che ha destato scandalo è stata appunto la fotografia dello psicomago. Il quale compare al termine della performance con una ragazza completamente a seno nudo al suo fianco.

La foto pubblicata ha riacceso le polemiche in una città
dove da troppo tempo, almeno 30 anni, quindi da ben prima della gestione di Crescenzio Sepe, la Chiesa affitta o concede gratuitamente i locali ad associazioni o anche a Italia Nostra per la realizzazione di eventi “culturali”, concerti e in alcuni casi anche banchetti di nozze.

La pubblicazione della foto, che si commenta da sé
ha fatto andare su tutte le furie il presidente della Fondazione Vico che si è visto ritirare la concessione della chiesa di San Gennaro all’Olmo dopo la festa di Halloween. La Fondazione che ha in uso la chiesa teatro dello streptease, la chiesa di Francesco delle monache, infatti non è mai stata sanzionata dalla curia partenopea. Come in ogni sceneggiata che si rispetti adesso si assiste anche ad una guerra tra “poveri” per ottenere dalla diocesi di Napoli il trattamento migliore. Segno che quello delle chiese dismesse è un business che deve essere conservato per il bene di tutti.

Nel frattempo, la Chiesa di Napoli come sta vivendo questi giorni
in cui le chiese vengono sbattute sui giornali in modi non proprio liturgici? Il comitato Portosalvo, nato da un gruppo di fedeli per preservare la chiesa omonima, ma che poi si è spinto a considerare e denunciare l’uso sconsiderato delle chiese chiuso al culto, chiede a gran voce che l’arcivescovo Sepe intervenga. O se non riesce a frenare la deriva, si dimetta.

E Sepe come reagisce? Ufficialmente senza alcuna reazione
, ma non è sfuggita a molti una frase pronunciata qualche giorno fa da sua eminenza, che fa pensare molto su quelle che sono le idee della curia di Napoli in quanto a conservazione del patrimonio immenso di culto di una città, quella alle pendici del Vesuvio, dalla storia cristiana importante.

Intervenendo in provincia di Benevento ad un incontro su giovani e lavoro
e sulla carenza di prospettive occupazionali di oggi, Sepe se n’è uscito così: “Abbiamo Chiese chiuse: apriamole con cooperative di giovani”.

Come se il problema fosse dove far lavorare i giovani
e non che cosa fargli fare, semmai. Ma è evidente che la frase di Sepe rivela molto di più di quella che è stata poi in realtà la boutade pronunciata ad un convegno pubblico: un’idea della chiesa come sala polivalente, completamente sganciata ormai dal sacro e dalla dimensione trascendente che vive in essa, anche se da tempo non si celebra più il culto cristiano.

In fondo, dato che il vescovo ha proseguito nella politica dell’accordo
con le tante realtà associative del territorio, alcune delle quali hanno preso in gestione le chiese per eventi culturali a fronte della corresponsione di un canone d’affitto, quella delle cooperative, non è altro che una variante di una concezione della chiesa come mero contenitore e il culto, cioè la messa, un semplice servizio. Venuto meno questo, viene meno anche la ragione stessa dell’esistenza della chiesa. Ergo: tanto vale affittarla al migliore offerente.

La posizione di Sepe non è però dissimile a quella di un certo mondo di potere ecclesiale
, che pur riconoscendo il problema delle chiese chiuse al culto, si sta interrogando non certo su come fare per riaprirle e tornare a celebrarvi messa, ma su come trovare attività alternative che coniughino le esigenze storico architettoniche con la domanda.

E qui veniamo ad un evento per certi versi rivelatore.
Si chiama Dismissione di luoghi di culto e gestione integrata dei Beni culturali ecclesiastici ed è un importante convegno che si svolgerà il 29 e 30 novembre prossimi a Roma nella cornice della Pontificia Università Gregoriana. Convegno internazionale, con tanto di comitato scientifico e nobili padrini. Tra questi il segretario generale Cei, monsignor Nunzio Galantino e il Prefetto Pontificio per la Cultura, il cardinal Gianfranco Ravasi.

La parola “integrata” già nel titolo
dovrebbe far pensare a qualche cosa di altro rispetto al semplice culto, che si dovrebbe dare ormai per scontato come cessato definitivamente. L’occasione potrebbe essere interessante per porre finalmente al centro la domanda delle domande: non tanto che fare con le chiese dismesse, ma perché così tante chiese sono dismesse e soprattutto che dosa bisognerebbe fare perché la gente torni a frequentarle per andare a messa.

Invece, almeno stando ai titoli degli interventi,
probabilmente l’approccio scelto sarà quello di teorizzare ancora di più usi profani per digerire con l’autorevolezza pontificia ciò che il popolo difficilmente riesce ad accettare e cioè che la propria chiesa un bel giorno possa diventare una sede di una mostra di Kandinskij, per dire.

Tra le conferenze in programma infatti troviamo titoli di questo tenore
: Lettura sociologica e pastorale del fenomeno della dismissione di chiese, Riduzione ad uso profano delle chiese e sfide attuali, Discussione e approvazione delle Linee guida per la dismissione e il riuso degli edifici di culto. Con premesse di questo tipo non c’è da aspettarsi dunque che le cose migliorino per il ristabilimento della dimensione cultuale.

Infatti, molto importanti in questo senso saranno le due case history
prese a modello dagli organizzatori. Si tratta – leggiamo – dell’esperienza della diocesi di Padova e di quella della diocesi di Trapani. E’ probabilmente da quanto è accaduto in queste due realtà che si comprenderanno le future linee guida che usciranno dalla due giorni.

Ebbene: a parlare della diocesi di Padova
è invitato il direttore del Museo diocesano, quindi la soluzione museale prenderà sempre più piede. Per quanto riguarda Trapani invece il relatore sarà don Liborio Palmeri Delegato Vescovile per la ricerca, le arti e il dialogo culturale.

Che esperienza porterà il sacerdote?
La Nuova BQ glielo ha chiesto e ha scoperto che quello delle chiese dismesse può essere anche un sistema, integrato appunto, in cui il culto convive con pochi spazi insieme ad una preponderante dimensione museale e spettacolare.

A Trapani infatti, negli ultimi anni, la diocesi ha recuperato
dopo averla reincamerata l’antica chiesa di San Rocco. Questo edificio era stato incamerato dallo Stato dopo l’Unità d’Italia e trasformato nel corso dei secoli prima in ufficio postale, poi in una struttura sanitaria di quartiere.

Ebbene, la diocesi, meritoriamente, l’ha ripresa a sé
, sfruttando una legge contenuta nei Patti Lateranensi.

Per farci cosa?
“L’abbiamo riportata al culto e contemporaneamente fatta diventare un luogo di cultura – spiega don Liborio alla Nuova BQ -. La forza di questa esperienza è la dialettica tra luogo di culto e di cultura, tanto che, apposta, l’abbiamo ribattezzato Oratorio di San Rocco”. Insomma, esattamente come fa un comune con un vecchio capannone industriale, la Chiesa di Trapani ha riqualificato lo stabile, ma, e qui sta l’aspetto più discutibile, la sua vocazione cultuale dovrà essere divisa con la dimensione di luogo dato agli eventi e agli spettacoli.

Il luogo di culto, infatti, è collegato ad una mostra di arte contemporanea.
Cosicché la messa, che si svolge però solo il giovedì deve convivere con gli altri usi che se ne fanno durante la settimana. “Chi viene a messa e viene a pregare può pregare e partecipare all’esperienza della mostra perché è tutto in un unico spazio. In questo modo dialoghiamo con le arti e con la contemporaneità”.

Chiediamo per quale motivo la chiesa non sia stata restituita esclusivamente al culto
. La risposta non si è fatta attendere: “Perché questo è un luogo che si presta a diverse soluzioni. All’interno facciamo anche percorsi di formazione cristiana attraverso l’arte, conferenze e anche spettacoli e ogni piano dell’edificio ha una sua identità per un’attività complessiva che è educativa e culturale”.
Dalle foto che si vedono sulla pagina Facebook dell’oratorio, si può vedere
una ballerina appoggiata ad una finestra proprio a fianco dell’altare. La chiamano arte. E guai a parlare di profanazione o addirittura a avanzare il sospetto che la ballerina sia troppo svestita per un luogo come una chiesa perché ci si potrebbe prendere anche dei trogloditi. Quindi è proibito scandalizzarsi perché la danza all’interno dello spazio sacro è invece espressione moderna di fede.“L’obiettivo è fare incontrare la gente”. E la fede? Don Liborio garantisce che in questi anni è cresciuta.
 
