domenica 30 giugno 2013

NOZZE GAY, L’ARCIVESCOVO DI SAN FRANCISCO RESISTE: “NON E’ CRISTIANO PENSARE CHE LA STORIA SIA IRREVERSIBILE”

- di Benedetta Frigerio

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fonte: Corrispondenza Romana

(su Tempi) Nel 2008 ha promosso in prima persona il referendum sulla cosiddetta “Proposition 8″, la modifica alla costituzione della California che ha limitato la definizione di matrimonio all’unione di un uomo e una donna.

Vescovo nello stato che è considerato la patria mondiale degli omosessuali, si è battuto con il popolo credendo fermamente nella sua capacità di riconoscere la verità, vincendo la scommessa. Ora che una decisione della Corte Suprema americana ha di fatto offerto alle autorità della California la possibilità di reintrodurre il matrimonio gay nonostante quel referendum, l’arcivescovo di San Francisco, Salvatore Cordileone, pur «preoccupatissimo per i meccanismi antidemocratici usati dal potere», è convinto che «non bisogna scoraggiarsi, ma scendere in campo più convinti di prima: il problema è come».


Eccellenza, due giorni fa la Corte Suprema, evitando di pronunciarsi sulla sua costituzionalità, ha di fatto aperto la strada alla cancellazione della Proposition 8 approvata dal referendum del 2008. Il matrimonio gay può tornare a essere legale in California.


È un oltraggio ai 7 milioni di cittadini promotori del referendum. Peggio, ora siamo ancora più preoccupati per la tenuta della democrazia, perché la Corte non solo ha trascurato il risultato del referendum a favore della Proposition 8, dichiarata incostituzionale nel 2010 da un tribunale statale, ma ha ignorato anche il ricorso contro una sentenza di primo grado. Così, in un solo colpo, due strumenti cardine della giustizia democratica, il referendum e il ricorso in appello, sono stati messi fuori uso.


«Il bene di tutti, specialmente dei bambini, dipende da una società che sostiene la verità sul matrimonio. Questo è il momento di raddoppiare i nostri sforzi per testimoniare questa verità». È la posizione dei vescovi americani. È realistico continuare a combattere quando la guerra è persa?


Non è persa. Noi abbiamo fallito negli anni passati. Non abbiamo educato a sufficienza. È per questo che oggi si è arrivati fino a qui: il valore del matrimonio è incompreso da più di cinquant’anni, perché è mancata un’educazione a viverlo integralmente e quindi a testimoniarlo nella sua bellezza. Ma nulla è perso per sempre. È proprio adesso che non dobbiamo mollare se non vogliamo perdere. Anzi dobbiamo ricominciare da capo.


Lo ha detto anche il cardinale Timothy Dolan, il capo della Conferenza episcopale americana: «Anche se la nostra cultura ha fallito nel tentativo di rafforzare il matrimonio, non c’è motivo di arrendersi. Questo è il momento di rafforzare il matrimonio, non di ridefinirlo».


È così, non possiamo rassegnarci davanti all’ingiustizia. Non possiamo tacere. Per questo i movimenti che stanno nascendo, come quello francese per la famiglia o quello italiano che ha marciato per la vita, vanno sostenuti. Dobbiamo continuare a dire la verità, anzi dobbiamo farlo più di prima e poi capire come comunicarla e quindi testimoniarla. Per sapere come muoverci, ora che la via democratica è resa impercorribile dalla democrazia stessa, dobbiamo continuare a pregare.


La tentazione di pensare che ormai non c’è più nulla da fare è grande anche fra i cattolici. La Chiesa americana, invece, in un clima più che mai ostile, sta persino portando avanti la Forthnight For Freedom, l’iniziativa di 14 giorni in cui si educa, si manifesta, si prega, si digiuna…


Non è cristiano pensare che la storia sia irreversibile. Noi siamo testimoni di un evento che l’ha cambiata: Cristo morto e risorto. Perciò è a Lui che ci rivolgiamo e, insieme all’educazione e alla testimonianza, da un anno chiediamo ai fedeli preghiere e penitenza. Il cardinal Dolan, tornato da Roma dopo il Sinodo all’inizio dell’anno della fede, ha indicato esplicitamente come via primaria la conversione personale attraverso la confessione e il digiuno. Siamo noi ad avere l’arma più potente, non il nemico: solo noi possiamo rivolgerci a Colui che tutto può. Questa è la sola strada. Forse il vantaggio davanti a tutti questi fallimenti è che la via vincente è rimasta l’unica che si può imboccare.

Il Papato tra normalità ed eccezione

Riportiamo l’introduzione del volume "Vicario di Cristo. Il primato di Pietro tra normalità ed eccezione" di Roberto de Mattei, appena pubblicato dalle edizioni Fede e Cultura nella collana diretta da Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro.

