martedì 30 aprile 2019

San Pio V. Ha salvato l'Italia dalle eresie di Lutero e l'Europa dall'Islam...






UNO DEI PIÙ' GRANDI PAPI E RIFORMATORI DELLA CHIESA CATTOLICA

Michele Ghislieri nacque nel 1504, nella diocesi di Tortona. Entrato a 14 anni nell'Ordine dei Predicatori, fu mandato all'Università di Bologna per studiarvi la Teologia, che dopo insegnò per sedici anni. Poi fu nominato Inquisitore e Commissario generale del Santo Uffizio, nel 1551: mansione che gli valse molte persecuzioni, ma gli permise anche di ricondurre numerosi eretici alla verità cattolica. Le sue virtù lo designarono pure presso Paolo IV, che lo scelse per la sede episcopale di Nepi e di Sutri, poi per il Cardinalato. Tali onori non modificarono in nulla l'austerità della sua vita, ed il 7 gennaio 1566 divenne Papa, prendendo il nome di Pio V. Egli doveva illustrare la cattedra di san Pietro per il suo zelo nella propagazione della fede, il ristabilimento della disciplina ecclesiastica e la bellezza del culto divino, come per la sua devozione alla Madonna e la carità verso i poveri. Contro i Turchi allestì la flotta, che riportò la vittoria di Lepanto; stava preparando una nuova spedizione, quando morì nel 1572. Il suo corpo fu sepolto a S. Maria Maggiore.

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Lotta contro l'eresia


Tutta la vita di Pio V è stata una lotta. Nei tempi agitati in cui ebbe a reggere la Chiesa, l'errore aveva invaso una grande porzione della cristianità e ne minacciava il resto. Astuto e accomodante nei luoghi ove non poteva sviluppare la sua audacia, esso agognava all'Italia; la sua ambizione sacrilega era di rovesciare la cattedra apostolica, e di trascinare senza scampo tutto il mondo cristiano nelle tenebre dell'eresia. Pio difese tutta la penisola minacciata con una dedizione inviolabile. Anche prima di essere innalzato agli onori del supremo Pontificato, espose spesso la sua vita per strappare le città alla seduzione. Imitatore fedele di Pietro Martire, non lo si vide mai indietreggiare di fronte al pericolo; e gli emissari dell'eresia ovunque fuggirono al suo avvicinarsi.
Elevato alla cattedra di san Pietro, seppe infondere nei novatori un terrore salutare, risollevò il coraggio dei sovrani dell'Italia e, con moderato rigore, riuscì a rigettare al di là delle Alpi il flagello che avrebbe trascinato l'Europa alla distruzione del cristianesimo, se gli Stati del Mezzogiorno non vi avessero opposto una barriera invincibile. L'eresia si arrestò. Da allora il protestantesimo, ridotto a logorar se stesso, dette spettacolo di quella anarchia di dottrine che avrebbe portato alla desolazione il mondo intero, senza la vigilanza del Pastore che, sostenendo con indomabile zelo i difensori della verità in tutti gli stati ove essa regnava ancora, si oppose, come una parete di bronzo, al dilagarsi dell'errore nelle contrade ove comandava da padrone.

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... contro l'Islam


Un altro nemico, approfittando delle divisioni religiose dell'Occidente, minaccia l'Europa in quei medesimi giorni; e l'Italia era destinata ad essere la prima preda. Uscita dal Bosforo, la flotta ottomana, si dirige contro la cristianità; sarebbe la fine, se l'energico Pontefice non vegliasse sulla salvezza di tutti. Getta l'allarme, chiama alle armi i prìncipi cristiani. L'Impero e la Francia, lacerate dalle fazioni che l'eresia vi ha generato, odono l'appello, ma restano immobili; la Spagna sola, con Venezia e la piccola flotta papale, rispondono alle istanze del Pontefice, e, ben presto la Croce e la mezzaluna si trovano di fronte nel golfo di Lepanto. La preghiera di Pio decide la vittoria in favore dei cristiani, le cui forze sono di molto inferiori a quelle dei Turchi. Noi ritroviamo questa felice memoria in ottobre, per la festa della Madonna del Rosario. Ma oggi bisogna ricordare la rivelazione fatta dal Santo Pontefice, la sera della grande giornata del 7 ottobre 1571. Dalle sei del mattino, fino all'approssimarsi della notte, la battaglia si svolse tra la flotta cristiana e quella musulmana. Improvvisamente, il Pontefice, spinto da un divino impulso, guarda fisso il cielo, resta in silenzio qualche istante, poi, volgendosi verso le persone presenti, dice loro: "Ringraziamo Iddio: la vittoria è dei cristiani". Ben presto la notizia giunse a Roma, ed in tutta la cristianità non si tardò a conoscere che ancora una volta il Papa aveva salvato l'Europa. La disfatta di Lepanto portò alla potenza ottomana un terribile colpo, dal quale non si risollevò mai più: l'era della sua decadenza data da quel giorno famoso.

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Il riformatore


L'opera di san Pio V per la rigenerazione del costume cristiano, per fissare la disciplina del concilio di Trento, per la pubblicazione del Breviario e del Messale sottoposti a riforma, ha fatto del suo pontificato, durato sei anni, una delle epoche maggiormente feconde della storia della Chiesa. Più d'una volta i protestanti si sono inchinati con ammirazione di fronte a questo avversario della loro pretesa riforma. "Mi meraviglio, diceva Bacone, che la Chiesa Romana non abbia ancora canonizzato quest'uomo illustre". Ed effettivamente Pio V non fu annoverato nel numero dei Santi che circa centotrent'anni dopo la sua morte, ciò che dimostra quanto sia grande l'imparzialità della Chiesa Romana nel rendere gli onori dell'apoteosi anche quando si tratta dei suoi capi maggiormente venerati.

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I miracoli


La gloria dei miracoli incoronò fin da questo mondo il santo Pontefice; ricorderemo qui due dei suoi prodigi più popolari. Un giorno, traversando insieme all'ambasciatore di Polonia la piazza del Vaticano, che si estende su quell'area dove una volta fu il circo di Nerone, si sente preso di entusiasmo per la gloria ed il coraggio dei martiri che ebbero a soffrire in quello stesso luogo, durante la prima persecuzione. Egli allora si china e raccoglie un pugno di polvere da quel campo di tormenti, calpestato da tante generazioni di fedeli, dopo la pace di Costantino. Versa quella polvere in una bianca tela che gli presenta l'ambasciatore; ma quando questo, rientrato a casa sua, fa per aprirlo, lo trova impregnato di un sangue vermiglio, che si sarebbe detto essere stato versato in quello stesso istante: la polvere era sparita. La fede del Pontefice aveva evocato il sangue dei martiri, e questo riappariva al suo richiamo per attestare, di fronte all'eresia, che la Chiesa Romana, nel XVI secolo, era sempre la stessa, per la quale quegli eroi, al tempo di Nerone, avevano dato la loro vita.

La perfidia degli eretici tentò più di una volta di metter fine ad una vita che lasciava senza speranza di successo i loro progetti per la conquista dell'Italia. Con uno stratagemma, tanto vile quanto sacrilego, assecondati da un odioso tradimento, essi impregnarono di un sottile veleno i piedi del Crocifisso che il santo Pontefice aveva nel suo oratorio, e sul quale spesso poggiava le sue labbra. Pio V, nel fervore della preghiera, si apprestava a dare questo segno di amore, per mezzo della sua sacra immagine, al Salvatore degli uomini; ma d'un tratto, o prodigio! i piedi del Crocifisso si staccarono dalla croce e sembravano sfuggire ai rispettosi baci del vegliardo. Pio V comprese, allora, che la malvagità dei nemici aveva voluto trasformare per lui in strumento di morte anche quel legno che ci aveva reso la vita.

Un ultimo avvenimento incoraggiò i fedeli, secondo l'esempio del grande Pontefice, a coltivare la santa Liturgia durante il tempo dell'anno in cui siamo. Sul letto di morte, gettando un estremo sguardo verso la Chiesa della terra, che abbandonava per quella del cielo, e volendo implorare ancora, per l'ultima volta, la bontà divina in favore di quel gregge che lasciava esposto a tanti pericoli, recitò con voce quasi spenta, questa strofa degli inni del tempo pasquale: "Creatore degli uomini, degnatevi in questi giorni colmi delle gioie della Pasqua, preservare il vostro popolo dagli assalti della morte". Terminate queste parole, si addormentò placidamente.

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Lode


Pontefice del Dio vivo, tu sei stato sulla terra "il muro di bronzo, la colonna di ferro" (Ger 1,18) di cui parla il Profeta; e la tua indomabile costanza ha preservato dalla violenza e dalle insidie dei suoi numerosi nemici il gregge che ti era stato affidato. Ben lungi dal disperare, alla vista dei pericoli il tuo coraggio s'innalzava come una diga che si costruisce sempre più alta a misura che le acque dell'inondazione arrivano più minacciose. Per mezzo tuo gl'invadenti flutti dell'eresia si sono arrestati, l'invasione musulmana è stata respinta, e abbassato l'orgoglio della Mezzaluna. Il Signore ti fece l'onore di sceglierti per rivendicare la sua gloria ed essere il liberatore del popolo cristiano; ricevi, insieme al nostro atto di riconoscenza, l'omaggio delle nostre umili felicitazioni. Pure per tuo mezzo la Chiesa, che usciva da una terribile crisi, ritrovò la sua bellezza. La vera riforma, quella che si compie attraverso l'autorità, fu applicata senza debolezze dalle tue mani, altrettanto ferme che pure. Il culto divino, rinnovato dalla pubblicazione di libri Liturgici, ti deve il suo progresso, e la sua restaurazione; e nei sei anni del tuo breve ma laborioso pontificato, molte opere assai feconde furono compiute.

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Preghiera


Adesso, Pontefice santo, ascolta i voti della Chiesa militante, i cui destini furono, per qualche tempo, affidati alle tue mani. Anche morendo, implorasti per lei, in nome del Salvatore risuscitato, la protezione contro i pericoli, ai quali era ancora esposta. Vedi come ai nostri giorni in quale stato ha ridotto quasi l'intera cristianità il dilagare dell'errore. Per far fronte a tutti i nemici che l'assediano, la Chiesa non ha più che le promesse del suo divin fondatore; gli appoggi visibili le mancano tutti assieme; non le restano più che i meriti della sofferenza e le risorse della preghiera. Unisci le tue suppliche alle sue, dimostrandoci, così, che sèguiti sempre ad amare il gregge del Maestro. Proteggi a Roma la cattedra del tuo successore, esposta agli attacchi più violenti ed astuti. Prìncipi e popoli cospirano contro il Signore e contro il suo Cristo. Allontana i flagelli che minacciano l'Europa, così ingrata verso la Madre sua, così indifferente agli attentati commessi contro colei a cui tutto deve. Illumina i ciechi, confondi i perversi; ottieni che la fede illumini finalmente tante intelligenze smarrite, che scambiano l'errore per la verità, le tenebre per la luce.