Sarà, ma al di là dei dubbi su un’operazione che mostra
, oltre che tanto profano anche una buona dose di ambiguità, dove il sacro si mescola inestricabilmente al profano fino a perdere la sua specificità, da questi episodi è chiaro un fatto: vescovi e delegati vescovili sembrano comportarsi ormai come dei liquidatori fallimentari di un tribunale giudiziario. C’è da piazzare un “cespite” che per varie ragioni non si usa più? Nessun problema, ci organizziamo un percorso culturale e lo offriamo al miglior offerente. Oppure possiamo darlo ad una cooperativa di giovani per una start up aziendale. O addirittura, come dimostra il caso di Napoli, lo affittiamo per banchetti e pranzi di nozze. Insomma, tutto fuorché una destinazione classica e tradizionale come provare, magari con un po’ di sforzo, a rimetterci dentro una messa.

E’ un’operazione di liquidazione non solo culturale, ma anche ecclesiale
di chi ha confuso il proprio ruolo con quello dei commissari concordatari di un’azienda: vendere, incassare se possibile, riqualificare e lasciarsi alle spalle il passato. Un passato che nella Messa, però, si fa presente. Dove stia in tutto questo la proposta cristiana, non si sa.





fonte: lanuovabq.it


venerdì 23 novembre 2018

Card. Müller: “ecco un chiaro esempio della presenza dell’ateismo nel cristianesimo”





Una grande intervista del card. Muller sulla crisi della Chiesa a partire dalla drammatica questione degli abusi sessuali. Le risposte sono a largo raggio e coprono un ampio ventaglio delle questioni che stanno generando un grande travaglio che attraversa il cattolicesimo ai nostri giorni.


di Maike Hickson, 22-11-2018

I vescovi statunitensi hanno appena concluso la loro assemblea autunnale a Baltimora, dove non è stato loro permesso di votare sulle linee guida nazionali riguardanti il coinvolgimento episcopale in casi di abusi sessuali (né per commissione, né per omissione o occultamento), perché il Vaticano ha detto loro di non farlo. Le nuove linee guida avrebbero contenuto un codice di condotta e un organo di supervisione laico per indagare sui vescovi accusati di cattiva condotta. Molti cattolici negli Stati Uniti stavano aspettando alcuni passi concreti, e ora sono indignati. Pensa che questa decisione sia saggia, o pensa che i vescovi statunitensi avrebbero dovuto essere in grado di stabilire le proprie linee guida e commissioni nazionali, proprio come i vescovi francesi stessi hanno fatto questo mese?
«Bisogna fare una rigida distinzione tra i crimini sessuali e le loro indagini da parte della giustizia laica – agli occhi dei quali tutti i cittadini sono uguali (quindi una lex separata per la Chiesa cattolica costituirebbe una contraddizione con il moderno e democratico stato di diritto) – e quelle procedure canoniche per i sacerdoti in cui l’autorità ecclesiale determina le sanzioni per qualsiasi condotta che contraddice diametralmente l’ethos sacerdotale. Il vescovo ha la giurisdizione canonica su ogni ecclesiastico della sua diocesi, che è collegata, in casi particolari, con la Congregazione della Fede di Roma, che agisce nell’autorità del Papa. Se un vescovo non rispetta la sua responsabilità, può essere ritenuto responsabile nei confronti del Papa. Le Conferenze episcopali possono stabilire linee guida per la prevenzione e per le azioni penali canoniche, che danno al vescovo della propria diocesi uno strumento prezioso. Dobbiamo avere una mente lucida in mezzo alla situazione di crisi negli Stati Uniti. Non ci riusciremo con l’aiuto di una legge del linciaggio e del sospetto generale contro l’intero episcopato o nei confronti di “Roma”. Non vedo come una soluzione il fatto che i laici ora prendano il controllo, solo perché i vescovi (come alcuni credono) non sono in grado di farlo con le proprie forze. Non possiamo superare le carenze capovolgendo la costituzione gerarchico-sacramentale della Chiesa. Caterina da Siena si appellò candidamente e senza sosta alle coscienze di papi e vescovi, ma non li sostituì nelle loro posizioni. Questa è la differenza con Lutero, a causa del quale soffriamo ancora della divisione del cristianesimo. Sarebbe importante che la Conferenza episcopale americana si assuma le proprie responsabilità con indipendenza e autonomia. I vescovi non sono impiegati del Papa che sono soggetti a direttive né, come nei militari, generali che devono obbedienza assoluta al comando superiore. Piuttosto, essi portano con il successore di Pietro, come pastori nominati da Cristo stesso, la responsabilità per la Chiesa universale. Ma da Roma, possiamo aspettarci che essa serva l’unità nella Fede e nella comunione dei Sacramenti. Questa è l’ora di una buona collaborazione per superare la crisi, e non della polarizzazione e del compromesso, così che a Roma si è arrabbiati con i Vescovi degli Stati Uniti, e negli Stati Uniti si è arrabbiati con Roma».


Una parte essenziale delle discussioni durante la riunione dell’USCCB (Conferenza episcopale USA, ndr) è stata ancora lo scandalo McCarrick e come sia stato possibile che qualcuno come McCarrick sia potuto salire ai più alti livelli della Chiesa cattolica negli Stati Uniti, con molta influenza conseguente a Roma. Quali sono le sue riflessioni sul caso McCarrick e cosa dovrebbe imparare la Chiesa dal fatto che c’è stata una rete di silenzio che ha circondato un uomo che nella sua vita ha costantemente sfidato le leggi della Chiesa praticando l’omosessualità, seducendo i seminaristi che dipendevano da lui e conducendoli così nel peccato, e, peggio ancora, abusando dei minori?
«Non lo conosco e desidero astenermi da ogni giudizio. Spero che presto ci sia un processo canonico presso la Congregazione per la fede, anche per portare la luce sui crimini sessuali commessi con i giovani seminaristi. Nel mio periodo di prefetto della Congregazione per la fede (2012-2017), nessuno mi ha parlato di questo problema, molto probabilmente perché si sarebbe temuta da me una reazione troppo “rigida”. Il fatto che McCarrick, insieme al suo clan e a una rete omosessuale, sia riuscito a fare devastazioni in modo mafioso nella Chiesa è legato alla sottovalutazione della depravazione morale degli atti omosessuali tra gli adulti. Anche se a Roma per ipotesi si fossero sentite solo alcune voci, si sarebbe dovuto indagare sulla questione e verificare la veridicità delle accuse e anche astenersi da qualsiasi promozione episcopale (di McCarrick) all’importantissima diocesi della capitale (Washington D.C.) e allo stesso modo astenersi dal nominarlo cardinale della Santa Chiesa romana. E quando persino è stato già pagato qualche risarcimento – e con esso, l’ammissione dei suoi crimini sessuali con i giovani – allora ogni persona ragionevole si chiede come una tale persona possa essere un consigliere del Papa per quanto riguarda le nomine episcopali. Non so se questo sia vero, ma dovrebbe essere chiarito. Gli aiuti prezzolati nella ricerca di buoni pastori per l’ovile di Dio – nessuno può capire una tale cosa. In tal caso, dovrebbe emergere con molta chiarezza una spiegazione pubblica di questi eventi e dei legami personali, così come la domanda su quanto le autorità ecclesiastiche coinvolte sapessero ad ogni passo; una tale spiegazione potrebbe benissimo includere l’ammissione di una valutazione errata delle persone e delle situazioni».