L’atto di rinuncia di Benedetto XVI dell’11 febbraio 2013 e tutto ciò che ne è seguito, fino all’elezione del nuovo Pontefice, ha rimesso sul tappeto il problema, della “riforma del Papato, oggi riproposto da teologi, storici e giornalisti per condizionare le scelte future di Papa Francesco. Si tratta in realtà di idee stantie, molte volte confutate. Senza risalire al Medioevo, il problema fu dibattuto all’epoca del Sinodo giansenista di Pistoia, durante le discussioni del Concilio Vaticano I, nella temperie ideologica del modernismo, e finalmente nel dibattito conciliare e postconciliare del Novecento.

Anche oggi, come allora, c’è chi vorrebbe assegnare al Papato una missione soprattutto “profetica” e chi vorrebbe che esso facesse della promozione della pace nel mondo il suo scopo principale. C’è chi pensa a un Papato costituito da più persone[1] e chi evoca l’ipotesi di un pontificato “a termine”[2], e non più a vita, come forma di governo richiesta dalla velocità di cambiamento del mondo moderno e dalla continua novità dei suoi problemi. Per altri si tratterebbe di ridurre il Papa a “un portavoce di tutti i cristiani” le cui dichiarazioni “saranno certamente tanto più efficaci quanto meno egli pretenderà obbedienza”[3]; oppure ad una figura meramente arbitrale, con a fianco una struttura ecclesiastica “aperta”, quale un sinodo permanente, con poteri deliberativi. Altri ancora rivendicano “un nuovo stile papale” opposto a quello autoritario precedente[4]. C’è infine chi, richiamandosi alle teorie di Carl Schmitt, secondo cui “il sovrano è colui che decide sullo stato di eccezione”, vorrebbe ridurre la funzione del Papato ad un potere di intervento per i casi rari di cui il Papa è il solo giudice supremo[5]. Si dice che le strutture organizzative della Chiesa di Roma si sono sempre modificate lungo il corso della storia e devono continuare a farlo, per rimanere al passo coi tempi. La riforma del Papato, sullo sfondo dei problemi posti dalla globalizzazione e dal pluralismo culturale, appare insomma come l’unica possibilità rimasta alla Chiesa per non estinguersi.

Un ostacolo insormontabile si leva contro questi programmi: la costituzione dogmaticaPastor aeternus[6]del Concilio Vaticano I, che ha elevato i bastioni dell’infallibilità per garantire la costituzione divina e permanente della Chiesa militante. I riformatori devono ricorrere ad ogni genere di sottigliezza per aggirare l’ostacolo, ma non rinunciano al progetto di fondo, che punta a storicizzare e a relativizzare le verità di fede, articolandosi secondo due direttrici.

La prima consiste nell’affermare la relatività del “modello pontificio”. Bisognerà distinguere quindi tra l’essenza immutabile del Papato e la varietà delle sue forme storiche[7], poiché “l’essenza reale della Chiesa si attua in forma storica”[8]. Il compito di individuare la mutevolezza delle forme spetta agli storici della Chiesa che, “reinterpretando” il passato, contribuiscono a “ricreare” la Tradizione.

Si vorrebbe dimostrare, ad esempio, che il Papa non esercitava nei primi secoli della Chiesa una sovranità giuridica sulle chiese locali: la realtà della Chiesa antica, si dice, sarebbe stata “policentrica”, senza un “centro” ordinatore rappresentato dalla Chiesa romana[9].

Si afferma, ancora, che la Sede di Roma originariamente era soltanto un “patriarcato”; col tempo, da un primato di onore, si sarebbe passati ad un primato di giurisdizione con l’affermazione dell’idea, estranea alla concezione patristica, del “Primato universale”[10]. Il governo diretto e universale della Chiesa, nel primo millennio, sarebbe stato in realtà affidato ai patriarchi, a livello regionale; solo in seguito allo scisma del 1054, il Vescovo di Roma sarebbe stato indotto a cumulare nelle sue mani entrambe le funzioni precedentemente distinte: quella del servizio all’unità della Chiesa universale e quella del governo diretto della Chiesa latina. Da qui la proposta di tornare alla “Pentarchia” come modello per il governo della Chiesa[11]

Il nemico di fondo è l’idea della “sovranità pontificia”, la “ideologia” della “plenitudo potestatis”, nata nel Medioevo, che sarebbe all’origine della deviazione del Papato dal suo spirito originario. Dopo la svolta “gerarchico-feudale”, il Dictatus papæ di Gregorio VII (1075) “sarebbe stato la grammatica dell’ecclesiologia “romana” del secondo millennio”[12]. Dal secolo XI il papato avrebbe assunto una fisionomia monarchica: quella che sembrava una mera analogia sarebbe diventata una ideologia del potere[13]

In questa prospettiva viene riproposto il tema del “conciliarismo” del XIV secolo, utilizzando innanzitutto gli strumenti della filologia e della storia[14]. La “fecondità storica” del movimento conciliare avrebbe toccato il suo apice con il decreto Haec Sancta del Concilio di Costanza (1417) secondo cui il Concilio ha direttamente da Cristo la sua potestà ed è dunque superiore, o almeno uguale, al Papa. Qualificato come decreto obbligante di valore generale, anche al di là della congiuntura storica in vista della quale era stato approvato, l’Haec Sancta è considerato come un modello ingiustamente abbandonato ma ancora valido per l’avvenire[15]. “Ai decreti di Costanza – si afferma – si deve riconoscere fondamentalmente la stessa autorità che ai decreti degli altri concili ecumenici; essi dal punto di vista della storia della Chiesa formano il polo contrario del Vaticano I”[16].

