domenica 31 agosto 2014

Diavolo, esiste!




Fin da subito Papa Francesco s’è messo a parlare di Satana. Un inquilino che certa teologia ha banalizzato e ridotto a mito.

di Matteo Matzuzzi


Il Demonio è il nemico numero uno, è il tentatore per eccellenza. Sappiamo che questo essere oscuro e conturbante esiste davvero, e che con proditoria astuzia agisce ancora; è il nemico occulto che semina errori e sventure nella storia umana” (Paolo VI, 15 novembre 1972)

Che guaio aver dimenticato che il Diavolo c’è, diceva qualche anno fa padre Raniero Cantalamessa, predicatore della Casa pontificia. Satana è quasi scomparso dalle omelie dei parroci, dal catechismo. Cancellato, ridotto a puro mito, a superstizione. E’ come se l’ingresso “da qualche fessura di Satana nel tempio di Dio” di cui parlò un inquieto Paolo VI negli ultimi anni di pontificato, fosse niente di più che la sensazione di un Papa stanco, tormentato, malinconico. La colpa di questo “silenzio sul Demonio”, notava ancora il frate cappuccino, è della “posizione intellettualistica che coinvolge anche certi teologi, i quali trovano impossibile credere nell’esistenza del Demonio come entità non solo simbolica ma reale e personale”. Negli ultimi anni si preferiva parlare del Diavolo con più discrezione, prudenza, forse pudore. “Perfino qualche cardinale non crede al Diavolo”, ammetteva sconsolato padre Gabriele Amorth, decano degli esorcisti italiani e convinto assertore di quanto potente sia quello che nel Vangelo di Giovanni è chiamato il “Principe del mondo”.

Poi è arrivato Francesco, il gesuita argentino, il Papa arrivato dalla fine del mondo, e Satana è tornato a ricorrere con una certa frequenza nelle omelie e nei discorsi pronunciati a San Pietro o a Santa Marta. Lo chiama per nome, con naturalezza, perché per lui non è un mito, una metafora del male. Ma è una figura reale. La cosa ha fatto scalpore, anche perché “è invalsa da tempo nella chiesa l’abitudine di tacere su questo personaggio della divina Rivelazione, banalizzandolo”, ha scritto sull’ultimo numero di Civiltà Cattolica padre Giandomenico Mucci. Ne era consapevole agli albori del Terzo millennio monsignor Alessandro Maggiolini, fino al 2007 vescovo di Como: “E’ vero che la teologia, quella un po’ ‘saputa’, ha lasciato da parte il tema del Diavolo”, diceva al Corriere della Sera. “In particolare – aggiungeva il presule – c’è stata una certa teologia razionalista che ha cercato di demitizzare gran parte della Rivelazione. E così il Diavolo è diventato una specie di fabulazione che proiettava nel campo religioso le paure del subconscio”.

Francesco non era Papa neppure da ventiquattro ore che già ammoniva i suoi fratelli cardinali, nella messa “pro ecclesia” celebrata in Sistina all’indomani dell’elezione al Soglio pontificio, che “quando non si confessa Gesù Cristo, si confessa la mondanità del Diavolo, la mondanità del Demonio”. Francesco citò Léon Bloy, lo scrittore che, ironia della sorte, la rivista dei gesuiti anni fa scomunicò in quanto “impaziente, talvolta esaltato e sempre estremista”: “Chi non prega il Signore, prega il Diavolo”. Tesi ripetuta e rafforzata dieci giorni dopo, Domenica delle palme, sul sagrato antistante la basilica vaticana: “Con Gesù non siamo mai soli, anche quando il cammino della vita si scontra con problemi e ostacoli che sembrano insormontabili. E in questo momento viene il nemico, viene il Diavolo”. L’entità misteriosa, ma vera e reale, che è “la causa originaria di ogni persecuzione”, ribadiva poi in una delle consuete omelie a braccio tenute poco dopo l’alba nella piccola cappella di Santa Marta. Con “l’odio del Principe del mondo”, insomma, bisogna fare i conti.

L’inferno “esiste ed è eterno per quanti chiudono il cuore al suo amore”, spiegava Benedetto XVI durante la visita alla parrocchia romana di Santa Felicita nel 2007. Eppure, qualche dubbio, sul finire del secolo scorso, era sorto. Anche perché Giovanni Paolo II – che secondo lo scomparso cardinale francese Jacques-Paul Martin avrebbe praticato in prima persona un esorcismo nel 1982 – assicurò che “la dannazione non è un luogo fisico, ma la situazione in cui viene a trovarsi chi liberamente e definitivamente si allontana da Dio”.

Certo è che “poco se ne può sapere, al punto che lo si potrebbe perfino immaginare vuoto”. Parole che all’epoca (era il 1999) ebbero notevole risonanza, ma che non differivano in nulla da ciò che era ed è rappresentato dal Magistero della chiesa, che sull’inferno insegna tre cose. “La prima: esiste dopo la morte terrena uno stato, non un luogo, che spetta a chi è morto nel peccato grave e ha perduto la grazia santificante con un atto personale. La seconda: questo stato comporta la privazione dolorosa della visione di Dio. La terza: in questo stato c’è un elemento che, con espressione neotestamentaria, è descritto come fuoco. Le due pene, e quindi anche l’inferno, sono eterne”, precisava su Civiltà Cattolica sempre padre Giandomenico Mucci qualche tempo fa. E che l’inferno sia vuoto non è altro che “una formuletta” propria della chiesa contemporanea. “Si risente l’eco del sarcasmo di Voltaire che, in una pagina antisemita, giudicava la dottrina cattolica dell’inferno cosa da domestiche e da sarti”, aggiungeva l’ecclesiologo gesuita.

Una formuletta frutto di un equivoco, l’interpretazione errata di un pensiero di Hans Urs von Balthasar secondo cui sperare nella salvezza eterna di tutti non è contrario alla fede. Ma da qui a dire che l’inferno è vuoto, ce ne passa. Il grande teologo svizzero protestava: “La soluzione da me proposta, secondo la quale Dio non condanna alcuno, ma è l’uomo che si rifiuta in maniera definitiva all’amore a condannare se stesso, non fu affatto presa in considerazione. Sono state ripetutamente travisate le mie parole nel senso che, chi spera la salvezza per tutti i suoi fratelli e tutte le sue sorelle, spera l’inferno vuoto”. E poi, parlare di inferno vuoto, “che razza di espressione!”.


Esiste, c’è, e Joseph Ratzinger lo ribadiva anche nell’enciclica “Spe Salvi” del 2007: “Prospettiva terribile, ma alcune figure della stessa nostra storia lasciano discernere in modo spaventoso profili di tal genere (persone in cui tutto è divenuto menzogna, persone che hanno vissuto per l’odio e hanno calpestato in se stesse l’amore). In simili individui non ci sarebbe più niente di rimediabile e la distruzione del bene sarebbe irrevocabile. E’ questo che si indica con la parola inferno”.