Negli ultimi cinque anni ha assistito a casi in cui l’allora cardinale McCarrick ha avuto una notevole influenza o missioni specifiche da parte del Papa o del Vaticano?
«Come ho detto, non sono stato informato di nulla. Si è detto che la Congregazione della Fede era responsabile solo degli abusi sessuali sui minori, ma non sugli adulti – come se anche i reati sessuali commessi da un ecclesiastico con un altro sacerdote o con un laico non fossero una grave violazione della Fede e della santità dei Sacramenti. Ho sottolineato più volte che anche la condotta omosessuale del clero non può in nessun caso essere tollerata; e che la morale sessuale della Chiesa non può essere relativizzata dall’accettazione mondana dell’omosessualità. Bisogna anche distinguere tra la condotta peccaminosa in un singolo caso, un crimine, e una vita condotta in uno stato di continuo peccato».


Uno dei problemi del caso McCarrick è che, già nel 2005 e nel 2007, ci sono stati accordi legali (con risarcimenti, ndr) con alcune delle sue vittime, ma l’arcidiocesi di Newark – all’epoca sotto l’arcivescovo John J. Myers – non ne ha informato l’opinione pubblica, né i propri sacerdoti. In questo modo ha nascosto informazioni vitali per coloro che ancora lavoravano con McCarrick o si fidavano di lui. Come il cardinale Joseph Tobin, quando divenne, nel gennaio 2017, arcivescovo a Newark. Per quanto io ne sappia, né Myers né Tobin ha presentato le scuse per questa omissione e per aver rotto la fiducia dei loro sacerdoti. Ritiene che l’Arcidiocesi avrebbe dovuto far conoscere i fatti di questi accordi legali, soprattutto perché dal 2002 (la data dello scoppio della prima crisi degli abusi sessuali negli USA, ndr) la Carta di Dallas degli Stati Uniti aveva imposto maggiore trasparenza?
«In tempi passati si presumeva che si potessero risolvere questi casi difficili in modo silenzioso e discreto. Poi, però, l’autore del reato ha potuto continuare ad abusare della fiducia del suo vescovo. Nella situazione odierna, i cattolici e il pubblico hanno diritto morale alla pubblicazione di questi eventi. Non si tratta di accusare qualcuno, ma di imparare dagli errori».


Un tale problema morale può mai essere risolto stabilendo nuove linee guida, o abbiamo bisogno qui nella Chiesa di una più profonda conversione dei cuori?
«L’origine di tutta questa crisi sta nella secolarizzazione della Chiesa e nella riduzione del sacerdote al ruolo di funzionario. È finalmente l’ateismo che si è diffuso nella Chiesa. Secondo questo spirito malvagio, la Rivelazione sulla Fede e la morale viene adattata al mondo senza Dio, in modo che non interferisca più con una vita secondo le proprie concupiscenze e necessità. Solo il 5% circa degli abusatori viene valutato come pateticamente pedofilo, mentre la grande massa dei colpevoli ha liberamente calpestato il Sesto Comandamento a causa della propria immoralità e ha così sfidato, in modo blasfemo, la Santa Volontà di Dio».


Cosa ne pensa dell’idea di stabilire una nuova legge della Chiesa che proponga la scomunica per i sacerdoti che hanno abusato?
«La scomunica è una pena coercitiva e deve essere rimossa immediatamente in caso di pentimento da parte dell’autore del reato. Ma nel caso di gravi abusi e altre offese contro la Fede e l’unità della Chiesa, si può imporre il licenziamento permanente dallo stato clericale, cioè l’interdizione permanente ad agire come sacerdote».


Il vecchio Codice di Diritto Canonico del 1917 prevedeva una serie di sanzioni chiare nei confronti di un sacerdote abusatore e di un sacerdote omosessualmente attivo. Queste sanzioni concrete sono state in gran parte eliminate nel Codice del 1983, che è più vago e che ora non menziona nemmeno esplicitamente gli atti omosessuali. Ritiene che, alla luce della grave crisi degli abusi, la Chiesa dovrebbe tornare a una serie più rigorosa di sanzioni automatiche in questi casi?
«È stato un errore disastroso. I contatti sessuali tra persone dello stesso sesso contraddicono completamente e direttamente il senso e lo scopo della sessualità fondata sulla creazione. Sono l’espressione di un desiderio e di un istinto disordinato, così come è segno della rottura del rapporto tra l’uomo e il suo Creatore dalla caduta dell’uomo. Il sacerdote celibe e il sacerdote sposato di rito orientale devono essere modelli per il gregge e devono anche dare l’esempio che la redenzione comprende anche il corpo e le passioni corporee. Non la brama selvaggia per la realizzazione, ma la donazione corporea e spirituale, nell’agape, ad una persona dell’altro sesso, è il senso e lo scopo della sessualità. Questo porta alla responsabilità per la famiglia e per i figli che Dio ha dato».


Durante il recente incontro di Baltimora (quello della Conferenza Episcopale USA, del 12-14 novembre, ndr), il cardinale Blase Cupich ha affermato che si dovrebbe “differenziare” tra atti sessuali consensuali tra adulti e abusi su minori, il che implica che i rapporti omosessuali di un sacerdote con un altro adulto non sia un problema grave. Qual è la sua risposta a questo tipo di approccio?
«Si può differenziare tutto – e poi anche considerarsi un grande intellettuale – ma non un peccato grave che esclude una persona dal Regno di Dio, almeno non come il vescovo che ha il dovere di non mostrare il gusto del tempo (Zeitgeschmack), ma piuttosto di difendere la verità dei Vangeli. Sembra che sia giunto il momento “in cui non si sopporterà più la sana dottrina, ma, per il prurito di udire qualcosa, gli uomini si circonderanno di maestri secondo le proprie voglie, rifiutando di dare ascolto alla verità per volgersi alle favole” (2Tm 4, 3s)».

Nel suo lavoro di prefetto della CDF, lei ha avuto la supervisione su molti casi di abusi sessuali clericali che la CDF ha indagato. È vero che la maggior parte delle vittime in questi casi erano adolescenti maschi?
«Più dell’80% delle vittime di questi autori di reati sessuali sono adolescenti di sesso maschile. Non si può concludere da questo, però, che la maggior parte dei sacerdoti sono inclini alla fornicazione omosessuale, ma, piuttosto, solo che la maggior parte degli autori del reato ha cercato, nel loro profondo disordine delle passioni, vittime maschili. Dalle statistiche di tutto il crimine, sappiamo che la maggior parte degli autori di abusi sessuali sono i propri parenti, persino i padri dei propri figli. Ma da ciò non possiamo concludere che la maggior parte dei padri è incline a tali crimini. Bisogna sempre stare molto attenti a non generalizzare i casi concreti, in modo da non cadere in slogan e pregiudizi anticlericali».

Se questo è il caso – e lo studio sugli abusi sessuali dei vescovi tedeschi, così come il “Rapporto John Jay”, ha mostrato numeri simili – allora la Chiesa non dovrebbe affrontare più direttamente il problema della presenza di sacerdoti omosessuali?
«A mio avviso, non esistono uomini omosessuali e nemmeno sacerdoti. Dio ha creato l’essere umano come uomo e come donna. Ma possono esserci uomini e donne con passioni disordinate. La comunione sessuale ha il suo posto esclusivamente nel matrimonio tra un uomo e una donna. Fuori, c’è solo fornicazione e abuso della sessualità, sia con persone dell’altro sesso, sia nell’innaturale intensificazione del peccato con persone dello stesso sesso. Solo colui che ha imparato a controllare se stesso soddisfa anche la condizione morale per la ricezione dell’ordinazione sacerdotale (vedere 1 Tm 3,1-7)».