Dalla metà del Quattrocento, si dice ancora, si è avviata una metamorfosi del Papato che ha toccato l’istituzione nel suo complesso, portando non solo ad un mutamento dei connotati istituzionali dello Stato pontificio, trasformato in principato temporale, ma anche ad una riformulazione del concetto di sovranità ecclesiastica, plasmata su quella politica. Vittorioso sul conciliarismo, il Papato viene però sconfitto dallo Stato moderno, poiché, mentre la Chiesa si secolarizza, lo Stato si sacralizza[17]: “il papato rinascimentale si riassume sul modello del principato temporale”[18]; restaurata la “monarchia pontificia”, si apre l’epoca della “dittatura del papato”[19].

La vittoria “romana” sul conciliarismo fu quindi “una vittoria diplomatica e non un superamento teologico”[20]. A partire dalla Rivoluzione francese, la Chiesa, in fruttuoso rapporto dialettico con il mondo moderno, ha iniziato a liberarsi dalle pastoie del passato[21]. Malgrado alcune fasi regressive, rappresentate soprattutto dai pontificati di Pio IX, Pio X e Pio XII, il Concilio Vaticano II segna finalmente il momento della “svolta”, liquidando la dimensione giuridico-istituzionale della Chiesa e aprendosi a una nuova visione di essa fondata sul concetto di “comunione” e di “popolo di Dio”[22].

La seconda direttrice consiste nel relativizzare la portata teologica del dogma del Primato Romano. Dalla distinzione tra “verità dogmatica” e “forma storica” si passa a quella, interna al dogma, tra “contenuto sostanziale” (immutabile) e “formulazione dottrinale” (mutevole) della fede. Un enunciato dogmatico, si afferma, è un “evento linguistico”, necessariamente legato a un contesto teologico e culturale[23]; dopo lo storico, è il teologo a ripresentare la distinzione tra l’ “essenza” permanente del ministero di Pietro e le “forme di esercizio” in cui esso si è espresso nella storia[24].

I teologi novatori, al termine Papato preferiscono quello di “ministero” e/o “funzione” petrina, riducendo il Papato a una configurazione storica sorpassata della funzione primaziale attribuita alla Sede romana. “Guardando a Gesù, che non si è presentato come padre, ma fratello dell’uomo, la maggior parte dei cattolici spera oggi che il ministero petrino nel III millennio acquisti nuova autorità come servizio fraterno in una chiesa di fratelli e di sorelle”[25]. Questo ruolo non andrebbe oltre quello di “rappresentante dell’unità, intermediario, promotore, organizzatore, porta-parola e arbitro in seno ad una comunità-eucaristica di Chiese riconciliate”[26].

Si pretende quindi di proporre una visione teologica in cui vengano separate e contrapposte dialetticamente, servizio e autorità, potestà d’ordine e potestà di giurisidizione, struttura carismatica e struttura giuridica della Chiesa. Riaffiorano le vecchie antinomie del pensiero ereticale: legge contro Vangelo, Chiesa invisibile contro chiesa visibile, ecclesia iuris contro ecclesia caritatis, chiesa “petrina” contro chiesa “paolina”.

Alla dottrina tradizionale, sbrigativamente liquidata come “giuridista”[27], viene contrapposta la tesi secondo cui la Chiesa è retta da un potere apostolico di struttura sacramentale e collegiale[28]. In questa prospettiva il Papato deve essere “de-istituzionalizzato”, ritrovando la dimensione “carismatica” del Primato smarritasi nel corso dei secoli [29]. La parola d’ordine è quella di liberare la Chiesa dall’involucro giuridico che la soffoca e di trasformarla da struttura di vertice in struttura “democratica” e ugualitaria. Si auspica una “metamorfosi” del Papato che lo liberi dalle catene dell’ideologia della “suprema potestas[30] per conferirgli una funzione etico-profetica[31], un primato di “ onore ” o di “ amore ”, ma non di governo e di giurisdizione della Chiesa.