In mezzo a questa notte così buia e così minacciosa, i nostri sguardi, o santo Pontefice, discernono le pecorelle fedeli: benedicile, sostienile e ne accresci il loro numero. Uniscile al tronco dell'albero che non può perire, affinché esse non siano disperse dalla tempesta. Rendile sempre più fedeli verso la fede e le tradizioni della santa Chiesa che è la loro unica forza, in mezzo a questo dilagare dell'errore che minaccia di tutto asportare. Conserva alla Chiesa il sacro Ordine nel quale tu fosti elevato a così alti destini; moltiplica nel suo seno quelle generazioni di uomini potenti in opere e parole, pieni di zelo per la fede e per la santificazione delle anime, quali noi ammiriamo nei suoi Annali, quali noi veneriamo sugli altari. Finalmente ricordati, o Pio, che sei stato il Padre del popolo cristiano, e seguita ad esercitare ancora questa prerogativa sulla terra, per mezzo della tua potente intercessione, fino a che sia completo il numero degli eletti.


da: dom Prosper Guéranger, L'anno liturgico. - II. Tempo Pasquale e dopo la Pentecoste, trad. it. L. Roberti, P. Graziani e P. Suffia, Alba, 1959, p. 612-616














lunedì 29 aprile 2019

Gay in convento a "studiare" la fedeltà. Quale aiuto senza verità?






di Costanza Miriano, 29/04/2019

Quindi alla fine la diocesi di Torino è andata avanti, e dopo avere rimandato ha infine tenuto davvero il corso per “insegnare la fedeltà alle persone dello stesso sesso”.
Il Catechismo della Chiesa Cattolica però continua ad annunciare che gli atti omosessuali sono intrinsecamente disordinati, quindi non vedo come una diocesi della Chiesa Cattolica possa permettere che si insegni la fedeltà a un disordine. Come si può insegnare a rimanere in qualcosa che ferisce l’uomo nella sua più profonda identità, come si può aiutare qualcuno a rimanere nel peccato, che vuol dire “sbagliare mira”? E’ come se una mamma che vede suo figlio che si fa del male lo aiutasse a rimanerci sempre più dentro.

E’ legittimo (e anche molto comune) pensarla diversamente, ma non è legittimo insegnare diversamente a nome della Chiesa Cattolica, perché la Chiesa ha duemila anni di storia, si fonda sul sangue dei martiri, consegna un sapere che non è di nessuno se non di Cristo, e nessuno lo può modificare a suo piacimento.
Si può sempre fondare un’altra chiesa, ma non si può fare quello che si vuole della nostra.

Ovviamente l’obiezione più comune, che alcuni fanno persino in buona fede (non chi dovrebbe conoscere la nostra fede, come per esempio padre Martin e molti altri), è che la Chiesa come madre deve amare tutti i suoi figli, inclusi quelli che hanno attrazione verso lo stesso sesso. Ma la Chiesa, proprio perché ama, vuole che ogni uomo realizzi il disegno di Dio, perché sa che solo così potrà essere pienamente felice. Ecco cosa tuttora insegna la Chiesa, nonostante i tentativi di cambiare la dottrina attraverso la pastorale:

“Il cap. 3 della Genesi mostra come questa verità sulla persona umana quale immagine di Dio sia stata oscurata dal peccato originale. Ne segue inevitabilmente una perdita della consapevolezza del carattere di alleanza, proprio dell’unione che le persone umane avevano con Dio e fra di loro. Benché il corpo umano conservi ancora il suo « significato sponsale », ora questo è oscurato dal peccato. Così il deterioramento dovuto al peccato continua a svilupparsi nella storia degli uomini di Sodoma (cf. Gen 19, 1-11). Non vi può essere dubbio sul giudizio morale ivi espresso contro le relazioni omosessuali. In Levitico 18, 22 e 20, 13, quando vengono indicate le condizioni necessarie per appartenere al popolo eletto, l’Autore esclude dal popolo di Dio coloro che hanno un comportamento omosessuale.

Sullo sfondo di questa legislazione teocratica, San Paolo sviluppa una prospettiva escatologica, all’interno della quale egli ripropone la stessa dottrina, elencando tra coloro che non entreranno nel regno di Dio anche chi agisce da omosessuale (cf. 1 Cor 6, 9)”

Dunque un sacerdote della Chiesa cattolica non può fare, in un convento, a nome dell’autorità di cui è rappresentante, un corso per insegnare a essere fedeli a qualcosa che non permette di entrare nel regno dei cieli secondo la stessa Chiesa che gli dà l’autorità di parlare.

Se invece diciamo che ci può essere una gradualità nell’avvicinarsi al compimento del disegno di Dio su di noi, questo è sicuramente vero, e lo è per tutti noi che combattiamo contro peccati sicuramente gravi, alcuni più, alcuni meno di quelli, ma non importa. Il punto è la chiarezza della Verità, è proporre una meta chiara. Se l’obiettivo è la castità per le persone che provano attrazione verso lo stesso sesso – su questo la Chiesa non deve contraddire se stessa – posso comprendere che nel cammino verso il bene avere una relazione stabile sia un piccolo pezzetto più avanti che averne diverse contemporaneamente, cioè una vita sessuale promiscua. Se dunque la fedeltà viene intesa come momento di passaggio verso la castità, non so, forse può avere un senso. Ma si tratta di percorsi individuali da proporre in confessionale, con discernimento e la massima attenzione, caso per caso, e soprattutto mai e poi mai proponendo un rapporto omosessuale, neppure fedele, come un bene.

Quello che è drammatico è invece il fatto che sia proprio la Diocesi stessa a proporre un cammino, in modo ufficiale. Nella migliore e più benevola delle ipotesi si tratta di un grave errore pastorale che produce confusione. Nella peggiore invece si tratta di un tentativo di cambiare la dottrina, svuotandola dal di dentro, proponendo quella omosessuale come una delle varianti della sessualità umana, cosa che Sua Eccellenza Monsignor Cesare Nosiglia dovrebbe sconfessare pubblicamente.












domenica 28 aprile 2019

A UN ANNO DALLA MORTE L'omicidio di Alfie, una domanda sulla nostra vita




«Con un bimbo in fasce tra le mie braccia, riconosco che ogni bambino è come Alfie, totalmente dipendente dalla sua mamma». «La sua fragilità, come quella di Alfie, mi grida in continuazione che la vita è un soffio e che pure io, come lui, ho bisogno di tutto. Di cibo, di acqua, di amore, di salvezza. Ma soprattutto di un Dio che ha sconfitto la sua e la mia morte». «L'omicidio di Alfie non è una sconfitta perché molti si sono risvegliati e hanno compreso l’importanza della lotta per rendere testimonianza alla Verità».





Benedetta Frigerio, 28-04-2019

Esattamente un anno fa, all'Alder Hey Hospital di Liverpool, veniva messo a morte Alfie Evans, un bambino di neanche due anni affetto da una grave malattia genetica a cui medici e giudici hanno voluto togliere la ventilazione artificiale per farlo morire «nel suo miglior interesse». Per mesi, La Nuova Bussola Quotidiana ha seguito il caso passo dopo passo, la lotta titanica dei genitori di Alfie, Thomas e Kate, contro il potere per affermare il diritto di Dio sulla vita di ogni singola persona. Oggi, nel primo anniversario della morte, vogliamo proporvi la riflessione della nostra giornalista che maggiormente ha seguito la vicenda di Alfie, unica inviata di una testata italiana a Liverpool nei giorni caldi in cui si è deciso il destino di Alfie.

Caro direttore,

è passato un solo anno, eppure per l’intensità della vicenda mi paiono secoli. Inoltre, fra la prima volta che andai in Vaticano per Alfie (poi a Liverpool, per volare a Roma dal papa) e l’ultima volta che tornai per il funerale del piccolo passò solo un mese e mezzo, ma mi parve una eternità, dove non c’erano più né giorno né notte, né tempo per mangiare, bere o dormire.

Ricordare quei momenti, come tu sai, costretta a ripensare a quello che non vorrei, non è mai indolore. Perché vorrei non aver visto il male così da vicino. Vorrei che Alfie fosse qui, vorrei aver trovato appoggio in tutta la Chiesa invece che menzogna, interessi o gelosie fatti passare davanti alla lotta comune per la vita di un innocente. Un innocente che, dal suo lettino, roseo in volto e pieno di vita - anche se di una vita diversa da quella che piace ad un mondo che odia la fragilità - ci chiedeva di amarlo così com’era, gridandoci che l’esistenza umana se amata (ossia sempre, perché se c’è Qualcuno che ci fa essere significa che quel Qualcuno ci ama) vale anche nelle condizioni fisiche o mentali più invalidanti.

Alfie, in braccio alla sua mamma e difeso da un padre colmo d’amore tenace per lui, ci strillava che il senso della vita non è fare qualcosa ma lasciarsi amare, come sosteneva Chiara Corbella accogliendo, anziché abortirli, due figli che sarebbero morti subito dopo la nascita.

Sì, Alfie ci diceva, ci ricordava, ci rendeva inevitabile guardare a quello che il mondo non tollera e rifugge. Quello che l’uomo moderno, che non conosce l'amore o non lo accetta, e pertanto furioso contro la propria natura e incapace a sua volta di amare, vuole eliminare con ferocia: la dipendenza e a maggior ragione la malattia. Non è autonomo in nulla - sostenevano medici e giudici - quindi va eliminato. Eppure, quale bimbo di pochi mesi lo è? Quale è diverso da Alfie?

Me lo chiedo a un anno dalla sua morte mentre mi ritrovo qui a scrivere con un neonato in fasce di appena due mesi che, sono certa, esiste anche per intercessione del piccolo Alfie. Ricordo infatti quando, salendo sull’aereo per arrivare a Liverpool, dopo giorni di lavoro e notti insonni per riuscire a chiedere asilo al papa e far parlare il padre del bambino con il nunzio apostolico, dissi al Signore: «Ti chiedo solo una cosa, io continuerò a fare tutto quello che posso senza risparmiarmi, ma tu fammelo abbracciare». Successivamente volai da Liverpool a Roma in Vaticano senza che questo fosse avvenuto, dato che di fronte alla stanza del piccolo c’erano due poliziotti che bloccavano l’ingresso; perciò, certa che il Signore risponde sempre, ero convinta che avremmo vinto la battaglia portandolo fuori da quella prigione che è il Sistema sanitario nazionale inglese.

Invece, come sappiamo, fra una giustizia macabra, una cultura sanitaria feroce nel difendere l’omicidio del bambino (la cui vita fu definita in udienza “futile”), e l’appoggio della Chiesa inglese, che l’ha fatta pagare cara a chi ha cercato di recare conforto alla famiglia fino ad andare dal Papa per raccontargli una versione faziosa dei fatti, Alfie alla fine è stato ucciso: sebbene avesse respirato senza ausilio della ventilazione per ben quattro giorni, fu mal nutrito, non sufficientemente ossigenato e non curato invece che sostenuto. Capii solo poi, dopo tante umiliazioni e attacchi per le verità scritte, che la preghiera che avevo rivolto a Dio in aereo non era finita nel nulla: i giorni in cui ero salita per la prima volta a Liverpool erano gli stessi in cui avrei dovuto partorire il mio primogenito figlio, volato in cielo a qualche settimana dal concepimento, ma appena dopo l’ultima volta che andai e tornai dalla cittadina inglese per il funerale rimasi nuovamente incinta.