Sull’esistenza di Satana ha giocato, e non poco, anche il modo in cui è stato raffigurato nei secoli, come è entrato e si è sedimentato nell’immaginario popolare collettivo: un satiro orribile con corna e zampe di capra, ogni tanto pure con pizzetto e coda. Retaggio medievale che è passato al Rinascimento e fino ai giorni nostri. Una tradizione cui “tanto contribuirono le sculture mostruose delle cattedrali gotiche e il fantastico affresco che di Satana diedero Dante, Signorelli e Michelangelo”, scrive padre Mucci. Quel Demonio con corna e coda è il tentativo dei nostri antenati di dare un volto e una sembianza allo spirito del male. Oggi ci appare comica, ridicola, degna di un cartone animato per bambini e nulla di più. Ed è anche questa raffigurazione allegorica che ha progressivamente, soprattutto dai tempi di Voltaire in poi, portato a negarne l’esistenza. “Satana è un essere spirituale, inimmaginabile nella sua perversità, che non può essere compreso e descritto sul piano dell’empiria sensibile”, aggiunge il padre gesuita. Inutile perdere tempo a pensare il Diavolo, c’è e basta. “La sua realtà, esistenza e azione, va ricercata soltanto nella divina Rivelazione interpretata all’interno della tradizione della chiesa”.

Pensare al Diavolo come a una persona è normale, in quanto “facciamo necessariamente riferimento alla sola esperienza che abbiamo, quella dello spirito incarnato. Poiché non abbiamo esperienza diretta dell’esistenza demoniaca, siamo costretti a ricorrere alla terminologia desunta dalla vita umana”. Concetti estremamente chiari a Papa Francesco. Per lui, citare il Diavolo è la normalità, e in questo emerge tutta l’influenza gesuitica, dal momento che proprio negli “Esercizi spirituali” sant’Ignazio ricorda che “l’uomo vive sotto il soffio di due venti, quello di Dio e quello di Satana”. E quest’ultimo, recita la tredicesima regola degli “Esercizi”, “si comporta come un frivolo corteggiatore che vuole rimanere nascosto e non essere scoperto”, come un “condottiero che vuole vincere e fare bottino” (quattordicesima regola). Lui, “il nemico della natura umana esamina tutte le nostre virtù teologali, cardinali e morali, e poi ci attacca e cerca di prenderci dove ci trova più deboli e più sprovveduti per la nostra salvezza eterna”.

Per secoli, i Papi hanno parlato del Diavolo, delle sue legioni e dei suoi eserciti, senza farsi troppi scrupoli. Poi è arrivato Immanuel Kant e la musica è cambiata. Il filosofo di Königsberg, infatti, sosteneva che solo la fede razionale può condurre l’umanità fuori dallo stato di minorità. In pratica, come dice Mucci, “è la ragione che deve scegliere le idee che possono soddisfare il suo bisogno”. E una cultura come la nostra “potrebbe mai impegnarsi seriamente in una discussione sul Diavolo?”. L’Illuminismo, insomma, ha cambiato la prospettiva: dal tardo Settecento esso “lavora a confinare l’esperienza religiosa nel campo dell’irrazionale, tende a dissolvere le religioni positive nel pathos sacralizzato della neognosi e del panteismo”.

Michel de Certeau, gesuita pure lui, studioso della letteratura mistica del Seicento, notava anni fa che “oggi la norma non è più la religione, sono le macchine, lo scientismo, il razionalismo esasperato che nega la dimensione spirituale”. Analizzando alcuni film sulla possessione diabolica (primo fra tutti, “L’esorcista” di William Friedkin del 1973), de Certeau scriveva in un piccolo libello, “La lanterna del Diavolo, cinema e possessione”, edito da Medusa, che “il diabolico è la rivolta non contro Dio, ma contro il frastuono oceanico degli uomini”. Il cinema ha ben raccontato il “tema del male come substrato irrazionale della nostra società”.


“Ho la sensazione che, da qualche fessura, sia entrato il fumo di Satana nel tempio santo di Dio” (Paolo VI)

Ma la Chiesa cosa ha ancora da dire e insegnare sul Demonio? Per dare una risposta, è sufficiente richiamarsi alle Scritture e al magistero dei Papi, anche quelli del Novecento, più vicini a noi. Chiaro fu a tal proposito, durante un’udienza generale del novembre 1972, Paolo VI: “Quali sono oggi i bisogni maggiori della Chiesa?”, si domandò aprendo l’intervento che non a caso recava, sui documenti ufficiali, il titoletto “Liberaci dal male”. E subito Montini rispose che “uno dei bisogni maggiori è la difesa da quel male che chiamiamo il Demonio”. Lo disse quasi scusandosi, in tono sommesso: “Non vi stupisca come semplicista, o addirittura come superstiziosa e irreale la nostra risposta”, disse come premessa. Il Diavolo, aggiungeva il Pontefice bresciano, “è all’origine della prima disgrazia dell’umanità; egli fu il tentatore subdolo e fatale del primo peccato, il peccato originale. Da quella caduta di Adamo il Demonio acquistò un certo impero sull’uomo”.

Non confinava, Paolo VI, quell’episodio al racconto biblico della Genesi, al serpente che incarna la “presenza di un essere invidioso” che Cristo nel Nuovo Testamento definisce “omicida fin da principio”, ma affermava che “è storia che dura tuttora”. Satana “è il nemico numero uno, è il tentatore per eccellenza. Sappiamo così che questo essere oscuro e conturbante esiste davvero, e che con proditoria astuzia agisce ancora; è il nemico occulto che semina errori e sventure nella storia umana”. Montini lo definì “perfido e astuto incantatore, che in noi sa insinuarsi, per via dei sensi, della fantasia, della concupiscenza, della logica utopistica, o di disordinati contatti sociali nel gioco del nostro operare, per introdurvi deviazioni, altrettanto nocive quanto all’apparenza conformi alle nostre strutture fisiche o psichiche, o alle nostre istintive, profonde aspirazioni”.

Eppure, il dubbio sulla sua esistenza è forte, c’è quasi vergogna ad ammettere che Satana esiste, che la sua presenza reale esercita un potente influsso sull’individuo, la comunità, la società. “Si pensa – aggiungeva Papa Paolo VI – di trovare negli studi psicanalitici e psichiatrici o in esperienze spiritiche, un sufficiente compenso. Si teme di ricadere in vecchie teorie manichee, o in paurose divagazioni fantastiche e superstiziose. Oggi si preferisce mostrarsi forti e spregiudicati, atteggiarsi a positivisti”. Con il rischio concreto e umiliante di finire per “prestar fede a tante gratuite ubbie magiche o popolari”. Capiva con lungimiranza, il fine intellettuale Montini, che “la nostra dottrina si fa incerta, oscurata com’è dalle tenebre stesse che circondano il Demonio”. La domanda, allora, diventa legittima: “Quali sono i segni della presenza dell’azione diabolica?”. E qui il Papa ammetteva l’impossibilità di dare risposte: Serve “molta cautela. Potremmo supporre la sua sinistra azione là dove la negazione di Dio si fa radicale, sottile e assurda, dove la menzogna si afferma ipocrita e potente, contro la verità evidente, dove l’amore è spento da un egoismo freddo e crudele, dove il nome di Cristo è impugnato con odio cosciente e ribelle (…) Ma è diagnosi troppo ampia e difficile”.