La riforma passa attraverso una “riscoperta” della natura della “collegialità”[32], che avviene attraverso l’enfatizzazione della natura sacramentale dell’episcopato e del ruolo eminentemente “episcopale” del Papato, ridotto a primus inter pares all’interno del collegio dei Vescovi. Al “centralismo papale” si contrappone una struttura collegiale “aperta” e “policentrica”, basata sul ruolo accresciuto dei sinodi, delle conferenze episcopali, delle chiese locali. Negata o vanificata la gerarchia di giurisdizione, il ministero petrino dovrebbe scaturire da un’ecclesiologia “sacramentale” e “di comunione” e limitarsi a un “servizio all’unità” nei confronti dei fratelli separati. La Chiesa dovrebbe cambiare “la forma del governo ecclesiastico”, seguendo la via maestra della “collegialità” indicata dal Concilio Vaticano II. Per questo si affida al nuovo Papa il compito di “attuare quello che gli ultimi papi non hanno mai fatto: la collegialità episcopale sancita dal Concilio Vaticano II. Quanto più il prossimo Papa saprà essere non un monarca ma il motore della comunione ecclesiastica, tanto più, come dicono gli Atti degli apostoli, salirà da tutta la Chiesa la preghiera per Pietro”[33].

Da parte nostra percorreremo in questo studio le stesse due direttrici seguite dai “riformatori”: quella della storia da una parte e quella della teologia e del diritto dall’altra. La ricerca storica, se si attiene alla oggettività dei fatti e non è piegata a fini di parte, offre una testimonianza, per così dire dall’esterno; la ricerca teologica e giuridica non può che svilupparsi all’interno della Tradizione della Chiesa secondo le definizioni del suo Magistero.

Ci proponiamo in tal modo di contribuire a rispondere alla domanda: “Chi è il Papa?” non solo nei tempi ordinari, ma anche e soprattutto in quelli “di eccezione”, come quelli che stiamo vivendo.




[1] Ferdinand Klosterman, Die Zukunft der Oekumene, “Theologisch-praktische Quartalschrift”, 131 (1983), p. 328.

[2] Un Papa a tempo determinato?, intervista a Jean Delumeau, “Il Manifesto”, 26 gennaio 2000.

[3] Wolfhart Pannenberg, Il ministero petrino a servizio dell’unità, “Il Regno”, 821 (15 settembre 1998), p. 562.

[4] O’Malley, Version two: A break from the past, “Commonweal”, 9 marzo 2001.

[5] Antonio Acerbi, Per una nuova forma del ministero petrino, in “Il Regno”, 818 (1 luglio 1998), passim.

[6] Costituzione Pastor aeternus, capitolo 3, in Heinrich Denzinger, Enchiridium Symbolorum, a cura di Peter Hünermann, EDB, Bologna 1995, nn. 3059-3063.

[7] Cfr. Brian Tierney, Modelli storici, “Concilium”, anno XI (1975), fasc. 8, passim; Giuseppe Alberigo, Forme storiche di governo, “Il Regno”, 892 (1 dicembre 2001), passim.

[8] Hans Küng, La chiesa, tr. it. Queriniana, Brescia 1980 (4a ed.), p. 5.

[9] Giancarlo Zizola La riforma del papato, Editori Riuniti, Roma 1998, p. 127.

[10] G. Dejaifve, La Papauté, problème oecuménique, “Nouvelle Revue théologique”, 102 (1980), pp. 239-240.

[11] Ferdinand-Reinhard Gahbauer o.s.b, Die Pentarchietheorie. Ein Modell der Kirchenleitung von den Anfängen bis zur Gegenwart, Knecht, Frankfurt am Main 1993, passim.

[12] G. Alberigo, Forme storiche di governo, cit., p. 720.

[13] Alberto Melloni, La riforma di Papa Francesco, “Corriere della Sera”, 14 aprile 2013.

[14] G. Alberigo, Chiesa conciliare. Identità e significato del conciliarismo, Paideia, Brescia 1981, pp. 9-18.

[15] G. Zizola, Il Conclave. Storia e segreti, Newton & Compton, Roma 1993, p. 71.

[16] H. Küng, La chiesa, cit., p. 525.

[17] Paolo Prodi, Il sovrano pontefice, Il Mulino, Bologna 1983, p. 306.

[18] G. Zizola, Il Conclave, cit., p. 82.

[19] Leonardo Boff, Chiesa: carisma e potere, Borla, Roma 1984 (2a ed.), p. 90.

[20] G. Alberigo, Chiesa conciliare, cit., p. 354.

[21] Yves-Marie Congar, L’ecclésiologie de la Révolution française au Concile Vatican sous le signe de l’affirmation de l’autorité, in Aa. Vv., L’ecclésiologie au XIX siècle, Cerf, Paris 1960, pp. 77-114.

[22] G. Alberigo, Forme storiche di governo, cit., p. 722.

[23] A. Acerbi, Per una nuova forma del ministero petrino, cit., p. 458.

[24] Angel Antón Gómez, El misterio de la Iglesia, Editorial Catolica, Madrid – Estudio Teológico de S. Ildefonso, Toledo 1986-1987 (2 voll.), II, pp. 1022-1026.

[25] Pottmeyer, Lo sviluppo della teologia dell’ufficio papale, in G. Alberigo – Andrea Riccardi (a cura di), Chiesa e Papato nel mondo contemporaneo, Laterza, Roma-Bari 1990, p. 63.

