venerdì 31 luglio 2015

“Amor, ch’a nullo amato amar perdona”. L’inganno dell’amore omosessuale spiegato da Dante


  
 
 
 
 
Intervista a Anthony Esolen, fra i maggiori traduttori inglesi della Divina Commedia. «Si ama davvero una cosa quando si riconosce la sua natura e il suo fine ultimo».
 
 
 
di Benedetta Frigerio
 
«“Amor, ch’a nullo amato amar perdona”. È questa la menzogna su cui si fonda la recente sentenza della Corte Suprema americana». Spiegando il verdetto federale che ha fatto dei rapporti omosessuali un diritto costituzionale pari al matrimonio, Anthony Esolen, fra i traduttori inglesi più noti della Divina Commedia di Dante Alighieri e professore di letteratura inglese al Providence College di Rhode Island, non può che tornare «all’inganno antico di cui parla Francesca nel canto V dell’Inferno».
 
Professore, lei ha scritto che l’amore omosessuale «non è amore, ma odio». Cosa intende?
 
Ho ripreso un’espressione del poeta Edmund Spenser. Si tratta del falso amore esclamato da Francesca nell’Inferno: «Amor, ch’a nullo amato amar perdona», per cui al vero amore sarebbe impossibile resistere, deve per forza essere contraccambiato. Perché Francesca lo afferma? Perché vuole scaricare la sua responsabilità sulle circostanze («galeotto fu ’l libro e chi lo scrisse»), negando che la natura umana ci rende esseri liberi dotati di ragione. Ma se si negano la ragione e la libertà, anche la differenza fra la passione, l’attrazione, l’istinto e l’amore scompare. L’amore, infatti, implica il riconoscimento di uno scopo a cui si può scegliere di aderire o meno: si ama davvero una cosa quando si riconosce la sua natura e il suo fine ultimo e lo si rispetta, usandola per il suo scopo. Allo stesso modo, si ama una persona quando si agevola il suo cammino verso la meta per cui è stato creato. Per questo un uomo che vuole sposare un uomo non lo ama, ma lo odia. La natura dell’uomo, infatti, ha il suo compimento nel rapporto con la donna. Persino la biologia dimostra che l’uomo e la donna sono fatti per unirsi e diventare una carne sola. Perciò, dicendo che quella omosessuale è un’attrazione irresistibile, si giustifica, come fa Francesca, il proprio egoismo narcisista usando l’altro secondo le proprie voglie. Al contrario, Beatrice si muove verso Dante non per portarlo a sé, ma per condurlo in Paradiso: a conoscere il suo Creatore, Colui per cui Dante è fatto e in cui solo può trovare la sua piena realizzazione.
 
 
Chi ci rimette in questa interpretazione dell’amore come forza irresistibile e irrazionale?
 
Come dice il Papa nell’enciclica Laudato si’, siamo abituati a guardare le cose come materia da manipolare a nostro piacimento. Parliamo dei bambini come fossero cose, fino a teorizzare che sia giusto usarli come strumenti da indottrinare al fine di cambiare le idee dei loro genitori e quindi della società bigotta. Se invece li guardassimo con onestà, ci accorgeremmo della loro innocenza, che ci avvicina al divino, da contemplare e da proteggere come un valore. E così, al posto di usarli, li serviremmo, sacrificando i nostri istinti in loro favore. Se non cerchiamo di conoscere, se non ci facciamo delle domande sull’essere e sul suo significato tradiamo, oltre che gli altri, la nostra stessa natura razionale trasformandoci in esseri capaci delle follie peggiori.
 
 
Lei ha scritto che oggi c’è confusione anche sul riconoscimento di ciò che è evidente e questo perché abbiamo perso la capacità di usare la coscienza. Cosa intende?
 
La rivoluzione sessuale ci ha convinti che importa solo quello che vuole il soggetto, indipendentemente dal discernimento sulla bontà del suo desiderio e sulle conseguenze che ha sugli altri. Così la Corte Suprema, schiava di un concetto astratto di amore e di diritto, ha emesso una sentenza in cui l’amore concreto, il diritto naturale e il bene comune sono soppiantati dal potere dei giudici e dall’individualismo.
 
 
Perché l’uomo non usa più la ragione per conoscere la realtà?
 
La ragione non viene più usata perché manca un’educazione, un allenamento alla bellezza. Siamo facilmente ingannati dai media e finiamo per accontentarci. Abbiamo perso la capacità di immaginare, come dice C. S. Lewis che spiegava che se la ragione è l’organo della verità, l’immaginazione è quello del significato. In altre parole, non riusciamo a comprendere il vero significato di una parola, “amore”, senza un’immagine collegata ad essa. Il mondo ci fornisce immagini dell’amore riduttive. Per questo il potere odia la tradizione che, al contrario, ci fornisce immagini alte. Abbiamo sostituito Shakespeare con una svilente educazione sessuale.
 
 
Basta Shakespeare?
 
Ci credo perché l’ho visto con i miei studenti. Mi spiego con un esempio: i personaggi femminili di Shakespeare sono così puri, pieni di grazia e belli da suscitare ammirazione in chi legge. Lo stesso accade di fronte all’amore vissuto e descritto da tanti altri poeti e letterati. I giovani desiderano ancora l’amore vero, ma non lo sanno finché non scoprono cos’è. Finché, come dice appunto Lewis, non hanno davanti un’immagine che esemplifichi che cosa significhi adorare e rispettare l’amato. Ho visto giovani ispirati dalla letteratura e dalla poesia.
 
 
Basta davvero solo un libro?
 
Certamente, se i giovani non incontrano persone che incarnano l’amore vero faranno più fatica a convincersi che sia ancora possibile amarsi così. Per questo bisogna continuare a dire la verità sull’amore e, nello stesso tempo, occorre viverla. Noi cristiani dobbiamo cambiare. E fare, come i primi di noi, che non divorziavano, che non uccidevano i loro figli, che soccorrevano i deboli e gli anziani. In una parola dobbiamo amarci davvero. I pagani vedendoli si convertivano. Sarà una lotta non senza travaglio, perché veniamo da oltre cinquant’anni di diseducazione.
 
 
 
 
 
 
 
© Tempi (29/07/2015)
 
 
 
 
 

Il perdono di Assisi. «Non anni, ma anime!»







Una notte dell’anno del Signore 1216, Francesco era immerso nella preghiera e nella contemplazione nella chiesetta della Porziuncola, quando improvvisamente dilagò nella chiesina una vivissima luce e Francesco vide sopra l’altare il Cristo rivestito di luce e alla sua destra la sua Madre Santissima, circondati da una moltitudine di Angeli. Francesco adorò in silenzio con la faccia a terra il suo Signore! Gli chiesero allora che cosa desiderasse per la salvezza delle anime.


La risposta di Francesco fu immediata: “Santissimo Padre, benché io sia misero e peccatore, ti prego che a tutti quanti, pentiti e confessati, verranno a visitare questa chiesa, conceda ampio e generoso perdono, con una completa remissione di tutte le colpe”. “Quello che tu chiedi, o frate Francesco, è grande – gli disse il Signore -, ma di maggiori cose sei degno e di maggiori ne avrai. Accolgo quindi la tua preghiera, ma a patto che tu domandi al mio vicario in terra, da parte mia, questa indulgenza”.


E Francesco si presentò subito al Pontefice Onorio III che in quei giorni si trovava a Perugia e con candore gli raccontò la visione avuta. Il Papa lo ascoltò con attenzione e dopo qualche difficoltà dette la sua approvazione. Poi disse: “Per quanti anni vuoi questa indulgenza?”. Francesco scattando rispose: “Padre Santo, non domando anni, ma anime”. E felice si avviò verso la porta, ma il Pontefice lo chiamò: “Come, non vuoi nessun documento?”. E Francesco: “Santo Padre, a me basta la vostra parola! Se questa indulgenza è opera di Dio, Egli penserà a manifestare l’opera sua; io non ho bisogno di alcun documento, questa carta deve essere la Santissima Vergine Maria, Cristo il notaio e gli Angeli i testimoni”.

E qualche giorno più tardi insieme ai Vescovi dell’Umbria, al popolo convenuto alla Porziuncola, disse tra le lacrime: “Fratelli miei, voglio mandarvi tutti in Paradiso!”.(Da “Il Diploma di Teobaldo”, FF 3391-3397).

Perdono di Assisi

Dal mezzogiorno del primo agosto alla mezzanotte del giorno seguente (2 agosto), oppure, col permesso dell’Ordinario (Vescovo), nella domenica precedente o seguente (a decorrere dal mezzogiorno del sabato fino alla mezzanotte della domenica) si può lucrare una volta sola l’indulgenza plenaria.


