sabato 31 dicembre 2022

La salita al Cielo di Benedetto XVI lascia la terra più al bui








di Stefano Fontana, 31/12/2022

Benedetto XVI è morto questa mattina alle ore 9.34

La salita al cielo di Joseph Ratzinger/Benedetto XVI lascia la terra più al buio. La fede è anche luce e conoscenza che, nel suo matrimonio con la ragione, diffonde chiarezza, dissolve le tenebre, supera i dubbi angosciosi, dà gioia all’intelligenza, sottrae dalla dittatura del tempo e conferisce una libertà riempita di verità. Giovanni Paolo II aveva detto che la frase del Vangelo che egli più amava era: “La verità vi farà liberi”. Non so se Benedetto XVI abbia mai risposto ad una domanda su questo punto, ma penso che condividesse. La verità, che vive assieme alla carità (Veritas in caritate e Caritas in veritate) può essere vista come il centro della sua vita, della sua ricerca teologica, della guida della Chiesa universale prima alla Dottrina della Fede e poi al Pontificato. Un “magistero luminoso” lo aveva giustamente definito il cardinale Sodano.

La luce della fede, sposata con la ragione, brillava e brilla nei suoi scritti teologici, nella chiarezza degli interventi magisteriali, nei discorsi, alcuni dei quali entrati ormai nella storia … ma anche nella pacatezza dei gesti, nel delicato rispetto delle persone, nella gentilezza degli atteggiamenti, nella sua sobria e intima compostezza, così rassicurante nell’esprimere fermezza e fiducia in Cristo. Nessuna sbavatura, nessuna alimentazione del dubbio che corrode e disanima, nessuna ambiguità, il come del discorso sempre perfettamente commisurato al cosa. Accostandosi a lui si era sicuri di non venire confusi, ma confermati nelle verità di fede e di ragione. A lui ci si accostava sempre con fiducia di figli, sapendo che un padre non avrebbe mai dato una serpe da mangiare. Benedetto difendeva la “sana dottrina” dai venti sempre nuovi delle opinioni teologiche, conservava e riproponeva l’esigenza del sacro pur in un mondo secolarizzato, non pensava che al “nuovo” bisognasse passivamente “aggiornarsi”, ma semmai affrontarlo con una immersione profetica nella tradizione, non disprezzava il dialogo, anche con gli atei, ma non rinunciava alla pretesa della fede di emancipare nella verità anche la ragione. Quando discuteva con Habermas o Odifreddi non usava la sola ragione, ma la “ragione nella fede”, come San Tommaso, lui che si era formato su San Bonaventura e Agostino. Non cessò di difendere il ruolo della metafisica nella teologia e aiutò Giovanni Paolo II a scrivere la Fides et ratio, che ormai la Chiesa sembra non ricordare più, era dell’idea che “il ricevere precede il fare” e che i diritti e le libertà fossero legittimati nella loro verità da qualcosa che li precede e che si chiama ordine naturale sul piano della ragione e deposito rivelato su quello della fede, ribadì con finezza intellettuale e teologica la necessità di intendere Dio come fine ultimo e, quindi, l’ insufficienza dell’ordine secolare riguardo ai suoi stessi fini e il suo bisogno di una salvezza che non può derivare dalla superbia mondana, nella relazione tra Città dell’Uomo e Città di Dio non invertiva mai valore e priorità delle due realtà, non fece concessioni al naturalismo e pensava che la fede rivelata liberasse la ragione naturale dalla gnosi.

Nel magistero di Benedetto tutte le verità si davano appuntamento e trovavano il loro posto conveniente. L’errore non veniva inteso come spinta dialettica verso una superiore sintesi. Non solo l’intellettuale ma anche il semplice fedele godeva nel trovarsi in un universo di senso coerente e dotato di stabilità, con cui affrontare le contraddizioni e le negazioni dell’esistenza, continuando a considerarle contraddizioni e negazioni e non nuove norme o nuove leggi. Con Benedetto si sapeva che le circostanze non sono eccezioni. Per lui non era il tempo a fare da punto di partenza per interpretare la fede apostolica, certamente nella Palestina di Gesù i registratori non esistevano, ma la trasmissione della fede apostolica è avvenuta nella assoluta certezza garantita dallo Spirito, il metodo storico-critico non va rigettato ma su di esso prevale la fede della tradizione e la teologia della liberazione sbaglia a pensare che il Vangelo si legga a partire dalla situazione, mentre è la situazione che si legge alle luce della fede apostolica. Le teologie contemporanee hanno indicato il “luogo teologico” in molte situazioni esistenziali e storiche, ma per Benedetto l’unico luogo teologico era la fede apostolica. Con lui ogni fedele cattolico si sentiva garantito di essere guidato dalla Chiesa ad aderire alle stesse verità di fede degli Apostoli.

Benedetto aveva chiarito alla Chiesa dove la verità fosse stata originariamente negata nella forma radicale della modernità. Questo era successo nell’Occidente della grande abiura e dell’ateismo scelto come nuova religione. Pensava quindi che in Occidente e non altrove ci dovesse essere la resistenza e la ripresa. Qui, dove la fiammella rischiava di spegnersi per mancanza di alimento, ci doveva essere la riproposizione della verità tutta intera. Qui, dove nuove ideologie del nulla permeavano di sé ormai ogni istituzione, politica o educativa che fosse, e dove la ragione si avvitava su se stessa annullandosi e alimentando totalitarismi “consensuali” ma non per questo meno distruttivi di quelli già vissuti, la Chiesa non avrebbe dovuto “adeguarsi”, ma rimanere se stessa fino in fondo.

Benedetto XVI non rappresenta il passato ma il futuro.





Fonte 










venerdì 30 dicembre 2022

Dio può volere o permettere eventi cattivi?





E’ possibile mai che Dio possa volere o permettere eventi cattivi?


da “Fiducia nella Divina Provvidenza” di Gian Battista Saint-Jure S.J.

Dio non è e non può essere autore del peccato. Non dimentichiamo, però, che in ogni peccato, bisogna distinguere, come dicono i teologi, due parti: l’una naturale (fisica), l’altra morale. Così nell’azione dell’uomo, di cui ti credi in diritto di lamentarti, vi è per esempio, il movimento del braccio che ti percuote, della lingua che ti ingiuria e il movimento della volontà che si allontana dalla retta ragione e dalla legge di Dio. Ma l’atto fisico del braccio e della lingua, come tutte le cose naturali, è buono in se stesso e nulla vieta che sia prodotto con il consenso di Dio. Ciò che è cattivo e a cui Dio non può concorrere e di cui quindi non può essere l’autore, è l’intenzione difettosa, sregolata, conferita a questo stesso atto dalla volontà dell’uomo.