[26] Michael Hardt, Papsttum und Ökumene, Paderborn, München 1981, p. 159.

[27] A. Acerbi, Due ecclesiologie. Ecclesiologia giuridica ed ecclesiologia di comunione nella « Lumen Gentium », EDB, Bologna 1975, pp. 94 e ss.

[28] Luigi Sartori, Il papato domani: considerazioni ecumeniche, Introduzione a Klaus Schatz, Il Primato del Papa, tr. it. Queriniana, Brescia 1996, p. 24.

[29] K. Schatz, Il primato. La sua storia dalle origini ai nostri giorni, tr. it. Queriniana, Brescia 1996, pp. 227, 236.

[30] G. Zizola, Il Conclave, cit., p. 11.

[31] Ivi, pp. 376-377.

[32] Cfr. ad esempio John Quinn, Per una riforma del Papato, tr. it. Queriniana, Brescia 2000.

[33] A. Melloni, Ci vuole la collegialità indicata dal Concilio, Corriere della Sera”, 8 marzo 2013.


fonte: http://www.conciliovaticanosecondo.it/articoli/vicario-di-cristo-il-papato-tra-normalita-e-eccezione/

 

venerdì 28 giugno 2013

Sposatevi come natura comanda. Parla Ruini










“Le nozze gay sono un prodotto culturale che nega la realtà, non un diritto ineludibile”



Matteo Matzuzzi

L’uguaglianza intesa come negazione di ogni differenza è qualcosa che va contro la realtà”, dice al Foglio il cardinale Camillo Ruini commentando la sentenza con cui mercoledì la Corte suprema degli Stati Uniti ha dichiarato incostituzionale parte del Defense of Marriage Act, la legge che definiva il matrimonio come unione esclusiva tra uomo e donna sotto la giurisdizione federale. “Ci illudiamo se pensiamo di poter cancellare la natura con una nostra decisione personale o collettiva”, aggiunge ancora l’ex presidente della Cei.

La decisione della Corte sembra confermare che ci si trovi davanti a una valanga inarrestabile in cui ogni eccezione sull’equiparazione tra matrimonio eterosessuale e omosessuale sarà superata. E’ questo il terreno su cui si articolerà il dibattito sullo sviluppo della civiltà nel XXI secolo?

“Penso proprio di sì. Naturalmente la questione dei matrimoni omosessuali rientra nel problema più vasto della concezione che abbiamo dell’uomo, cioè di cosa sia la persona umana e di come vada trattata. Un aspetto molto rilevante del nostro essere è che siamo strutturati secondo la differenza sessuale, di uomo e di donna. Come ben sappiamo, questa differenza non si limita agli organi sessuali, ma coinvolge tutta la nostra realtà. Si tratta di una differenza primordiale ed evidente, che precede le nostre decisioni personali, la nostra cultura e l’educazione che abbiamo ricevuto, sebbene tutte queste cose incidano molto, a loro volta, sui nostri comportamenti. Perciò l’umanità, fin dalle sue origini, ha concepito il matrimonio come un legame possibile soltanto tra un uomo e una donna. Negli ultimi decenni si è fatta strada una posizione diversa, secondo la quale la sessualità andrebbe ricondotta alle nostre libere scelte: come diceva Simone de Beauvoir, ‘Donna non si nasce, lo si diventa’. Perciò il matrimonio dovrebbe essere aperto anche a persone dello stesso sesso. E’ la teoria del gender, ormai diffusa a livello internazionale, nella cultura, nelle leggi e nelle istituzioni. Si tratta però di un’illusione, anche se condivisa da molti: la nostra libertà, infatti, è radicata nella realtà del nostro essere e quando va contro di essa diventa distruttiva, anzitutto di noi stessi. Pensiamo, in concreto, a cosa può essere una famiglia in cui non vi siano più un padre, una madre e dei figli che abbiano un padre e una madre: le strutture di base della nostra esistenza sarebbero sconvolte, con gli effetti distruttivi che possiamo immaginare, ma non prevedere fino in fondo”.

Siamo davanti a un attivismo di carattere giuridico e sociale. Ormai il concetto di matrimonio tradizionale appare destinato a diventare qualcosa di obsoleto. C’è forse l’illusione che allargando l’istituto del matrimonio a ogni tipo di unione si risolva il problema, facendo sì che l’uguaglianza possa dirsi definitivamente raggiunta?

“Questa è appunto l’illusione: cancellare la natura con una nostra decisione personale o collettiva. Perciò sono vane le speranze di poter trovare un compromesso che accontenti tutti, ad esempio introducendo, accanto al matrimonio che rimarrebbe riservato a persone di sesso diverso, delle unioni civili riconosciute legalmente, alle quali potrebbero accedere anche gli omosessuali. Queste unioni da una parte non soddisferebbero quell’istanza di assoluta libertà e parità che è alla base della rivendicazione del matrimonio omosessuale, dall’altra parte sarebbero un duplicato del matrimonio, inutile e dannoso. Inutile perché tutti i diritti che si dice di voler tutelare possono benissimo essere tutelati – e in gran parte già lo sono – riconoscendoli come diritti delle persone, e non delle coppie. Dannoso perché un simil-matrimonio, con minori impegni e obblighi, metterebbe ancora più in crisi il matrimonio autentico, senza il quale una società non può reggersi".