Stavo ancora soffrendo molto per la morte di Alfie e per il male vissuto, soprattutto per il fuoco “amico” timoroso della verità, ma alla scoperta della nuova gravidanza sentii nel mio cuore un “grazie”. Bastò a darmi pace dopo tante calunnie e mi dimostrò che il piccolo era vivo e continuava a lottare per la vita.

Ma torniamo alla domanda su quale bimbo sia diverso da Alfie. Se guardo il mio ci rivedo in qualche modo il volto del martire inglese. Anche lui ha bisogno di me per ogni cosa, non può mangiare, lavarsi, cambiarsi, persino addormentarsi senza di me. Anche lui non parla, anche lui ha un livello di coscienza non definibile. Anche lui dipende in tutto. Anche lui richiede quasi ogni secondo della mia vita, richiede attenzione di giorno e perfino di notte (è vero che le mamme vegliano sempre). Non so quanto vivrà, non so per quanto sarà sano. Ma una cosa la so: anche lui prima o poi morirà (ogni mamma lo sente, anche se tende ad allontanare il pensiero della contraddizione intrinseca alla letizia del generare vita), dovrei quindi ammazzarlo?

È chiaro, le probabilità che il mio bambino viva un’esistenza estremamente invalidante o che muoia presto sono minori rispetto a quelle di Alfie, ma il problema si pone comunque: perché, infatti, sostenere in ogni caso la vita se tanto ci si ammala e si muore? Rispondo che si può solo amando l’istante presente, che mi ricorda che se il mio piccolo c’è è perché è voluto e ha un compito nel mondo. Finché mio figlio esiste vale quindi la pena amarlo, perciò anche nutrirlo, lavarlo, accarezzarlo, parlargli, in una parola sacrificarmi, servendo la sua vita e scoprendo ogni giorno il significato e la necessità della sua presenza, che non posso definire io e fra cui ci metto la mia conversione.

Anche la sua fragilità, infatti, come quella di Alfie, mi grida in continuazione che la vita è un soffio e che pure io, come lui, ho bisogno di tutto. Di cibo, di acqua, di amore, di salvezza. Ma soprattutto di un Dio che ha sconfitto la sua e la mia morte. Un Dio che sconfessa in un istante la nostra pretesa d’autonomia. Forse è proprio per questo che il nostro mondo, caduto nel tranello dell’autodeterminazione, odia tanto i bambini, specialmente i più indifesi e fragili. Perché ci buttano in faccia il nostro limite e quindi il bisogno che abbiamo di nascere e non morire più, di essere salvati.

Eppure, è misteriosamente per lo stesso motivo che l’omicidio di Alfie non è una sconfitta: il piccolo inglese ha svolto il suo compito di martire svelando, prima inchiodato ad un letto e poi morendo ucciso per “accanimento anti-terapeutico”, il vero volto di un sistema giudiziario e sanitario di stampo nazista, risvegliando i dormienti che hanno compreso l’importanza della lotta per rendere testimonianza alla Verità, svelando i pensieri di molti cuori e così cambiando migliaia di vite. Fra cui, in molti modi, c’è appunto la mia. Se dimentichiamo questo limitandoci a versare qualche lacrima e a postare qualche foto su Facebook, non solo non facciamo onore ad Alfie ma saremo complici dell’omicidio di altri innocenti e disabili (il prossimo potrebbe essere nostro figlio) che, come abbiamo raccontato sulla NuovaBQ, sono sempre di più anche grazie alle nuove leggi (vedi le Dat) introdotte di recente in Italia sulla scia di quelle inglesi.










La Misericordia? Dio chiama l’uomo ad abbandonarsi a Lui




Oggi si assiste a un travisamento del concetto di Misericordia, che non è un condono bensì richiede una vera conversione, nutrendosi dei sacramenti. Gesù chiese a santa Faustina di pregare per la conversione dei peccatori e confidare nelle infinite possibilità di perdono del Cuore di Dio, contro ogni scoraggiamento che viene dal demonio. Fiducia, affidamento, abbandono sono gli atteggiamenti che maggiormente glorificano Dio perché gli lasciano esprimere pienamente la Sua potenza in noi.



Giorgio Maria Farè, 28/04/2019

SPECIFICITÀ DEL CULTO DELLA DIVINA MISERICORDIA
Il culto della Divina Misericordia mira a stabilire nei cuori degli uomini la ferma fiducia nelle infinite possibilità di perdono del Cuore di Dio, contro ogni scoraggiamento, indifferenza, diffidenza. Allo stesso tempo, questa fiducia filiale deve alimentare l’amore verso i fratelli, che si esprime con la sollecitudine materiale e spirituale. L’amore per Dio e quello per i fratelli sono infatti inscindibili e correlati.[1]

Le nuove forme di culto che Gesù chiese tramite Santa Faustina esprimono precisamente questo duplice scopo: glorificare la Misericordia di Dio alimentando nei cuori l’amore filiale per il Padre celeste e promuovere la preghiera di intercessione per la conversione dei peccatori e la salvezza delle anime, specialmente dei moribondi. A queste pratiche, Gesù annette promesse di straordinaria portata: la salvezza delle anime dei peccatori, l’assistenza in punto di morte, la grazia della conversione, ecc. È tuttavia importante ribadire che, come sempre in questi casi, non si tratta di “formule magiche”: resta essenziale un sincero impegno di conversione da parte del fedele.

L'ABBANDONO IN DIO
Il culto della Divina Misericordia non costituisce una novità rispetto alla Rivelazione. Come ha recentemente scritto Benedetto XVI: “Se volessimo veramente sintetizzare al massimo il contenuto della fede fondata nella Bibbia, potremmo dire: il Signore ha iniziato con noi una storia d’amore e vuole riassumere in essa l’intera creazione. L’antidoto al male che minaccia noi e il mondo intero ultimamente non può che consistere nel fatto che ci abbandoniamo a questo amore. Questo è il vero antidoto al male. La forza del male nasce dal nostro rifiuto dell’amore a Dio. È redento chi si affida all’amore di Dio. Il nostro non essere redenti poggia sull’incapacità di amare Dio. Imparare ad amare Dio è dunque la strada per la redenzione degli uomini”.[2]

La Scrittura descrive l’amore di Dio per gli uomini come quello di uno sposo tenero e appassionato, di un padre saggio e buono il quale, anche quando castiga, lo fa solo per promuovere la maturazione del figlio e non certo per spietatezza o cattiveria.

Nell’omelia per la canonizzazione di Santa Faustina, istituendo la festa della Divina Misericordia, che da allora viene celebrata ogni anno nella domenica dopo Pasqua, San Giovanni Paolo II ha detto: “Ogni persona è preziosa agli occhi di Dio, per ciascuno Cristo ha dato la sua vita, a tutti il Padre fa dono del suo Spirito e offre l’accesso alla sua intimità. […] Questo messaggio consolante si rivolge soprattutto a chi, afflitto da una prova particolarmente dura o schiacciato dal peso dei peccati commessi, ha smarrito ogni fiducia nella vita ed è tentato di cedere alla disperazione”.[3]

Solo la lettura integrale del Diario di Santa Faustina può trasmettere la grande ricchezza del messaggio della Divina Misericordia. Una pagina particolarmente accorata ci trasmette il fulcro delle richieste di Gesù, che riecheggiano quelle già fatte a Santa Margherita Maria Alacoque per istituire il culto del Sacro Cuore: “Il Mio Cuore è pieno di infinita Misericordia per le anime e soprattutto per i poveri peccatori. Oh! se riuscissero a capire che Io sono per loro il migliore dei Padri; che per loro è scaturito dal Mio Cuore Sangue e Acqua, come da una sorgente colma di Misericordia; che per loro dimoro nel tabernacolo e come Re di Misericordia desidero colmare le anime di grazie, ma non vogliono accettarle. Vieni almeno tu il più spesso possibile a prendere le grazie che essi non vogliono accettare e con ciò consolerai il Mio Cuore. Oh! quanto è grande l'indifferenza delle anime per tanta bontà, per tante prove d’amore! Il Mio Cuore è ripagato solo con ingratitudine e trascuratezza da parte delle anime che vivono nel mondo. Hanno tempo per ogni cosa; per venire da Me a prendere le grazie non hanno tempo. E perciò Mi rivolgo a voi, a voi, anime elette! Anche voi non comprendete l'amore del Mio Cuore? E anche qui è rimasto deluso il Mio Cuore. Non trovo il completo abbandono al Mio amore. Tante riserve! Tanta diffidenza! Tanta cautela!»[4].

Fiducia, affidamento, abbandono sono gli atteggiamenti che maggiormente glorificano Dio perché gli lasciano esprimere pienamente la Sua infinita potenza in noi.

Indifferenza o disperazione sono invece due estremi che corrispondono ad altrettante strategie messe in campo dal demonio per condurre le anime alla dannazione. In alcuni il diavolo infonde una falsa pace che porta a ignorare l’esigenza della conversione, in altri, viceversa, infonde lo scoraggiamento per produrre la disperazione finale della salvezza. Il culto alla Divina Misericordia vuole proporre l’antidoto a queste opposte tentazioni: un autentico amore filiale verso Dio.

NECESSITÀ DELLA CONVERSIONE
La fiducia che glorifica Dio è quella che scaturisce dalla presa di coscienza più veritiera su di sé: riconoscersi peccatori, bisognosi di perdono e allo stesso tempo maturare la consapevolezza della propria miseria e incapacità a compiere il bene. Davanti a un’anima che così si umilia e trepidante ricorre al proprio Salvatore, il cuore di Dio si commuove profondamente e concede non solo il perdono, ma un perdono sovrabbondante, come illustra la parabola del figliol prodigo.

Questa fiducia che si accompagna al pentimento e al desiderio di non peccare più è profondamente diversa dalla “fede fiduciaria” di Lutero, secondo la quale Dio considera l’uomo giusto senza richiedergli pentimento e conversione.