L’andatura di uno zoppo, in quanto movimento, proviene dall’anima e dalla gamba; ma la difettosità che rende questa andatura viziosa non viene dalla gamba. Allo stesso modo, tutte le azioni cattive devono essere attribuite a Dio e all’uomo, in quanto sono atti naturali, fisici; ma non possono essere attribuiti che alla volontà dell’uomo, in quanto sono sregolate, colpevoli.

Se dunque ti sim colpisce o si sparla di te, di questo movimento del braccio o della lingua, non essendo peccato, Dio può esserne benissimo e lo è effettivamente, autore; giacché l’uomo, non meno delle altre creature, non ha ricevuto l’esistenza né il movimento da se stesso, ma da Dio che agisce in lui e per mezzo di lui: In Dio, infatti, noi viviamo, ci muoviamo e siamo (Atti 17,28). Quanto alla malizia dell’intenzione, essa risiede tutta nell’uomo; ed è proprio qui che si trova il peccato, al quale Dio non prende parte alcuna, ma che tuttavia permette per non attentare al libero arbitrio.

Inoltre, quando concorre con colui che ti ferisce o che ti rapisce i beni, Dio vuole senza dubbio privarti della salute o di questi beni di cui abusavi e che avrebbero causato la rovina della tua anima; ma egli non vuole affatto che l’uomo violento o il ladro te li rapiscano con un peccato. Ciò non fa parte del disegno di Dio, ma della malizia dell’uomo.

Un esempio potrà rendere la cosa ancora più sensibile. Un criminale, con un giusto giudizio, è condannato a morte. Ma il carnefice è nemico personale di questo infelice e invece di eseguire la sentenza del giudice per dovere, lo fa per spirito di vendetta e di odio. Non è forse evidente che il giudice non partecipa per nulla al peccato dell’esecutore? La volontà, l’intenzione del giudice non è che si commetta un peccato, ma che la giustizia abbia il suo corso e che il criminale sia castigato. Allo stesso modo, Dio non partecipa affatto alla malvagità dell’uomo che ti colpisce o che ti deruba: questa è opera esclusiva di quest’ultimo.







giovedì 29 dicembre 2022

Sulla necessità del latino




Nella traduzione di Chiesa e postconcilio da Crisis Magazine un interessante articolo sul latino come lingua della Chiesa universale. 

La Chiesa cattolica ha bisogno del latino? Oggi la maggior parte dei cattolici romani adora in volgare, e c'è chi sostiene che con buone traduzioni disponibili, i cattolici non hanno bisogno di familiarizzarsi col latino, al di fuori di pochi specialisti.




Darick Taylor*

La Chiesa cattolica ha bisogno del latino? Di recente mi sono imbattuto nel commento di un prete su Twitter che, pur cercando di provocare gentilmente i suoi seguaci, ha affermato di non ritenere che il latino fosse qualcosa di speciale o sacro. Stava parlando della Messa, ma ci sono molti che oggi nella Chiesa non vedono alcuna funzione per quella lingua venerabile. La maggior parte dei cattolici romani ora adora in volgare, e si potrebbe sostenere che con buone traduzioni disponibili, i cattolici non hanno bisogno di familiarizzarsi col latino, al di fuori di pochi specialisti.

Ora, come uno il cui latino è certamente rudimentale, non sono il miglior candidato per difendere la sacralità della lingua latina. Ma penso che il buon prete (e quelli che la pensano come lui) meriti una spiegazione sul perché esso è e dovrebbe essere sacro per i cattolici romani, anche per quelli ordinari che non sono teologi e traduttori.


In primo luogo, penso che dovrebbe essere chiaro che è il latino della Chiesa ad essere sacro e non il latino in generale. Nessuno pensa che i cattolici debbano essere in grado di leggere Cicerone o i poeti umanisti del XV secolo (sebbene Pio XII abbia commissionato una volta una traduzione del salterio in latino classico, cosa che non è piaciuta a nessuno). È il latino dei Padri della Chiesa occidentale, della Vulgata, del Canone Romano, del “Dies Irae” e di molti altri testi antichi che è sacro per i cattolici. Se non è evidente per tutti, questa questione del latino è legata al rito romano antico, poiché è una delle espressioni più antiche di questo latino, ed è stata santificata dai tanti santi che hanno adorato in quel rito nel corso dei secoli.


Il latino è stato il tramite della teologia della Chiesa occidentale sin dal III secolo dC. Dai Santi Agostino e Ambrogio nella tarda antichità, a Tommaso d'Aquino e Duns Scoto nel periodo medievale, ai pensatori scolastici della prima età moderna e alla rinascita scolastica dell'Ottocento e del Novecento, la sua precisione e chiarezza ha plasmato l'insegnamento della Chiesa. Come minimo, ci devono essere esperti in questo ambito per poter comprendere questi santi uomini le cui parole sono fondamentali per le nostre convinzioni.


Ancora più importante di questo è il fatto che il latino ecclesiastico era il mezzo in cui furono documentate le prime tradizioni della Chiesa romana, considerate di origine apostolica per la maggior parte della storia della Chiesa romana. (Sono consapevole che i teologi più scettici potrebbero dire il contrario, ma non sono assolutamente d'accordo). Anche se S. Pietro e i primi apostoli quasi certamente non parlavano questa lingua, le tradizioni che trasmettevano erano, per la maggior parte, solo in forma scritta in lingua latina quando la Chiesa si liberò dalle persecuzioni nel IV secolo.


La fede cattolica, emersa dopo la conversione di Costantino, prese forma nella lingua latina. Il Canone Romano è una delle più antiche preghiere eucaristiche esistenti, risalente alla fine del IV secolo o prima, ed è una testimonianza delle prime espressioni di fede sull'Eucaristia. La Vulgata di San Girolamo è stata la prima traduzione dell'intera Bibbia cristiana in un'unica lingua, ed è stata la versione della Bibbia in cui successivamente i teologi cattolici hanno incontrato la Scrittura.


Quando la Chiesa di Roma ha iniziato a fissare il canone della Bibbia tra la fine del IV e l'inizio del V secolo, ha identificato quali fossero i libri ispirati dal loro uso nella sua liturgia. Dato che queste tradizioni sono i fondamenti di quanto è peculiare della teologia cattolica (come le affermazioni sul primato romano, le cui prime espressioni dettagliate risalgono al IV secolo), mi sembra folle bandire del tutto il latino dalla vita della Chiesa.