Come valuta il fatto che una decisione divisiva come quella adottata dalla Corte suprema americana sia stata presa da un tribunale e non da un Parlamento?

“Lo valuto negativamente: la Corte suprema, come anche ad esempio la nostra Corte costituzionale, ha infatti una legittimità democratica molto mediata e derivata. A mio parere è assai meglio affidare decisioni di questa portata agli organismi che hanno una legittimazione democratica diretta, come i parlamenti”.

Non crede che alla radice di questo progressivo smantellamento di ciò che è sempre stato considerato “tradizionale” ci sia il fatto che l’eguaglianza stia diventando sempre più un dogma? Non c’è il rischio che la tradizione sia destinata ad andare incontro a una completa riformulazione?

“Distinguerei il concetto di uguaglianza: intesa come uguale dignità tra tutti gli esseri umani l’uguaglianza è un principio sacrosanto. Intesa invece come negazione di ogni differenza e quindi come la pretesa di trattare nello stesso modo situazioni differenti, l’uguaglianza è semplicemente qualcosa che va contro la realtà”.

Cosa può fare la chiesa davanti a tutto questo? A volte sembra arrancare, incapace di far sentire la sua voce. Negli ultimi decenni, poi, si è rapportata a questi mutamenti andando oltre lo storico dualismo tra progresso e tradizione. Viene da pensare, però, che superato questo schema duale si aprano problemi ben più gravi davanti ai quali le risposte possono essere percepite come ambigue o non chiare. Quali prospettive si hanno davanti?

“La chiesa non può non battersi per l’uomo, come ha scritto Giovanni Paolo II nella sua prima Enciclica – ‘sulla via che conduce da Cristo all’uomo la chiesa non può essere fermata da nessuno’ – e come ha ripetuto Benedetto XVI anche nel discorso alla curia romana per gli auguri del Natale 2012: i valori fondamentali costitutivi dell’esistenza umana la chiesa deve difenderli con la massima chiarezza. Non mi sembra poi che oggi la chiesa arranchi: per stare al caso della Francia, i vescovi e i cattolici, insieme a tanti altri cittadini, sono stati sconfitti, almeno per ora, sul piano legislativo, ma hanno mostrato una vitalità e una forza culturale e sociale più grande dei loro avversari. Solo apparentemente si tratta di dualismo tra progresso e tradizione: in realtà la vera sfida è tra due concezioni dell’uomo e io rimango convinto che il futuro appartenga a coloro che sanno riconoscere e accogliere l’essere umano nella sua autentica realtà. Le illusioni, invece, prima o poi si sgonfiano, spesso dopo avere provocato molti danni”.

C’è poi la questione del rapporto che hanno i cattolici con i grandi temi che intaccano la sfera dell’etica e della morale. In merito al caso specifico del matrimonio, non crede che negli ultimi anni il contributo attivo alla difesa di ciò che è sempre stato un simbolo millenario si sia attenuato e stemperato?

“I cattolici devono essere più consapevoli del significato culturale e sociale della loro fede. Quando questa consapevolezza si attenua la fede diventa insipida e incide poco non solo in ambito pubblico, ma anche nella capacità di attrarre le persone e di condurle a Cristo. Da questo punto di vista un certo modo di intendere la laicità della cultura e della politica rischia di privare la fede della sua rilevanza”.

La battaglia per l’eguaglianza si nutre di ragioni sentimentali. C’è un’idea di amore che va al di là delle differenze di genere, della distinzione tra uomo e donna. E’ l’amore che si fa istituzione e diritto perfettamente uguale. E’ una china irreversibile?

“L’amore è una parola bellissima, che però può avere molti significati. Gli stati non possono, evidentemente, comandare o proibire a una persona di amarne un’altra e in questo senso le leggi non possono occuparsi direttamente dell’amore. Possono e devono invece cercare di regolare nel modo più utile e più conforme alla realtà i comportamenti che nascono dall’amore ma hanno una pubblica rilevanza”.






«Leggi contro natura, dove sono i laici cattolici?»




Monsignor Giampaolo Crepaldi



Pubblichiamo l'intervista a monsignor Giampaolo Crepaldi, arcivescovo di Trieste, che esce oggi sul settimanale diocesano Vita Nuova, in cui offre un giudizio sulla realtà presente del laicato cattolico e il suo impegno nel sociale e nel politico.



 di Stefano Fontana

Eccellenza, nella sua omelia per la chiusura della processione del Corpus Domini di domenica 2 giugno, lei ha avuto parole dure circa l’approvazione di leggi che possono «compromettere i capisaldi del nostro vivere umano: la vita, la famiglia e la nostra libertà». Ora, proprio quello dovrebbe essere il campo dell’impegno dei fedeli laici. Il suo discorso era un richiamo anche a loro?
Non c’è dubbio che questa dovrebbe essere l’ora del laicato. Ma purtroppo il laicato cattolico non si fa sentire. Magari lamentando poi che i Vescovi parlano troppo.