Scrive San Giovanni Paolo II nell’enciclica Dives in Misericordia: “Una così generosa esigenza di perdonare [da parte di Dio] non annulla le oggettive esigenze della giustizia. La giustizia propriamente intesa costituisce per così dire lo scopo del perdono. In nessun passo del messaggio evangelico il perdono, e neanche la Misericordia come sua fonte, significano indulgenza verso il male, verso lo scandalo, verso il torto o l’oltraggio arrecato. In ogni caso, la riparazione del male e dello scandalo, il risarcimento del torto, la soddisfazione dell'oltraggio sono condizione del perdono”.[5]

Si assiste invece oggi a un diffuso travisamento del concetto di Misericordia, secondo il quale il perdono incondizionato e l’illimitata capacità di perdono di Dio si tradurrebbero in una sorta di condono che cancella i peccati senza che sia necessaria da parte dell’uomo stesso alcuna forma di pentimento, ravvedimento o riparazione. Questo è in contrasto con la dottrina millenaria della Chiesa e con il Vangelo stesso: “A chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi”.[6]

Nella stessa enciclica, San Giovanni Paolo II spiegava che l’uomo può porre un limite all’illimitata Misericordia di Dio con “la mancanza di buona volontà, la mancanza di prontezza nella conversione e nella penitenza, cioè il perdurare nell'ostinazione, contrastando la grazia e la verità”.[7]

MISERICORDIA E GIUSTIZIA

Dio ha creato l’uomo libero e, proprio in virtù dell’amore che gli porta, non potrebbe esercitare su di lui alcuna forza oppressiva.[8] Su di noi pesa la terribile responsabilità di questa libertà. Noi siamo liberi di compiere il male ma se lo facciamo incorriamo nella giustizia di Dio, che è veramente perfetta perché rende all’uomo il giusto, vale a dire la diretta conseguenza delle sue scelte. Tuttavia, «l'amore, per natura, esclude l'odio e il desiderio del male nei riguardi di colui al quale una volta ha dato in dono se stesso: “Nulla tu disprezzi di quanto hai creato”. Queste parole indicano il fondamento profondo del rapporto tra la giustizia e la Misericordia in Dio, nelle sue relazioni con l'uomo e con il mondo»[9]. Ecco perché è sufficiente che sorga nel cuore dell’uomo una piccola scintilla di pentimento affinché il cuore di questo Padre si commuova “fino alle viscere” e riversi sul peccatore pentito una sovrabbondanza di grazie. Questa è la Misericordia.

È fondamentale ricordare che i mezzi per accedere al perdono di Dio, che sono la Confessione sacramentale e il culto della Santissima Eucarestia, sono alla portata di tutti durante la vita terrena. Dopo la morte ci attenderà solo il giudizio. È erronea la convinzione che Dio perdoni dopo la morte.

LA MISERICORDIA E IL SANGUE DI CRISTO

Dal costato trafitto di Gesù sgorgarono sangue e acqua, gli stessi raggi che escono dal cuore dell’immagine di Gesù Misericordioso fatta dipingere da Santa Faustina [nella foto in alto il quadro originale, dipinto da Eugenio Kazimirowski; nella foto a fianco, la versione dipinta da Adolf Hyla come ex voto]. Non a caso Gesù chiede che la festa della Divina Misericordia sia istituita la prima domenica dopo Pasqua e che sia preceduta da una novena che inizia il Venerdì Santo. È il sacrificio di Cristo sulla Croce che ha soddisfatto la giustizia divina per tutti i peccati degli uomini. Senza di esso non vi sarebbe alcuna possibilità di salvezza per l’uomo peccatore. “Per le sue piaghe noi siamo stati guariti”.[10]

I TRE PASTORELLI E SUOR FAUSTINA
Le rivelazioni di Gesù a Santa Faustina arrivano negli anni Trenta del ‘900, pochi anni dopo le apparizioni della Madonna a Fatima. C’è un legame innanzitutto storico tra i due eventi: come scrisse San Giovanni Paolo II nella sua omelia per la canonizzazione di Santa Faustina: “Coloro che ricordano, che furono testimoni e partecipi degli eventi di quegli anni e delle orribili sofferenze che ne derivarono per milioni di uomini, sanno bene quanto il messaggio della Misericordia fosse necessario”.[11]

L’altro legame è di carattere teologico: le apparizioni di Fatima instaurano il culto al Cuore Immacolato di Maria Santissima, quelle a suor Faustina si possono considerare come un’estensione e completamento della devozione al Sacro Cuore.

Il comune denominatore dei due messaggi risiede nel rivelarci quanto il Cielo abbia a cuore la salvezza di ogni anima: la Madonna invita alla conversione, alla penitenza e alla riparazione tramite la contemplazione del suo stesso Cuore di Madre, trafitto dalla cruda lancia del dolore della Passione. Gesù rinnova ancora una volta la dichiarazione d’amore per gli uomini invitandoli alla conversione e alla preghiera per poter accedere alla fonte infinita della Misericordia.



[1] Cfr. ad esempio: Mt 22, 37-40, Mt 5, 7, Mt 6, 12.
[2] Benedetto XVI, Corriere della Sera, 11 aprile 2019.
[3] S. Giovanni Paolo II, Omelia per la canonizzazione di Santa Faustina Kowalska, 30 aprile 2000.
[4] Dal Diario di Santa Faustina.
[5] S. Giovanni Paolo II, Enciclica Dives in Misericordia, 30 novembre 1980.
[6] Gv 20, 21-23.
[7] S. Giovanni Paolo II, Enciclica Dives in Misericordia, 30 novembre 1980.
[8] Cfr. Cardinale Robert Sarah, La forza del silenzio, n. 90.
[9] S. Giovanni Paolo II, Enciclica Dives in Misericordia, 30 novembre 1980.
[10] Is 53, 5.
[11] S. Giovanni Paolo II, Omelia per la canonizzazione di Santa Faustina Kowalska, 30 aprile 2000.
























sabato 27 aprile 2019

Ci sono duemila Vincent Lambert in Francia. Li uccidiamo tutti?





Bisogna sapere che il caso di Vincent non è isolato: ci sono altri 2.000 pazienti come lui. Il destino di Vincent li preoccupa e preoccupa anche i loro familiari. Non è difficile capire perché pubblichiamo di seguito una nostra [Tempi] traduzione dell’intervento che Tugdual Derville, fondatore di Alliance Vita, ha fatto alla radio francese Rcf per difendere il diritto alla vita di Vincent Lambert.



Tugdual Derville 26 aprile 2019

Voglio parlare di una persona che agli occhi del mondo non ha alcun valore, a causa della sua totale dipendenza, e che si ritrova al centro di un terribile groviglio, prima di tutto familiare, e poi giuridico. Si tratta di Vincent Lambert. Numerosi sviluppi giudiziari hanno portato il Consiglio di Stato a convalidare la quarta decisione di sospendere l’alimentazione e l’idratazione di Vincent, affinché muoia, in risposta alla richiesta di sua moglie e malgrado le proteste dei genitori. Io non voglio ora dettagliare questi sviluppi. Voglio solo sottolineare qualche fatto.

In seguito a un incidente nel 2008, Vincent è in una situazione che oscilla, secondo i pareri medici, tra uno stato detto «neurovegetativo» e uno stato «di minima coscienza». Nel primo, malgrado fasi di veglia e sonno, non si rilevano segnali di comunicazione da parte del paziente. Nel secondo, si possono invece distinguere questi segnali anche se non si sa come interpretarli.

VINCENT NON È IN FIN DI VITA NÉ MALATO

In Francia, esistono unità specializzate dedicate a questi pazienti chiamati «Evc, Epr». Ma Vincent riceve soltanto cure palliative destinate a pazienti in fin di vita. Vincent non può uscire [dall’ospedale], non riceve la fisioterapia nonostante i genitori l’abbiano più volte richiesta. Suo fratello l’ha ricordato ancora ieri: Vincent non è né in fin di vita, né malato, non è attaccato ad alcuna macchina. Non ha bisogno di medicine e respira in modo autonomo. Oggi ha un tetto, un letto e riceve cure igieniche. Viene nutrito e idratato. Una sonda lo alimenta direttamente perché non muoia di fame. Se il collegamento di questa sonda allo stomaco è un intervento chirurgico sul quale si può discutere, la sua alimentazione non dovrebbe più essere considerata come una terapia medica, ma come una cura, un accudimento sempre dovuto.

CI SONO DUEMILA VINCENT IN FRANCIA

Bisogna sapere che il caso di Vincent non è isolato: ci sono circa 2.000 altri pazienti Evc Epr che vivono oggi in Francia. Ho visitato una unità specializzata vicino a Parigi. Medici molto premurosi mi hanno detto quanto sia difficile svolgere il loro lavoro e quanto siano attaccati in modo viscerale a questi pazienti, alle loro famiglie e al loro lavoro stesso a causa dell’entità della dipendenza e della durata dei ricoveri.

Il destino di Vincent li preoccupa e preoccupa anche i familiari degli altri pazienti. Non è difficile capirli. Io penso anche a Jean-Pierre Adams, ex calciatore internazionale [del Paris Saint-Germain e della nazionale francese], che vive in casa [in coma] dal 1982 dopo un incidente di anestesia, accudito da sua moglie.

Nessuno desidererebbe di ritrovarsi in una tale situazione di dipendenza. Ma ciò che vivono tutti questi pazienti resta un mistero. E io penso che il posto che la nostra società è in grado di fare alle persone più fragili è quello che sancisce il suo grado di umanità.

Foto Ansa



















venerdì 26 aprile 2019

EUTANASIA. Dal Belgio al Canada, come si precipita verso il baratro





In Belgio molti neonatologi chiedono di poter praticare attivamente l’eutanasia (con l’iniezione letale) sui neonati. In Olanda la si può chiedere anche per i normali acciacchi dovuti all’età e in Australia si pensa già a limitare l’obiezione di coscienza. E poi c’è il Regno Unito dei piccoli Alfie, Charlie e Isaiah, a ricordare che la mentalità eutanasica si sta diffondendo rapidamente, con tutto il suo carico di morte e disperazione.





Ermes Dovico, 26-04-2019

Australia, Belgio, Canada, Olanda, Regno Unito e l’elenco potrebbe continuare. Cinque Paesi, da una parte all’altra del mondo, che dimostrano come la mentalità eutanasica si stia rapidamente diffondendo, a volte anche in assenza di una legge specifica, come nel caso inglese, dove è bastata l’adozione di un protocollo medico nei vari ospedali (il Liverpool care pathway for the dying patient, intanto sostituito con delle linee guida perfino peggiori) per far divenire prassi nell’ultimo ventennio l’eutanasia, prima sui malati terminali, poi sui disabili, anziani o neonati. Anche senza richiesta, come ricordano i casi dei piccoli Charlie Gard, Isaiah Haastrup e Alfie Evans, assurti agli onori delle cronache - in mezzo a chissà quanti altri - solo per la ribellione dei loro genitori.

Presentiamo alcuni dati e fatti recenti di questi cinque Paesi, che dovrebbero far riflettere quanti in Italia, dai Radicali alla Corte Costituzionale, vorrebbero estendere la già eutanasica legge sulle Dat includendovi il suicidio assistito.

AUSTRALIA

Qui lo Stato di Victoria ha legalizzato l’eutanasia nel 2018, ma il dibattito è aperto anche in altre parti del Paese e si manifesta in posizioni sempre più estreme. Nel Queensland, per esempio, il presidente del Comitato per le libertà civili, Michael Cope, ha detto a una commissione parlamentare che la volontà dei “minori maturi” di essere sottoposti a eutanasia dovrebbe essere rispettata. Quanto maturi? Anche bambini di 12 anni o poco più. «Definiremmo un minore maturo come un bambino sopra i 12 anni di età che… ha una comprensione e intelligenza sufficiente per consentirgli di comprendere pienamente ciò che viene proposto», ha affermatoCope, aggiungendo la solita serie di sottigliezze per far sembrare la polpetta meno avvelenata. Interessante notare che Cope ha detto di ispirarsi ai casi del Belgio, dove tre minori avrebbero richiesto l’eutanasia dal 2014, e dell’Olanda, dove i minori uccisi per loro volontà sarebbero 13 dal 2002. Secondo lui, inoltre, un medico non dovrebbe essere obbligato a praticare l’eutanasia ma dovrebbe indirizzare il paziente verso un collega disponibile a fornire il “servizio”: in breve, l’idea è di limitare l’obiezione di coscienza.