In definitiva, il latino della Chiesa è un legame vivo con il suo antico passato. In un mondo che sta cambiando radicalmente, persino caotico, tali collegamenti non sono solo dotazioni ornamentali, ma fondano l'identità della Chiesa in un'epoca di confusione. A volte penso che chi è al di fuori della Chiesa lo comprenda meglio degli stessi cattolici. Ancora oggi, nella nostra società secolare, i film dell'orrore continuano a inserire frasi latine nei loro dialoghi per incarnare una sorta di potere antico, buono o cattivo. Nel Medioevo, gli imperatori bizantini mormoravano alcune parole latine al momento della loro incoronazione, molto tempo dopo che aveva cessato di essere una lingua parlata nella Roma orientale, per sottolineare il loro legame con l'Impero Romano dell'imperatore Costantino il Grande.


Naturalmente, ci sono molte altre ragioni oltre a quelle storiche per cui i cattolici conoscano almeno un po' di latino, specialmente per scopi liturgici o devozionali. Il lungo sviluppo del latino, affinato da santi e da innumerevoli semplici fedeli nel corso dei secoli, gli conferisce una duttilità e un'espressività uniche e insostituibili.


Sono sensibile a due critiche su questo punto. Una è che aspettarsi che i laici conoscano il latino è elitario o in qualche modo crea una disuguaglianza tra coloro che possono e non possono capirlo. Quanto a questo presunto elitarismo, non lo sento così spesso come prima, ma ricordo che i cattolici di una certa convinzione amavano proclamare che i cattolici di oggi rappresentavano "il laicato più istruito della storia". Stando così le cose, non sarebbe certo “elitario” pretendere che i cattolici conoscano alcune preghiere latine, come il Pater Noster o l'Ave Maria? (Sebbene i cattolici americani tendano a condividere la mancanza di competenza o addirittura l'interesse dei loro concittadini per le lingue straniere, il che potrebbe rendere questo più difficile.)


Un'altra critica che prendo più seriamente è che il culto cristiano dovrebbe essere razionale; che si dovrebbe capire cosa si sta dicendo quando si prega Dio. È vero che il culto di Dio non deve somigliare a un culto misterico pagano, ma si può prenderlo nel verso sbagliato, facendo della preghiera e della liturgia una mera questione di trasmissione di informazioni.


Qualcosa come il 60 per cento della comunicazione umana è non verbale, per non parlare del tono, dell'inflessione e di altre fonti di significato "non razionali" che vanno oltre ai contenuti del linguaggio. E, naturalmente, per la Messa sono disponibili da tempo messali e opuscoli in doppia lingua, quindi - se questa è l'obiezione - si può seguire cosa sta succedendo in una Messa in latino. In ogni caso, la liturgia è espressiva del più grande mistero dell'universo, e chi può aspettarsi di “capirlo” tutto in una lingua qualsiasi?


Immagino che parte dell'obiezione all'uso del latino sia peculiare della nostra epoca. Fin dagli anni Sessanta, l'ossessione per il “multiculturalismo” ha reso i cattolici eccessivamente sensibili al loro passato “trionfale”. C'è del vero in questo. I cattolici in passato spesso propagandavano il latino come se fosse la lingua universale della Chiesa universale piuttosto che della Chiesa occidentale. La "latinizzazione" di diverse Chiese orientali nel passato attesta questo fatto (sebbene questo fenomeno sia più complicato di quanto si possa pensare). In ogni caso, il latino non è l'unica lingua sacra della Chiesa universale, poiché la maggior parte delle sue prime definizioni di fede sono in greco (e nella liturgia romana nella forma del Kyrie).
Sospetto che parte dell'obiezione all'uso del latino sia peculiare della nostra epoca. Fin dagli anni Sessanta, l'ossessione per il “multiculturalismo” ha reso i cattolici eccessivamente sensibili al loro passato “trionfale”.


Ma la reazione contro il latino, che cerca di sostituirlo completamente con il volgare, perpetua gli errori dei latinizzatori imponendo una tradizione estranea a ciò che è unico e prezioso per un'altra tradizione, a un aspetto cruciale della sua forma essenziale. Si può amare la propria tradizione, apprezzarne l'unicità, senza denigrare quella degli altri, immaginando che sia totalmente priva di significato o che debba assorbire ogni altra tradizione alla maniera originaria. La lingua madre della Chiesa occidentale è unica e inestimabile, e non riuscire a preservarla è come guardare la cattedrale di Notre Dame bruciare e pensare: “Niente di grave. Comunque era vecchia.»


Si potrebbe non essere convinti da tutto ciò e pensare ancora che la Chiesa cattolica possa cavarsela bene senza il latino. Bisogna ammettere che c'è del vero in questo. Il latino è solo una necessità per la Chiesa occidentale. Non abbiamo alcuna promessa da parte di nostro Signore che ci sarà sempre una Chiesa occidentale, solo che la stessa Chiesa universale sarà preservata.


Ma allora è proprio questo il punto. Alcuni oggi sembrano volere che qualcosa di identificabile come "la Chiesa occidentale" scompaia, forse perché considerano il suo passato irrimediabilmente contaminato dal razzismo, dal colonialismo, dal sessismo, dal trionfalismo o da altri "ismi". I crescenti sforzi, anche da parte dello stesso Vaticano, per spogliare la Chiesa romana delle sue forme storiche e creare una generica Chiesa moderna per i moderni, suggeriscono un tale motivo.


Sarebbe un disastro, secondo me. Spogliare la Chiesa occidentale delle sue caratteristiche più riconoscibili non farà che accelerare la sua fine perché allora diventerebbe indistinguibile da qualsiasi altra istituzione. Si suppone che i cattolici credano che Cristo abbia fondato una Chiesa visibile, riconoscibilmente distinta dal "mondo".


Per questo vanno conservate, per quanto possibile, le più antiche tradizioni della Chiesa universale, comprese quelle della tradizione latina. La fede cristiana non è argilla storicamente informe che può essere rimodellata a piacimento senza conseguenze. Solo mantenendo le sue forme antiche può sperare di sopravvivere e fiorire; e in questo senso, è ancora molto necessario conoscere e amare il latino da parte dei cattolici di rito occidentale.




*Darrick Taylor insegna storia al Johnson County Community College di Overland Park, Kansas.
[Traduzione a cura di Chiesa e post-concilio]





mercoledì 28 dicembre 2022

Dio è semplice perché è l’Origine






Marcello Veneziani 

I cattolici amano un Dio bambino perché rifiutano la complessità, preferiscono la semplicità, e la guarniscono di retorica zuccherosa. Il Natale, col suo presepe, sarebbe la prova di questo infantilismo dei credenti, farcito di retorica puerile. Questa in sintesi la tesi di Michela Murgia, autrice recente di un catechismo Queer in cui sostiene che la Trinità è queer, Dio è queer.