Sembra che in questo momento ci troviamo in una situazione nella Chiesa, dove non c’è ancora nemmeno un consenso presente che riconosce che i sacerdoti omosessualmente attivi hanno un ruolo importante nella crisi degli abusi. Anche alcuni documenti vaticani parlano ancora di “pedofilia”, o di “clericalismo” come il problema principale. Il giornalista italiano Andrea Tornielli arriva addirittura a sostenere che McCarrick non avesse rapporti omosessuali, ma che si trattasse piuttosto di esercitare il suo potere sugli altri. Allo stesso tempo, abbiamo altri, come padre James Martin, S.J., che viaggia per il mondo (ed è stato anche invitato al World Family Meeting in Irlanda) e promuove l’idea di “Cattolici LGBT” e sostiene anche che alcuni santi sono stati probabilmente omosessuali. Vale a dire, c’è ora una forte tendenza nella Chiesa a minimizzare il carattere peccaminoso delle relazioni omosessuali. Lei sarebbe d’accordo, e se sì, come si potrebbe – e dovrebbe – porre rimedio a questa situazione?
«È parte della crisi che non si vogliono vedere le vere cause e che le si coprono con l’aiuto delle frasi propagandistiche della lobby omosessuale.
La fornicazione con adolescenti e adulti è un peccato mortale che nessun potere sulla terra può dichiarare di essere moralmente neutrale. Questa è l’opera del diavolo – contro il quale papa Francesco avverte spesso – che dichiara il peccato essere una cosa buona. “Lo Spirito dice apertamente che negli ultimi tempi alcuni si allontaneranno dalla fede, dando retta a spiriti ingannatori e a dottrine diaboliche, a causa dell’ipocrisia di impostori, già bollati a fuoco nella loro coscienza” (1Tm 4, 1f) È davvero assurdo che, improvvisamente, le autorità ecclesiali utilizzino slogan di lotta giacobina, nazista e comunista contro i sacerdoti ordinati sacramentalmente. I sacerdoti hanno l’autorità di proclamare i Vangeli e di amministrare i Sacramenti di Grazia. Se qualcuno abusa della sua giurisdizione per raggiungere scopi egoistici, egli stesso non è clericale in forma spropositata, ma, piuttosto, è anticlericale, perché nega Cristo che vuole operare attraverso di lui. L’abuso sessuale da parte degli ecclesiastici deve quindi, al massimo, essere chiamato anti-clericale. Ma è ovvio – e può essere negato solo da chi vuole essere cieco – che i peccati contro il Sesto Comandamento del Decalogo derivano da inclinazioni disordinate e quindi sono peccati di fornicazione che escludono dal Regno di Dio, almeno finché non ci si è pentito e non ha fatto espiazione, e finché non esiste la ferma volontà di evitare tale peccato in futuro. Tutto questo tentativo di offuscare le cose è un cattivo segno della secolarizzazione della Chiesa. Si pensa come il mondo, ma non come Dio vuole».


Al recente Sinodo dei giovani a Roma, si è potuto sentire un tono simile. Il documento di lavoro usa per la prima volta il termine “LGBT”, e il documento finale ha sottolineato la necessità di accogliere gli omosessuali nella Chiesa, e ha persino respinto “ogni forma di discriminazione” nei loro confronti. Tuttavia, tali affermazioni non minano effettivamente la prassi della Chiesa di non assumere omosessuali praticanti, ad esempio come insegnanti nelle scuole cattoliche?
«L’ideologia LGBT si basa su una falsa antropologia che nega Dio come Creatore. Poiché è in linea di principio atea o forse ha a che fare solo con una concezione cristiana di Dio ai margini, non ha posto nei documenti della Chiesa. Questo è un esempio dell’influenza strisciante dell’ateismo nella Chiesa, che è stata responsabile della crisi della Chiesa per mezzo secolo. Purtroppo non smette di lavorare nella mente di alcuni pastori che, credendo ingenuamente di essere moderni, non si rendono conto del veleno che ogni giorno bevono e che poi offrono ad altri di bere».


Possiamo ora noi dire che abbiamo una forte “lobby gay” all’interno delle fila della Chiesa cattolica?
«Non lo so perché queste persone non si mostrano a me. Ma potrebbe essere perché ha fatto piacere loro che io non abbia più il compito (di prefetto) della Congregazione per la Dottrina (della Fede) di occuparmi dei crimini sessuali soprattutto contro gli adolescenti maschi».


Lei ha recentemente rivelato che, mentre lavorava alla Congregazione per la Dottrina della fede (CDF), il Papa ha istituito una commissione che avrebbe dovuto consigliare la CDF sulle possibili sanzioni per i sacerdoti che abusano. Questa commissione, tuttavia, tendeva ad avere un atteggiamento più indulgente nei confronti dei sacerdoti che avevano abusato, a differenza sua che volevate una laicizzazione in casi gravi (come il caso di don Mauro Inzoli). Ora, la rivista gesuita “America” ha rivelato l’anno scorso – al momento del suo licenziamento dalla carica di prefetto della CDF – “che alcuni cardinali avevano chiesto a Francesco di allontanare il cardinale Müller da quell’incarico perché in diverse occasioni aveva pubblicamente dissentito o preso le distanze dalle posizioni del papa, e hanno sentito che ciò stava minando l’ufficio e il magistero pontificio”. Lei stesso vede una possibile connessione tra i suoi stessi standard più severi e l’atteggiamento verso i sacerdoti abusatori e un gruppo di cardinali vicini al Papa che desiderano un approccio più indulgente? Se così non fosse, direbbe ancora di essere stato rimosso per la sua più ferma difesa dell’ortodossia?
«Il primato del Papa viene minato dai sicofanti e dai carrieristi della corte papale – come ha già detto il famoso teologo Melchior Cano nel XVI secolo – e non da coloro che consigliano il Papa in modo competente e responsabile. Se è vero che c’è un gruppo di cardinali che mi ha accusato davanti al Papa della deviazione delle mie idee, allora la Chiesa è in cattive condizioni. Se questi fossero stati uomini coraggiosi e retti, avrebbero parlato direttamente con me, e avrebbero dovuto sapere che io come vescovo e cardinale sono per rappresentare l’insegnamento della Fede cattolica, e non per giustificare le diverse opinioni private di un Papa. La sua autorità si estende sulla Fede rivelata della Chiesa cattolica e non sulle opinioni teologiche individuali di se stesso o dei suoi consiglieri. Possono forse accusarmi di interpretare Amoris Laetitia in modo ortodosso, ma non possono dimostrare che mi discosto dalla dottrina cattolica. Inoltre, è irritante che persone teologicamente non istruite vengano promosse al rango di vescovi che, a loro volta, pensano di dover ringraziare il Papa per questo attraverso una sottomissione infantile. Forse avrebbero potuto leggere il mio libro Il Papa. Missione e mandato (Herder Verlag; è disponibile in tedesco e spagnolo; sono in corso le traduzioni in italiano e inglese). Poi potremmo continuare a discutere le cose a quel livello. Il Magistero dei vescovi e del Papa si trova sotto la Parola di Dio nella Sacra Scrittura e nella Tradizione e la serve. Non è affatto cattolico dire che il Papa come persona individuale riceva direttamente dallo Spirito Santo la Rivelazione e che ora può interpretarla secondo i suoi capricci mentre tutti gli altri devono seguirlo ciecamente e rimanere muti. Amoris Laetitia deve essere assolutamente conforme alla Rivelazione, e non siamo noi che dobbiamo essere in accordo con Amoris Laetitia, almeno non nell’interpretazione che contraddice, in modo eretico, la Parola di Dio. E sarebbe un abuso di potere sottoporre ad azioni disciplinari coloro che insistono su un’interpretazione ortodossa di questa enciclica e di tutti i documenti magisteriali papali. Solo colui che è in stato di grazia può anche ricevere fruttuosamente la Santa Comunione. Questa verità rivelata non può essere rovesciata da alcun potere nel mondo, e nessun cattolico può mai credere il contrario o essere costretto ad accettare il contrario».


In quali campi lei stesso, in qualità di prefetto della CDF, era il più contrario alle innovazioni proposte per la Chiesa? Quali parti del suo operato, guardando indietro, ritiene che abbiano contribuito maggiormente al suo licenziamento e al suo trattamento in modo tale che non le è stata nemmeno data alcuna posizione alternativa in Vaticano?
«Non mi sono opposto a nessuna innovazione o riforma. Perché riforma significa rinnovamento in Cristo, non adattamento al mondo. Non mi è stato detto quale fosse il motivo del mancato rinnovo del mio mandato. Questo è insolito perché il Papa lascia diversamente che tutti i prefetti continuino il loro lavoro. Non c’è ragione di osare di parlare senza rendersi ridicolo. Non si può, dopo tutto, affermare in netta contraddizione con papa Benedetto, che Müller manchi delle qualifiche teologiche sufficienti, che non sia ortodosso, o che sia stato negligente nel perseguire i crimini contro la fede e nei casi di crimini sessuali. Per questo motivo si preferisce tacere e si lascia ai media di sinistra-liberali il compito di fare commenti dispettosi e lusinghieri».