BELGIO

L’eutanasia è stata depenalizzata nel 2002 per i maggiorenni che fossero malati terminali, allargando poi le sue maglie mortali. Nel 2014 è stata estesa ai minori “capaci” di richiederla. Del resto, il consenso del paziente non è più ritenuto necessario da molti medici e, a volte, dagli stessi infermieri, che procedono autonomamente. Basti ricordare lo studio pubblicato sul New England Journal of Medicine, dove si indicava che l’1.7% (pari a oltre 1.000 casi) di tutte le morti registrate nel 2013 nella regione delle Fiandre era avvenuto senza richiesta. Una percentuale simile, l’1.8%, era stata trovata per l’anno 2007, sempre in riferimento alle Fiandre, da un altro studio, pubblicato sul Canadian Medical Association Journal, a conferma di un trend già radicato.

Dall’ultimo rapporto pubblico sull’eutanasia, si sa poi che nel 2018 sono stati dichiarati 2.357 casi (di cui 83 riguardanti persone con meri disagi psichici) che equivalgono a un +147% rispetto ai 953 casi del 2010. E la deriva non è finita, perché molti neonatologi stanno ora chiedendo una modifica della legge per poter praticare attivamente l’eutanasia sui neonati, in sostanza attraverso l’iniezione letale. Tra i favorevoli c’è Wim Distelmans, medico coinvolto in diversi casi estremi di “dolce morte” e, malgrado ciò, copresidente del comitato di controllo belga sull’eutanasia: «Chiunque ponga fine attivamente alla vita di un neonato può essere perseguito per infanticidio. Ciò è molto diverso dai Paesi Bassi in cui è in vigore un protocollo. Lì, quando tutte le condizioni sono soddisfatte per la fine della vita, l’accusa viene semplicemente rigettata». Sarà, ma sempre di infanticidio si tratta. A Distelmans fa da spalla il politico Jean-Jacques De Gucht, che già fu promotore dell’estensione normativa del 2014 e oggi dice: «Viene già fatto negli ospedali, semplicemente non abbiamo un quadro legale per questo». Inutile dire che è sempre la falsa idea di “compassione” a essere usata come grimaldello.

CANADA

L’eufemisticamente detta Medical assistance in dying (Maid), che comprende sia l’eutanasia che il suicidio assistito, è divenuta legale in tutta la nazione nel giugno 2016. Limitandoci ai primi due anni interi di applicazione della nuova legge, si sono avute 2.704 “morti assistite” ufficiali nel 2017 e - stando a quanto riportato a marzo di quest’anno da Jocelyn Downie, un’attivista pro eutanasia - 4.235 nel 2018. Un aumento di oltre il 56%. Secondo la Downie tutti i pazienti che hanno usufruito, si fa per dire, della Maid, avevano i requisiti previsti dalla legge, ma come fa notare il pro vita Alex Schadenberg sono i dati a smentirla: il rapporto provvisorio per la sola provincia del Québec riporta infatti che il 3% dei casi - pari a 19 persone - non rientravano tra i criteri stabiliti; cinque di queste persone non avevano una “malattia seria e incurabile” e due non erano in fin di vita.

OLANDA

Alla depenalizzazione del 2002, con il via libera all’eutanasia per maggiorenni, ha fatto seguito il Protocollo di Groninga approvato nel 2005 dall’Associazione dei pediatri olandesi, prevedendo la possibilità per minori tra i 12 e i 16 anni di richiedere l’eutanasia con il consenso dei genitori. Si è passati dalle 1.882 persone uccise attraverso la morte assistita nel 2002 alle 6.585 del 2017, quasi il 250% in più. Nello stesso anno circa 1.900 olandesi hanno ottenuto il suicidio assistito mentre altre 32.000 sono morte per una sedazione estrema, con il risultato che più di un quarto di tutte le morti nei Paesi Bassi nel 2017 (circa 150.000) sono frutto della diffusa mentalità eutanasica.

Se all’inizio il requisito per l’eutanasia era essere un malato terminale, oggi la si può richiedere per una varietà enorme di ragioni, dalla demenza alla depressione, ai normali acciacchi dell’età. Il codice di condotta del 2018, elaborato dalla commissione di controllo dell’eutanasia, prevede infatti che un paziente che «vuole ricevere l’eutanasia […] non deve per forza essere affetto da una patologia terminale. L’accumulo di difficoltà tipiche della vecchiaia - come problemi di vista, problemi di udito, osteoporosi, artrite, problemi di equilibrio, declino cognitivo - possono causare sofferenze insopportabili senza prospettive di miglioramento». Basta anche una sola di queste condizioni per autorizzare l’eutanasia e, tra l’altro, nel documento si sottolinea che il criterio per valutare la sofferenza «insopportabile» è da considerarsi «del tutto soggettivo», cioè in capo alla percezione del paziente. A questo va aggiunto che anche nella super liberal Olanda l’idea dell’autodeterminazione è un’illusione: solo per il 2015 uno studio ha rilevato 431 casi di eutanasia non richiesta.

REGNO UNITO

Nel Paese che si avvicina all’anniversario di morte del piccolo Alfie, salito al Cielo il 28 aprile 2018 dopo aver patito un’eutanasia di Stato, l’agenda eugenetica avanza. Tra gli ultimi fatti da segnalare, le dimissioni del presidente del comitato etico del Royal College of Physicians (RCP), Albert Weale, che ha deciso di lasciare la carica dopo che l’importante associazione di medici ha cambiato la sua posizione contro l’eutanasia da “contraria” a “neutrale” in conseguenza di un sondaggio tra gli iscritti - il terzo dal 2006 - tra gli iscritti definito negli ambienti pro life sham, una «finta», viste le regole cambiate appositamente per far passare la posizione neutrale, minoritaria (vedi qui e qui), con il 25% dei rispondenti, contro il 31.6% di favorevoli all’eutanasia e il 43.4% di contrari. Weale, in rotta con l’RCP, si è dimesso con altri due membri del comitato etico definendo «ingiusta» la procedura del sondaggio. La posizione neutrale dell’RCP è chiaramente funzionale ai pro eutanasia che potranno aumentare le pressioni sui parlamentari inglesi, per arrivare alla legge da loro desiderata, che peggiorerebbe ulteriormente il quadro.

Ricapitolando, si può dire questo. Il tristemente famoso piano inclinato - che vede via via precipitare verso il baratro una società che apre alla normalizzazione di atti malvagi, estendendoli progressivamente anche grazie all’uso di un linguaggio ingannevole (“dolce morte”, “morte compassionevole”, “miglior interesse”, “autodeterminazione”, ecc.) - funziona ovunque e solo un’inversione di rotta, culturale (il che può avvenire solo tornando a Dio), può fermarne e cambiarne gli effetti.







fonte









EUTANASIA: Vincent Lambert, la Francia ha deciso per la sua morte





Confermata il 24 aprile dal Consiglio di Stato francese la sentenza del Tribunale amministrativo che aveva disposto lo stop dell’alimentazione e idratazione a Vincent Lambert, il paziente quarantaduenne in stato pauci-relazionale. I genitori hanno intanto fatto sapere attraverso gli avvocati di aver depositato un ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo e un altro al Comitato dell’Onu sui diritti delle persone con disabilità. Ma tra i fautori dell’eutanasia c’è già chi mette le mani avanti, mostrando di essere, in ogni caso, pro morte.




Luisella Scrosati, 26-04-2019

Il 24 aprile, il Consiglio di Stato francese ha confermato la sentenza dello scorso gennaio del Tribunale amministrativo di Châlons-en-Champagne, che disponeva l’arresto dell’alimentazione e dell’idratazione a Vincent Lambert, in stato pauci-relazionale da dieci anni. Dunque, la giustizia transalpina ha ribadito la condanna a morte di Vincent, ovviamente per difendere la sua “dignità”; poco importa se nel Rapport della perizia medica richiesta dal Tribunale amministrativo si era messo nero su bianco che «corrispondere ai bisogni fondamentali primari (alimentazione, idratazione) non rientra per Vincent Lambert nell’ambito di un accanimento terapeutico o di una irragionevole ostinazione». Sia il Tribunale che il Consiglio di Stato ribadiscono invece che mantenere in vita Vincent Lambert, semplicemente nutrendolo e idratandolo, sia un’«irragionevole ostinazione».

Che dire delle migliaia di persone che, nelle case di riposo
, imboccano più volte al giorno ospiti che non sono in grado di mangiare da soli? Tutti impegnati in attività irragionevoli e ostinate, visto che nella maggior parte dei casi si tratta di anziani che non potranno più tornare a essere autosufficienti? Perché ogni tanto, nella vita, bisogna essere un po’ coerenti. Il Consiglio di Stato dovrebbe avere attributi virili sufficienti per andare porta a porta da tutte quelle persone che hanno figli, genitori o parenti in condizioni uguali o analoghe a quelle di Vincent Lambert, per dire loro che sono una massa di ostinati e irragionevoli, per il semplice fatto che ritengono che il cibo e l’acqua non si rifiutano a nessuno.

A Napoli aggiungono che neppure un caffè si può rifiutare
: sicuramente molto più civili e umani, i nostri napoletani, degli alti magistrati della Repubblica francese, nonché dell’avvocato di François Lambert, nipote di Vincent, Madeleine Munier-Apaire, la quale non ha trovato di meglio che affermare che “oggi Vincent non ha più alcuna volontà. Quello che è certo, è che non ha senso per lui essere mantenuto in vita in una tale dipendenza. Si tratta della sua dignità”. Chissà se l’avvocato si riferisca alle rilevazioni di un qualche “elettrovolontagramma”, che permette di misurare l’attività della volontà umana come si misura quella del cervello, o a un “dignitometro”, da mettere in bocca a Vincent, per misurare la temperatura della sua dignità.

A nulla è servita anche
la Lettre au tribunale de 55 spécialistes EVD-EPR, che metteva in rilievo le modalità sbagliate con cui i tre medici designati dal Tribunale amministrativo, nessuno dei quali specialista di situazioni cliniche analoghe a quelle di Vincent, avevano valutato la situazione del quarantaduenne francese.

Intanto i genitori e gli avvocati che stanno difendendo il diritto alla vita di Vincent
hanno annunciato di aver presentato due ricorsi distinti alla Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) e al Comitato dell’Onu sui diritti delle persone con disabilità. Questo ricorso congela momentaneamente la messa in atto della decisione del Consiglio di Stato.