Se oggi si assiste allo stupore di credenti e non credenti dinanzi alle continue citazioni che Francesco fa del Diavolo, la responsabilità va addebitata “all’assenza nella predicazione e nella catechesi della verità relativa al Demonio”. A dirlo, il 4 maggio scorso in un articolo apparso sull’Osservatore Romano, è stato il teologo Inos Biffi, che esprimeva sorpresa anche “per quei teologi che, per un verso applaudono che finalmente il Vaticano II abbia dichiarato la Scrittura ‘anima della sacra teologia’ e, per l’altro, non esitano – se non a deciderne l’inesistenza – comunque a trascurare come marginale un dato chiarissimo e largamente attestato nella stessa Scrittura, com’è quello relativo al Demonio, ritenendolo la personificazione di un’oscura e primordiale idea di male, ormai demitizzabile e inaccettabile”. Questa concezione, a parere di Biffi, è “un capolavoro di ideologia e soprattutto equivale a banalizzare la stessa opera di Cristo e la sua redenzione”.

Insomma, non dovrebbero stupire i richiami del Papa regnante a una realtà viva e presente il cui potere “è impressionante”. Anche nei documenti del Concilio Vaticano II, scrive ancora padre Giandomenico Mucci, “il Diavolo è corposamente presente”. Eppure, “alcuni teologi hanno accolto l’opinione secondo la quale Satana è frutto della fantasia umana sviluppatasi nell’area del paganesimo e penetrata successivamente nel pensiero giudaico”. Della serie, Belzebù con zampe di capra e corna in capo. Idee, queste, “fatte passare per verità definitivamente acquisite”. Sembrerebbe, dunque, che il Demonio abbia vinto la sua prima (ma fondamentale) battaglia, lui che – scriveva Charles Baudelaire – usa l’astuzia di non far credere alla sua esistenza per meglio raggiungere i suoi scopi.

© FOGLIO QUOTIDIANO (2 settembre 2013)

sabato 30 agosto 2014

Canto gregoriano e teologia liturgica: note in margine ad un divorzio






di Mattia Rossi 

(testo pubblicato sull'ultimo numero di Divinitas, Rivista internazionale di ricerca e di critica teologica Anno LVII (2014), n. 1, pp. 11-16, Città del Vaticano, curata da Mons. Brunero Gherardini)


Quello dell’oblio del canto gregoriano dal Novus Ordo Missae, il messale riformato da Paolo VI, è una quaestio che, negli affannosi anni del post-Concilio, si è imposta per la sua oggettiva mole di nefaste conseguenze e che – parafrasando il salmo 136 – potrebbe essere inquadrata all’interno di quella storia che andrebbe sotto il titolo di “Come cantare i canti del Signore in terra straniera?”. È un discorso complesso e articolato che non può essere sommariamente liquidato, come spesso apoditticamente avviene, con luoghi comuni privi di dimostrazioni o trincerandosi dietro la necessaria competenza che richiede la trattazione della materia. È giunto il momento di fare alcune necessarie precisazioni.
La sparizione della musica liturgica, e, nella fattispecie di questo contributo, del gregoriano, dalla messa postconciliare, a ben vedere descrive sufficientemente bene l’apogeo, nonché la raffigurazione simbolica anche cultuale, di una manifesta, quanto nociva, desistenza dall’Autorità.
Il canto sacro è sempre stato concepito dalla Chiesa non come un qualcosa “in più”, ma sostanzialmente come qualcosa di “diverso” dalla quotidianità del parlato: il canto era elemento strutturale della liturgia sempre, non solo nella festività. La liturgia era canto: questo era il primario compito del canto liturgico. In retorica, ogni proclamazione è sempre anche una interpretazione di ciò che viene annunciato. E se si tratta di liturgia, allora, la Parola esige di essere annunciata solennemente. La nuda recitazione banalizza e depaupera, è inevitabile. Se noi, nella liturgia, non celebriamo l’uomo, ma celebriamo Colui che è l’impronunciabile per eccellenza, ecco allora che le parole non bastano più, occorre “metafisicizzare” la pronuncia del sacro. A questo servono la musica e il canto, sin dai padri d’Israele.

Ma c’è di più, simbologicamente e teologicamente parlando. E per riuscire a salire il gradino e comprendere la gravità dello scatto innescato dal postconcilio e dall’embargo del gregoriano, occorre partire da lontano, da un paradosso: il canto gregoriano non è solamente canto. La vera natura del canto gregoriano è retorica ed esegetica prima ancora che musicale: la totale consustanzialità tra parola e neuma, la dipendenza dell’andamento musicale-ritmico dal senso esegetico che di quel testo si vuol dare, gli espedienti retorici, dei quali la composizione gregoriana si serve, sottolineano, per mezzo del fenomeno sonoro, un preciso significato che, in definitiva, corrisponde ad una precisa interpretazione scritturale. Questo è il senso di quel bagaglio di segni (i neumi) che accompagnano i testi nei manoscritti. È proprio sotto a quei segni che soggiace il significato primo e ultimo del gregoriano, la cui (ri)scoperta si dovette a un monaco dell’abbazia benedettina di Solesmes, dom Eugene Cardine. I neumi, che, a seconda di come sono posti e di dove sono posti, interpretano la Scrittura e fanno sì che il gregoriano possa essere definito lectio divina in musica. È per questo he la Chiesa l’ha sempre additato come “proprio”: perché è Lei che detiene l’esegesi delle Scritture. Con il gregoriano, la Chiesa, fa propria la retorica antica del cantus obscurior di Cicerone e della “inventio, dispositio, memoria, elocutio et actio” esposti nella “Rhetorica ad Herennium”. Con un canto meta-fisico, dunque, che va al di là della semplice sfera dell’udibile, e calato nella liturgia terrena, specchio della Gerusalemme celeste, la Chiesa Docente ha sempre veicolato la propria esegesi a trecentosessanta gradi comprendendovi anche la musica. La Chiesa Mater et Magistra ha sempre proposto il gregoriano perché esso è veramente suono dell’Invisibile, è epifania sonora del Verbo. È Dio, il quale non ha “bisogno della nostra lode”, che parla a noi attraverso un canto plasmato dallo Spirito, una musica che dal Cielo discende sulla terra per conformare l’actio terrena a quella divina.