Tale indulgenza è lucrabile, per sé o per le anime del Purgatorio, da tutti i fedeli quotidianamente, per una sola volta al giorno, per tutto l’anno in quel santo luogo (Basilica di Santa Maria degli Angeli in Porziuncola) e, per una volta sola, da mezzogiorno del 1° Agosto alla mezzanotte del giorno seguente, oppure, con il consenso dell’Ordinario del luogo, nella domenica precedente o successiva (a decorrere dal mezzogiorno del sabato sino alla mezzanotte della domenica), visitando una qualsiasi altra chiesa francescana o basilica minore o chiesa cattedrale o parrocchiale.


CONDIZIONI RICHIESTE:

Visita, entro il tempo prescritto, a una chiesa Cattedrale o Parrocchiale o ad altra che ne abbia l’indulto e recita del “Padre Nostro” (per riaffermare la propria dignità di figli di Dio, ricevuta nel Battesimo) e del “Credo” (con cui si rinnova la propria professione di fede).
Confessione Sacramentale per essere in Grazia di Dio (negli otto giorni precedenti o seguenti).
Partecipazione alla Santa Messa e Comunione Eucaristica.
Una preghiera secondo le intenzioni del Papa (almeno un “Padre Nostro” e un’”Ave Maria” o altre preghiere a scelta), per riaffermare la propria appartenenza alla Chiesa, il cui fondamento e centro visibile di unità è il Romano Pontefice.
Disposizione d’animo che escluda ogni affetto al peccato, anche veniale.
Le condizioni di cui ai nn. 2, 3 e 4 possono essere adempiute anche nei giorni precedenti o seguenti quello in cui si visita la chiesa; tuttavia è conveniente che la Santa Comunione e la preghiera secondo le intenzioni del Papa siano fatte nello stesso giorno in cui si compie la visita.










Chiesa e postconcilio, 31 luglio 2015

giovedì 30 luglio 2015

Lo sdegno di chi non ha vergogna








Con due distinte sentenze, depositate l’8 luglio scorso, nn. 14225 e 14226, la V sezione civile della Suprema Corte di Cassazione italiana ha di fatto ribaltato quanto stabilito nei primi due precedenti gradi di giudizio, sentenziando che, poiché gli utenti di una scuola paritaria di Livorno pagano un corrispettivo per la frequenza, tale attività sarebbe da qualificarsi come di carattere commerciale, senza che a ciò osti la gestione in perdita. Ciò fa sì che, secondo la Suprema Corte, sia legittima la richiesta dell’Ici (poi diventata parte integrante dell’Imu dal 2011) avanzata nel 2010 dal Comune di Livorno agli istituti scolastici del territorio gestiti da enti religiosi.
Nel proprio iter argomentativo, il giudice di legittimità ha precisato che, ai fini in esame, è giuridicamente irrilevante lo scopo di lucro, risultando sufficiente l’idoneità tendenziale dei ricavi a perseguire il pareggio di bilancio. E cioè, il conseguimento di ricavi sarebbe di per sé indice sufficiente del carattere commerciale dell’attività svolta.
Non si è fatta attendere la presa di posizione, inusitatamente dura, della CEI, a nome del suo segretario, Mons. Galantino, che non ha esitato a parlare a tal riguardo di pronunce ideologiche (v.
qui, qui, qui, qui e qui). Non sono mancate le prese di posizione anche politiche (v. qui). Questa dura contestazione da parte della CEI ha indotto il governo precipitosamente ad avviare un tavolo di "chiarimento" (v. qui e qui).
Se, però tali prese di posizione, altrettanto forti e veementi, la CEI le avesse prese per temi forse più eticamente sensibili che non quelli riguardanti comunque il denaro e le casse della Chiesa italica …., come ad es. il c.d. d.d.l. Cirinnà in discussione al Parlamento o la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo dei giorni scorsi sui c.d. matrimoni omosessuali o la decisione, sempre della Corte di Cassazione, sul riconoscimento del mutamento di sesso anche in assenza di interventi chirurgici …. forse sarebbe apparsa molto più credibile agli occhi dei fedeli. Ma tant’è … (Commento della redazione Scuola Ecclesia Mater)





di Massimo Viglione

Abbiamo appena assistito alla ferma e immediata contrapposizione pubblica della Conferenza Episcopale Italiana, per voce del suo segretario mons. Galantino, celebre per le sue posizioni aperte a ogni dialogo con il mondo laicista, contro il progetto del governo italiano di imporre l’ICI alle scuole cattoliche.

 Fermo rimanendo ovviamente che tutti sappiamo bene che questa è solo l’ennesima trovata per finire di distruggere ogni traccia di libertà educativa in Italia e portare a compimento il piano Gramsci di conquista totale dei cervelli degli italiani (sia chiaro: non che nelle scuole cattoliche italiane si operi in senso contrario, ovvero si insegni la sana dottrina e il senso cattolico della società; ma è ovvio che per i nemici della Chiesa anche solo il principio dell’esistenza di una scuola cattolica, non statale, per quanto prona in ogni modo al laicismo imperante, è cosa intollerabile in sé);
fermo rimanendo che tale volontà laica è oggi rafforzata dall’esigenza di imporre a tambur battente e senza ostacolo alcuno l’omosessualismo e il genderismo di massa nelle scuole;
fermo rimanendo che i nostri vescovi – non parlo singolarmente, in quanto lodevoli eccezioni ci sono sempre, ma come vox unica, come CEI – sono i primi responsabili di tutto questo in quanto sono i primi sostenitori di questo governo e dei suoi mandanti come di quelli precedenti;
anticipato tutto questo, sorge spontanea una domanda: ma i nostri amatissimi e stimatissimi vescovi, a tutti noti per il coraggio e l’abnegazione con cui sono pronti a difendere Dio e i suoi diritti contro i soprusi dei potenti, che sono ora balzati dalla sedia, in primis il fenomenale segretario, alla notizia di dover cacciare i soldi abbandonando repentinamente quella onnipresente prudenza politica che li caratterizza e li rende proni a ogni potere, non potrebbero utilizzare un decimo dello stesso zelo per difendere i bambini dagli orchi e l’ordine naturale come Dio lo ha creato? Per combattere l’aborto, il
genderismo, l’omosessualizzazione della gioventù e dell’intera società?
Perché non sono balzati dalla sedia alla notizia che il governo vuole liberalizzare la droga? Dove erano solo pochi giorni or sono?
Non potrebbero alzare la voce anche per difendere gli italiani che ogni giorno si suicidano a causa di una crisi economica fomentata da coloro che sono i veri governanti di questa Italia e che tanto vengono rispettati e ubbiditi dagli stessi vescovi? Non potrebbero alzare la voce per smuovere le coscienze in difesa dei nostri fratelli nella fede ammazzati in massa nel mondo islamico? Non potrebbero tornare ad essere i vescovi anche del popolo italiano impedendo l’invasione della nostra terra e il pericolo della definitiva perdita della fede e della libertà di tutti noi?

Non pensano che se agissero in tal maniera sarebbero anche più credibili quando poi si scagliano, lancia in resta, per difendere gli incassi (sebbene leciti e sacrosanti, come in questo caso)? Non viene loro in mente che per quanto questa loro protesta sia giusta, la vita, l’educazione retta e la libertà stessa dei bambini e anche degli adulti sia infinitamente più importante della cassa?

E allora, reverendissime eccellenze, difendete pure la cassa, ma anzitutto siate pronti fino al sangue – come è vostro dovere – per difendere i valori della fede, della carità, dell’ordine naturale e della volontà di Dio, per difendere i nostri figli e il futuro degli italiani e dell’intera umanità dall’assalto ininterrotto delle forze del male.

Urlate il vostro sdegno e incitate e guidate i fedeli alla giusta e sacrosanta resistenza civile e morale! Scendete in piazza con i vostri fedeli, tutti, nessuno escluso, per difendere la libertà e condannare senza timore alcuno chi vuole distruggere ogni limite fra il bene e il male, chi vuole bruciare la fanciullezza, chi vuole imporci il silenzio tramite il terrore giudiziario, chi è pronto a ogni abominio, chi massacra i fratelli nella fede e vuole islamizzare il nostro paese. Chi combatte la Chiesa e la Fede cattoliche ogni giorno, ovvero chi combatte voi, per quanto proni possiate mai essere e diventare.

Magari, così facendo, poi si scopre che la gente torna in chiesa, che i fedeli diventano molto più pronti alla lotta per difendere il Bene sapendo di avere il vostro appoggio spirituale, morale e materiale e che quindi i governi – di cui siete stati, almeno come CEI, finora sgabello – poi la smettono di distruggere la società a loro piacimento, iniziando a incontrare resistenza di popolo.
E così, di conseguenza, poi salvate anche i vostri soldi e le scuole, oltre alla dignità.