Perché, secondo lei, questa è l’ora del laicato?
Certamente ogni ora è l’ora del laicato, perché non c’è un momento in cui il laico non tragga dal suo battesimo il compito di ordinare a Dio le cose temporali. Però questa è l’ora del laicato in modo particolare. La politica e le leggi stanno mettendo mano all’ordine della creazione, alla natura della famiglia e alle relazioni naturali di base, quella tra padre e madre e tra genitori e figli. Si tratta di qualcosa di inedito e sconvolgente che  richiede una presenza particolarmente convinta ed attiva.

Perché dice che il laicato cattolico non si fa sentire?
Sono molti i laici cattolici che nella famiglia, nel lavoro, nella società incarnano con fedeltà la propria fede cristiana. Ciò avviene però soprattutto nella quotidianità. Ciò che manca in modo evidente è una presenza unitaria e coordinata nella società civile e una testimonianza chiara e coerente a livello politico, legislativo e dentro le pubbliche istituzioni.

Eppure esistono vari organismi di rete tra cattolici e in passato sono stati in grado di portare in piazza con il Family Day moltissime persone. Non ci sono più?
Ci sono ancora, però bisogna prendere atto di alcuni mutamenti. Intanto alcune di queste reti si sono costituite ma non si sono consolidate, sono rimaste tali a livello formale di vertice e più di qualche convegno non potranno fare. In secondo luogo, mi sembra che alcune reti un tempo molto attive su questi temi – penso per esempio a Scienza e Vita oppure al Forum delle Associazioni familiari – abbiano un po’ allentato la presa, dirottando l’attenzione verso altre tematiche a mio avviso meno importanti. Infine, vorrei notare che anche dentro le singole associazioni e i singoli movimenti la presa di posizione sui temi che ho sopra richiamato è scarsa sia in sede nazionale che in sede locale.

Può spiegare meglio cosa intende quando parla di “testimonianza coerente a livello politico, legislativo e dentro le pubbliche istituzioni”?.
Nelle amministrazioni pubbliche ci sono cattolici dichiaratamente tali. Ma quando si tratta di affrontare questi temi, essi utilizzano le categorie mentali di tutti gli altri e si fanno scudo della laicità della politica per non prendere una posizione che certamente costerebbe loro sul piano politico, ma che io vedrei come coerente sul piano umano con la fede professata.

Una delle storiche associazioni di fedeli laici è l’Azione cattolica. Cosa mi può dire a riguardo?
Prendo spunto da un recente libro di Luigi Alici dal titolo “I cattolici e il paese. Provocazioni per la politica” edito da La Scuola.

Ma Luigi Alici non è più presidente dell’Azione cattolica…
Però lo è stato a lungo e può dirsi un intellettuale fortemente impegnato nell’associazionismo del laicato cattolico. Recentemente egli ha girato tutta l’Italia – è stato anche in Friuli Venezia Giulia ed anche a Trieste. Certo il suo libro non rappresenta l’Azione cattolica, però può essere indicativo di un modo di pensare, diffuso anche dentro l’associazione.

Cosa l’ha maggiormente colpita nel libro?
Il suo appartenere alla categoria dei libri “Sì, ma …”: affermare i principi nello stesso momento in cui si aprono fessure per non rispettarli. Ho cercato in questo libro le affermazioni di fedeltà al magistero e di adesione ai principi della tutela della vita o della famiglia: li ho trovati. Però l’esposizione è sempre volutamente ambigua, dice, ma nega ed è piena di “tuttavia”.

Può fare un esempio?
Alici ha parole molto belle sulla famiglia, ma poi si dice a favore del riconoscimento delle convivenze tra omosessuali. Si rifà al cardinale Martini, ma non ai Vescovi italiani che, in una Nota del 2007, hanno chiarito la questione. I diritti per le persone omosessuali vanno affrontati sul piano del diritto privato. Il riconoscimento della convivenza in quanto tale non è accettabile né per le cosiddette coppie di fatto eterosessuali né per quelle omosessuali. Manca il requisito della valenza pubblica.

Quali sono gli argomenti di Luigi Alici a proposito?
Quello della gradualità dei diritti. Secondo lui una coppia di omosessuali non ha diritto ad essere considerata famiglia in quanto non lo è, ma ha diritto ad essere considerata qualcosa di più di due studenti che condividono lo stesso appartamento. Una simile argomentazione non è accettabile: ciò che è sbagliato non può essere fonte di diritti pubblicamente riconosciuti, e non può esserci per esso nessuna gradualità.

Cosa significa questo?
Credo che questo libro esprima bene una certa cultura dentro il mondo cattolico. I laici che vi si ispirano sposteranno sempre più in avanti l’asticella del “non possumus”, adeguandosi al mondo.