Sarebbe facile, anzi semplice, ridicolizzare le sue tesi, inveire per l’attacco sgraziato ai cattolici e al presepe, e liquidarla con poche sprezzanti battute. Sarebbe anche comprensibile, perché chi usa toni provocatori e solitamente è molto sbrigativa nelle sue condanne e nei suoi paragoni, suscita reazioni uguali e contrarie.

Provo invece a prendere sul serio la sua affermazione e a discuterla. Dunque, i cattolici – non i cristiani in generale, non i protestanti, ma proprio i cattolici – amano il Bambino perché sono infantili, rifiutano la complessità.

Ora la storia del cristianesimo, la vita e la dottrina del cristianesimo, ha una lettura “semplice” per la gente semplice, e una lettura complessa per chi è in grado di approfondire.

La storia semplice del cristianesimo comincia con dodici apostoli tutti o quasi di estrazione popolare, molti di loro ignoranti, gente umile, semplice. E i primi credenti erano gente umile, semplice. Ma lungo il corso dei secoli, la storia della Chiesa e del cattolicesimo, ha avuto, si, figure ed esempi della semplicità: da alcuni mistici a san Francesco, creatore del presepe, dalle preghiere popolari ai catechismi accessibili pure agli analfabeti. Ma all’ombra della Chiesa cattolica, apostolica e romana, è fiorito un approfondimento dottrinario che coincide con i vertici del pensiero occidentale: la Patristica e la Scolastica, il magistero di Sant’Agostino e di San Tommaso d’Aquino, le dispute teologiche, la prova ontologica di Sant’Anselmo, l’itinerario della mente in Dio di San Bonaventura, e poi le facoltà teologiche, il rapporto tra fede e ragione, fino a Ratzinger, secoli di tradizione filosofica cattolica, cristiana. Altro che semplicismo: la raffinatezza, la complessità, il rigore di molti padri della chiesa, domenicani e gesuiti, eminenti studiosi in porpora e vertiginosi pensatori. E poi l’eredità del pensiero greco e della visione giuridica romana, la nascita di un sofisticato diritto ecclesiastico.

Il carattere di una religione è di essere rivolta al popolo, e dunque chiara, semplice, diretta, alla portata di tutti. Ognuno vede Dio secondo il suo grado di comprensione. C’è chi legge la Summa Teologica e chi apprende il Cristianesimo dal Ciclo della Natività di Giotto, che spiega con le figure il senso e il racconto di una fede. Esattamente come erano i miti di cui è permeata ogni civiltà, in cui anzi è fondata ogni civiltà. Anche i miti come le religioni hanno una lettura universale, popolare, semplice e una più elevata, più complessa, a volte esoterica. La stessa Bibbia ha una lettura letterale, una narrazione popolare e una lettura allegorica, simbolica, metaforica. Spirito e lettera, testo e metatesto. Non può esistere una religione esclusivamente fondata sulla complessità, sarebbe per una setta, per un club di intellettuali, per una loggia, per un nucleo chiuso di eruditi. E poi Dio è semplice perché è l’Uno, è l’Origine.

Nel cristianesimo l’infanzia segna l’inizio e la meta della fede: è all’inizio con la venuta al mondo, la discesa dal cielo di Dio che si fa umano e bambino; ma diviene poi la meta del cristianesimo: ritrovare il candore dell’infanzia, tornare semplici e puri, come bambini, ma emendati dal peccato originale che ci accompagna dalla nascita. Da qui il ruolo importante dell’infanzia, non solo allo scopo di formare, educare i fanciulli (sinite parvulos venire ad me, lasciate che i bambini vengano a me, dice Gesù), ma allo scopo di ritrovare nel compimento della vita, nella metanoia o rinnovamento, conversione, lo spirito d’infanzia delle origini. In questo, il cristianesimo è in sintonia con le altre visioni del mondo tradizionali alle origini di ogni civiltà, di ogni mito, di ogni rito, di ogni liturgia e simbologia: ritrovare la purezza delle origini.

Ora tutto questo è stato il cristianesimo: cuori semplici e menti complesse. Coincidendo per secoli con la nostra civiltà, incarnandosi nella storia, nei regni e nelle società, la fede si è inevitabilmente intrisa di tutte le glorie e le miserie umane: nel nome di Dio ci sono stati santi e criminali, martiri e persecutori, anime pie e canaglie, ospedali e guerre. Perché questa è l’umanità: e noi “moderni” imputiamo alla religione quel che invece appartiene alla natura umana, alla sua imperfezione, ai suoi limiti. Questo significa anche accettare la storia del cristianesimo così com’è, nella gloria e nell’infamia, nella gioia e nel dolore. E caricarsela come una croce sulle proprie spalle: croce nel duplice senso di peso doloroso e di viatico per il cielo. Senza pretendere in modo ridicolo di rivedere la storia passata, di cancellarla o di scusarsi (e qui c’è pure la responsabilità di qualche Papa).

Ora, è d’uso nel nostro tempo, soprattutto tra intellettuali e preti progressisti, ridurre il cristianesimo al nostro presente e ai suoi dogmi: il rifiuto della famiglia tradizionale, della paternità, della maternità e della natività, l’adesione a una sessualità fluida, libera e mobile, la propensione a sostituire il prossimo con l’umanità astratta e remota, e dare priorità ai migranti venuti da lontano; e in generale sostituire la natura, la storia, la norma, i limiti, con i desideri. Io sono ciò che voglio essere. Così anche il cristianesimo viene giudicato su queste basi: è l’io con le sue propensioni, le sue voglie, il suo narcisismo a farsi misura della fede e del mondo; la religione deve rispondere ai tuoi desiderata, essere disegnata su misura per te. Così nasce il Dio queer, la teologia sartoriale, adatta alla propria taglia, la fede come variabile secondaria e dipendente dei propri desideri. Quel che giudicano semplice è l’umile accettazione della realtà, dell’evidenza, della differenza, delle identità, e dei nostri limiti. Ma alle origini di ogni religione c’è una certezza o una scommessa, per dirla con Pascal: l’io passa, Dio resta.