Fonte: Riscossa cristiana, 27.8.2015







Come si interpreta la” misericordia” nell’arcidiocesi di Trento

enzo bianchi






L’Arcidiocesi di Trento non finisce di stupire. L’ultima iniziativa è quella di affidare la solenne assemblea del prossimo 19 settembre al sempreverde Enzo Bianchi, dottore in Economia e Commercio, fondatore e priore dell’iperecumenica comunità di Bose, ed estimatore di Hans Küng, il critico per antonomasia dell’infallibilità e dell’autorità papale. Non a caso, nel 1979 allo stesso Küng la Congregazione per la Dottrina della Fede revocò la missio canonica, l’autorizzazione necessaria cioè per insegnare la teologia cattolica.

L’Arcivescovo di Trento, mons. Luigi Bressan, raccomanda, preoccupato, in una lettera ai parroci che, per l’occasione, vi sia «larga partecipazione di collaboratori e collaboratrici» per questo che, definisce un imperdibile «evento». «Evento» è, dunque, ascoltare chi nel giugno 2011 alla trasmissione di Rai RadioTre, Uomini e profeti, “demitizzò” i miracoli, definendoli roba da società «incantata» e non certo per «cattolici adulti»; chi, nel novembre dello stesso anno a Rimini definì una «pericolosa perversione» interrogarsi sul diavolo ed i primi 11 capitoli della Genesi «racconti mitici, tentativi fatti con categorie culturali di tremila anni fa».

Su posizioni analoghe il suo giudizio sul «peccato originale» e sulla caduta degli angeli. Il do
ttor Bianchi nell’aprile 2013 al festival di Repubblica ha spiegato come «la fede non sia una certezza», non indenne da una possibile «evoluzione», che incoraggerebbe – secondo quanto da lui dichiarato a Vatican Insider nel luglio 2014 – «un nuovo equilibrio tra sinodalità e primato» di giurisdizione del Papa. E l’elenco potrebbe continuare. Singolare poi come proprio il vate dell’ecumenismo dialogico lo scorso agosto abbia voluto mostrare il volto minaccioso dell’azione giudiziaria nei confronti delle voci critiche, con la diffida fatta inviare da un legale ad alcune testate “scomode”, stupitesi che le si volesse zittire su basi oltre tutto piuttosto fragili ed alquanto generiche.

Ma l’invito rivolto ad Enzo Bianchi per l’assemblea diocesana di Trento non è casuale, è organico ad un preciso piano pastorale, si pone anzi con esso in perfetta sintonia e coerenza. Non a caso l’Arcivescovo raccomanda di diffondere in tutte le parrocchie, in particolare, i «primi dodici numeri» della Misericordiae Vultus, la bolla di indizione del Giubileo straordinario della misericordia.

Perché? Perché sono quelli, in cui si esalta il Concilio Vaticano II (n. 4), definito in grado di abbattere «le muraglie che per troppo tempo avevano rinchiuso la Chiesa in una cittadella privilegiata», nonché di riprovare «gli errori» riservando però «solo richiamo, rispetto ed amore» agli erranti.

Un doppio registro analogo, soprattutto tra modernismo e Vaticano II, pose le basi culturali per i fautori di una concezione del dialogo umiliata a compromesso col mondo. Pensiamo ad esempio allo slogan «Combatto il comunismo, amo i comunisti» di don Primo Mazzolari od al collettivismo dell’ex-sindacalista cattolico ed ex-deputato popolare Guido Miglioli, che si trasformò presto in una collaborazione stretta e servile verso il Partito Comunista. Esempi, in cui si ravvisano i prodromi di quella Ostpolitik, che tanto male fece alla Chiesa ed al mondo.

Poiché il vizio è di fondo: è pur vero che la Chiesa deve «farsi carico dell’annuncio gioioso del perdono» (Misericordiae Vultus, n. 11), ma è altrettanto vero che non può darsi perdono all’impenitente ovvero senza che qualcuno lo chieda umilmente. Casi, invece, come quelli citati di don Mazzolari e di Miglioli (ma molti altri dei nostri giorni se ne potrebbero aggiungere come nel caso dei divorziati risposati, delle condotte omosessuali, per giungere sino ai casi di bioetica) pretenderebbero l’assoluzione gratis, senza ammissione di colpa, il che è impossibile, anzi è sacrilego, mancando i requisiti propri della Penitenza, che è ancora uno dei sette Sacramenti.

 (M. F.)
















Corrispondenza romana, 28 luglio 2015
 

mercoledì 29 luglio 2015

«Sposi per sempre, anche dopo la separazione»


    
 
 
La fraternità “Sposi per sempre” si incontra a Foligno dal 9 al 13 agosto, si tratta del secondo convegno nazionale che interessa persone che pur trovandosi nella condizione di separati, decidono di rimanere fedeli alla loro promessa matrimoniale. Stefania Tanganelli è una di queste: ecco cosa ci racconta.
 
 
 
di Lorenzo Bertocchi
 
La fraternità “Sposi per sempre” si incontra a Foligno dal 9 al 13 agosto, si tratta del secondo convegno nazionale che interessa persone che pur trovandosi nella condizione di separati, decidono di rimanere fedeli alla loro promessa matrimoniale. Partecipano il vescovo di Foligno, mons. Gualtiero Sigismondi, e il vescovo di Assisi, mons. Domenico Sorrentino. Tra i relatori mons. Renzo Bonetti e mons. Carlo Rocchetta, da anni impegnati su questi temi, ma anche molti laici, alcuni dei quali hanno scelto di essere “sposi per sempre”. Gente che consapevolmente vive la fedeltà nella separazione, e che osa perfino parlare di strada della santità che può sgorgare dal dramma della separazione.
 
Questo è il tema dell’intervento che Stefania Tanganelli terrà a Foligno. La Nuova Bussola quotidiana ha già raccontato la storia di Stefania. Ma, ora, provocati da questa nuova “provocazione”, le abbiamo fatto qualche domanda in vista dell’incontro di Foligno.
 
 
Allora Stefania, non solo vivi una fedeltà nella separazione che va controcorrente, ma raddoppi e dici che si può passare dal dramma della separazione a una via di santità. Aiutaci a capire.
 
L’esperienza della separazione è più dolorosa di quanto si possa immaginare, si deve provare per credere quanto dolore, quanta disperazione si lascia dietro una famiglia sfasciata, buttata via, come se non fosse mai stata. Io sapevo nel mio cuore di avere una vera vocazione al matrimonio e alla famiglia, questo era il modo in cui avevo scelto di servire il Signore, e adesso? Insomma avevo scelto di restare fedele al mio sposo, avevo scelto Gesù nella mia vita, ma dovevo dare un significato a queste parole perché non bastavano da sole a dare un senso alla mia scelta. Avevo davanti a me tutta la vita e il mio sposo non c’era più, ma volevo Gesù con me, volevo vivere nella verità del Vangelo, queste erano le mie uniche certezze.
 
 
E quindi?
 
Parliamo tanto di Gesù, ma raramente lo facciamo partecipe del nostro quotidiano, e spesso gli diciamo “sia fatta la tua volontà” ma prima dicci cosa vuoi, abbiamo paura di donargli un “si” in bianco, un sì senza ma e senza però. Ecco, io a un certo punto ho balbettato questo sì a Gesù senza se e senza ma. Ecco perché dal dramma della separazione può nascere una via alla santità. La santità è la vocazione di ogni cristiano, forse lo dimentichiamo troppo spesso. E La santità, cioè la pienezza della vita cristiana, non consiste nel compiere imprese straordinarie, ma nell’unirci a Cristo, nel vivere i Suoi misteri, nel fare nostri i Suoi atteggiamenti, i Suoi pensieri, i Suoi comportamenti. La misura della santità è data dalla statura che Cristo raggiunge in noi, da quanto, con l’aiuto e la forza dello Spirito Santo, modelliamo la nostra vita su quella di Gesù.
 
 
Dove trovare la forza per questo cammino?
 
Io non potrei vivere senza Eucarestia, senza l’incontro quotidiano con il Signore. Questo ha la priorità nella mia vita, è il momento più bello della mia giornata. L’Eucarestia quotidiana, in un certo senso, trasforma il nostro dna, perché il Corpo di Cristo si unisce al nostro corpo e noi siamo meno noi stessi e più Cristo. Cambia il nostro corpo e cambia la nostra vita, cambia il modo di vedere il mondo, come in un grafico, se proietti la vita sull’eternità tutto acquista un altro valore. Così si può passare dal dramma della separazione a una via di santità che ci chiama ad essere sempre fedeli alla nostra promessa matrimoniale.
 
 
Come ti ha accompagnato la Chiesa in questa scelta di fedeltà pur vivendo il dramma della separazione?
 