Ma c’è già chi mette le mani avanti.
Nicolas Hervieu, specialista in diritto europeo, intervistato da Le Monde fa capire che «è altamente probabile che la Cedu rifiuti molto rapidamente la domanda, forse entro qualche giorno, perché la sua sentenza su questo soggetto, stabilita in occasione della prima decisione nel caso Lambert il 5 giugno 2015, è chiara». Nel caso in cui invece il Comitato sui diritti delle persone con disabilità dovesse opporsi alla sentenza del Consiglio di Stato, la Francia potrebbe decidere di ignorare un’eventuale decisione di tale tipo. «Ci troviamo dunque a un punto di svolta potenziale», continua Hervieu, non essendoci più «alcun ostacolo giuridico che impedisca la realizzazione dell’arresto dei trattamenti». Chiaro no? In ogni caso, pro morte.













giovedì 25 aprile 2019

San José Vaz e la strage islamica di Pasqua







di Cristina Siccardi

Mentre lo Sri Lanka e i cattolici piangono il sangue versato dei martiri assassinati in più chiese, durante la Messa della Santa Pasqua, sangue preannunciato dall’incendio di Notre Dame di Parigi, i funzionari à la page della Chiesa interreligiosa, ecclesiastici e laici, si sono affrettati nel “rassicurare”, come ha fatto Andrea Riccardi, che «la chiesa di Sant’Antonio, a Colombo, non solo è un santuario molto caro alla pietà dei cattolici dell’intera isola […] C’è devozione anche da parte di musulmani, indù e buddisti alla statua del santo, in un luogo dove si conserva la memoria di un evento miracoloso. La chiesa è santuario nazionale, ma anche un luogo di convivenza multireligiosa […]» (Corriere della Sera, 21 aprile 2019).

Tutti insieme, cristiani, musulmani, indù e buddisti a venerare sant’Antonio… ma poi arrivano i terroristi, che non compiono atti religiosi, bensì solo politici (come se l’Islam, per i musulmani praticanti, non fosse politica e religione un tutt’uno) e, non potendo affermare, come in questo caso, che si tratta dell’iniziativa di “lupi solitari”, si afferma testualmente: «È un fatto che le chiese cristiane, negli ultimi anni, sono divenute un obiettivo per chi cerca, con il terrorismo, di seminare divisioni e di attirare la pubblica attenzione». Intanto il «jihad inferiore» prosegue la sua marcia.

San José Vaz (1651-1711), apostolo dello Sri Lanka, non la pensava come la Chiesa interreligiosa di oggi e non perché visse fra il 1600 e il 1700, bensì perché la Fede in Cristo è sempre uguale a se stessa nei suoi principi e, quindi, nella sua dottrina, e proprio per questo non è soggetta a mutazioni genetiche, in quanto la sua genesi è in Cristo, l’ α e l’ω.

L’oratoriano Vaz è stato il primo indiano ad essere elevato all’onore degli altari il 21 gennaio 1995 da Giovanni Paolo II e canonizzato da Francesco il 14 gennaio 2015, il quale, durante il suo viaggio interreligioso proprio in Sri Lanka, ha posto subito le cose in chiaro, esaltando del santo la «missionarietà non aggressiva, a servizio dei poveri» (come se esistesse o sia esistita una missionarietà bellicosa nella Chiesa) e specificando che «la Chiesa in Sri Lanka non chiede altro che la libertà di portare avanti la sua missione per dare un contributo ancora maggiore alla pace, alla giustizia e alla riconciliazione nella società srilankese».

Chi fu veramente san José Vaz, un funzionario dello Stato Vaticano oppure un missionario ricolmo di santo zelo? Originario di Benaulim, in India, José si trasferì all’Università dei Gesuiti in Goa per la formazione umanistica e dopo al Collegio domenicano di San Tommaso d’Aquino per la filosofia e la teologia, infine fu ordinato sacerdote nel 1676. Si dedicò all’apostolato in Goa, ma aspirò ad entrare in un ordine religioso.

Nell’aprile 1709 un documento, conservato nell’archivio degli Oratoriani di Roma, firmato dai Padri Giovanni da Guarda e Antonio de Attaide, dell’Oratorio di Lisbona, attesta che «nell’India Orientale, in Goa, è stata eretta dall’autorità Regia e Ordinaria e confermata da S. S. Clemente XI la Congregazione dell’Oratorio del nostro S. Padre Filippo Neri». San José fu l’anima di quell’Oratorio generoso di vocazioni e che convertì molti indiani, e proprio quando ormai esso era avviato al meglio, poté dedicarsi alla sua massima aspirazione: divenire missionario nell’attuale Sri Lanka, a quel tempo sotto il dominio olandese, che perseguitava ferocemente i cattolici.

Rivelò il suo desiderio a Padre Pascual, a cui chiese di sostituirlo: portare la buona Novella della Vite là dove veniva calpestata e sterminata nei suoi tralci, quella senza compromessi e senza sconti; portare Cristo alle genti, proprio come san Paolo o san Francesco Saverio, battezzandole nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, senza Buddha e senza Maometto.

Arrivò sull’isola come clandestino a causa della persecuzione contro i cattolici, allora come oggi. Vestito da schiavo e da mendicante, ricco solo del suo essere ministro di Cristo, non trovò più sacerdoti: tutti martirizzati oppure espulsi. Le chiese erano state profanate o distrutte, mentre i fedeli, minacciati di morte, erano stati uccisi o dispersi per scampare dalla morte. Poteva essere scoperto, ma iniziò subito la ricerca dei credenti, la maggior parte dei quali aveva assunto esteriormente gli usi calvinisti per scampare al pericolo.

La strategia che Padre José adottò fu assai temeraria: si mise al collo la corona del Rosario e bussò di porta in porta, chiedendo l’elemosina. Buddisti e induisti non se ne curavano, ma qualcuno iniziò ad accorgersi di quel segno della pietà cattolica e prese ad avviarsi la rievangelizzazione di Ceylon. Si fermò nel più sicuro villaggio di Jaffna, per due anni, dove svolse segretamente il suo ministero, celebrando di notte la Santa Messa, confessando e dirigendo le anime. Tuttavia, il rifiorire della cattolicità nel Paese fece sorgere i sospetti nelle autorità olandesi che proposero un premio in denaro a colui che avesse consegnato il missionario.

Nessun Giuda si presentò, mentre padre José venne fatto fuggire nel piccolo regno di Kandy, rimasto indipendente. Intanto il Governo olandese martirizzò molti fedeli oppure li incarcerò fino alla loro morte. A Kandy regnava il buddista Vilamadharma Surya, il quale venne informato da agenti calvinisti sull’esistenza di padre José Vaz, presentato come pericolosa spia dei portoghesi, cosicché, il sovrano, quando giunse sul suo territorio il missionario oratoriano, lo fece imprigionare.

Il Re, tuttavia, rimase affascinato dalla spiritualità e dalla santità del sacerdote e gli divenne amico, stessa ammirazione e stima provò il figlio Narendrasinha, che gli succedette al trono. Fu così che il santo missionario, che tradusse anche nelle due lingue locali, il tamil e il singalese, le preghiere cattoliche e il catechismo, riuscì a compiere un apostolato straordinario dapprima in solitudine e poi con l’aiuto dei confratelli, che lo raggiunsero nel 1697.

Prima del suo dies natalis, lasciò una missione di 70 mila ferventi cattolici, 10 missionari, 15 chiese, 400 cappelle. Quest’uomo di Dio riuscì, con coraggio e ardore, a ristabilire in Ceylon il faro della Chiesa. Nella notte del 15 gennaio, ricevendo il Santissimo, disse ai suoi confratelli: «Ricordate che non si può facilmente compiere al momento della morte quello che si è trascurato di fare per tutta la vita».

Con il nome di Gesù sulle labbra il missionario alter Christus spirò. I cattolici – nostri fratelli in Cristo (non in Maometto) – che hanno versato il loro sangue nel giorno della Santa Pasqua per la loro Fede, la Nostra Fede, sono i figli non già di coloro che non credono più nella Verità della religione rivelata, bensì di quei padri ammaestrati dall’apostolo san José Vaz.

Cristina Siccardi















mercoledì 24 aprile 2019

Marcia per la Vita, a Roma il 18 maggio 2019. Obiettivo: smantellare la Legge 194






Nessun approccio «minimalista e fallimentare»: abrogare la legge 194 iniziando dal suo finanziamento pubblico, perché «utilizzare i soldi degli italiani per uccidere i nostri bambini è un’ingiustizia tremenda». Questo è quanto chiederà alla politica la Marcia nazionale per la Vita, il grande evento pro-life che il prossimo 18 maggio riempirà il centro di Roma con numeri mai avuti prima. Parla Virginia Coda Nunziante, portavoce della Marcia.




INTERVISTA A VIRGINIA CODA NUNZIANTE
Riccardo Cascioli, 24-04-2019

Nessun approccio «minimalista e fallimentare»: abrogare la legge 194 iniziando dal suo finanziamento pubblico, perché «utilizzare i soldi degli italiani per uccidere i nostri bambini è un’ingiustizia tremenda». Questo è quanto chiederà alla politica la Marcia nazionale per la Vita, il grande evento pro-life che il prossimo 18 maggio riempirà il centro di Roma con numeri mai avuti prima. La NBQ ha intervistato in esclusiva Virginia Coda Nunziante, portavoce della Marcia.

Il 18 maggio si svolgerà a Roma la IX edizione della Marcia per la Vita. Quali sono le novità di quest’anno?Più che novità sottolineerei la continuità del nostro percorso. Siamo ormai giunti alla IX edizione e la Marcia è ormai consolidata sul piano nazionale ed internazionale. La nostra forza sta nella coerenza con cui continuiamo a manifestare il nostro no all’aborto. L’aborto è una ferita profondissima nel corpo sociale italiano, ferita che non si può cicatrizzare. Ogni anno, dunque, a noi sta il compito di risollevare il problema e proporre la soluzione.

Qual è la soluzione?L’abrogazione totale della legge 194. Questa è l’unica medicina giusta per curare questa ferita. Il nostro è il rifiuto totale di una legge che uccide i nostri bambini.

Anche se rimangono sacche enormi di ideologia (per il Comune di Milano se vuoi partecipare ad un bando per ristrutturare un immobile devi essere a favore dell’aborto) il clima politico in Italia sembra essere più ricettivo. Partiti come Fratelli d’Italia, Lega e parte di FI sembrano più disposti ad ascoltare le ragioni dei pro-life.Sono d’accordo. Questa nuova sensibilità del mondo politico nasce a mio avviso da due fattori. Innanzitutto ci si rende conto, anche da dati oggettivi come quelli Istat, dell’enorme problema della denatalità, emergenza che ha ricadute immediate in ogni settore, a iniziare da quello economico. L’altro fattore che sta facendo aprire gli occhi alla politica è lo sviluppo di quel movimento pro-life italiano – di cui la Marcia per la Vita è un’importante espressione – che ha rimesso al centro il tema dell’aborto e della contraccezione, due dei fattori che provocano quel crollo della natalità che oggi è sotto gli occhi di tutti.