“Alzati, amica mia, mia bella e vieni! Perché, ecco, l’inverno è passato, è cessata la pioggia, se n’è andata; i fiori sono apparsi nei campi, il tempo del canto è tornato” (Can 2, 10-12). Così, nel Cantico dei Cantici, lo sposo cerca la sua sposa: è figura dell’amore dello sposo-Dio verso la sua sposa-Israele; è l’amore dello sposo-Cristo verso la sua sposa-Chiesa. L’unione mistica di Dio con la sua Chiesa è paragonata, attraverso una bella immagine, al rifiorire della primavera e al ritorno di un bellissimo canto. È il canto che si ode nel momento in cui Dio va incontro all’uomo, e la liturgia è proprio questo: il Cielo aperto la cui luce si squarcia sull’altare, simulacro del Golgota, terreno. E il gregoriano, come incarnazione sonora del Verbo che è da sempre, è l’armonia celeste che si affaccia sulla terra ed è in grado di infondere la gioia e la speranza nel cuore come la cetra di Davide calmava lo “spirito cattivo” di Saul e lo trasformava in un altro uomo (1Sam 16, 14-23), una sorta di catarsi aristotelica o, se si preferisce, agostiniana.
In quanto lectio divina e in quanto esegesi, il canto sacro è il canto della Chiesa perché della Chiesa è la Tradizione e l’interpretazione della Parola di Dio. Il gregoriano, nella sua costrizione formale e compositiva e nei vincoli di fissità interpretativa, garantisce una risposta il meno indegna possibile e preparata alla Parola: è solo nella sua ortodossa solidità, così come accade nelle rubriche e nella immutabilità rituale, che il canto liturgico può garantire una degna e consapevole meditazione assoggettata alla Verità. In esso troviamo l’immagine sonora della Rivelazione: Scrittura (Parola) e Tradizione (esegesi). Ecco cosa si intende per designare il gregoriano come interpretazione sonora intera ed autentica del Logos. Il gregoriano è una sorprendente summa della lex orandi in musica che la Tradizione della Chiesa ci ha consegnato: in essa, nelle sue molteplici sfaccettature e significati reconditi, ci svela parte di quell’immenso carico di concetti e rimandi teologici che troppe banali superficialità liturgiche e slogan (pseudo)teologici, inconsapevolmente, oggi eliminano.

Il discorso, me ne rendo conto, può sembrare fin troppo astratto e teorico. Prendiamo, allora, un esempio: il communio della II domenica di Pasqua “Mitte manum” nel quale si riportano le parole che Gesù rivolse all’incredulo per antonomasia, san Tommaso. “Mitte manum tuam et cognosce loca clavorum, alleluia. Et noli esse incredulus sed fidelis, alleluia, alleluia” (“Metti la tua mano e senti il segno dei chiodi, alleluia. E non essere incredulo, ma credente, alleluia, alleluia”), recita il testo. Un brano musicalmente molto semplice che, però, inizia subito con tre termini molto forti e ognuno dei quali risulta, a suo modo, sottolineato dall’andamento ritmico. “Mitte”, metti: è l’invito che Gesù rivolge a Tommaso, è l’azione grazie alla quale l’apostolo incredulo può credere, è la porta, per Tommaso, della fede e viene rimarcata con un forte stacco alla prima nota. “Manum”, la seconda parola, è lo strumento con cui Tommaso approda alla fede: una grande liquescenza sulla seconda sillaba (-num) ingrandisce il termine e lo sottolinea unendolo a quello che segue. “Tuam”, metti la tua mano: è l’invito che Gesù, oggi, rivolge all’incredulo Tommaso che c’è in ciascuno di noi. Sulla seconda sillaba di “tuam” c’è un neuma speciale di sottolineatura: “Mitte manum tuam” tre parole distintamente sottolineate, ma che formano un’unica frase, un'unica esortazione ad aprirsi alla fede. Anche la congiunzione che segue, “et”, è fortemente allargata a creare l’attesa per la frase seguente: “cognosce loca clavorum”. Un “et” molto sospensivo che, però, prelude alla dichiarazione disarmante di Gesù: “senti il segno dei chiodi!”.
Straordinaria, però, per la comprensione di cosa sia realmente il canto gregoriano, è la seconda parte del brano, “Et noli esse incredulus, sed fidelis”: essa ha la stessa, identica, melodia di “et linivit oculos meos” del brano “Lutum fecit”, il communio della domenica quaresimale detta del cieco nato. Che magnifica retorica!: in due brani apparentemente distinti fra loro (uno a metà quaresima, l’altro all’inizio del tempo pasquale) sono, in realtà, fortemente collegati da una stessa medesima melodia. È chiaro che l’intento del compositore gregoriano è squisitamente retorico: collegare e rimandare tra di loro i due brani in quanto appartenenti ad un unico “argomento”, la fede. Ecco cos’è il gregoriano.

Ma tutto questo, come si diceva, è letteralmente sparito dalla vita della chiesa postconciliare. È vero che la “Sacrosanctum Concilium” definisce il canto gregoriano come “proprio della liturgia romana” al quale si deve riservare “il posto principale” (n. 116), ma – ed è, ormai, ora di dirlo chiaramente – non si premura minimamente di andare oltre. Anzi, leggiamo integralmente il numero 116 e traiamone qualche conclusione: “La Chiesa riconosce il canto gregoriano come canto proprio della liturgia romana; perciò nelle azioni liturgiche, a parità di condizioni, gli si riservi il posto principale. Gli altri generi di musica sacra, e specialmente la polifonia, non si escludono affatto dalla celebrazione dei divini uffici, purché rispondano allo spirito dell'azione liturgica”.
Occorre, a questo punto, notare che quando è stata redatta la “Sacrosanctum Concilium” la liturgia Romana ancora esisteva, era quella tridentina (la stessa messa che, per inciso, anche al Vaticano II si celebrava…): il messale del 1962 che, Giovanni XXIII, volle “donare al Concilio”. E fu quel messale lì ad essere “rivisto” – passatemi il termine semplificativo – secondo i dettami della “Sacrosanctum Concilium”: venne tradotto in alcune parti in italiano e leggermente sfoltito, appunto, secondo il volere conciliare in pieno sviluppo organico con la Tradizione. Parlo, evidentemente, del messale introdotto nel 1965, quello che sembra più in linea con le richiesta della costituzione sulla Sacra Liturgia.
Sembra naturale pensare, dunque, che il passo in questione fosse riferito a “quella” messa, ancora sostanzialmente simile a quella di pochi anni prima. Da questo possiamo altrettanto evincere che la citazione della “Sacrosanctum Concilium” non possa riferirsi alla “liturgia costruita a tavolino” sorta dopo lo smantellamento dell’“edificio antico” fatto “a pezzi” (le citazioni sono sempre del card. Ratzinger) quale fu il messale 1969-1970 che era ancora di là da venire. O meglio: è proprio quella messa non essere, in modo perfetto soprattutto nei suoi aspetti più controversi, la “messa propria” di quel canto. Ovvio, lo ripeto: ciò non vuol dire che non si possa cantare qualche antifona gregoriana all’interno della messa riformata. Ma che tale passo della “Sacrosanctum Concilium” non fosse così efficace è stato dimostrato ampiamente dalla deriva che il repertorio sacro ha subìto in questi frenetici cinquant’anni.