La Chiesa è stata con me madre amorosa e compagna di cammino, ho conosciuto nella mia vita sacerdoti e pastori che mi hanno sempre accolto ed amato, guidato nel mio faticoso e difficile cammino verso il Signore e la pienezza della mia vita, come angeli mandati a portarmi una focaccia ed una brocca d’acqua che mi permettesse di riprendere il cammino verso l’incontro sempre nuovo con il Signore. Devo ammettere di essere stata molto fortunata ad abitare in una parrocchia francescana di frati minori polacchi dove ancora si respira forte il messaggio di San Giovanni Paolo II. E anche di aver avuto come maestra nell’orazione suor Angela, una priora carmelitana, e di aver conosciuto don Renzo Bonetti e con lui aver cominciato questa bellissima avventura che è la fraternità “Sposi per sempre”.
 
 
Cosa significa per te e per la fraternità questo incontro di Foligno?
 
Questo è il secondo convegno nazionale, e come abbiamo sperimentato lo scorso anno a Perugia, questi momenti sono fondamentali per la crescita della fraternità, crescita in senso di fratelli e nel senso di approfondimento spirituale del nostro cammino. Il convegno ci permette di far conoscere la fraternità a un numero sempre maggiore di separati, di sacerdoti e di operatori nelle pastorali famigliari, la fraternità “Sposi per sempre” intende porsi al servizio della Chiesa con la speranza di essere e fare luce per coloro che scelgono consapevolmente la fedeltà nella separazione. Vivere come sposi per sempre testimoniando con la vita che la fedeltà al sacramento del matrimonio è possibile, anche là dove l’amore umano non è più ricambiato.
 
 
Stefania, scusa la domanda, ma cos’è per te l’amore?
 
Beh, se penso alla mia vita non posso non pensare ad una bellissima, meravigliosa storia di amore. Mi piace essere una persona che prova a vivere il “per sempre”, mi piace pensare che esiste un amore che non muore, ma che anzi, alimentato dalla Grazia, si trasforma in qualcosa di grande che riesce ancora a donare gioia. Ho sempre cercato di insegnare a mio figlio, con la mia vita, che non necessariamente tutto ha una scadenza, che il “dura finché dura” non ha senso se vuoi costruire una vita e una felicità vera, gli voglio insegnare che si può anche lottare per quello in cui si crede e si può continuare a crederci anche se sopraggiunge una sconfitta, perché nella vita non ci sono solo vittorie, anzi sono i momenti più duri a donarle valore. Voglio insegnargli ha non avere paura di amare.
 
 
 
 
 
 
 
 
© La Nuova BQ (28/07/2015)
 
 
 
 
 
 
 

Se Lutero si traveste da santo e dottore



di Gaetano Masciullo

Il pensiero agostiniano è stato di importanza capitale per lo sviluppo della teologia cristiana nei primi secoli, sia per difendere l’ortodossia dalle numerose e perniciose eresie che volevano introdurre “novità” nel pensiero cristiano (si pensi alle battaglie teologiche che Agostino rivolse contro manichei, pelagiani, donatisti, semipelagiani…), sia per approfondire meglio alcuni dogmi, come quello della Trinità.
 
Sant’Agostino di Ippona si avvalse ben presto del titolo, riconosciutogli dalla Chiesa, di Dottore, cioè di autorità indiscussa in teologia, e difatti fece scuola per buona parte del medioevo cristiano, fino a quando non prevalsero l’aristotelismo e la scolastica di san Tommaso d’Aquino.
 
Tuttavia, soprattutto a partire dal XX secolo, è prevalsa in ambito accademico una corrente esegetica del pensiero agostiniano in verità erronea, che non rende giustizia alle originarie intenzioni del santo vescovo di Ippona. In particolare, Odilo Rottmanner (1841-1907) con la sua opera Agostinismo (1892) affermò che il pensiero di sant’Agostino è da ricondurre fondamentalmente alla “dottrina della predestinazione incondizionata e della volontà salvifica particolare che sant’Agostino ha perfezionato di preferenza nell’ultimo periodo della sua vita”, cioè dal 418 in poi.
 
In cosa consisterebbe dunque questa dottrina?  Tutti gli uomini nascerebbero peccatori e meritevoli della dannazione, a causa del peccato originale, ma Dio sceglierebbe per un atto di misericordia proveniente esclusivamente dalla sua volontà (detta per questo volontà salvifica) chi sottrarre a questa inevitabile e giusta condanna. Da parte degli eletti, cioè dei predestinati alla salvezza, non ci sarebbe alcun merito, sia per quanto riguarda la fede (che è dono esclusivo della grazia divina) sia per quanto riguarda le opere, che sono conseguenze della fede. Dio dunque non vorrebbe salvare tutti gli uomini, ma solo pochi eletti: per questo motivo la volontà salvifica di Dio sarebbe particolare, non universale. Lo scandalo del cristianesimo non consiste nel fatto che la maggioranza degli uomini si dannino, ma nel fatto che pochi riescano a salvarsi. La salvezza degli eletti è un dono gratuito di Dio, assolutamente immeritato.
 
A questo punto ci chiediamo: questa tesi della predestinazione così esposta non ci ricorda forse la tesi di un altro teologo, vissuto molti anni dopo sant’Agostino? Non furono forse Martin Lutero e Calvino ad affermare che Dio salva per sola grazia pochissimi uomini da lui eletti e che l’uomo senza la grazia è inevitabilmente condannato a compiere il male? Non fu forse Giansenio a muovere contro s. Agostino le stesse accuse dei pelagiani, ormai mutate in lodi? Dunque, Lutero non avrebbe “radicalizzato il pensiero agostiniano”, come si è soliti dire, ma al contrario avrebbe semplicemente ribadito quanto s. Agostino insegnò nelle sue opere. Ma allora, ci chiediamo, perché uno è stato proclamato santo e dottore e l’altro condannato come eresiarca e rivoluzionario contro Dio? Evidentemente, i conti non tornano.
 
Secondo l’esegesi di Rottmanner, per sant’Agostino la libertà dell’uomo non esiste, se non nei limiti della perseveranza che l’uomo adopera per rimanere nella grazia divina e quindi per conservare la fede donatagli. Padre Agostino Trapé (1915-1987), priore generale dell’Ordine agostiniano, difese a spada tratta la corretta esegesi del pensiero del vescovo ipponate dalle strumentalizzazioni moderniste e “protestantizzanti”. Egli, in un articolo pubblicato nel 1963 sulla rivista Divinitas, dal titolo A proposito di predestinazione: S. Agostino e i suoi critici moderni, scrive: “Si sa quali critiche e quali accuse suscitasse a suo tempo questa dottrina da parte dei pelagiani. Possiamo ridurle a quattro capi, tutti e quattro gravissimi. L'agostinismo - dicevano - nega il libero arbitrio, nega che il battesimo rimetta il peccato originale, proclama il fatalismo, e riduce il pensiero cristiano al manicheismo. S. Agostino rispose, dimostrò l'infondatezza, anzi la malafede, di quelle accuse e ribadì, chiarendola, la sua dottrina. L'agostinismo trionfò. La Chiesa riconobbe come valida, nelle linee essenziali, quella difesa e annoverò il vescovo d'Ippona tra i suoi maestri migliori: inter magistros optimos.
 
Le accuse, anche quelle mosse dai semipelagiani, non tardarono a cadere, ed i teologi, da allora in poi, guardarono a S. Agostino come al Dottore della grazia, la cui autorità era venerabile presso tutti. Con il protestantesimo e con il giansenismo quelle accuse si trasformarono in lodi, lodi non vere, che la Chiesa respinse e S. Agostino aveva respinto ante litteram. Oggi, qua e là, si preferisce tornare alle accuse. Di tanto in tanto, infatti, si propongono interpretazioni di S. Agostino che sono molto vicine, quando non siano proprio identiche, a quelle che ne davano i pelagiani; e non solo da parte dei razionalisti, che fanno del vescovo d'Ippona - com'è noto - il creatore dei dommi del peccato originale e della grazia, ma anche - e la cosa riveste un carattere di particolare gravità - da parte di studiosi cattolici”.
 
Sant’Agostino fu per secoli chiamato Doctor Gratiae et Libertatis. Per il santo vescovo il rapporto tra libertà e grazia non si trasforma in un dilemma, in una scelta esclusiva tra le due, ma in un binomio, una coesistenza. La grazia non annulla la libertà umana, né la libertà umana annulla la libertà divina, che si manifesta appunto nella grazia. San Tommaso d’Aquino bene spiega nell’opera Contra errores graecorum il motivo per il quale alcune opere dei Padri della Chiesa possano sembrare ambigue (come ambiguo potrebbe sembrare, ad una superficiale lettura, il pensiero di s. Agostino sul rapporto tra libertà e grazia): “Ci sono, a mio avviso, due ragioni per cui alcune affermazioni degli antichi Padri Greci risultano ambigue se paragonate alle nostre contemporanee. Primo, perché una volta che gli errori riguardanti la fede si manifestavano, i santi Dottori della Chiesa divenivano più circospetti nel modo di esporre i punti della fede, così da escludere tali errori.
 