Alcuni osservatori stanno attualmente confrontando la sua rimozione dalla sua importante posizione in Vaticano – che certamente è dovuta anche alla sua cortese resistenza nei confronti di Amoris Laetitia – con il trattamento indulgente che qualcuno come l’ex cardinale McCarrick ha ricevuto. Anche ora, nonostante la sua condotta criminale, non è stato ancora nemmeno laicizzato. Così, ad alcuni sembra che coloro che cercano di preservare l’insegnamento cattolico sul matrimonio e sulla famiglia come è sempre stato insegnato siano stati messi da parte, mentre coloro che sono a favore di innovazioni in questo campo morale sono stati trattati con clemenza o addirittura promossi – come, per esempio, il cardinale Cupich e padre James Martin. Vorrebbe commentare questo punto?
«Tutti possono riflettere sui criteri secondo i quali alcuni vengono promossi e protetti, altri vengono combattuti ed eliminati».


Nel contesto dell’apparente soppressione degli ecclesiastici ortodossi e della promozione di rappresentanti progressisti, padre Ansgar Wucherpfennig, S.J., ha appena ricevuto dal Vaticano il permesso di tornare al suo posto di rettore dell’università gesuita di Francoforte, nonostante sostenga l’ordinazione femminile e la benedizione delle coppie omosessuali. Ora gli viene persino chiesto di pubblicare articoli su questi temi. Come commenterebbe questo sviluppo?
«Questo è un esempio di come l’autorità della Chiesa romana si indebolisce e di come le chiare conoscenze specialistiche della Congregazione per la fede vengono messe da parte. Se questo sacerdote chiama la benedizione delle relazioni omosessuali frutto di un ulteriore sviluppo della dottrina, per la quale continua a lavorare, non è altro che la presenza dell’ateismo nel cristianesimo. Non nega teoricamente l’esistenza di Dio, ma, piuttosto, lo nega come fonte della morale, presentando ciò che è davanti a Dio un peccato come una benedizione. Il fatto che il destinatario del sacramento dell’ordine sacro debba essere di sesso maschile non è il risultato di circostanze culturali o di una legislazione ecclesiale positiva, ma mutevole, ma, piuttosto, (di una ragione) fondata sulla natura di questo sacramento e sulla sua istituzione divina, così come la natura del sacramento del matrimonio richiede la differenza tra i due sessi».


Dal suo osservatorio, pensa che la Chiesa si stia avvicinando ad avere un controllo sufficiente e coerente sulla crisi degli abusi e ha trovato i rimedi giusti; o quale ritiene che sia ancora oggi l’ostacolo maggiore per un miglioramento sostanziale? Come può la Chiesa riconquistare la sua fiducia agli occhi delle famiglie cattoliche?
«Tutta la Chiesa, con i suoi sacerdoti e vescovi, deve piacere a Dio più che all’uomo. L’obbedienza nella fede è la nostra salvezza».















martedì 20 novembre 2018

Quando Chenu chiedeva una “Chiesa in uscita”


L’ultimo numero della rivista francese Catholica parla dell’origine dell’idea di “Chiesa in uscita” la fa risalire al domenicano Dominique Chenu. C’è nel pensiero di Chenu, la “svolta antropologica” del gesuita Karl Rahner.




di Stefano Fontana (19-11-2018)

L’ultimo numero della rivista francese Catholica diretta da Bernard Dumont parla dell’origine dell’idea di “Chiesa in uscita”, espressione oggi molto adoperata sulla scia di papa Francesco, e la fa risalire al padre domenicano Marie-Dominique Chenu.

La cosa interessa anche la Dottrina sociale della Chiesa, dato che padre Chenu, com’è noto, nei primissimi anni Settanta del secolo scorso aveva lanciato la più radicale negazione della possibilità stessa della Dottrina sociale della Chiesa, considerandola un’ideologia. Giudizio pesante e tagliente, come se la Chiesa con la sua Dottrina sociale non liberasse il mondo ma lo coartasse nell’intento di dominarlo con le sue invenzioni teoriche astratte e strumentali.

Orbene, la suddetta rivista ricorda che il 4 febbraio 1942 un’opera del padre Chenu fu messa all’indice dal Sant’Uffizio. Si trattava de Une école de théologie, le Saulchoir, pubblicata nel 1937. Il Centro di Saulchoir, allora diretto da padre Chenu, era lo studio della provincia domenicana di Francia e luogo eminente della teologia che avrebbe influenzato il Concilio Vaticano II. In quest’opera il padre domenicano sosteneva la necessità di superare l’epoca della “cristianità” anche nella forma proposta da Maritain e considerava la religione “una ermeneutica dei tempi presenti”. Nell’opera censurata egli introduceva il concetto di “luogo teologico in atto”inteso come la vita presente della Chiesa per cui la teologia deve essere presente al proprio tempo. Nel 1967 questa concezione si evolverà in quella di “segni dei tempi”: i fatti e il divenire umano costituiscono, a loro modo, “un luogo teologico in cui il credente deve cercare, in positivo e in negativo, gli appelli e le sollecitazioni dello Spirito”.

C’è già, quindi, nel pensiero di Chenu, la “svolta antropologica” di Rahner, ossia l’idea che il luogo teologico ora è il mondo e la rivelazione avviene nel mondo nella forma dell’interpretazione ermeneutica delle situazioni esistenziali. Dio si rivela dentro l’esistenza storica tramite eventi storici e tramite la loro interpretazione credente. Il mondo è sacramento, presenza di Dio creatore e salvatore, e non si dà principio o valore cristiano che non sia anche mondano. La Chiesa non possiede verità da comunicare al mondo, ma si pone in ascolto del mondo, fa esperienza del mondo col mondo e interpreta i segni dei tempi, ossia gli eventi in cui Dio si rivela nell’umanità.

È curioso tornare a notare la data di composizione del libro censurato dal Sant’Uffizio nel quale si trovano già queste idee in germe: il 1937. Solo un anno primo Jacques Maritain aveva fatto un’altra proposta, quella dell’uomo, e non del mondo, come luogo teologico. Ma evidentemente Umanesimo integrale nasceva già vecchio se, solo un anno dopo, padre Chenu silurava la proposta personalista di Maritain sostenendo che anche l’uomo era, in fondo, nel mondo, dentro situazioni storiche ed esistenziali e che erano esse, e non l’uomo, il vero luogo teologico.

Il nuovo precetto della “Chiesa in uscita”, ora fatto proprio da papa Francesco e ripetuto come slogan ormai da molti, è espressione di questa visione del mondo, e non della Chiesa, come luogo teologico. È proprio padre Chenu a dirlo in un’opera successiva: “per essere nel mondo come nel suo proprio luogo, costitutivamente e non per solo proselitismo, la Chiesa deve uscire da se stessa, dai propri apparati: ella è missionaria”. In cosa consiste questa missione per la quale la Chiesa deve uscire da se stessa? Significa partecipare ad una azione che lo Spirito suscita fuori da ella stessa, nel mondo.

Molti usano oggi l’espressione “Chiesa in uscita”. Non so se sappiano veramente cosa dicono. Se intendono quello che intendeva Chenu (e Rahner) la Chiesa in uscita è incompatibile con l’esistenza della Dottrina sociale della Chiesa e Chenu, nel condannarla come ideologia, è stato almeno coerente.



(fonte: lanuovabq.it)










domenica 18 novembre 2018

ESPERIMENTI IN DIOCESI. A "messa" senza il prete: Ferrara, provincia d'Amazzonia




La diocesi di Ferrara annuncia che, visto il numero decrescente dei sacerdoti, alla Messa domenicale si potranno sostituire altri tipi di celebrazioni. Così, al criterio, da sempre usato dalla Chiesa, dell'impossibilità di partecipare alla Messa, si sta sotituendo quello della comodità, comunicando ai fedeli che la celebrazione dell’Eucaristia è fondamentale ma non tanto da richiedere un viaggio di una decina di minuti. Una mossa che anticipa l'esito del prossimo sinodo sull'Amazzonia?