Mi pare, dunque, di poter notare, in conclusione, che l’esclusione del canto “proprio” della chiesa dalla liturgia riformata sia piuttosto naturale alla deriva filo-protestante postconciliare subita dalla liturgia e, purtroppo, corrispondente a quanto denunciava Joseph Ratzinger e che non possiamo che condividere: “Dietro ai modi diversi di concepire la liturgia ci sono modi diversi di concepire la Chiesa”. Si “riscrive” la liturgia cattolica annacquandola con elementi protestanti, si pone al centro di tutto il nuovo impianto teologico-liturgico la “doppia mensa” e, da ultimo, quale conseguenza naturale, è evidente, si abbandona il canto gregoriano in quanto espressione di una “docenza” non più connaturale alla nuova ecclesiologia.
Una chiesa che fa quotidianamente muta apostasia della “sua” musica, che è la “sua” teologia, è una Chiesa che rinnega la dottrina, dovunque essa risieda, e, di conseguenza, l’interpretazione della Scrittura che, senza la senza la lettura viva della Tradizione, resta parola al vento. Una Chiesa che abbandona l’incarnazione musicale gregoriana della Parola in luogo di un ostinato inclusivismo senza l’oggettività della Verità è una chiesa che abbandona, di fatto, il suo “munus docendi”. E, infine, una Chiesa che rigetta il “munus docendi” (et regendi), sia pur veicolato dalla musica, non può che portare al dissolvimento dell’Autorità.
Mattia Rossi
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1. Musica e culto rituale, da un punto di vista storico, furono da sempre connesse: nell’antichità anche i culti pagani erano cantati (“incantesimo”, ovvero “in-canto”) e il cristianesimo, e prima ancora l’ebraismo, videro nel canto il miglior metodo per sacralizzare il rito e rendere manifesta la sua alterità.
2. Questo è facilmente riscontrabile nelle parti proprie del celebrante (i dialoghi, gli Oremus, il prefazio, ad esempio), dette recitativi, e che storicamente sono le più antiche, che sono sempre cantate. In esse, egli si discosta da sé stesso e dalla sua ordinarietà per indossare un abito nuovo di alterità: se osserviamo la costruzione dei recitativi notiamo che quasi ogni melodia prevede due possibili forme, una semplice e una solenne.
3. Messale romano, Prefazio comune IV.
4. Messale romano, Prefazio comune IV. 




Chiesa e postconcilio 29 agosto 2014



giovedì 28 agosto 2014

LA CONFESSIONE SACRILEGA






don Leonardo Maria Pompei

Iniziando l’analisi dei peccati contro il primo comandamento abbiamo visto che l’uso sacrilego dei sacramenti rappresenta, in assoluto, la forma più grave di offesa diretta a Dio e alla sua divina Maestà. Oltre che le comunioni sacrileghe, purtroppo, oggi è quanto mai diffuso un altro gravissimo peccato: quello dell’uso sacrilego del sacramento della confessione. 

Prima di addentrarci in questa nuova cancrena che affligge dal profondo i figli della Chiesa, è bene osservare che uno dei precetti generali della Chiesa obbliga i fedeli all’uso minimo di questi due importantissimi sacramenti: la confessione almeno una volta l’anno e la comunione almeno a Pasqua. Per la verità il santo Curato d’Ars piangeva quando doveva rammentare ai suoi fedeli questo precetto, parendogli assurdo che la Chiesa dovesse imporre sub gravi una cosa tanto bella come la santa comunione, che dovrebbe essere ricevuta (secondo le intenzioni di Chi l’ha istituita) preferibilmente ogni giorno. Tuttavia il santo Parroco doveva amaramente costatare che è tale e tanta la stoltezza dell’uomo, che la Chiesa, come madre premurosa di un figlio discolo, ha dovuto imporre quel minimo assolutamente indispensabile per evitare di lasciare i suoi figli in stato di dannazione. Conseguentemente non solo chi profana ma anche chi omette almeno questa frequenza minima a questi sacramenti non è scusabile da colpa grave. Ecco perché la prima cosa da dire quando si entra in confessionale è “da quanto tempo non ci si confessa” e, qualora il penitente non lo faccia, il sacerdote è tenuto a interrogarlo in merito. Qualora infatti non ci si confessasse da dieci, quindici, trent’anni il confessore capirebbe subito che sul povero fedele gravano dieci, quindici, trenta peccati mortali.

Ora, la santa Chiesa, nel Concilio tridentino (di cui è eco fedelissimo il grande dottore sant’Alfonso Maria de’ Liguori, patrono dei confessori e dei moralisti, a cui faremo ampio riferimento) ha insegnato che per ottenere il perdono di Dio dei peccati commessi dopo il Battesimo occorrono alcune condizioni, in mancanza delle quali la confessione o è invalida o, peggio, è sacrilega. 

Anzitutto oggetto obbligatorio della confessione sono tutti e singoli i peccati mortali di cui il penitente abbia coscienza, che siano stati commessi da quando si ha l’uso della ragione al momento in cui ci si sta confessando. Tali peccati vanno confessati per numero, specie e circostanze e si otterrà la misericordia di Dio solo se di essi si è realmente pentiti ovvero: 1) si prova dolore per il peccato commesso (perfetto se originato dal fatto di aver offeso Dio o imperfetto se scaturisce dal timore dell’Inferno e dei castighi dovuti per i peccati); 2) lo si detesta con tutto il cuore; 3) si ha il fermo, risoluto e deciso proposito di non commetterlo più. 

Il confessore, durante l’amministrazione di questo sacramento, svolge, come insegna sant’Alfonso, quattro funzioni; quella di padre, in quanto interprete della bontà e della misericordia di Dio; quella di maestro, in quanto deve aiutare il penitente nell’esaminare e nel formare la sua coscienza, formulando alcune domande qualora abbia motivo di ritenere che il penitente non sia in grado di discernere le colpe gravi (cosa che oggi accade spessissimo); quella di giudice, in quanto deve verificare se la confessione è sincera e se il penitente sia pentito, cercando, in caso negativo, di stimolarne o provocarne il pentimento durante la confessione. In quanto giudice il sacerdote deve verificare se può o meno assolvere il penitente; ed in caso positivo impartire una soddisfazione sacramentale (o penitenza) che sia proporzionata al numero e alla gravità dei peccati; quella infine di medico, in quanto deve, con le opportune esortazioni, indicare al penitente le vie di futura preservazione dal male. Anche nel decidere il tipo di penitenza da imporre, il confessore deve ricordare che sta agendo come un medico dinanzi ad un malato che ha bisogno di terapie per guarire e per ristabilirsi in perfetta forma fisica.

Dinanzi a tale disciplina, vediamo ora quando la confessione è sacrilega. Anzitutto quando il penitente non è pentito, cioè non prova dolore per quello che ha fatto, ma, soprattutto, non ha intenzione di smettere. È inutile, in questi casi, andarsi a cercare confessori dalla “manica larga” (oggi, purtroppo, molto diffusi), perché se anche il sacerdote osasse assolvere un fedele non pentito, commetterebbe peccato mortale e sarebbe responsabile di tutte le comunioni sacrileghe fatte dal penitente erroneamente illuso di essere stato assolto. 

Seguono le confessioni incomplete per colpa del penitente, o perché si vergogna o ha paura di rivelare qualche peccato, oppure perché (cosa peggiore) rifiuta di riconoscere qualche peccato come mortale (pochissimi, per esempio, oggi accettano che mancare alla Messa domenicale o commettere atti impuri sia peccato mortale). La confessione viene invalidata in via successiva se il penitente omette di fare la penitenza sacramentale che gli è stata imposta dal confessore, che va adempiuta seriamente e scrupolosamente. Essa, infatti, è requisito essenziale della confessione, tant’è vero che per larga parte del primo millennio l’assoluzione veniva concessa solo dopo aver adempiuto alla penitenza imposta.

L’esperienza pastorale insegna che quei (pochi) fedeli che si confessano spesso lo fanno assai male e che purtroppo non pochi ministri, atteggiandosi a fare i buoni, causano una vera e propria rovina di innumerevoli anime. 