È chiaro, per esempio, che i Dottori che sono vissuti prima dell’eresia ariana non parlavano così espressamente dell’unità dell’essenza divina come hanno fatto invece i Dottori successivi. E lo stesso si è verificato nel caso di altri errori. Ciò è abbastanza evidente non solo riguardo ai Dottori in generale, ma anche riguardo ad un Dottore in particolare, Agostino. Nei libri che questi pubblicò dopo l’ascesa dell’eresia pelagiana, si parla molto più cautamente della libertà della volontà umana rispetto a quanto se ne parla nei libri pubblicati prima dell’ascesa di tale eresia. In queste prime opere, mentre Agostino difendeva il concetto di volontà contro i manichei, egli ha adoperato affermazioni che i pelagiani, che rigettavano la grazia divina, hanno poi usato in supporto ai propri errori”.
Qual era dunque il pensiero, pienamente cattolico, di sant’Agostino?
Già i pelagiani accusarono s. Agostino di aver sostenuto che il libero arbitrio è perito nell’uomo con il peccato di Adamo, ma lo stesso s. Agostino risponde: “Chi di noi poi direbbe che per il peccato del primo uomo sia sparito dal genere umano il libero arbitrio? Certo per il peccato sparì la libertà, ma la libertà che esisteva nel paradiso di possedere la piena giustizia insieme all'immortalità. Per tale perdita la natura umana ha bisogno della grazia divina, secondo le parole del Signore: Se il Figlio vi farà liberi, sarete liberi davvero” (Contro le due lettere dei pelagiani, I, 2.5). Si va dunque delineando una differenza fondamentale per il pensiero agostiniano tra libertà intesa come libero arbitrio, che è il mezzo della vita umana, e la libertà vera, ossia il fine della vita umana, che è la libertà di aderire pienamente alla verità e di fare il bene. Quest’ultimo tipo di libertà era presente prima del peccato originale (S. Agostino la definisce con la formula posse non peccare, ossia “poter non peccare”) e sarà confermata nell’eternità del paradiso (definita con la formula non posse peccare, ossia “non poter peccare”). La realtà attuale, intermedia, successiva al peccato originale e alla redenzione, ma antecedente al giudizio personale ed universale, non è priva del libero arbitrio, ma della libertà come sopra intesa. Tuttavia, ciò non impedisce all’uomo di cercare la verità ed il bene. Qui interviene la grazia, ossia l’azione gratuita di Dio che sopperisce alle mancanze della “giustizia piena ed immortalità”, presenti nell’eden. Con la grazia l’uomo si santifica (gratia gratum faciens, dirà san Tommaso successivamente), nonostante le imperfezioni psico-fisiche, conseguenze della caduta dei progenitori. Il primo ed importante dono che Dio fa dunque all’uomo è la fede. In seguito, il battesimo e i sacramenti in generale, che sono i mezzi ordinari con cui la grazia divina agisce nell’uomo. “Ripeto che nessuno fu o può essere giusto se non è giustificato dalla grazia di Dio per mezzo di N. S. Gesù Cristo, e questo crocifisso. Difatti la stessa fede, che ha salvato i giusti nell'antichità, salva anche noi, la fede nel Mediatore tra Dio e gli uomini, l'uomo Cristo Gesù, la fede nel suo sangue, la fede nella sua croce, la fede nella sua morte, la fede nella sua resurrezione. Avendo dunque lo stesso spirito di fede, anche noi crediamo, ed è per questo che parliamo”, scrive s. Agostino in De natura et gratia, 44,51. 
 
Ma Dio conosce dall’eternità chi intraprende questo cammino di redenzione e si salva e chi rimane reprobo e si danna (prescienza)? Oppure egli stesso, da sé, decide dall’eternità, senza il consenso dell’uomo, chi salvare, riducendo il numero degli eletti a pochissimi? In quest’ultimo caso, Dio non vorrebbe la salvezza di tutti gli uomini, ma solo di una ristretta èlite.
 
Per comprendere bene il pensiero agostiniano riguardo al peccato originale e alla giustificazione bisogna metterlo a confronto con quanto sostenevano pelagiani e semipelagiani.
 
Agostino schiaccia Pelagio,
Katholische Pfarrkirche Maria Rosenkranzkönigin,
Schretzheim
Pelagio affermava che il peccato originale colpì solamente Adamo e che non è trasmesso biologicamente a tutti gli uomini. Pertanto il battesimo non cancella il peccato originale, ma semplicemente ammette nella Chiesa. Da qui la polemica che i pelagiani mossero contro sant’Agostino sulla necessità del battesimo per i bambini e sul destino dei bambini morti senza di esso. Pelagio affermava che i bambini morti senza battesimo si salvano in quanto privi di qualsivoglia peccato, sia originale sia personale, ma sant’Agostino obiettava che i bambini morti senza battesimo non possono salvarsi, in quanto il peccato originale ha definitivamente rotto il legame tra l’uomo e Dio, legame ricostituito dal sacrificio di Cristo, che pertanto è Salvatore dell’umanità, anche dei bambini. “Non può appartenere a Cristo – scrive il santo Dottore – chi non ha bisogno di essere salvato”. L’uomo da sé liberamente decide se credere in Dio e può salvarsi anche fuori dalla Chiesa, compiendo opere buone.
 
Giovanni Cassiano e i monaci provenzali, iniziatori del semipelagianesimo, per conciliare Agostino e Pelagio, affermavano che l’uomo liberamente sceglie se credere e dunque l’inizio della fede e della giustificazione non esige il dono della grazia, così la perseveranza finale è frutto delle opere dell’uomo. La grazia divina serve a sostenere l’uomo in questo cammino, dal momento in cui l’uomo aderisce alla fede fino a quando muore. Analogamente a quanto sostenuto da Pelagio, il peccato originale colpì solamente Adamo e i bambini morti senza battesimo si salvano egualmente.
 
Sant’Agostino, Dottore della grazia e della libertà, sosteneva che il peccato originale è trasmesso biologicamente da Adamo a tutti gli uomini. Dunque sono trasmesse sia la colpa sia le conseguenze spirituali (impossibilità di accedere in paradiso dopo la morte) e temporali (mortalità, caducità, propensione al vizio) del peccato originale. Per cancellare la colpa e le conseguenze spirituali del peccato originale è necessario il battesimo, che attua i meriti della redenzione di Cristo salvatore, ma rimangono le conseguenze temporali. L’uomo da sé sceglie con il libero arbitrio se cercare o meno la verità e dunque il bene, ma la fede (ossia l’adesione ai meriti del sacrificio di Cristo che redime) e dunque l’inizio della giustificazione, così come la perseveranza finale, sono doni gratuiti di Dio, che si ottengono con la preghiera propria o altrui. Del resto, lo stesso sant’Agostino diede il merito della propria conversione alle preghiere e alle lacrime della madre, santa Monica. I meriti personali accrescono la grazia. Dio predestina alla salvezza coloro che liberamente aderiscono alla Chiesa, ricevono da Dio la fede e accrescono i meriti per grazia. Dio vuole la salvezza di tutto il genere umano, ma condanna coloro che ostinatamente perseguono il male.
 
Martin Lutero e Calvino ripresero le accuse di Pelagio e dei semipelagiani, tramutandole in lodi. Vi fu dunque una errata esegesi del pensiero di sant’Agostino, oggi tornato in voga presso alcuni autori. Per costoro, la fede è dono di Dio e i meriti personali non esistono. Senza il battesimo, tutti sono inevitabilmente condannati all’inferno. Dio ha già predestinato dall’eternità il numero di coloro che si salveranno, condannando il resto degli uomini. Il libero arbitrio non esiste, che è servo del peccato originale. Ma già dal V secolo, il prete Lucido della Gallia meridionale, credendo di seguire la dottrina di sant’Agostino, giunge a sostenere che “Cristo, Signore e Salvatore nostro, non è morto per la salvezza di tutti” e che “la prescienza di Dio spinge l’uomo violentemente verso la morte, e chiunque si perde, si perde per volontà di Dio”. Ma questa tesi fu confutata da san Fausto di Riez, discepolo dello stesso Dottore, e condannata dai concili di Arles (473, 574), ricondannata al II concilio di Orange (529) e dal papa Adriano I (785/791).
 
Gli errori di Pelagio furono condannati da papi e concili (cfr. DS 222, 238, 371, 1520, 2616), gli errori dei semipelagiani dal II concilio di Orange (529), gli errori dei protestanti dal concilio di Trento (1545-1563).
 