Luisella Scrosati, 18-11-2018

«Da anni stiamo assistendo alla continua diminuzione di vocazioni e, conseguentemente, di presbiteri che possano presiedere l’Eucaristia. Si è cercato di fare fronte a questa oggettiva difficoltà cercando di rivedere il numero di Messe celebrate in ogni chiesa per assicurare a tutte le comunità almeno una Messa festiva. Vediamo che, purtroppo, questa strada non è più sufficiente. Siamo chiamati, quindi, ad operare nuove scelte che permettano ai fedeli di radunarsi alla domenica per lodare il Signore, ascoltare la sua Parola di salvezza e dare la possibilità di accostarsi alla Comunione». Visto l’approssimarsi del Sinodo sull’Amazzonia, pensavamo si trattasse di una presa di posizione del vescovo della diocesi brasiliana di Manaus. Poveracci: una media di più di 500 km quadrati e quasi diecimila battezzati per sacerdote. O magari della diocesi della Trasfigurazione a Novosibirsk, zona Siberia: oltre 52.000 km quadrati e 13.000 anime per sacerdote!


E invece no. Stiamo parlando dell’ “esotica” diocesi di Ferrara e della decisione del suo Vescovo. Precisiamo subito che – pare – la decisione di mons. Perego sia stata presa in concerto con gli altri confratelli vescovi della Conferenza Episcopale dell’Emilia Romagna. Attenuante o aggravante? Decidete voi. Fatto sta che la lettera dello scorso 28 giugno, firmata dal direttore dell’Ufficio liturgico diocesano di Ferrara, nonché segretario personale del Vescovo, don Giacomo Granzotto, inviata ai sacerdoti della diocesi e accompagnata da due schemi celebrativi della Parola di Dio, lancia l’allarme di una inarrestabile moria di preti, che costringerebbe a strategie liturgiche alternative, celebrazioni previste dal can. 1248 § 2 e che, si precisa, «non intendono sostituire o intaccare la centralità dell’Eucaristia, il primo giorno in cui Cristo Signore è risorto».


Ma la realtà è davvero questa? Non basta non voler intaccare la centralità dell’Eucaristia a parole; bisogna anche capire se le scelte che si fanno traducono effettivamente questo principio. Torniamo in Siberia: se la celebrazione eucaristica a me più vicina fosse a 200 km di distanza, o magari il sacerdote fosse in grado di raggiungere un luogo più vicino una volta ogni morte di Papa, in effetti, procurare che ci siano celebrazioni della Parola in un raggio più abbordabile, è certamente comprensibile; ci troviamo di fronte ad una impossibilità pratica e non vi è rischio di comunicare ai fedeli uno svilimento del valore dell’Eucaristia. Se mi trovassi in Amazzonia e dovessi percorrere 40 km a piedi per raggiungere un centro Messa, è chiaro che risulterebbe opportuno prevedere altre celebrazioni non eucaristiche.


Ma a Ferrara? 169 parrocchie per 167 sacerdoti: dati suscettibili di correzione, ma praticamente una parrocchia a testa. Ipotizziamo una situazione catastrofica, e cioè che di questi 169 preti solo 100 godano di discreta salute e siano perciò in grado di celebrare la S. Messa. Visto che di domenica si può binare, e che il sabato sera c’è la Messa prefestiva, questi 100 sacerdoti potrebbero assicurare 300 SS. Messe per 169 parrocchie. Non male. Apriamo scenari apocalittici: supponiamo che l’unica Messa domenicale della diocesi sia celebrata a Ferrara città. Sapete quanto impiegherebbe in auto un residente a Goro, estremo est della diocesi per raggiungerla? Un’ora. E dall’“estremo” Nord, da Berra, per esempio? Quaranta minuti! Dunque, praticamente noi stiamo comunicando ai fedeli che la celebrazione dell’Eucaristia è fondamentale, essenziale, bla bla bla, al punto tale che… non vi deve dare l’incomodo di fare un viaggio di una decina di minuti. Sì, perché stante la situazione reale, se nella mia parrocchia non c’è la S. Messa, probabilmente, in circa 10 minuti riuscirò a raggiungere un posto dove la Messa viene celebrata. A Ferrara non c’è nemmeno l’alibi delle zone appenniniche…


L’articolo del Codice di diritto canonico, riportato nella lettera, spiega che «se per la mancanza del ministro sacro o per altra grave causa diventa IMPOSSIBILE la partecipazione alla celebrazione eucaristica, si raccomanda vivamente che i fedeli prendano parte alla liturgia della Parola, se ve n'è qualcuna nella chiesa parrocchiale o in un altro luogo sacro». Secondo voi, si può ritenere impossibile lo spostamento di qualche chilometro, posto che mediamente i trasporti non avvengono più a piedi o a dorso d’asino, per raggiungere una chiesa dove si celebra l’Eucaristia?


Nell’Esortazione apostolica postsinodale Sacramentum Caritatis, § 75, Benedetto XVI ricordava che «il Sinodo ha raccomandato innanzitutto ai fedeli di recarsi in una delle chiese della Diocesi in cui è garantita la presenza del sacerdote, anche quando ciò richiede un certo sacrificio. Là dove, invece, le grandi distanze rendono praticamente impossibile la partecipazione all'Eucaristia domenicale, è importante che le comunità cristiane si radunino ugualmente per lodare il Signore e fare memoria del Giorno a Lui dedicato». Il criterio è sempre quello dell’impossibilità reale, non del disagio o della scomodità. Nella lettera non si ricorda che la mancata partecipazione alla celebrazione dell’Eucaristia nelle domeniche e negli altri giorni di precetto, quando se ne ha la possibilità, è obbligatoria e che perciò, in questi casi, le celebrazioni della Parola di Dio non permettono di adempiere il precetto festivo.


È in effetti singolare che nella lettera si richiami la Presentazione del Direttorio Celebrazioni domenicali in assenza di presbitero, del 1988, secondo la quale occorre «assicurare, nel migliore dei modi e in ogni situazione, la celebrazione cristiana della domenica, senza dimenticare che la Messa rimane la celebrazione propria, pur riconoscendo la presenza di elementi importanti, anche quando la Messa non si può celebrare», ma non si riporti invece il n.18 dello stesso documento: «Quando in alcuni luoghi non è possibile celebrare la Messa di domenica, si consideri anzitutto se i fedeli non possano recarsi alla chiesa di un luogo più vicino per partecipare alla celebrazione del mistero eucaristico. La soluzione è da raccomandare anche ai nostri giorni, anzi, per quanto possibile, da conservarsi; ciò tuttavia richiede che i fedeli siano rettamente istruiti sul senso pieno dell’assemblea domenicale e si adeguino di buon animo alle nuove situazioni».


Istruiti i fedeli e magari istruiti anche i sacerdoti e i vescovi: è tutt’altro che raro vedere concelebrazioni eucaristiche domenicali, che manifestano meravigliosamente la comunione del presbiterio, eccetera, eccetera, salvo poi trovare parrocchie senza preti. O magari preti senza parrocchia, per il mancato adattamento al new style liturgico.




fonte 









LA CEI HA FINALMENTE SCOPERTO LA CAUSA DELLA CRISI DELLA FEDE IN ITALIA. IL PERMESSO DI CELEBRARE IN LATINO.




Marco Tosatti18 novembre 2018 Pubblicato da wp_7512482 35 Commenti --

È affascinante – da un punto di vista giornalistico; da un’ottica cattolica il discorso è diverso – osservare alcuni fenomeni di autodistruzione di un’antica istituzione, quale è la Chiesa cattolica in Italia. Ci sono capitate sott’occhio due notizie negli ultimi giorni, che ci sono sembrate in strani modi correlate, collegate poi con il metter mano al Padre Nostro e al Gloria da parte degli affaccendati liturgisti modernizzanti. La prima viene da Rimini, da Teleromagna. Recita:

“Mancano i fedeli e la curia di Rimini vende le chiese alla comunità ortodossa. “E’ stata una scelta naturale – commenta sulle pagine del ‘Carlino’ don Danilo Manduchi, economo della diocesi – la comunità rumena aveva bisogno di spazi più grandi”. A pochi mesi di distanza dalla cessione della ex Santa Maria Maddalena delle Celle guidata ora dal prelato ortodosso padre Serafino Corallo, sarà tra poco perfezionata anche la vendita della chiesa di Sant’Agnese che si trova nel pieno centro storico del capoluogo riminese e in cui da tempo non veniva celebrata messa. Le alienazioni da parte della diocesi di Rimini rientrano nel piano di riorganizzazione del bilancio che a tutt’oggi vede un rosso di 22,6 milioni di euro”.
Meglio quello che una sala per party di Halloween, come è accaduto a Napoli, e di una moschea. E poi abbiamo letto su Messa in Latino questo reportage sconcertante:

“Le voci che ci erano giunte sono state confermate: a Roma, in occasione dell’Assemblea della CEI, si è provato a colpire il motu proprio di Benedetto XVI. E quindi lui stesso, che ebbe così cara quella riforma, tanto da affrontare impavido un’opposizione assatanata.
Che cosa è accaduto?