La Verità – 27 dicembre 2022







martedì 27 dicembre 2022

Italia: nascono sempre meno bambini. L’Istat: denatalità mai così accentuata




27 DIC 2022


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by Aldo Maria Valli

In un libro uscito nel 1975 e intitolato 2024 lo scrittore francese Jean Dutourd immaginò lo stupore dei passanti nell’assistere a una scena curiosa, insolita, decisamente fuori tempo. Ma non solo stupore. Nei volti delle persone c’era anche un po’ di disgusto, come se avessero visto qualcosa di scandaloso. Che cosa avevano visto? Un papà sulla trentina che camminava tenendo per mano il suo bambino.

La scena torna alla mente leggendo gli ultimi dati dell’Istat sulla crisi della natalità in Italia.


***

Istat

Natalità e fecondità della popolazione residente

Nuovo record negativo per le nascite


Nel 2021 le nascite della popolazione residente sono 400.249, circa 4.500 in meno rispetto al 2020 (-1,1%). Anche nel 2021 c’è un nuovo superamento, al ribasso, del record di denatalità. Dal 2008 le nascite sono diminuite di 176.410 unità (-30,6%). Questa diminuzione è attribuibile per la quasi totalità alle nascite da coppie di genitori entrambi italiani (314.371 nel 2021, quasi 166 mila in meno rispetto al 2008). Si tratta di un fenomeno di rilievo, in parte dovuto agli effetti strutturali indotti dalle significative modificazioni della popolazione femminile in età feconda, convenzionalmente fissata tra 15 e 49 anni. In questa fascia di popolazione le donne italiane sono sempre meno numerose: da un lato, le cosiddette baby-boomers (ovvero le donne nate tra la seconda metà degli anni Sessanta e la prima metà dei Settanta) sono quasi del tutto uscite dalla fase riproduttiva; dall’altro, le generazioni più giovani sono sempre meno consistenti. Queste ultime scontano, infatti, l’effetto del cosiddetto baby-bust, ovvero la fase di forte calo della fecondità del ventennio 1976-1995 che ha portato al minimo storico di 1,19 figli per donna nel 1995.

A partire dagli anni duemila l’apporto dell’immigrazione, con l’ingresso di popolazione giovane – spesso derivante dei ricongiungimenti familiari favoriti dalle massicce regolarizzazioni – ha parzialmente contenuto gli effetti del baby-bust. Ma l’apporto positivo dell’immigrazione sta lentamente perdendo efficacia man mano che invecchia anche il profilo per età della popolazione straniera residente.



Nel complesso, a diminuire sono soprattutto le nascite all’interno del matrimonio, pari a 240.428, quasi 20 mila in meno rispetto al 2020 e 223 mila in meno nel confronto con il 2008 (- 48,2%). Ciò è dovuto innanzitutto al forte calo dei matrimoni, che si è protratto fino al 2014 (con 189.765 eventi a fronte dei 246.613 del 2008) per poi proseguire con un andamento altalenante. A ciò va aggiunto che nel 2020 la pandemia ha indotto molte persone a rinviare o a rinunciare alle nozze al punto da sì che il numero dei matrimoni si sia pressoché dimezzato (- 47,4%), La denatalità sembra destinata a proseguire nel 2022. Secondo i dati provvisori riferiti al periodo gennaio-settembre, le nascite sono diminuite di 6 mila unità rispetto allo stesso periodo del 2021, poco più della metà di quanto osservato nei mesi gennaio-settembre del 2021 nel confronto con gli stressi nove mesi del 2020 allorché i concepimenti si sono significativamente ridotti a causa degli effetti delle ondate pandemiche.

Sempre meno primi figli

Nel 2021 i primi figli ammontano a 186.485, il 46,6% del totale dei nati. La fase di calo della natalità avviatasi nel 2008 ha portato a una progressiva contrazione dei primogeniti che sono il 2,9% in meno sul 2020 (- 5.657) e il 34,5% in meno sul 2008. Nello stesso arco temporale i figli di ordine successivo al primo sono diminuiti del 26,8%. La forte contrazione dei primi figli rispetto al 2008 interessa tutte le aree del Paese – ad eccezione della Provincia autonoma di Bolzano che presenta un lieve aumento – ed è superiore a quella riferita a tutti gli ordini di nascita in quasi tutte le regioni italiane del Nord e del Centro. Tale fenomeno testimonia la difficoltà che hanno le coppie, soprattutto le più giovani, nel formare una nuova famiglia con figli; problematica diversa rispetto all’inizio del millennio quando la criticità riguardava soprattutto il passaggio dal primo al secondo figlio. Al Centro spetta il primato della denatalità complessiva (- 34,3%) e dei nati del primo ordine (- 38,2%), con l’Umbria che presenta la diminuzione più accentuata (- 36,7% nel complesso e – 40,5% per il primo ordine). Anche le regioni del Nord registrano diminuzioni significative, con il calo maggiore in Valle d’Aosta (- 42,6% nel complesso e – 48,4% per il primo ordine). La minore denatalità, che resta comunque di assoluto rilievo, si registra nelle Isole (-28,2% per il totale dei nati e – 29,8% sul primo ordine) soprattutto per le nascite della Sicilia (- 25,3% sul totale e – 27,0% per i primi figli). In tutte le regioni la denatalità dei primi figli è maggiore di quella complessiva, ad eccezione di Molise, Puglia e Sardegna. La Provincia Autonoma di Bolzano è l’unica in cui la natalità complessiva si riduce dal 2008 (- 5,3%) ma i primi figli aumentano (+ 0,7%). Tra le cause del calo dei primi figli vi è la prolungata permanenza dei giovani nella famiglia di origine, a sua volta dovuta a molteplici fattori: il protrarsi dei tempi della formazione, le difficoltà che incontrano i giovani nell’ingresso nel mondo del lavoro e la diffusa instabilità del lavoro stesso, le difficoltà di accesso al mercato delle abitazioni, una tendenza di lungo periodo di bassa crescita economica, oltre ad altri possibili fattori di natura culturale.