 
 
 
 
 
Scuola Ecclesia Mater, 29-07-2015
 
 

martedì 28 luglio 2015

Laici che "armeggiano" nel tabernacolo: un altro diffuso abuso. Solo il sacerdote lo può fare

tabernacle tabernacolo tabernáculo
Pensiamo in primo luogo all'essenza dell'Eucaristia. Nostro Signore Gesù Cristo ci ha lasciato il tesoro dell'Eucaristia nell'Ultima Cena, il Giovedì Santo. La Chiesa custodisce con somma cura questo tesoro, ma la Chiesa non è un'astrazione, un'idea; la Chiesa siamo tutti noi battezzati. E noi vescovi e sacerdoti siamo qui per santificare, reggere, insegnare e curare con zelo il tesoro dell'Eucaristia; sono queste le nostre principali responsabilità. I fedeli sono quindi chiamati alla corresponsabilità nella vita ecclesiale e a svolgere un servizio, anche liturgico.

Svolgere un officio nella liturgia non è però necessario perché un fedele possa partecipare in modo attivo e fruttuoso alla Messa. Dobbiamo rispettare la dignità dei laici, evitando ogni “clericalizzazione”. Nessuno deve pensare che le persone che svolgono offici liturgici siano cristiani migliori.

Detto questo, va detto che il ministro ordinato, che è il ministro ordinario della Comunione, è l'unico che normalmente può e deve aprire il tabernacolo per prendere le Ostie sacre, per prendere o portare la riserva, fare l'esposizione del Santissimo, ecc.

Al termine del rito della Comunione durante la Messa, “le ostie consacrate avanzate vengano o immediatamente consumate all’altare dal Sacerdote o portate in un luogo appositamente destinato a conservare l’Eucaristia” (Redemptionis Sacramentum, 107). Gli accoliti istituiti e/o i cosiddetti ministri straordinari della Comunione non devono quindi accedere al tabernacolo, e meno che meno alla presenza del sacerdote e nel pieno della celebrazione eucaristica.

Se questo accade, è un abuso che purtroppo viene concesso da alcuni sacerdoti. “L’accolito è istituito per il servizio all’altare e per aiutare il sacerdote e il diacono. A lui spetta in modo particolare preparare l’altare e i vasi sacri, e, se necessario, distribuire l’Eucaristia ai fedeli di cui è ministro straordinario” (Ordinamento Generale del Messale Romano, 98).

Deve essere quindi chiaro che in genere gli accoliti e/o i ministri straordinari della Comunione aiutano a distribuire in casi eccezionali l'Eucaristia, ma non possono, quando c'è un sacerdote che celebra, aprire o chiudere il tabernacolo, né andare a cercare o riporre al termine della Comunione le ostie.

“Se tuttavia il bisogno della Chiesa lo richiede, in mancanza dei ministri sacri, i fedeli laici possono, a norma del diritto, supplirlo in alcune mansioni liturgiche” (Redemptionis Sacramentum, 147).
Solo in casi del tutto straordinari ed estremamente necessari, quindi, un accolito – che è un ministro straordinario della Comunione – può accedere al tabernacolo, ad esempio quando un sacerdote molto anziano non riesce a camminare e non ci sono altri ministri ordinati, o anche, in terra di missione, quando non c'è un sacerdote nella comunità e si richiede di portare la Comunione a qualche malato, fare l'esposizione del Santissimo, ma con la pisside e senza dare la benedizione, ecc.

“Ministro dell'esposizione del santissimo Sacramento e della benedizione eucaristica è il sacerdote o il diacono; in speciali circostanze sono ministri della sola esposizione e riposizione, ma non della benedizione, l'accolito, il ministro straordinario della sacra comunione o altra persona designata dall'Ordinario del luogo, osservando le disposizioni del Vescovo diocesano” (Codice di Diritto Canonico, 943); quanto detto implica che in quelle circostanze speciali una persona che non sia ministro ordinato possa aprire o chiudere il tabernacolo.

In ogni caso, bisogna fare grande attenzione perché ci sono molte situazioni che si prestano ad abusi e si giustificano con presunte “necessità pastorali”. È dunque importante vigilare, perché bisogna recuperare il rispetto, la solennità e tutto ciò che è adeguato alla liturgia. “Ove lo suggerisca la necessità della Chiesa, in mancanza di ministri, anche i laici, pur senza essere lettori o accoliti, possono supplire alcuni dei loro uffici, cioè esercitare il ministero della parola, presiedere alle preghiere liturgiche, amministrare il battesimo e distribuire la sacra Comunione, secondo le disposizioni del diritto” (Codice di Diritto Canonico, 230, 3).

È chiaro che questi ministri straordinari o laici devono rispettare certi requisiti, a cominciare dal fatto che devono essere nominati dall'ordinario del luogo.


[Traduzione dallo spagnolo a cura di Roberta Sciamplicotti]









Aleteia


 

Marcello Pera: che abisso fra la chiesa di Biffi e quella di Galantino





Rorate Caeli ha riportato ieri (27.07.2015) un interessante pensiero di Marcello Pera sul Card. Biffi e mons. Galalntino. Ecco il testo originario in italiano.
  
da Rimini 2.0 del 18.07.2015



Il cardinale Biffi è stato un eroe della chiesa, nulla a che vedere con certi prelati che oggi vanno per la maggiore. Chi parla è Marcello Pera, dal 2001 al 2006 presidente del Senato, filosofo, considerato uno dei principali studiosi italiani di Popper, negli anni in cui ricopriva la seconda carica dello Stato ha conosciuto e stretto amicizia con Benedetto XVI, un rapporto continuato anche quando Ratzinger è diventato Papa emerito. Dalla sintonia intellettuale fra i due sono nati in particolare tre volumi: Senza radici (2004, Mondadori) scritto a quattro mani e dedicato a Europa, relativismo, cristianesimo e islam, quindi L’Europa di Benedetto (2005, Cantagalli) di Joseph Ratzinger, per il quale Marcello Pera ha scritto l’introduzione, e Perché dobbiamo dirci cristiani: il liberalismo, l’Europa, l’etica (2008, Mondadori), di Marcello Pera, introdotto da una lettera di Benedetto XVI.

 Marcello Pera era in prima fila al funerale del cardinale Biffi, che dall’84 al 2003 è stato arcivescovo di Bologna. Gli abbiamo posto alcune domande.



Cosa ha significato il card. Biffi per Bologna, per la chiesa e per l’Italia.

 Tre cose, detto in breve: la fede, la sapienza teologica, il coraggio. Tutta merce oggi non solo rara, ma pressoché introvabile. Bologna e la Chiesa tutta devono essere fiere di averlo avuto tra i suoi vescovi.



Ricordando la figura del card. Biffi in questi giorni alcuni commentatori hanno scritto che esprimeva una chiesa ormai pressoché definitivamente scomparsa, impegnata com’è, quella dei nostri giorni, ad essere politically correct, fino a scoraggiare, se non ad osteggiare, come ha fatto il segretario generale della Cei, mons. Nunzio Galantino, la manifestazione del 20 giugno scorso a difesa della famiglia. Cosa ne pensa?

 Dove vedevo fede profonda e testimonianza fiera e sincera e sorridente, oggi vedo molto calcolo e carriera. Dove sentivo dottrina meditata e approfondita, oggi sento molta approssimazione. E dove avvertivo la parola del coraggio oggi osservo conformismo. Per favore, non si permetta di confrontare il Segretario generale della Cei, e non solo lui, con Giacomo Biffi!



Per quale ragione?

 Il card. Biffi era un eroe della Chiesa, un gigante della dottrina. Non aveva diffidenza della teologia e non la piegava all’interesse di moda o al potere di turno. Non pensava che la misericordia facesse eccezione alla verità o che la verità fosse astratta e avesse bisogno dell’integrazione della misericordia per rendersi viva e praticabile e accettabile. E non aveva in gran cura la carriera: ci scherzava sopra. Che meraviglia le sue battute di spirito, così ficcanti e così acute!



Fece molto discutere il card. Biffi quando nel 2000, affrontando la questione dell’immigrazione, oltre a pronunciare parole profetiche, invitò a “salvare l’identità propria della nazione” perché “l’Italia non è una landa deserta o semidisabitata, senza storia, senza tradizioni vive e vitali, senza un’inconfondibile fisionomia culturale e spirituale, da popolare indiscriminatamente, come se non ci fosse un patrimonio tipico di umanesimo e di civiltà che non deve andare perduto”. Così come chiese di non sottovalutare “il caso dei musulmani”, che “va trattato con una particolare attenzione”. Sono trascorsi 15 anni da quel discorso e verrebbe da dire che, anche su questi temi, aveva visto giusto. O no?