In Formula 1 le macchine prendono velocità con quello che si chiama “effetto scia”: a suo avviso la Marcia per la Vita di Roma potrà contare sull’“effetto Verona”?Anche io ero in piazza a Verona ma è ancora presto per poter valutare l’apporto della tre giorni della città scaligera. Sono convinta però che quanto accaduto ha palesato a tutti l’esistenza di un Popolo della vita e della famiglia sempre più determinato ad andare avanti, pronto anche a scendere in piazza finché non otterrà quello che chiede. L’altra cosa che l’appuntamento veronese ha reso chiaro agli italiani è la carica di odio di cui è capace un altro popolo, fortunatamente minoritario in Italia, che è quello che porta avanti la “cultura della morte”. Hanno dalla loro tutti i media, hanno i mezzi economici, ma non rappresentano il popolo italiano.

È stato detto che la violenza mediatica subita dal popolo di Verona ha rafforzato nei partecipanti «la percezione della portata controcorrente e profetica dei propri valori». É d’accordo?Certo, perché quella in corso è una vera e propria battaglia. Suor Lucia dos Santos, una delle veggenti di Fatima, aveva profetizzato che «lo scontro finale tra Dio e Satana» sarebbe stato «su famiglia e vita». A Rio de Janeiro, nel ’97, papa Giovanni Paolo II parlò apertamente di «nemici di Dio» all’opera «attorno alla famiglia e alla vita». Mi auguro che dopo Verona il movimento pro-life e pro-family abbia realmente compreso che questa battaglia va affrontata con un’attitudine psicologica e spirituale combattiva, non remissiva e condiscendente.

Il rafforzamento del popolo della vita in una dimensione psicologica e spirituale si nota anche nell’organizzazione e nei numeri della Marcia per la Vita?Presiedo all’organizzazione della Marcia per la Vita di Roma da diverse edizioni e mai come quest’anno noto che il coordinamento e le prenotazioni dei pullman che da tutta Italia porteranno le persone a Roma a difesa della vita sono partite in netto anticipo. C’è un grande fermento. Segno che un popolo si sta svegliando e che tutte le battaglie in difesa del bene – che siano per la vita o per la famiglia – essendo complementari interagiscono tra loro, accrescono i numeri dei partecipanti agli eventi, donano nuova forza e soprattutto nuova consapevolezza. È un effetto contagio che dà speranza.

Grazie soprattutto ai riflettori accesi su Verona, molti italiani si stanno accorgendo che c’è una parte della legge 194 non ancora applicata, quella che promette aiuti economici alle donne costrette ad abortire per mancanza di possibilità economiche. Ora può succedere di tutto, non trova?Secondo me parlare di applicazione integrale della legge 194 è un pericoloso errore perché, ripeto, la legge va rifiutata in toto. Mi rendo conto benissimo che questo è un obiettivo finale, non raggiungibile a breve, ma il fine per cui dobbiamo batterci non è quello di applicare la legge sull’aborto in tutte le sue parti – approccio minimalista e fallimentare – piuttosto di smontarla pezzo per pezzo.

Qual è il primo pezzo da smontare della 194?Sicuramente l’abolizione del finanziamento pubblico all’aborto. Penso che questo sia un obiettivo realistico anche per i nostri politici. Pochi giorni fa, per un infarto, a causa di un’autombulanza che non è mai arrivata, è morta una mia conoscente. Troviamo assurdo che con una sanità che fa acqua da tutte le parti, una donna che desidera abortire non solo viene immediatamente ricoverata, addirittura il giorno dopo la sua richiesta, ma dalla collettività le viene pagato tutto. Ecco, utilizzare i soldi pubblici, quelli degli italiani, per uccidere i nostri bambini è un’ingiustizia tremenda. Si parta da qui.

«Ma come può essere terapeutico, civile, o semplicemente umano un atto che sopprime la vita innocente e inerme nel suo sbocciare? Vi domando: è giusto affittare un sicario per risolvere un problema?». Anche se i media - che pure citano il Papa quando fa loro comodo – lo hanno ignorato, Papa Francesco sull’aborto è stato chiarissimo. Quale crede che sarà l’atteggiamento della Chiesa rispetto alla prossima Marcia per la Vita?È vero che papa Francesco si è sempre espresso contro l’aborto. Ricordo che nel 2013 scese addirittura in piazza San Pietro per incontrare i partecipanti alla Marcia. Era il primo anno della sua elezione. Certamente ci farebbe piacere un impegno maggiore dei nostri vescovi come accade con altre marce per la vita nel mondo. Ci saranno sicuramente dei vescovi che il 18 maggio marceranno a Roma con noi ma preferisco non fare nomi per evitare che possano subire pressioni e magari desistere dall’intento. La nostra Marcia, comunque, rimane un’iniziativa di laici, per cui non ecclesiale, oltre che totalmente indipendente dai partiti politici.

È notizia di questi giorni che l’industria di Hollywood ricatta la Georgia, stato americano che mira a diminuire gli aborti, segno che la cultura radicale continua a smaniare per l’aborto libero e senza limiti.La lettera di protesta dei 115 divi di Hollywood è vergognosa, basata com’è sul potere del ricatto: portare via l’industria cinematografica dalla Georgia e quindi risorse economiche dal paese. A fronte di quest’arroganza, però, c’è un’America che ha uno spirito radicalmente diverso. Il partito radical-chic di Hollywood non corrisponde minimamente al sentimento profondo della maggioranza degli americani. Come per i contestatori di Verona a cui accennavo, anche qui siamo di fronte ad una minoranza, certamente potente quanto a soldi e a mezzi, che sfrutta la fama per imporre il suo pensiero; ma ciò si scontra, per esempio, con il grandissimo successo della Marcia per la Vita di Washington. In quella che è considerata la “madre” di tutte le Marce ci sono persone vere, c’è un’America profonda che scende in piazza da 40 anni con numeri sempre crescenti. Ma c’è di più.

Cioè?Trump ha già nominato due giudici pro-life alla Corte suprema, se cambierà ancora l’equilibrio della Corte – cosa altamente probabile con questa presidenza – ci sarà una svolta epocale in tema di aborto. Proprio dagli Stati Uniti potrebbe arrivare in tutto il mondo un segnale radicalmente contrario all’aborto.

Il presente degli Stati Uniti, però, parla di una legge varata dallo stato di New York che permette l’aborto addirittura al nono mese (nonché dei disperati tentativi dei media nostrani di trattare la notizia come fake news).L’aborto al nono mese non è altro che la conseguenza di questa cultura di morte, di questa mentalità abortista che non si ferma. È uno spaventoso passo avanti, chiaro, ma non è ancora tutto. Giungeremo presto a ciò che vogliono veramente: l’infanticidio. D’altronde per loro la logica è unica e coerente: così come puoi uccidere il bambino a 3 mesi, lo puoi fare a 6 mesi, a 9 mesi e anche fuori dal grembo materno. Non c’è alcuna differenza.

Come spiega quest’“escalation del male”? Credo che in America le lobbies abortiste premano il piede sull’acceleratore proprio perché il presidente Trump ha tolto i finanziamenti alla Planned Parenthood, e agendo sulla Corte Suprema potrebbe invertire la rotta. Gli abortisti ci insegnano che, in una lotta, la miglior difesa è sempre l’attacco. Anche per opporsi a questo scempio è importante essere a Roma sabato 18 maggio.












martedì 23 aprile 2019

L’assenza di Dio nella sfera pubblica e le riflessioni di Benedetto XVI






Lo scritto di Benedetto XVI sugli abusi sessuali nella Chiesa costituisce un chiarimento importante anche per quanto riguarda l’assenza di Dio nella sfera pubblica e dunque il ruolo della Dottrina sociale della Chiesa. Lo spiega il professor Stefano Fontana nel saggio, che qui proponiamo, per l’Osservatorio internazionale cardinale Van Thuȃn.
A.M.V.

Aldo Maria Valli


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Il testo del papa emerito Benedetto XVI contenente alcune Note su “La Chiesa e lo scandalo degli abusi sessuali” presenta numerosi utilissimi spunti che riguardano anche la Dottrina sociale della Chiesa. A nome del nostro Osservatorio, propongo qualche riflessione in merito, a conferma della importanza del documento.

Bisogna prima di tutto riconoscere che la sintetica valutazione del percorso della teologia morale nel ventennio 1960-1980, percorso che secondo Benedetto XVI ha portato la teologia morale al “collasso”, risulta confermato anche per la Dottrina sociale della Chiesa. Per questo le riflessioni sulla teologia morale contenute nelle Note sono molto utili anche per valutarne le conseguenze per la Dottrina sociale della Chiesa che pure, secondo la nuova teologia morale, era ormai arrivata al collasso. Così non era, né per la autentica teologia morale cattolica né per la Dottrina sociale della Chiesa, ma le correnti teologiche di fatto rampanti in quei decenni così avevano decretato. Non era di questo avviso Giovanni Paolo II che, come scrisse la Veritatis splendor il 6 agosto 1993 per “rimettere a posto queste cose” – come dice Benedetto XVI nelle sue Note – così si era impegnato per il rilancio della Dottrina sociale della Chiesa, precisandone il carattere disciplinare di “teologia morale” nel fondamentale paragrafo 41 della Sollicitudo rei socialis del 1987 e confermandolo nella Centesimus annus del 1991, appena due anni prima della Veritatis splendor. La Dottrina sociale della Chiesa e la teologia morale erano quindi accomunate nel loro destino dal fatto di appartenere allo stesso ambito di verità, sicché il “collasso” della teologia morale non poteva non avere anche effetti collassanti sulla Dottrina sociale della Chiesa.

Nelle Note, Benedetto XVI indica anche il punto preciso sul quale la contestazione della teologia morale cattolica si era concentrata: il rifiuto della prospettiva giusnaturalistica. E ciò vale anche per la Dottrina sociale della Chiesa. Anche in questo ultimo campo, come in quello più generale della teologia morale, si volle fondare l’impegno sociale e politico dei cattolici e, più in generale, lo stesso rapporto “pratico” Chiesa-mondo solo sulla Scrittura. La Dottrina sociale della Chiesa aveva sempre annoverato tra i suoi fondamenti il diritto naturale e la Rivelazione. La teologia, e la teologia morale in particolare, erano considerate un sapere organico ed epistemicamente fondato sulla verità della fede e sulla verità della ragione (o recta ratio) armonicamente rapportate tra loro. Questo rapporto si fondava ultimamente sul rapporto tra natura e sopra-natura, secondo il principio classico della teologia cattolica della sopra-natura che non nega la natura ma la perfeziona. Il “biblicismo”, sia esso adoperato in teologia morale in genere sia nel campo particolare della Dottrina sociale della Chiesa, rompeva questo rapporto e declassava la morale e il diritto naturali a forme ideologiche che avrebbero irrigidito il kerigma in dottrine astratte. Benedetto XVI afferma invece esattamente il contrario: senza l’aggancio sostanziale con la morale, le verità di fede non agganciano la concretezza della vita: “c’è un minimum morale che è inscindibilmente connesso con la decisione fondamentale della fede e che deve essere difeso, se non si vuole ridurre la fede a una teoria”. Il giudizio della nuova teologia morale viene qui rovesciato: l’aggancio con la morale (e il diritto) naturale è essenziale per evitare che la fede diventi una astratta teoria, pericolo che invece la nuova teologia attribuisce proprio a quell’aggancio. Da allora – e il fenomeno continua anche oggi – nei manuali di Dottrina sociale della Chiesa non c’è più alcun riferimento al diritto naturale come uno dei suoi fondamenti. È inevitabile constatare in questo fenomeno di grande portata l’influenza della teologia protestante su quella cattolica, nonché il processo per cui il “biblicismo” ha rotto l’unità di fede e ragione e consegnato ilo tema del diritto e della legge al positivismo.