Genitori non coniugati per oltre un nato su tre

In un contesto di nascite decrescenti prosegue e si rafforza l’aumento dei nati fuori dal matrimonio: sono 159.821 nel 2021 (+ 14 mila nell’ultimo anno, + 47 mila dal 2008), pari al 39,9% del totale (35,8% nel 2020). Le nascite fuori dal matrimonio sono più frequenti nel Centro (46%) mentre nel Mezzogiorno la quota è inferiore (34,8% nel 2021) ma suo il ritmo di incremento è più rapido e sta riducendo i differenziali con le altre ripartizioni. Nel caso di genitori entrambi italiani i nati fuori del matrimonio raggiungono il 43%. Nel caso di coppie miste, l’incidenza è più elevata se è il padre ad essere straniero (37,3%) rispetto alle coppie con madre straniera (31,8%). Per i nati da genitori entrambi stranieri la quota raggiunge il 26,5%, oltre 16 punti percentuali in meno rispetto alle coppie di entrambi italiani

L’aumento della quota dei nati fuori dal matrimonio nell’ultimo anno (+ 4,1 punti percentuali), superiore alla media degli ultimi dieci anni, può essere messo in relazione al dimezzarsi dei matrimoni tra il 2019 e il 2020. Considerando l’età della madre, superano la metà delle nascite tra le giovani fino a 24 anni (58,4%) e rappresentano il 40,2% tra i 25 e i 34 anni. Tra le coppie di entrambi italiani si arriva rispettivamente al 71,4% e 43,8%. A partire dai 35 anni, la quota di nati fuori del matrimonio si attesta a 35,2% per il complesso delle coppie e a 36,8% per le sole coppie di genitori italiani. La quota più elevata di nati da genitori non coniugati si osserva nel Centro (46%), seguono Nord-est e Nord-ovest (41,6%). La regione con la proporzione più alta è la Sardegna (49,3%) che supera anche la media del Centro-Nord. Tra le regioni del Centro spiccano l’Umbria (47,3%) e la Toscana (47,1%) mentre al Nord-Est il valore più alto si registra a Bolzano (48,4%). Il Sud presenta generalmente incidenze molto più contenute (33,6%), con le percentuali più basse in Basilicata (26,4%) e Calabria (28,5%).



Tra i nati fuori dal matrimonio, la quota maggiore è rappresentata da nati con genitori mai coniugati (coppie di celibi e nubili) che nel 2021 arriva all’84,1% sul complesso dei nati fuori dal matrimonio. Questa quota è aumentata di quasi 20 punti percentuali rispetto al 2001, riflettendo la caduta dei primi matrimoni osservata negli ultimi 20 anni. A livello territoriale il Mezzogiorno è la ripartizione con la quota minore di nati da genitori celibi e nubili sul totale dei nati fuori dal matrimonio (80,9%). Nel caso dei nati da genitori mai coniugati la struttura per età della madre si presenta più giovane: il 13,3% di nati da madri fino a 24 anni contro l’8,3% del complesso di nati da madri della stessa età; il 28,5% di nati da madri con 35 anni e più rispetto al 35,6% di nati dal complesso delle madri. Tra i nati da genitori mai coniugati, quelli con cittadinanza straniera sono pari all’8,9%, proporzione decisamente più contenuta rispetto ai nati da genitori coniugati, dove la quota di stranieri si presenta raddoppiata (17,4%). Si riduce il contributo alla natalità dei cittadini stranieri Dal 2012 al 2021 diminuiscono anche i nati con almeno un genitore straniero (21.461 in meno) che, con 85.878 unità, costituiscono il 21,5% del totale dei nati. Le boomers straniere, che hanno fatto il loro ingresso regolarmente come immigrate o sono “emerse” o sono stare “ricongiunte” a seguito delle regolarizzazioni di inizio secolo, hanno realizzato nei dieci anni successivi buona parte dei loro progetti riproduttivi nel nostro Paese, contribuendo in modo importante all’aumento delle nascite e della fecondità di periodo. Ma le cittadine straniere residenti, che finora hanno parzialmente riempito i “vuoti” di popolazione femminile ravvisabili nella struttura per età delle donne italiane, stanno a loro volta invecchiando.



I nati da genitori entrambi stranieri, scesi sotto i 70 mila nel 2016, continuano a diminuire nel 2021 attestandosi a 56.926 (quasi 23 mila in meno rispetto al 2012), anche per effetto delle dinamiche migratorie nell’ultimo decennio, e costituiscono il 14,2% del totale dei nati. I nati in coppia mista, passati da 27.445 del 2012 a 28.952 del 2021, presentano un andamento oscillante. Il crescente grado di “maturità” dell’immigrazione nel nostro Paese, testimoniato anche dal notevole aumento delle acquisizioni di cittadinanza italiana, rende però sempre più complesso misurare i comportamenti familiari dei cittadini di origine straniera. Si riscontra, infatti, un numero rilevante di acquisizioni di cittadinanza proprio da parte di quelle collettività che contribuiscono in modo più cospicuo alla natalità della popolazione residente. Nel 2021 hanno acquisito la cittadinanza italiana 121.457 stranieri. Le donne sono 61.544, il 50,7% del totale e, di queste, il 57,9% ha un’età compresa tra 15 e 49 anni. Le donne albanesi divenute italiane nel 2021 sono oltre 11 mila, il 17,9% del totale; quelle marocchine circa 8.200 (13,3%) e quelle di origine rumena poco meno di 5.600 (9,1%). Nel complesso, queste collettività rappresentano oltre il 40% delle acquisizioni di cittadinanza da parte di donne straniere, con quote in età feconda rispettivamente pari a 59,5%, 52,1% e 64,0%.



La fecondità delle cittadine italiane al minimo storico

Nel 2021 il livello di fecondità delle donne tra 15 e 49 anni è valutato con un valore medio di 1,25 figli (1,24 nel 2020), si tratta di una modesta ripresa che segue un lungo periodo di diminuzione in atto dal 2010, allorché si era registrato il massimo relativo di 1,44 figli per donna. Per trovare livelli di fecondità così bassi per il complesso delle residenti bisogna tornare indietro ai primi anni duemila. Tuttavia, in quegli anni la tendenza indicava un recupero, dopo il minimo storico di 1,19 figli per donna registrato nel 1995, attribuibile in larga misura al crescente contributo delle donne straniere. Nel 2003, ad esempio, la fecondità delle straniere era pari a 2,47 figli per donna, ben distante dal valore di 1,87 registrato nel 2021 (leggermente inferiore al 1,89 del 2020). Si conferma al Nord il primato dei livelli più elevati di fecondità riferito al totale delle residenti (1,31 nel Nord-est e 1,26 nel Nord-ovest), soprattutto nelle Province Autonome di Bolzano e Trento (rispettivamente 1,72 e 1,42), in Veneto (1,30), in Lombardia e in Emilia-Romagna (1,27). Nel complesso i livelli di fecondità del Mezzogiorno si attestano sulla media nazionale (1,25 figli per donna); tuttavia sono degni di nota i valori registrati in Sicilia (1,35) e Campania (1,28). Al Centro il livello di fecondità è risalito da 1,17 a 1,19. La Sardegna continua a presentare il valore più basso (0,99), anche se in lieve ripresa rispetto al 2020. Le differenze territoriali sono spiegate dal diverso contributo delle donne straniere: 1,96 al Nord, 1,63 al Centro e a 1,87 al Mezzogiorno. La fecondità delle cittadine italiane è passata da 1,17 del 2020 a 1,18 nel 2021, restando sotto il minimo storico del 1995 che, seppur riferito al complesso della popolazione allora residente, risulta prossimo alla fecondità delle sole cittadine italiane, data la bassissima incidenza dei nati da donne straniere a metà degli anni Novanta. Il numero medio di figli per donna delle italiane è in lieve rialzo al Nord (da 1,14 a 1,16) e in egual misura nel Mezzogiorno (da 1,21 a 1,22). Presenta un lieve aumento anche il Centro (da 1,11 del 2020 a 1,13 del 2021). Al Nord a detenere il primato della fecondità delle italiane resta sempre la Provincia autonoma di Bolzano (1,64) seguita dalla Provincia autonoma di Trento (1,34). Tra le regioni del Centro, il livello più elevato si osserva nel Lazio (1,15) mentre nel Mezzogiorno il picco si registra in Sicilia (1,32) e Campania (1,27); in Sardegna si registra il valore minimo pari a 0,97, in aumento rispetto allo 0,94 del 2020.