 Posso risponderle con le prime parole che gli dissi la prima volta che andai a trovarlo: «Mi scusi, Eminenza, io sono tra coloro che non avevano ancora capito. Grazie per avermelo spiegato, non lo dimenticherò». Oggi mi fa tristezza che lo dimentichino anche i suoi confratelli. Che senso ha ancora parlare di evangelizzazione se poi si predica il dialogo e lo si intende e lo si pratica nel senso della cedevolezza, della chiacchiera, dello scambio di opinioni? Quando Gesù disse: «Io sono la verità» voleva forse dire che ce ne sono anche tante altre e che tutte vanno bene? Quando si dice: «Io sono seguace di Cristo» lo si intende alla stregua di «Io sono vegetariano» o «Io sono juventino»? Si ricorda il famoso e teologicamente tanto tribolato imperativo di Gesù rivolto a coloro che si rifiutavano di accogliere l’invito del padrone: «compelle intrare». D’accordo, Gesù non pensava alla forza, non pensava alla costrizione, pensava alla verità salvifica e irrinunciabile. E comunque, quanto a forza e costrizione, quale valore hanno i princìpi sacri e irrinunciabili scritti nelle costituzioni, se non appunto quello della forza e della costrizione, per legge, verso tutti coloro che intendono far parte della comunità in cui valgono quelle costituzioni? Quando un musulmano entra in Italia e lo Stato lo obbliga laicamente al dettato costituzionale di non contrarre più di un matrimonio, o di non interrompere il lavoro cinque volte al giorno, non dice, esso Stato, «compelle intrare»? Anche questo Biffi aveva capito più e meglio di tanti costituzionalisti e filosofi del diritto sedicenti aperti e tolleranti: che uno Stato che rinuncia alla forza dei suoi princìpi non è uno Stato. E quanto acuto e arguto egli si era mostrato verso la modalità di formazione del nostro Stato unitario, massonica e anticristiana, proprio durante i giorni in cui fuori risuonava la retorica trombona, celebrativa e cortigiana dei nostri politici, pronti a istituire un’altra festa nazionale, fredda come tutte le altre nella coscienza popolare! Mi creda, Giacomo Biffi è stato un grande. Scusi ancora, Eminenza, e grazie!

Claudio Monti



lunedì 27 luglio 2015

Bambini panda





Riportiamo l’articolo di Roberto Volpi, apparso su “il Foglio” di sabato 25 luglio 2015, sull’inverno demografico in Italia.
In Italia nascono sempre meno figli, ma nessuno sembra capire che questo è un problema serio.


Ormai è allarme rosso, in Italia. E non per il caldo. Per qualcosa di ben più importante e decisivo del caldo. Per le nascite. Che son letteralmente finite, sprofondate nel nulla. Lo so, è da tempo che lo diciamo. Ma è anche altrettanto impossibile non ripeterci di fronte ai dati, tutti di segno catastrofico, più ancora che negativo, che si susseguono imperterriti senza che nessuno muova un dito. Ma intanto vediamoli, questi ultimi, terrificanti dati che testimoniano come, semplicemente, gli italiani stiano evaporando. E, ancora una volta, non figurativamente per il caldo torrido che scioglie l’asfalto. Per la riproduzione sessuale andata a farsi benedire, piuttosto. Per la maternità scesa a zero, come valore, in tempi in cui se non sei a favore del matrimonio omosessuale rischi di attirarti un’accusa di omofobia.

Nei mesi di gennaio-febbraio 2015 – ultimissimi dati Isat – si sono avute in Italia 78.732 nascite: 4.045 nascite in meno, pari al 5 per cento in meno, di quelle di gennaio-febbraio 2014, quando raggiunsero un minimo storico che pareva irraggiungibile. E invece subito agguantato, superato, ridicolizzato. Continuando così arriveremmo a perdere almeno altri 24 mila nati, finendo a meno di 480 mila nati nell’anno in corso, un numero di nascite inferiore di circa 130 mila a quello che dovremmo avere se soltanto il nostro tasso di natalità eguagliasse quello medio dell’Unione Europea, ch’è poi il più basso del mondo. Abbiamo da tempo sconfinato nella patologia, e quanti – studiosi, esperti, politici, autorità – tirano in ballo nient’altro che la crisi e le difficoltà economiche e materiali sono irrimediabilmente tagliati fuori da ogni possibilità di comprensione, e più ancora di comprensione e cura, di quel che sta avvenendo.

Negli stessi mesi di gennaio-febbraio le morti hanno superato le nascite di quasi 50 mila unità e del 60 per cento, scavando un abisso. Continuando di questo passo avremmo qualcosa come 300 mila morti più delle nascite, alla fine dell’anno. Non sarà così, perché i mesi di gennaio-febbraio sono di forte mortalità, ma tutto, ogni particolare, ci dice che la china intrapresa dall’Italia riguardo ai figli è a un tempo culturale e intellettuale, mentale e psicologica. E insomma, profondissima. Incistata nell’animo, nei modi di sentire e di essere degli italiani. Non si tratta soltanto di una spinta verso il matrimonio, la famiglia, i figli che sta venendo meno. Si tratta di un sentimento avverso a quella spinta ch’è montato e preso campo. Si vengono ridefinendo non solo gli assetti e tipologie delle famiglie, ma anche valori e ideali nell’ambito del matrimonio, della famiglia e dei figli. Quelli dell’incontro tra uomini e donne, del tentar col matrimonio, del provarsi a camminare insieme coi figli, stanno tramontando tra gli sberleffi di tanti intellettuali e l’indifferenza di tutta una classe politica e dirigente.

Si sono senza pudore reclamizzate come un prodotto ormai vincente immagini di una società senza più cellula di famiglia, ma anzi con famiglie le più divaganti e squinternate, vaghe e snobistiche, famiglie senza sessi, generi, genitori e figli, niente, solo componenti interscambiabili tenuti assieme dalla zuccherosa, insopportabile melassa dell’amore che tutto può e consente che neppure nelle riviste  di fotoromanzi alla Grand Hotel degli anni Cinquanta si osava mostrare con questa spudoratezza. In questo tripudio di banalità ammantato di intelligenza e superiorità, la maternità è letteralmente sparita insieme alla sua immagine della donna incinta, risucchiata in una lontananza che sempre meno ha a che vedere con la riproduzione sessuale, confinata tra le tante possibilità della vita, una come tutte, al pari di tutte, da prendere in considerazione semmai le altre non bastassero a riempire l’orizzonte esistenziale. Siamo alle soglie di una sconfitta antropologica non reversibile. In Italia molto più che in pressoché tutti gli altri paesi del mondo. Una sconfitta che si traduce nella sparizione letterale dei figli. Salviamo il bambino italiano, allora. E’ un panda. Gli dovrebbero almeno l’attenzione che si nutre verso i panda.










domenica 26 luglio 2015

Quella talare che i preti si vergognano di indossare

 
 
 
 
 
di Giovanni Lugaresi
 
 
Ognuno nella vita segue, o per lo meno cerca di farlo, la sua vocazione, fra le quali esiste (anche) il sacerdozio. Non è stata la mia. Nel caso lo fosse stata avrei cercato certamente di fare il mio dovere, esercitando il ministero non come un mestiere, una professione, bensì come una missione, cioè, in primis, di portare con orgoglio e di onorare la “divisa” del prete, che era e resta (non mi risulta sia stata abolita) la veste talare.
 
Mi sovviene che indossava quella “divisa” il mio concittadino don Giovanni Minzoni, medaglia d’argento al valor militare nella Grande Guerra, quando venne ucciso dai fascisti il 23 agosto 1923 ad Argenta, dove era parroco, e che ugualmente la indossavano il seminarista Rolando Rivi e don Umberto Pessina quando restarono vittime dell’odio dei partigiani comunisti nell’Emilia insanguinata della e dalla guerra civile.
 
Ancora, ricordo che quella tale veste talare non la smise mai don Primo Mazzolari. E quando incontrai don Piero Piazza, suo successore nella parrocchia di Bozzolo nei primi anni Novanta del secolo scorso, alla mia domanda-considerazione scherzosa: ma don Piero, non indossa il clergyman?; la risposta fu: questa veste talare me l’ha abbottonata don Primo sull’altare quando venni ordinato sacerdote e io non l’ho mai abbandonata…
 
Romanticherie clericali – potrà dire qualcuno ligio al detto che l’abito non fa il monaco, ma al quale si potrà sempre rispondere che se non fa il monaco, certamente potrebbe aiutare a farlo!!!…
Ora, queste figure di sacerdoti, ma potrei ovviamente indicarne altre, mi sono venute alla mente considerando l’anarchia esistente fra i preti, e non soltanto ovviamente per quel che riguarda quello che un tempo veniva definitivo il decoro dell’abito.
 
Se ne vedono di tutti i colori, evidentemente con licenza del vescovo o del superiore dell’ordine religioso di appartenenza, se così vanno le cose: se la disciplina non esiste più, le regole si possono eludere senza alcun problema.
 
Vestono come metalmeccanici (con tutto il rispetto per quei lavoratori, sia chiaro), o come fighetti borghesi (senza rispetto per i fighetti medesimi), spessissimo senza avere un segno distintivo che li qualifichi, e se c’è, comunque (una crocetta, meglio una TAU che va tanto di moda) poco visibile.
La sensazione diffusa è che si vergognino di indossare abiti da… prete.
 