Mons. Redaelli, vescovo di Gorizia (che sappiamo avere conseguito la laurea in diritto canonico presso la Pontificia Università Gregoriana) ha asserito che il Messale Antico di Giovanni XXIII era stato abrogato da Paolo VI (e ciò contrariamente a quanto dichiarato da Benedetto XVI nel Motu Proprio) e che quindi il Summorum Pontificum, essendo errate le premesse giuridiche da cui muove i passi, è inefficace nella parte in cui afferma la continuazione di validità del messale antico e ne riconosce l’immutata vigenza ai giorni nostri. Per tale motivo, il motu proprio è un “non-sense” giuridico e la liturgia “tridentina” non è stata legittimamente ristabilita dal motu proprio e non può considerarsi liberalizzata.

Con la conseguenza, sperata dai vescovi più ostili, di una cancellazione totale e senza deroghe di tutti i centri messa nati e fioriti dopo il 14.09.2007

Al che rispondiamo da giuristi professionisti, non semplici dottori in legge in tutt’altre faccende impegnati come l’Eccellenza: quand’anche fosse stata errata la premessa del motu proprio di una liturgia antica numquam abrogata (ed errata non era, come dimostra, a tacer d’altro, la preesistente facoltà di celebrarla con il regime dell’Indulto), il dato essenziale è che il Summorum Pontificum esprime una ratio legis inconfutabile: ossia che la forma straordinaria sia d’ora innanzi liberamente utilizzabile; sempre per le Messe private, e su richiesta di un gruppo stabile per quelle pubbliche. Sicché la critica di Mons. Redaelli, se pur fosse fondata (e non lo è), non avrebbe alcuna incidenza sul diritto canonico vigente dopo il 2007.

A quell’intervento da causidico si è affiancato quello ancor più ostile di Girardi, rettore dell’istituto di liturgia pastorale di Santa Giustina di Padova (uno degli epicentri delle aberrazioni postconciliari), imbottito della peggiore ideologia dello “aggiornamento”.

Scevro di cognizioni giuridiche ma colmo di tracotanza liturgistica (la nota facezia che circola in Vaticano è che la differenza tra un liturgista e un terrorista è che con il secondo, di solito, si può trattare…), il Girardi ha spiegato che il Summorum Pontificum è pernicioso dal punto di vista della pastorale, poichè contrario alle indicazioni conciliari dei Padri che richiedevano (a suo dire) una modifica radicale all’antico messale. Il che per inciso non è per nulla vero, come dimostra la lettura della costituzione conciliare Sacrosanctum Concilium, che ad esempio non prevede che il prete debba stare girato verso il popolo e al n. 36 prescrive categoricamente: «L’uso della lingua latina, salvo diritti particolari, sia conservato nei riti latini».
A dare manforte al liturgista hanno parlato anche un Vescovo pugliese e mons. Brambilla, vescovo di Novara, che seppur in maniera più elegante ha sferrato un colpo comunque duro contro il motu proprio.

Certo, dopo essersi preoccupati di cambiare le traduzioni inveterate del Gloria e del Padre Nostro, senza che nessuno ne sentisse la necessità (ah, ovviamente non è stato ancora modificato il “per voi e per tutti”: quello sì palesemente in contrasto con la versione originale, ossia con le parole stesse di Nostro Signore che disse: “per voi e per molti”), perché mai le Loro Eccellenze dovrebbero perder tempo ad analizzare i veri motivi della grave crisi di fede in cui sta vivendo la Chiesa Italiana (fuga dai seminari, abbandono della tonaca di molti sacerdoti, crollo della pratica, episodi terribili di omosessualità e pederastia, altari delle teste mozze, crollo dell’ 8xMille alla Chiesa Cattolica, solo per citare alcuni esempi)?

L’urgenza del momento era, a quanto pare, scagliarsi contro la liturgia antica ed auspicarne la messa al bando.

C’è qualcosa di sinistramente psicopatico in tutto ciò ed è l’invidia del fallito: nel crollo delle proprie utopie, nel gelo dell’inverno in cui si è tramutata la radiosa ‘primavera conciliare’, è troppo doloroso guardare in faccia la realtà ed ammettere onestamente i propri errori
. Meglio allora cercare di distruggere quel poco che ancora funziona, come lo zelo ed il decoro delle celebrazioni in rito antico e il fiorire delle vocazioni negli istituti religiosi tradizionali. Il caso dei Francescani dell’Immacolata e l’odio per la liturgia immemoriale sono un chiaro esempio di questa insana frenesia di naufraghi impazziti, che cercano di capottare le poche zattere che ancora galleggiano, anziché pensare a salirvi sopra o a costruirne di nuove”.

Su questo link trovate la risposta del canonista, che fa giustizia delle tesi avanzate dai vescovi in assemblea Cei.

C’è veramente da chiedersi se questi signori che campano grazie ai soldi dei cittadini italiani che ancora finanziano l’8 per mille non abbiano altro a cui pensare, se non a limitare il diritto della gente comune di pregare Dio come gli fa più piacere. Invece di ringraziare a mattino, mezzogiorno e sera che c’è ancora qualcuno che a messa ci vuole andare, si mettono ad arzigogolare per trovare il modo di impedirglielo. Se poi questo viene da diocesi dove si vogliono abolire parrocchie, creare le “collaborazioni pastorali” perché mancano i preti e non ci sono vocazioni, che dire? Che forse il vescovo farebbe meglio a porsi domande, prima di andare a occuparsi di chi straordinariamente in chiesa ci va. Nonostante certi Pastori. Come quel Prefetto di Congregazione che si diceva preoccupato perché molti candidati al seminario sembravano tradizionali, rigidi…

Veramente quem deus vult perdere, prius dementat
. A meno che non sia un’astuta manovra ecumenica per far diventare tutti ortodossi, o lefevbriani. Ne sanno veramente una più del diavolo, questi prelati.













sabato 17 novembre 2018

Il commento di San Tommaso al "non ci indurre in tentazione"







Alcuni peccano e poi, desiderando di ottenere il perdono dei loro peccati, li confessano e se ne pentono, senza però impegnarsi a fondo, come dovrebbero, per non ricadervi.
Ma non è davvero bello che uno, da una parte, pianga i propri peccati quando si pente, e dall’altra accumuli motivi di pianto tornando a peccare. Infatti sta scritto: “Lavatevi, purificatevi, togliete il male dalle vostre azioni, dalla mia vista. Cessate di fare il male, imparate a fare il bene” (Is 1, 16).
Per questo motivo Cristo, mentre nella precedente domanda ci insegnava a chiedere perdono dei peccati, in questa ci insegna a chiedere di poterli evitare, ossia di non essere indotti nella tentazione per la quale scivoliamo nel peccato, e ci fa dire: “Non ci indurre in tentazione”.

A proposito di questa domanda, ci poniamo tre interrogativi:1) che cos’è la tentazione, 2) come e da chi l’uomo viene tentato, 3) come viene liberato dalla tentazione.