A conclusione di questo spinoso tema mi permetto di dare alcuni consigli per evitare di incorrere in spiacevoli e gravi inconvenienti: 1) Pregare Dio che ci faccia trovare un buon confessore ed avere, di norma, un confessore fisso, di sana dottrina, di vita tendenzialmente santa e animato da santo zelo. I modelli di confessori sono tre: san Pio da Pietrelcina, il santo Curato d’Ars e sant’Alfonso M. de’ Liguori, tutti pieni di misericordia ma anche di severità, di dolcezza ma anche di fermezza; 2) Far bene l’esame di coscienza e chiedere di persona al confessore di essere interrogati, qualora si pensi di non essere in grado di discernere le colpe gravi; 3) Essere sommamente sinceri e curare di confessare bene i peccati per specie (non basta dire “ho commesso atti impuri”: un conto è l’adulterio, un conto l’omosessualità, un conto la pornografia, etc.), per numero (non basta dire “ho mancato alla Messa”, ma bisogna specificare il numero e, qualora non lo si ricordi, dare un ordine di grandezza) e per circostanze (se un padre bestemmia davanti a un figlio deve specificarlo); 4) Preparare la confessione ricorrendo all’ausilio della Beata Vergine Immacolata e pregare per il confessore, perché abbia da Dio la luce e la grazia per aiutarci a troncare con il peccato, giacché, come diceva il santo Curato d’Ars, “se non c’è in noi un completo cambiamento, non abbiamo meritato l’assoluzione: e c’è da temere che il nostro sia solo un sacrilegio. Ah, se almeno ogni trenta assoluzioni ve ne fosse una valida, come si convertirebbe presto il mondo!”.







Richard Dawkins e varie altre questioni bioetiche


dawkins




Da Renzo Puccetti

Richard Dawkins, guru planetario di ateologia, quella buffa disciplina volta a dimostrare l’indimostrabile, ne ha escogitata un’altra delle sue. Ha cominciato biasimando l’Irlanda per la sua legge “incivile” sull’aborto (nonostante i recenti cedimenti l’Irlanda conserva una tra le leggi più restrittive). Il tweet è poi andato avanti; ad un commento in cui gli si chiedeva conto dei 992 bambini abortiti in Inghilterra e Galles nel 2012 perché diagnosticati della sindrome di Down, Dawkins ha risposto di considerare “civilissima” la legge che consentiva l’aborto di “feti, diagnosticati prima di avere sentimenti umani”, incapaci cioè di soffrire.

Se lo leggesse il mio amico neonatologo Carlo Bellieni, esperto mondiale di dolore prenatale, gli verrebbero i capelli più dritti di un punk moicano. Ma il più deve ancora venire; ad una donna che ha scritto di non sapere che cosa avrebbe fatto se fosse rimasta incinta di un bambino Down, Richard Dawkins ha risposto serafico: “abortisci e riprovaci. Sarebbe immorale farlo venire al mondo se puoi scegliere”. Nella Francia della Liberté, Egalité, Fraternité, il Consiglio superiore per l’audiovisivo, organismo per la sorveglianza dei programmi, ha censurato le emittenti che avevano trasmesso un video realizzato dall’associazione italiana CoorDown Onlus in occasione della giornata mondiale della sindrome di Down. Nel video ad una donna incinta che diceva di avere paura perché al proprio bambino era stata diagnosticata la trisomia 21, 15 ragazzi Down rispondevano in quattro lingue di stare tranquilla, perché un figlio Down può fare tutto quello che fanno gli altri.

La colpa del filmato? Disturbare la coscienza di donne che hanno fatto una scelta differente, hanno sentenziato i censori di regime. Mutatis mutandis ci si aspetterebbe la censura dei filmati storici che ritraggono le efferatezze naziste, possibile fonte di turbamento della coscienza dei nazisti sopravvissuti, autori di scelte allora del tutto legali. Nel 1975 una Corte Costituzionale di un paese democratico dell’Europa occidentale aveva stabilito che non esiste equivalenza fra chi è persona e chi invece lo deve diventare. Chi è persona ha, per quella corte e per la legislazione che è seguita, il diritto a togliere la vita di chi persona non è, per tutelare non solo la propria vita, ma anche la salute, termine subito interpretato in modo da includere persino il più etereo turbamento.

Quel Paese era l’Italia. Poi venne Luis Brown, la prima bambina nata dopo il concepimento in provetta. Mamme-nonne e nonne-mamme cominciarono ad affollare i rotocalchi, quando l’azoto liquido scarseggiava i lavandini si intasavano di embrioni in eccesso, fecondopoli cresceva a ritmo impressionante col sostegno di intellettuali e politici orfani di falce e martello ripiegatisi a cantare provetta e pipetta la trionferà. Alcuni cercarono di metterci una pezza, stretti tra la Scilla della moralità e la Cariddi dei pronunciamenti precedenti della Corte Costituzionale di cui sopra. Picchia e mena l’ingiustizia fu ridotta attraverso la legge 40. Come anticipò teoreticamente nel 2002 dalle colonne dell’Osservatore Romano il professor Ángel Rodríguez Luño, la legge 40 fu l’approdo di uno sforzo lecito e doveroso di riduzione per quanto possibile di un male da porsi a carico di quanti non rendevano possibile la sua totale eliminazione, una legge comunque che rimaneva oggettivamente ingiusta perché consentiva il male della fecondazione artificiale, ma non abbastanza ingiusta per cittadini e maggiorenti di fecondopoli che si appellarono agli elettori con uno spiegamento mediatico con pochi precedenti.

Il popolo della vita seppe mobilitarsi con antica unità ed abilità e vinse la battaglia referendaria. Alla fine, persino il segretario radicale del tempo ammise che il salotto della procreatica aveva preso una “tranvata”. Fallito l’attacco frontale, sono giunti gli abilissimi specialisti della panzer leguleien divizionen che hanno sbaragliato ogni ostacolo sulla loro strada con una strategia semplice ed infallibile: se nei primi tre mesi il concepito-non-persona, Corte Costituzionale dixit, lo si può ammazzare dietro semplice richiesta, se nei secondi tre mesi lo si può fare fuori quando si presume sia difettoso, Corte Costituzionale perinde dixit, perché la stessa Corte Costituzionale non dovrebbe concedere di poterlo congelare, sezionare ed assemblare con componenti d’importazione quando è più piccolo della pupilla dell’uomo vitruviano sulla moneta da un euro? Ci mancherebbe, mai per desiderio, mai per capriccio, ma sempre e soltanto per la salute delle persone.