Nel libro di Alici c'è il continuo rifarsi al “paradosso” cristiano che farebbe del fedele laico una persona continuamente combattuta al proprio interno e a cui solo la risposta della propria coscienza potrà indicare la via.
Il paradosso cristiano non va interpretato come un'insanabile contraddizione interna del cristiano, perché la fede e la ragione, come ci insegna la dottrina, vanno insieme e solo il peccato introduce la divisione. Quello di Alici è un modo per far sì che l’agire dei cattolici nella società e nella politica sia lasciato unicamente alla loro autonoma coscienza.

Alici sostiene che c’è un ambito di partecipazione politica non direttamente partitica in cui dovrebbe valere la collaborazione dei cattolici con tutti gli altri e un ambito strettamente partitico in cui vale la competizione. E’ d’accordo?
Non solo tra i partiti, ma anche nella società ci sono oggi antropologie in conflitto. Anzi, oggi si assiste alla competizione tra chi dice che non c’è una antropologia, una vera visione dell’uomo, e chi invece dice che c’è. In questi campi – penso alla cultura, all’animazione sociale, alla formazione dei giovani, alla comunicazione - non può esserci solo collaborazione. Smettiamola una buona volta di continuare a illuderci e a illudere su questo punto. Dialogo e rispetto non devono mancare mai, ma la collaborazione la si fa sulla verità.

Da cosa dipende tutto ciò?
Credo dipenda dall’aver cambiato lo scopo della presenza dei laici cristiani nel mondo. I laici hanno come scopo di ordinare a Dio l’ordine temporale – come dice il Concilio – o, in altre parole, di costruire la società secondo il progetto di Dio. Invece, lo scopo dei fedeli laici è stato ridotto a conseguire il bene comune, a costruire la democrazia, a realizzare la Costituzione, a far funzionare le istituzioni.

Perché l’obiettivo del bene comune non va bene?
Va bene, a patto però che in esso si faccia rientrare anche il rispetto dell’ordine del creato e il benessere spirituale e religioso delle persone. Non c’è vero bene comune quando Dio viene messo tra parentesi e quando a Dio non è riconosciuto un posto nel mondo.

L’Azione cattolica ha avuto una lunga storia. Qual è stato il suo momento critico secondo lei?
Lascio questo compito agli storici. Posso solo tentare qualche ipotesi. La cosiddetta “scelta religiosa” fu interpretata dagli uomini di Azione cattolica in modo ambiguo. Doveva comportare il concentrarsi sul proprium dell’Azione cattolica, quello che Benedetto XVI ha poi chiamato “il posto di Dio nel mondo”. E’ stata invece vissuta come un apparente disimpegno rispetto ad una presenza visibile e organizzata condannata troppo frettolosamente come preconciliare. Dico “apparente” perché – strano a dirsi! – da allora moltissimi dirigenti dell’Azione cattolica si impegnarono direttamente in politica, prevalentemente nei partiti di sinistra. Ultimo esempio è stato Ernesto Preziosi alle recenti elezioni politiche.

Allora a lei l’Azione Cattolica non va bene?
Io credo nell’Azione Cattolica, continuo ad esserne un sostenitore convinto e, a parte qualcuno e qualcuna, sono assai grato a quella diocesana per quello che fa e nutro grandi aspettative verso di essa. Credo però che l’Azione cattolica - sto parlando in termini generali - oggi abbia bisogno di riconsiderare la propria linea e il proprio ruolo. Ciò sarebbe di grande vantaggio non solo per la missione pastorale delle nostre Diocesi, ma anche per le altre forme di associazionismo dei fedeli laici.

In che modo?
Si tratta di essere fedeli, in maniera integrale e con generosità spirituale, all’insegnamento del Concilio Vaticano II: essere laici nel mondo per ordinarlo a Dio, mettendo in primo piano l'esigenza e l'urgenza dell'ordinarlo a Dio. Per l'Azione cattolica significa: recuperare la sostanza del proprio passato, anche di quello che oggi si ricorda con un certo inspiegabile disprezzo; recuperare la dottrina sociale della Chiesa in tutti i suoi sostanziali collegamenti con la dottrina cristiana; intendere la laicità nel modo che ci ha insegnato Benedetto XVI, cioè pensare che al mondo non bisogna solo adeguarsi se si vuole veramente servirlo; superare una visione inadeguata del Concilio, recuperandone tutto l’insegnamento dentro la tradizione della Chiesa e non le solite due o tre frasi adoperate in modo retorico; non minimizzare gli attacchi che oggi vengono portati alla natura umana e alla fede cristiana, accusando quanti cercano di reagire di voler ristabilire uno schema mentale integralista proprio del passato. La Chiesa ha un bisogno immenso di un'Azione cattolica così, che riprenda a formare laici capaci di costruire la società secondo il cuore e il progetto di Dio. Per questo continuo a pregare e a sperare...





La nuova Bussola Quotidiana 28-06-2013