Fonte: istat.it







lunedì 26 dicembre 2022

Santo Stefano diacono e protomartire, nell'ottava di Natale





S. Stefano

primo dei 7 diaconi scelti dagli Apostoli per essere aiutati nel loro Ministero
lapidato alla presenza di Paolo (di Tarso) prima della conversione
primo martire, è venerato sia dalla Chiesa Cattolica sia da quella Ortodossa

Preghiera con Indulgenza plenaria: qui


Qui, Le meditazioni liturgiche tratte dall’Année Liturgique di dom Propser Guéranger (Le Mans 1841-1866) per il tempo di Natale.


***

di Tito Casini

Per essere uno dei santi, come si dice, più grossi, santo Stefano primo testimonio si trova nel calendario liturgico due volte l'anno: la festa e l'ottava. E siccome la sua festa cade il 26 dicembre (l'ottava, quindi, il 2 gennaio), il nome di Stefano figura nell'anno di Dio al principio e alla fine: come dire che ai due poli dell'anno rifulgono due corone.


Quanto poi alla sua grandezza, basta guardare dove lo ha messo la Chiesa: la sua festa, il giorno dopo Natale; l'ottava, il giorno dopo la Circoncisione: sempre, cioè, accanto a Gesù, preferendolo perfino a san Giovanni evangelista (27 dicembre), che non può, nel calendario, poggiare il capo sul petto del Signore perché di mezzo c'è Stefano.


E Stefano veramente si merita di stare accanto a Gesù, perché non solo a Gesù rese per primo la valida testimonianza del sangue - primo avverando le parole di Gesù: «Ecco ch'io vi spedisco de' profeti e de' savi e degli scribi, e voi, parte ne ucciderete e metterete in croce, parte ne flagellerete nelle vostre sinagoghe e li perseguiterete di città in città» - ma gli rassomigliò in maniera che, leggendone nel Nuovo Testamento la storia, ci s'illude a un certo punto di aver tra mano non gli Atti di Luca ma un quinto Vangelo dopo quel di Giovanni.


Infatti, la storia degli Apostoli principia, nel racconto del pittore a Teofilo, dagli ultimi atti di Gesù.
Dicendo l'ultime parole: «Mi sarete testimoni in Gerusalemme e in tutta la Giudea e Samaria e sino agli estremi del mondo», Gesù si era tolto da poco ai discepoli, alla madre e alla terra. La nuova loro orfanezza era stata già consolata dall'avvento della Terza Persona, che li aveva a fuoco rilavorati, nel cuore, nella mente e nella lingua; già Pietro, parlando, come capo, una prima volta a una folla mista di «Parti, Medi, Elamiti, abitanti della Giudea e della Cappadocia, del Ponto e dell'Asia, della Frigia e della Panfilia, dell'Egitto e de' paesi della Libia intorno a Cirene, avventizi romani sia giudei che proseliti, Cretesi e Arabi», ne aveva tratto, da tutti inteso, tremila credenti; e una seconda volta, aggiungendo la parola al prodigio, altri duemila ne aveva portati al battesimo (così si avveravano sotto i loro occhi le parabole poco prima udite del lievito e del chicco di senapa); già, per questo, Pietro e Giovanni avean patito prigionia e battiture, uscendo dal carcere e dai flagelli «lieti d'esser fatti degni di patir contumelie per il nome di Gesù».


Ma nessuno, per quel nome, aveva reso ancora la calda testimonianza del sangue, non ancora la pianticella di Cristo era stata innaffiata da questo liquido prezioso, i fedeli non avevano ancora reliquie di santi da baciare, allorché dalla massa dei credenti Stefano emerse.


Quale delle due retate di Pietro lo aveva catturato a Cristo? Fosse l'una o fosse l'altra, egli era già buon servitore di Cristo allorché i Dodici, cupidi di predicare e pregare, chiesero di «sette uomini di buona riputazione, pieni di Spirito Santo e di sapienza» a' quali commettere il pensiero della dispensa: tra gli eletti, il primo fu Stefano, «uomo», torna a dir Luca, «pieno di Spirito Santo».


La fede - Cristo lo aveva detto - è fonte di prodigi: chi n'abbia quant'un chicco di senapa può dire a una montagna: lèvati di qui e buttati in mare - e quella gli dà retta. Stefano, che n'era «pieno», faceva infatti «prodigi e segni grandi tra il popolo», tanto da richiamare alla mente quell'altro di Nazaret, e da mettere in serio pericolo le fortune sinagogali.


Meno male che lo zelo dei postulatori di Barabba era sempre acceso?
Non potendola con lui a fatti, e serbandosi di ricorrere alle cattive quando proprio non vi fosse stata altra via, i vincitori di Gesù si provarono con Stefano a parole. Ma Stefano, come era potente di mano, così era di lingua, e i sermonisti della sinagoga quante volte si attriccarono con lui tante n'ebbero la peggio, col bel guadagno che il popolo, assistendo alla gara, si buttava sempre più dalla parte del vincitore. Inutile confondersi: per concluder qualcosa bisognava rimetter mano al borsellino. Fortuna che Giuda non era stato molto esigente: in fondo alla pelle di montone c'era sempre tanto (la comprar due testimoni che si fossero contentati di una cosa giusta.