Quanto al primo interrogativo, diciamo che tentare non è altro che saggiare o mettere alla prova, sicché tentare l’uomo vuol dire provare la sua virtù. Il che può compiersi in due maniere, secondo le due esigenze della virtù dell’uomo, che sono: operare nel bene, ossia comportarsi bene, ed evitare il male, secondo il monito del salmo: “Stà lontano dal male e fa’ il bene” (Sal 33, 15).
La virtù dell’uomo viene pertanto provata alle volte quanto al bene da fare, e altre volte circa il male da evitare. Nel primo caso, l’uomo è messo alla prova affinché si veda se egli è pronto al bene; e se sarai trovato pronto al bene vuol dire che la tua virtù è grande. Ebbene, qualche volta Dio saggia l’uomo in questo modo, non perché egli non conosca la sua virtù, ma per far sì che tutti la conoscano e sia a tutti di buon esempio.
Fu a questo scopo che egli tentò Abramo e Giobbe; ed è con questa intenzione che egli manda spesso le tribolazioni ai giusti, affinché cioè, sopportandole con pazienza, appaia la loro virtù e facciano maggiore progresso. Dice infatti il Deuteronomio: “Il Signore vostro Dio vi mette alla prova per sapere se amate il Signore vostro Dio con tutto il cuore e con tutta l’anima” (Dt 13,4).
Risulta perciò chiaro che Dio tenta incitando al bene.
Nell’altro caso, la virtù dell’uomo viene messa a prova dall’istigazione al male. Se egli resiste e non acconsente alla tentazione, la sua virtù è grande. Se invece soccombe, la sua virtù è nulla. Ma in questa maniera nessuno è tentato da Dio, perché egli, come dice Giacomo, “non tenta nessuno al male” (Gc 1, 13).

In risposta al secondo interrogativo (come e da chi l’uomo viene tentato), si noti che l’uomo viene tentato al male in tre modi: dalla propria carne, dal diavolo e dal mondo.
Dalla carne viene tentato in due maniere. La carne infatti istiga al male, perché ricerca sempre i propri piaceri nei quali, trattandosi di piaceri carnali, spesso c’è il peccato per il fatto che chi si lascia assorbire da essi trascura quelli dello spirito. Dice al riguardo San Giacomo: “Ciascuno è tentato dalla propria concupiscenza, che lo attrae e lo seduce, poi la concupiscenza concepisce e genera il peccato” (Gc 1, 14).
La carne poi tenta distogliendo l’uomo dal bene. Mentre infatti lo spirito, per quanto dipende da lui, si diletta sempre dei beni spirituali, la carne col suo peso gli è di impaccio, perché “un corpo corruttibile appesantisce l’anima” (Sap 9, 15).
San Paolo scrive in proposito: “Acconsento nel mio intimo alla legge di Dio, ma nelle mie membra vedo un’altra legge, che muove guerra alla legge della mia mente e mi rende schiavo della legge del peccato che è nelle mie membra” (Rm 7, 22-23).
E questa tentazione della carne è molto grave perché questo nostro nemico, cioè la carne, è congiunto a noi; e, come dice Boezio, “non c’è per noi peste più nociva di un nemico che sia della nostra famiglia” (De consolatione philosophiae III, 5).
Contro la carne perciò si deve vigilare: “Vegliate e pregate, per non cadere in tentazione” (Mt 26, 41).

A sua volta, il diavolo tenta con estrema violenza. Una volta infatti che si abbia vinta la carne, si scatena questo altro nostro nemico, il diavolo, contro il quale dobbiamo sostenere una grande battaglia: “La nostra battaglia infatti non è contro creature fatte di sangue e di carne, ma contro i Principati e le Potestà, contro i dominatori di questo mondo di tenebra, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti” (Ef 6, 12). Per questo satana è detto espressamente il tentatore (Mt 4, 3; I Ts 3, 5).
Il diavolo nel tentare usa molta astuzia. Come un abile capitano che assedia una fortezza, prima studia il punto debole della persona che vuol far cadere e poi la tenta là dove la scorge più vulnerabile. Perciò una volta che gli uomini hanno resa inoffensiva la propria carne, Satana li tenta in quei vizi verso i quali sono più inclinati, quali l’ira, la superbia ed altri vizi spirituali. Dice S. Pietro: “Il vostro nemico, il diavolo, come leone ruggente va in giro, cercando chi divorare” (1 Pt 5, 8).
Quando poi egli tenta, mette in atto due espedienti. Da principio non propone subito alla persona tentata un oggetto palesemente cattivo, ma qualcosa che abbia l’apparenza di bene, per stornarla inizialmente in tal modo dal suo proposito fondamentale e poterla poi in seguito indurre più facilmente al peccato, una volta che è riuscito a distoglierla sia pure di poco dal bene: in altre parole, “Satana si maschera da angelo di luce” (2 Cor 11, 14).
In seguito poi, quando l’ha indotta al peccato, la lega talmente alla colpa da impedirle di distaccarsene, perché, al dire di Giobbe, “i nervi delle sue cosce si intrecciano saldi” (Gb 40, 17). Cosicché due cose fa il diavolo: prima inganna e poi trattiene nel peccato chi ha ingannato.

Il terzo tentatore è il mondo, il quale tenta anch’esso in due maniere.
Prima di tutto con un eccessivo e smoderato desiderio dei beni temporali, perché come dice l’Apostolo: “L’attaccamento al denaro è la radice di tutti i mali” (1 Tm 6, 10).
Servendosi dei persecutori e dei tiranni, tenta poi anche incutendo terrore, per cui dice il Libro di Giobbe: “Anche noi siamo avvolti nelle tenebre” (Gb 37, 19) e San Paolo aggiunge: “Tutti quelli che vogliono vivere piamente in Cristo Gesù saranno perseguitati” (2 Tm 3, 12).
Ma il Signore ci rassicura: “Non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima” (Mt 10, 28).
Dalle cose dette risulta perciò chiaro che cos’è la tentazione e come e da chi l’uomo viene tentato.

Rimane da vedere in qual modo l’uomo venga liberato dalla tentazione.
Su quest’ultimo punto va notato che Cristo ci insegna a chiedere non di non essere tentati, ma di non essere indotti nella tentazione. Se infatti l’uomo vince la tentazione merita la corona; ed è per questo che Giacomo ci ammonisce: “Considerate perfetta letizia, miei fratelli, quando subite ogni sorta di prove” (Gc 1, 2), e il Siracide aggiunge: “Figlio, se ti presenti per servire il Signore, preparati alla tentazione” (Sir 2, 1).
Ecco perché ci viene insegnato a chiedere di non essere indotti nella tentazione prestandole consenso; e San Paolo commenta: “Nessuna tentazione vi ha finora sorpresi se non umana; infatti Dio è fedele e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze, ma con la tentazione vi darà anche la via d’uscita e la forza per sopportarla” (1 Cor 10, 12).
Essere tentati è infatti cosa umana, ma consentirvi è cosa diabolica.

Forse Dio induce al male dal momento che ci fa dire: “non ci indurre in tentazione”? Rispondo che si dice che Dio induce al male nel senso che lo permette, in quanto, cioè, a causa dei suoi molti peccati precedenti, sottrae all’uomo la sua grazia, tolta la quale, egli scivola nel peccato. Per questo noi diciamo col salmista “Non abbandonarmi quando declinano le mie forze” (Sal 70, 9).
Dio però sostiene l’uomo, perché non cada in tentazione, mediante il fervore della carità che, per quanto sia poca, è sufficiente a preservarci da qualsiasi peccato. Infatti che “le grandi acque non possono spegnere l’amore” (Ct 8, 7).
Lo sostiene inoltre col lume dell’intelletto, col quale ci istruisce sulle cose da fare; poiché, come dice il Filosofo: “Ogni peccatore è un ignorante”.
E, siccome Dio per bocca sua aveva promesso: “Ti farò saggio, t’indicherò la via da seguire” (Sal 31, 8), questo dono Davide lo chiedeva invocandolo: “Signore mio Dio, conserva la luce ai miei occhi, perché non mi sorprenda il sonno della morte, perché il mio nemico non dica: l’ho vinto” (Sal 12,4 5).
Noi otteniamo tutto questo col Dono dell’Intelletto, mediante il quale, se non consentiamo alla tentazione, conserviamo un cuore puro, del quale viene detto “Beati i puri di cuore” (Mt 5, 8). In questa maniera perverremo alla visione beatifica, alla quale ci faccia giungere il Signore.

San Tommaso D'Aquino








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