Che male c’è? Se, come ha detto l’avvocato Filomena Gallo, segretaria dell’associazione radicale Luca Coscioni, gli embrioni sono “proprietà della coppia”, i proprietari avranno o no diritto a controllare che allo sportello della fabbrica abbiano annotato correttamente l’ordinativo? Avranno o no il diritto a sorvegliare le fasi di lavorazione? Avranno o no il diritto ad avvalersi della clausola di recesso? Eugenetica prenatale sì e pre-impiantatoria no? Suvvia, ci sforziamo di essere candidi, mica fessi ed una cosa l’abbiamo capita: per i giudici della Consulta la legge è uguale per tutti tranne che per gli schiavi, classe merceologica costituzionalmente garantita comprendente per ora gli esseri umani prima della nascita, poi si vedrà. Il professor Defanti, membro della Consulta di Bioetica Onlus presieduta dal professor Mori e consulente del padre di Eluana Englaro, in un volume molto dotto ci ha spiegato che non dobbiamo allarmarci perché l’eugenetica è solo un tabù contemporaneo. L’argomento della deriva nazista in tema di eugenetica, scrive Defanti, non tiene conto del fatto che “l’emanazione di leggi eugenetiche di tipo coattivo sarebbe oggi inconcepibile in un regime politico di tipo liberaldemocratico”.

Certo, c’è il piccolo particolare che basta confinare l’eugenetica al prenatale, magari con qualche concessione all’immediato post-natale e all’incoscienza persistente, per potere continuare a concepirsi dei perfetti liberal-democratici, anziché degli incivili pro-life. Richard, posto che puoi stare tranquillo e mettere l’Italia nel tuo elenco delle nazioni “civilissime” per aborto e fecondazione mille gusti, confesso che mi rimane un interrogativo: se l’eugenetica attuale rappresenta l’approdo alla civiltà, non sarà il caso di avvisare i tuoi fans in un prossimo cinguettio che averne interrotto la marcia trionfale sacrificando milioni di vite giovani e forti sui campi di battaglia d’Europa, avere contrastato un’eugenetica colpevole solo di risentire della sensibilità teutonica del tempo, fu un tragico rigurgito d’inciviltà cristiana?





Libertà e persona


martedì 26 agosto 2014

Mons. Negri contro "la mentalità laicista che cerca di dominare la nostra coscienza e il nostro cuore"







In questi giorni gli scontri inter-religiosi riempiono le cronache con nuovi quotidiani massacri, provocando reazioni di sdegno da parte dei cittadini e dei politici, così come manifestazioni di solidarietà verso gli oppressi. Manifestazioni come quella, l’ultima in ordine di tempo, di esporre la “N” di Nassarah, ossia di nazareno nella sede dell’Arcivescovado e nelle case dei fedeli cattolici, per sensibilizzare sulle atrocità commesse in Iraq e in Siria ai danni dei cristiani voluta dall’arcivescovo Luigi Negri.
In un clima del genere non possono non tornare a galla parole scritte solo pochi mesi fa proprio dall’arcivescovo di Ferrara-Comacchio – pubblicate sul sito missagregoriana.it – in risposta a un articolo di don Federico Pichetto apparso su Il Sussidiario, nel quale il parroco criticava le Crociate e le indicava come un “travisamento dell’ideale evangelico di Cristo”.

Parole, quelle di Negri, che non mancheranno di far discutere: “Le Crociate – scrive l’arcivescovo riprendendo un pensiero dello storico Franco Cardini – sono state un grande «pellegrinaggio armato», protagonista del quale fu, nei secoli, il popolo cristiano nel suo complesso. Una avanguardia di santi, una massa di cristiani comuni e, nella retroguardia, qualche delinquente. Non so quale avvenimento della Chiesa possa sfuggire a una lettura come questa. Sta di fatto che noi, cristiani del Terzo millennio, – sottolinea Negri – alle Crociate dobbiamo molto”.

Fra i ‘vantaggi’ portati dalle Crociate, il monsignore indica, in primis, il fatto che “non si sia perduta la possibilità dei grandi pellegrinaggi in Terrasanta: nei luoghi della vita storica di Gesù Cristo e della nascita della Chiesa. Alle Crociate – continua l’arcivescovo – dobbiamo che si sia ritardata la fine della grande epopea della civiltà bizantina di almeno due secoli, e si sono soprattutto salvate dalla dominazione turca le regioni della nostra bella Italia, che si affacciano sul mare Adriatico, Tirreno e Ionio, falcidiate da quelle sistematiche incursioni di corsari e di turchi che hanno depauperato nei secoli le nostre popolazioni. Anche la tua bella Liguria – prosegue Negri riferendosi alla regione di provenienza del parroco ‘anti-crociate’ – ha dovuto costruire parte dei suoi paesi e delle sue piccole città a due livelli – il livello del mare e il livello della montagna – per poter sfuggire a queste invasioni che hanno fatto morire nel buio della cosiddetta civiltà araba e islamica centinaia e migliaia di nostri fratelli cristiani, a cui era stata tolta anche la dignità umana e di cui noi facciamo così fatica a fare memoria. Nessuna realtà cristiana – sottolinea Negri – esprime la perfezione della fede che è solo in Gesù Cristo, ma nessuna esperienza cristiana è invincibilmente diabolica. Passare dalla fede alle opere è compito fondamentale del cristiano di ogni tempo”.

Nessuna condanna ma, anzi, sforzo “per recuperare questa bellezza della storia cristiana” per la quale “bisogna guardare la realtà secondo tutta l’ampiezza cattolica. La mia generazione e quella di molti amici dopo di me – afferma Negri – hanno un sano orgoglio della nostra tradizione cattolica. Per questo sentono in modo assolutamente negativo desumere acriticamente l’immagine della Chiesa dalla mentalità laicista che cerca di dominare la nostra coscienza e il nostro cuore.

“Certo, l’essenza di questa tradizione cattolica e che, quindi, comprende anche le Crociate, è il desiderio di vivere il rapporto con Cristo e di annunziarlo nella concretezza del suo popolo che è la Chiesa, nelle grandi dimensioni che rendono il cristiano autenticamente uomo: la dimensione della cultura, della carità e della missione. È questo – spiega Negri – il Cristo che sta all’origine di tante iniziative del passato e del presente. Nessuna iniziativa lo esprime adeguatamente, ma l’assenza di qualsiasi capacità di presenza nel mondo e di giudizio sulla vita degli uomini e sui problemi degli uomini fa dubitare che esista una fede autenticamente cattolica. La fede in Cristo può rischiare di ridursi a essere spunto per mozioni soggettive e spiritualistiche da cui metteva in guardia il santo padre Benedetto XVI all’inizio della sua splendida enciclica Deus Caritas Est: un Cristo che rischia di stare acquattato nel silenzio della coscienza personale, che non diventa fattore di vita e di cultura, che non tende a creare una civiltà della verità e dell’amore. Ricordo ancora con commozione quando facevo la terza liceo una lezione di Giussani in cui disse letteralmente: «La comunità cristiana tende a generare inesorabilmente una civiltà».

“Nella mia esperienza pastorale e culturale – afferma ancora l’arcivescovo – ho sempre sentito come punto di riferimento sostanziale la grande certezza di Giovanni di Salisbury che diceva: «Noi siamo come nani sulle spalle di giganti». È perché siamo sulle spalle di giganti che vediamo bene il presente e intuiamo le linee del futuro. È questo – conclude Negri – che rende così appassionata la nostra responsabilità, senza nessuna dipendenza dagli esiti, con la certezza di portare il nostro contributo, piccolo o grande che sia, alla grande impresa del farsi del Regno di Dio nel mondo, che  coincide con la Chiesa e la sua missione.