L’ultima è di sere fa, vista in un telegiornale regionale – veneto. Un servizio su un carcere e due parole dette da un giovanotto che si è scoperto essere cappellano del carcere medesimo; visto dalla cintola in su (non si sa quindi se indossasse braghe corte o pantaloni lunghi): sgargiante maglietta alla moda, a strisce orizzontali bianche e rosse, su un lato una patacca, un ricamo, non si distingueva bene; di certo non era una croce!!! In compenso. Maggiore sobrietà nel vestire dimostravano i detenuti inquadrati…
 
Avanti così… Potranno atei, musulmani e altri di varia estrazione avere stima di una Chiesa cattolica in cui ministri già dal vestire dimostrano di volersi… mimetizzare e non apparire per quello che sono?
 
Meditate, preti, meditate. E voi vescovi che fate? Non vi muovete? A, già, dimenticavo che non volete noie. Anche in presenza di vostri preti che dal vestire alla liturgia ignorano quelle regole che pure il tanto citato Concilio Vaticano II non ha eliminato.
 
 
 
 
 
 
 
© Riscossa Cristiana (25/07/2015)
 
 
 

Negri: «La libertà di educazione? È il buonismo cattolico ad averla tradita»

 

di Riccardo Cascioli26-07-2015 AA+A++

Un giovane Luigi Negri con don Giussani
«È l’ennesimo colpo del laicismo dominante, davanti a questo mortale attacco alla libertà di educazione sarà interessante vedere ora la reazione del mondo cattolico “buonista”, perché anche questo episodio va inquadrato in una situazione più generale di complicità di tanto mondo cattolico con l’ideologia dominante». Monsignor Luigi Negri, arcivescovo di Ferrara-Comacchio, non sembra affatto sorpreso dalla sentenza della Corte di Cassazione, che ha dato ragione al Comune di Livorno che pretende il pagamento dell’Ici (con arretrati) da due scuole cattoliche (clicca qui per il nostro commento, e qui per la reazione della CEI).

Non a caso monsignor Negri è stato protagonista per diversi decenni, a fianco di don Luigi Giussani, della battaglia per la libertà di educazione, che da sempre contraddistingue il movimento di Comunione e Liberazione. «La Cassazione – prosegue mons. Negri – ha confermato orientamenti più volte emersi negli ultimi anni e ribaditi da diverse parti. Ma tutto ciò probabilmente non accadrebbe se tra i cattolici non fosse prevalsa in questi anni l’idea che la fede non deve disturbare. E c’è il rischio che anche davanti a questo attacco alla radice della libertà di educazione si cerchi una comoda via d’uscita».

Quale?

Mi è suonato un campanello d’allarme in questi giorni quando ho visto l’invito a un importante incontro sulla scuola, che nel titolo dice “non importa se statale o paritaria, basta che sia migliore”. Sembra il prevalere del concetto di efficienza, una posizione che contraddice 50 anni di battaglie per la libertà di educazione, che si fondano invece sulla richiesta di un autentico pluralismo di posizioni culturali e quindi di plurime vie educative. Perché le posizioni culturali se non sono contrappuntate da vie educative, si irrigidiscono in ideologie e si perdono in emotivismo. L’efficienza è un salvagente meschino, speriamo che tutto il mondo cattolico serio rifiuti questa via di fuga verso il nulla. Ma questa è anche la conferma dell’aspetto profetico dell’ultimo insegnamento di don Giussani, che vent’anni fa non a caso denunciava il prevalere nel mondo cattolico di una “mediocrità cordiale”.

Che cosa vuol dire?

Rivolgendosi agli studenti universitari, disse che “Il nostro nemico è una mediocrità cordiale che impera tra di noi nella misura in cui la nostra compagnia non diventa luogo della memoria di Colui per cui si vive”. Stava parlando a dei ragazzi che pure vivevano nell’ambiente, per una presenza di fede e non per la ricerca dell’egemonia come qualche volta si dice adesso. Erano educati a usare tutto – lezioni, esami, tutto quanto accadeva – per incrementare la consapevolezza della fede, tutto serviva alla maturazione della fede nella missione. Perché “La fede si irrobustisce donandola”, come scriveva Giovanni Paolo II nell’enciclica Redemptoris Missio. Una frase che questi ragazzi hanno sentito ritornare con insistenza negli interventi di don Giussani, che proprio per questo a loro indicava il vero nemico che si stava palesando.

In che senso si tratta di un’affermazione profetica?

Giussani aveva intuito con chiarezza cosa sarebbe successo nel giro di qualche anno. Si parlava allora di un mondo post-ideologico, de-ideologizzato, invece sarebbe stato presto dominato da una delle ideologie più pervasive: quella del consumismo, dei desideri - anche quelli meno nobili - concepiti come diritti, che avrebbe chiesto al diritto e alla tecno-scienza gli apporti per affermarsi con quella terribile forza che papa Francesco ha più volte richiamato con l’espressione tagliente “pensiero unico dominante”. Alla fine non ci sarebbe stato lo scontro sul piano delle ideologie, delle visioni globali, ma questo lento esaurimento della fede che avrebbe accettato di convivere con questa ideologia, accettando il posto che l’ideologia dominante tecno-scientista avrebbe assegnato. È cio che è effettivamente accaduto.

A venti anni di distanza da quando queste parole furono pronunciate appare chiaro qual è il posto che l’ideologia dominante affida alla Chiesa, alla presenza cristiana, in attesa di vederla finire quasi per eutanasia. È lo spazio di un buonismo, è il trionfo dell’ideologia buonista.

Lei ritiene che i cattolici in questa società abbiano già alzato bandiera bianca.

Io sono atterrito - e lo dico consapevolmente - tutte le volte che vengo a contatto con prese di posizione di esponenti cristiani. Interventi scontatissimi, le stesse cose, cambiano solo i nomi di quelli che intervengono.

Il cattolicesimo getta secchiate d’acqua buonista in una società che non accetta di essere interloquita sui fondamenti, perché i fondamenti sono solo quelli di questa terribile deriva di carattere individualistico-soggettivistico; ma è individualismo e soggettivismo massificato, fortemente condizionato da una mentalità dominante con nessuna obiezione.

In effetti il buonismo sembra oggi il tratto dominante in tanto mondo cattolico.

Il buonista è per sua definizione un connivente, un complice, perché chiunque voglia dialogare con il mondo – e questo riguarda qualsiasi uomo di buona volontà - deve preoccuparsi anzitutto di impostare la questione sul piano della concezione, dei fondamenti della società. E invece questo è severamente bandito, non si deve parlare di queste cose, disturbano.

A volte sembra che ci sia più paura di creare lacerazioni nella società che non la preoccupazione di affermare la verità.

E questo è ancora peggio. “Non dobbiamo distruggere l’unità”, si sente dire. Si dà per scontata una unità previa, come se la società fosse un’unità. La società è un vasto impero in decomposizione tenuto insieme dal fatto che non si possa e non si debba discutere i fondamenti consumisti e tecno-scientisti. In cui non si deve neanche osare porre quelle che Giussani definiva “le grandi domande di senso”. E io, semplice cittadino, dovrei avere il problema di non urtare questa unità? Forse che Gesù Cristo ha avuto il problema di non urtare l’unità della società giudaica, che era obiettivamente in decomposizione, divisa tra le urla dello zelotismo che voleva distruggere il predominio romano e la connivenza delle caste sacerdotali che erano anche caste economiche?

“Tutti coloro che sono venuti prima di me, sono ladri e briganti”; Questa frase di Nostro Signore Gesù Cristo vorrei che fosse ogni tanto commentata insieme ad altre frasi che finora non sono state tolte dal vangelo, e che ribadiscono l’assoluta eccezionalità del mistero di Cristo. Che non è contro nessuno, è pienamente il mistero della presenza di Dio nel mondo e nella storia. Chi si oppone, si oppone a lui per le sue ragioni e non tocca a me giudicare le ragioni personali con cui uno obietta alla fede. Ma la fede non può avere la preoccupazione di non disturbare.

E invece oggi sembra proprio questa la preoccupazione maggiore…

Il cattolicesimo è il più grosso fattore di complicità di questa situazione che ormai sembra irreversibile. Ho ritrovato una frase che costellava gli appunti di quando studiavo filosofia in Università Cattolica: “Dio perdona senz’altro, la storia non perdona”. Quando si farà la storia di questo drammatico, convulso e lacerato momento storico, allora sarà chiarissimo da quale parte è stato questo cattolicesimo buonista. Il buonismo è il rifiuto della fede, è l’abbandono della fede al potere mondano con la speranza di poter salvaguardare un po’ di spazio psicologico, affettivo, di quella religione fai da te che giustamente il papa emerito Benedetto XVI ha più volte denunciato.



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