Nelle Note Benedetto XVI riprende in mano l’enciclica Veritatis splendor di Giovanni Paolo II e la indica come un punto fermo per riprendere la teologia morale correttamente intesa. Questo “ritorno” alla Veritatis splendor è molto importante anche per la Dottrina sociale della Chiesa. Questa enciclica ribadisce il ruolo della ragione naturale per la conoscenza della legge morale naturale, nega validità alle forme di consequenzialismo e proporzionalismo etico secondo cui – come scrive Benedetto XVI in queste Note – “la morale [dovrebbe] essere definita solo in base agli scopi dell’agire umano”, colloca quindi la coscienza al suo posto opportuno contro la sua ipertrofia nella nuova teologia morale, ribadisce che il primo elemento di valutazione dell’agire morale sta nella materia dell’azione stessa e non nelle intenzioni dell’agente, e conferma circa l’esistenza di assoluti morali (negativi) ossia di azioni che non si devono mai fare, il che fonda a sua volta la dottrina dei “principi non negoziabili” che la nuova teologia ha invece sempre contrastato e tuttora contrasta. Il nostro Osservatorio ha sempre considerato la Veritatis splendor e la Fides et ratio di Giovanni Paolo II come due encicliche fondamentali per la Dottrina sociale della Chiesa, perché disegnano il quadro dei rapporti tra fede e ragione dentro il quale si colloca la Dottrina sociale stessa e fuori del quale essa va incontro al suo “collasso”. Il “grido di protesta contro il magistero della Chiesa” – per usare le parole delle Note – ha riguardato le suddette due encicliche e, non a caso e parallelamente, anche la Dottrina sociale della Chiesa.

C’è poi un altro punto delle Note del papa emerito che merita di essere evidenziato per la sua importanza rispetto alla Dottrina sociale della Chiesa: “una società in cui Dio è assente – una società che non lo conosce più e lo tratta come se non esistesse – è una società che perde il suo criterio”. Il significato pubblico, quindi pienamente politico e non solo vagamente socialeggiante, di queste parole viene confermato in un passaggio successivo: “La società occidentale è una società nella quale Dio nella sfera pubblica è assente e per la quale non ha più nulla da dire”. Si tratta di affermazioni più volte ripetute da Benedetto XVI quando era “in posizione di responsabilità come pastore dalla Chiesa” e qui ribadite per “dare un segnale forte”. É evidente l’importanza di questa lettura della realtà per la Dottrina sociale della Chiesa la quale viene spesso intesa in senso politico orizzontale mentre Giovanni Paolo II la proponeva come annuncio del Salvatore nelle realtà temporali. “Preferiamo non parlare di Dio”, annota Benedetto XVI. e non si può negare che in ambito pubblico ciò non solo avvenga ma è stato codificato da molti decenni di nuova teologia. “Dio è divenuto fatto privato di una minoranza”, il che annulla il senso e la possibilità stessa della Dottrina sociale della Chiesa. Ciò non libera la Chiesa dai limiti della politica e non la salva dall’ideologia, anzi oggi la “Chiesa viene in gran parte vista come una specie di apparato politico”. Questa osservazione è vera anche per l’uso che la Chiesa fa della Dottrina sociale della Chiesa: timorosa essa stessa di parlare di Dio in pubblico, quando parla in pubblico finisce per adoperare il linguaggio del mondo. Anche questo è un punto importante delle Note: “il sentire conciliare viene di fatto inteso come un atteggiamento critico o negativo nei confronti della tradizione vigente fino a quel momento che ora doveva essere sostituita da un nuovo rapporto, radicalmente aperto, con il mondo”.

Riteniamo che con queste Note, Benedetto XVI abbia dato alla Chiesa un fondamentale contributo anche per quanto riguarda la Dottrina sociale della Chiesa.

Stefano Fontana

Direttore dell’Osservatorio cardinale Van Thuân sulla Dottrina sociale della Chiesa













lunedì 22 aprile 2019

Pasqua di sangue: la strage dei cristiani in Sri Lanka





Continua a crescere in Sri Lanka il bilancio delle vittime degli attentati dinamitardi del giorno di Pasqua, centinaia di morti e feriti provocati dall'esplosione quasi simultanea di sei bombe in tre chiese gremite di fedeli in preghiera e in tre alberghi di lusso nella capitale Colombo. Seguono altre due esplosioni, pare opera di attentatori in fuga. Nessuno rivendica. I principali sospettati sono gruppi semi-sconosciuti di radicali islamici. Ma anche la maggioranza buddista si è dimostrata ostile ai cristiani, che in Sri Lanka sono l'8% della popolazione e sono sempre più spesso vittime di violenze e intimidazioni.



Anna Bono, 22-04-2019

Continua a crescere in Sri Lanka il bilancio delle vittime degli attentati dinamitardi del giorno di Pasqua. I morti ormai sono 290. Molti dei 470 feriti versano in condizioni disperate. Si tratta di una delle più gravi azioni terroristiche messe a segno nel mondo: per le perdite inflitte e perché le esplosioni, avvenute quasi in simultanea, sono state sei, seguite da altre due nelle ore successive, pianificate, coordinate e organizzate per infliggere il maggior danno possibile.

Tutto è iniziato infatti poco dopo le 8 del mattino con l’attacco a tre chiese
dove centinaia di fedeli stavano partecipando alle celebrazioni pasquali. La prima esplosione si è verificata alle 08.45 nel santuario nazionale dedicato a sant’Antonio da Padova, a Kochchkade, un distretto della capitale Colombo. In quel momento al suo interno vi erano da 500 a 600 persone. Le vittime sono state decine. Subito dopo è stata colpita la seconda chiesa, dedicata a san Sebastiano, che si trova a Negombo, una città circa 40 chilometri a nord della capitale, anch’essa gremita. Poi è toccato alla chiesa evangelica di Sion a Batticaloa, una città della costa orientale che dista oltre 300 chilometri da Colombo.

Nel frattempo nella capitale altre esplosioni,
puntando sui ristoranti affollati all’ora della colazione, hanno colpito tre alberghi a cinque stelle: l’hotel Cinnamon Gran Colombo, nel cuore della città, a poca distanza dall’ambasciata Usa e dalla residenza privata del primo ministro Ranil Wickremesinghe; il Kingsbury Colombo, anch’esso centrale, vicino al Colombo World Trade Center; e il Shangri-La, nel quartiere degli affari.

Nel primo pomeriggio c’è stata una settima esplosione
vicino alla capitale, nei pressi dell’albergo Tropical Inn a Dehiwala, un sobborgo di Colombo. Infine un’ultima esplosione si è verificata durante un raid della polizia in una casa di Dematagoda, un altro sobborgo della capitale, ed è costata la vita a tre agenti. Secondo le autorità queste due ultime esplosioni sarebbero opera di attentatori in fuga.

Parlando ai giornalisti alle 15.30 ora locale, il ministro della difesa
Ruwan Wijewardene ha dichiarato che tutti i responsabili erano stati identificati, sette dei quali già arrestati, definendoli “estremisti religiosi” appartenenti a un unico gruppo armato i cui collegamenti internazionali andranno considerati. Inoltre ha detto che la maggior parte degli attacchi sono stati compiuti da attentatori suicidi e ha assicurato che saranno intraprese iniziative per fermare l’attività di tutti i gruppi estremisti del paese. Il governo – ha aggiunto – ha imposto il coprifuoco sulla capitale a partire dalle 18.00 ora locale, il blocco dei maggior social media, inclusi Facebook e WhatsApp, e la chiusura di tutte le scuole il 22 e 23 aprile.

Ancora non ci sono state rivendicazioni.
I sospetti vanno innanzi tutto agli islamisti del National Thowheeth Jama’ath, ma nel paese sono attivi anche altri gruppi radicali. A gennaio la polizia, in seguito all’arresto di quattro membri di un gruppo islamico radicale di recente formazione, aveva scoperto una quantità di materiale esplosivo nascosto in una riserva faunistica. 10 giorni fa le forze di sicurezza sembra che abbiano ricevuto da una agenzia di intelligence straniera l’avviso che un gruppo islamista poco noto stava progettando degli attentati dinamitardi suicidi ad alcune importanti chiese del paese. Il capo della polizia, Pujuth Jayasundara, aveva diramato un allarme ai più alti ufficiali, senza che tuttavia siano stati presi provvedimenti.

D’altra parte la minoranza cristiana, meno dell’8% della popolazione che è buddista al 70%
, denuncia da tempo sempre più frequenti intimidazioni da parte di monaci buddisti estremisti. Nel 2018 si sono registrati almeno 86 episodi di discriminazione, minacce e violenze contro i cristiani. Lo denuncia la National Christian Evangelical Alliance che rappresenta oltre 200 chiese e altri organismi cristiani. Dall’inizio del 2019 gli incidenti, causati da radicali buddisti, sono stati 26, l’ultimo dei quali risale alla domenica delle Palme allorché circa 25 giovani hanno attaccato una chiesa metodista nel distretto di Anuradhapura. Prima hanno tentato di impedire al vescovo anglicano Asiri Perera di entrare nell’edificio. Poi hanno lanciato pietre e petardi contro la chiesa per tutta la durata del servizio religioso. Di fatto il vescovo, 12 fedeli e il Pastore della chiesa sono stati sequestrati perché gli aggressori hanno bloccato l’ingresso della chiesa dall’esterno.

Il cardinale Malcolm Ranjith, arcivescovo di Colombo
, intervistato dalla Bbc, ha dichiarato che mai avrebbe immaginato che potesse succedere una cosa del genere. Neanche all’epoca della guerra civile, che fino al 2009 ha contrapposto forze governative e Tamil separatisti, si sono verificati simili attacchi ai cristiani e alle loro chiese. Per questo, nonostante i segni crescenti di intolleranza religiosa, nessuno ha pensato di adottare misure di sicurezza come succede in altri paesi. “Tanta gente è andata in chiesa senza immaginare che cosa stava per succedere e adesso molti sono stati uccisi – ha commentato – oltre tutto la chiesa di sant’Antonio è frequentata da gente praticamente di tutte le religioni e quindi è stato colpito un centro vitale per la città di Colombo”.

Il periodo della Pasqua come quello di Natale da anni ormai
vedono intensificarsi le minacce ai cristiani, soprattutto da parte di integralisti islamici. Pakistan e Nigeria erano i paesi in cui finora i cristiani avevano pagato il prezzo di gran lunga più alto per la loro fede.