Chiesa e postconcilio



lunedì 25 agosto 2014

Fruttuosità, validità e liceità della santa Messa





di Don Leonardo Maria Pompei

Nell'articolo precedente, occupandoci di determinare le condizioni per una partecipazione piena, attiva e consapevole alla santa Messa, abbiamo aperto un delicato e importante capitolo, quello della "fruttuosità" dei sacramenti. Prima di concludere la trattazione del primo precetto generale della Chiesa, anche in vista di alcune cose che dovremo dire sul secondo, è bene precisare ulteriormente questo concetto, distinguendolo, secondo la sana dottrina cattolica, da altri due aspetti parimenti importanti che riguardano la celebrazione e la partecipazione alla santa Messa e ad ogni altro sacramento: la validità e la liceità.

Il Concilio di Trento ha definito in forma definitiva e dogmatica le condizioni per cui la celebrazione di ogni sacramento è valida, facendo propria la dottrina agostiniana della validità (ed efficacia) del sacramento "ex opere operato", cioè per il fatto stesso che un sacramento venga regolarmente celebrato dal ministro competente che abbia l'intenzione di fare "ciò che fa la Chiesa" e con la materia adeguata. Facciamo subito due esempi per capire. Perché una Messa sia valida, occorre che sia celebrata da un sacerdote regolarmente ordinato, che abbia l'intenzione di celebrare veramente (non per scherzo!) secondo il rito della Chiesa cattolica e che usi, come materia, pane azzimo di frumento e vino di pura vite. Similmente si insegnava, almeno prima della riforma liturgica, che, dalla parte del fedele, la partecipazione obbligatoria alla santa Messa si potesse considerare adempiuta se si arrivava al più tardi prima che avesse inizio la liturgia offertoriale. Si capisce che la santità personale del sacerdote, le circostanze soggettive, il modo con cui celebra (fervoroso o distratto, solenne o sciatto) sono del tutto ininfluenti sulla validità della santa Messa (in particolare della consacrazione). Similmente perché una confessione sia valida, deve essere ascoltata da un sacerdote che ne abbia ricevuto facoltà dal vescovo e che pronunci correttamente la formula di assoluzione dopo aver verificato, per quanto può, la possibilità di assolvere il penitente. Così, dalla parte del penitente, perché la confessione sia valida è richiesta la confessione per specie, numero e circostanze dei peccati mortali e quella forma di pentimento, almeno minimale, che è chiamata tecnicamente "attrizione". Se il confessore è un grande peccatore, se i suoi consigli sono inopportuni, se la penitenza che impone è inadeguata, se è scorbutico o insofferente, tutto ciò non influisce minimamente sulla validità del sacramento. Così come è del tutto ininfluente il fatto che un fedele non confessi i peccati veniali o non ne dica il numero o non si esamini sulle imperfezioni etc.

Ad un livello ulteriore, tuttavia, si pongono le condizioni per cui un sacramento è lecitamente amministrato o ricevuto. Ebbene, riprendendo gli esempi precedenti, se un sacerdote celebra Messa in stato di peccato mortale, commette gravissimo peccato (anche se la Messa, comunque, resta valida); se celebra in maniera frettolosa o sciatta, se non fa le genuflessioni o riverenze, commette svariati peccati durante la Messa, ma sempre senza intaccarne la validità. Se un fedele chiacchiera o si distrae durante la Messa, arriva tardi per negligenza e senza una giusta causa, commette peccati, ma non compromette la validità della sua partecipazione. E così via.

La fruttuosità, infine, condiziona il grado di efficacia reale e contingente che i sacramenti esercitano su chi li celebra e su chi li riceve. Un sacramento celebrato senza un minimo di devozione e raccoglimento, frettolosamente e sciattamente, dà ben poca gloria a Dio anzi contribuisce non poco a offenderlo e (secondo il nostro modo di parlare) a indisporlo; conseguentemente, salva la validità e la liceità del sacramento, i frutti che arrecherà in chi lo celebra in questo modo o in chi vi si accosta con queste pessime disposizioni saranno alquanto scarsi. In questo senso, se, da un punto di vista della validità, non c’è nessuna differenza tra la santa Messa celebrata da san Pietro o da Giuda, senz’altro il primo la celebra anche lecitamente, mentre il secondo commette peccato mortale. Se, da un punto di vista della validità e della liceità, la santa Messa celebrata da un santo sacerdote è identica a quella celebrata da un sacerdote tiepido o mediocre, assai diversi però sono i frutti che essa produce. Sentiamolo dalle parole del grande dottore san Tommaso d’Aquino: “Nella Messa si devono considerare due cose: il sacramento stesso, che è la cosa principale e le preghiere che nella Messa vengono fatte per i vivi e per i morti. Ora, quanto al sacramento, la Messa di un sacerdote cattivo non vale meno di quella di uno buono, perché nell’uno e nell’altro caso viene consacrato il medesimo sacramento. Le preghiere invece che vengono fatte, possono essere considerate sotto due aspetti. Primo, in quanto hanno efficacia dalla devozione del sacerdote che prega; e allora non c’è dubbio che la Messa di un sacerdote migliore è più fruttuosa. Secondo, in quanto le preghiere vengono proferite dal sacerdote nella Messa a nome di tutta la Chiesa, della quale il sacerdote è ministro. E questo ministero rimane anche nei peccatori [...]. Tuttavia non sono fruttuose le sue preghiere private, perché secondo le parole dei Proverbi (28,9): Chi volge altrove l’orecchio per non ascoltare la legge, anche la sua preghiera è in abominio” (S. Th. II-II, q. 82, art. 6).

Prima di concludere, qualche breve nota sull’obbligatorietà del precetto domenicale e festivo. Il nuovo Codice di Diritto Canonico afferma che si è giustificati dalla mancata partecipazione alla santa Messa “solo se, per la mancanza del ministro sacro o per altra grave causa diventa impossibile la partecipazione alla celebrazione eucaristica”, fermo restando che, in questo caso, bisogna rimediare attendendo “per un congruo tempo alla preghiera, personalmente o in famiglia” (CIC, can. 1248). Si parla di “grave causa” che renda “impossibile” la partecipazione, per cui bisogna operare un serio discernimento di coscienza prima di concedersi facili “autoassoluzioni”. Causa grave, per esempio, è senza dubbio la malattia, propria o di un congiunto che richieda l’assistenza personale (non sostituibile e non delegabile); una disgrazia o un avvenimento imprevisto e imprevedibile (un incidente, un ricovero improvviso di un congiunto); qualche altra evenienza non ponderabile che renda realmente impossibile la partecipazione. In Italia bisogna ricordare che abbiamo ancora la grazia di molte celebrazioni domenicali e prefestive (che, si ricordi, in caso di necessità, si considerano come valido adempimento del precetto), per cui le fattispecie di vera e propria impossibilità sono inevitabilmente assai ristrette. Infine, anche nel nuovo Codice è confermato il potere del Parroco di dispensare (ovviamente per giuste e cause gravi) dall’obbligo di osservare il giorno festivo, così come dai giorni di penitenza (CIC, can. 1245); per cui, nei casi dubbi, è bene ricorrere al suo consiglio e alla sua autorità.