Trovati - cosa facile - i testimoni, e ammaestrati ben bene che non s'imbrogliassero poi al momento buono come que' due balordi dell'altra volta, con pochi altri spiccioli, spesi per mettere insieme un po' di baccano, Stefano fu preso e menato dinanzi al sinedrio.

L'accusa era anche questa volta di maldicenza grave e continuata contro il tempio e la legge, e, a provarla, ecco i testimoni. L'usciere comincia la chiama, e il primo che si presenta dice: «Quest'uomo non fa che sparlare contro il luogo santo e la legge: difatti, gli abbiam sentito dire che Gesù, quel tal Nazareno, distruggerà questo luogo e muterà i riti che ci ha tramandato Mosè». Ne viene un altro e: «Quest'uomo non fa che sparlare contro il luogo santo e la legge: difatti...» Il terzo, idem. Le testimonianze erano così chiare e concordi che il sommo presidente non ebbe bisogno, per l'onor della cosa, di fare altre domande o di rimetterei un'altra volta il vestito, ma senz'altro diede la parola a Stefano, perché, se poteva, si discolpasse: «Stanno proprio così le cose?»


Ma Stefano doveva aver badato poco a quel che si diceva di lui, perché, dicon gli Atti, «guardandolo fisso, tutti quei che sedevano nel consiglio videro il suo viso fatto come il viso di un angelo». La sua conversazione era stata, come vuol Paolo, nei cieli.

Tuttavia, all'interrogazione del sommo sacerdote rispose. Rispose, anzi, con un lungo discorso: un compendio di tutta la storia patria da Abramo in giù, con dei continui «ma» a marcare il contrasto fra la costante larghezza di Dio e la costante ingratitudine del suo popolo... Non era davvero quello il verso di rabbonire verso di sé i suoi giudici, e men che meno fu la finale. Infatti, lui che aveva esordito così onestamente chiamando i suoi accusatori col nome di fratelli, e i giudici con quel di padri («Fratelli e padri, vogliate ascoltarmi...»), terminò chiamandoli rispettivamente traditori e assassini: «...Voi pure siete come i padri vostri. Quale dei profeti i padri vostri non perseguitarono? Uccisero perfin quelli che annunziarono la venuta del Giusto, di cui ora voi siete stati i traditori e gli assassini».


Le facce di quei fior di galantuomini a sentirsi titolare in quella maniera è più facile immaginarsele che descriverle. Luca dice che «digrignavano i denti».

Ma il colmo della misura fu quand'egli aggiunse, fissando il cielo - la sua conversazione era già tornata lassù -: «Ecco io vedo i cieli aperti e il Figlio dell'uomo stare alla destra del Padre!» Sibilando di rabbia come bisce accerchiate dal fuoco e tappandosi per l'orrore le orecchie, gli si affulcarono addosso... lo trascinaron fuor del sinedrio.


E i sassi volarono d'ogni parte sul corpo del diacono, che si veniva vestendo di rosso, come il sacerdote per la messa dei Martiri. Egli, guardando il cielo aperto, sorrideva beato, come se invece di pietre gli lanciassero, per festa o gioco, morbide rose. Lapides torrentis illi dulces fuerunt... Quando gli parve d'esser tutto parato, anch'egli si mosse per fare il suo introito all'altare di Dio: «Signore Gesù,» disse, «ricevi lo spirito mio». Si ricordò che non eran rose quelle che gli ricadevano imporporate d'attorno, non accoliti, chi le lanciava, che gli porgessero i paramenti e il vino, - e pregò, come il Sommo Sacerdote aveva pregato: «Signore, non imputar loro questo peccato!»

«Ciò detto,» registra Luca con espressione che non si cesserà di ripetere, «si addormentò nel Signore».



Testo tratto da: TITO CASINI, Il Pane sotto la neve, Firenze: LEF, 1935/2, pp. 155-161.




domenica 25 dicembre 2022

Il Natale spiegato (bene) da san Pio X




24 DIC 22


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by Aldo Maria Valli



Catechismo Maggiore di San Pio X. Del santo Natale


Che festa è il santo Natale?

Il santo Natale è la festa istituita per celebrare la memoria della nascita temporale di Gesù Cristo.

Che cosa ha di particolare il santo Natale tra tutte le altre feste?

Il santo Natale tra tutte le altre feste ha due cose di particolare: che si celebrano gli uffici divini nella notte precedente, secondo l’uso antico della Chiesa nelle vigilie; che si celebrano tre messe da ogni sacerdote.

Perché la Chiesa ha voluto ritenere l’uso di celebrare nella notte del Natale i divini uffizi?

La Chiesa ha voluto ritenere l’uso di celebrare nella notte del Natale i divini uffizi per rinnovare con viva riconoscenza la memoria di quella notte, in cui, nascendo il divin Salvatore, cominciò l’opera della nostra redenzione.

Quali cose ci propone la Chiesa a considerare nelle tre Messe del Natale?

Nel vangelo della prima Messa del Natale la Chiesa ci propone a considerare che la santissima Vergine, recatasi in compagnia di S. Giuseppe da Nazaret a Betlemme per far ivi registrare il loro nome, secondo l’ordine dell’imperatore, né avendo ritrovato altro alloggio, diede alla luce Gesù Cristo dentro una stalla e lo ripose nel presepio, cioè in una mangiatoia d’animali. Nel vangelo della seconda ci propone a considerare la visita fatta a Gesù Cristo da alcuni poveri pastori, che erano stati avvisati da un Angelo della nascita di esso. Nel vangelo della terza ci propone a considerare che questo fanciullo, che si vede nascere nel tempo da Maria Vergine, è ab eterno Figliuolo di Dio.


Che cosa intende la Chiesa nel proporci a considerare i misteri delle tre Messe del Natale?


Nel proporci a considerare i misteri delle tre Messe del Natale la Chiesa intende che ringraziamo il divin Redentore d’essersi fatto uomo per la nostra salute, che lo riconosciamo insieme ai pastori, e lo adoriamo qual vero Figliuolo di Dio, ascoltando le istruzioni ch’Egli tacitamente ci dà colle circostanze della sua nascita.

Che cosa c’insegna Gesù Cristo colle circostanze della sua nascita?


Colle circostanze della sua nascita Gesù Cristo c’insegna a rinunciare alle vanità del mondo e ad apprezzare la povertà e le sofferenze.

Nella festa del Natale siamo noi obbligali ad ascoltare tre Messe?


Nella festa del Natale siamo obbligati ad ascoltare soltanto una Messa, ma è però bene ascoltarle tutte e tre per conformarci meglio alle intenzioni della Chiesa.

Che cosa dobbiamo noi fare nel santo Natale per secondare pienamente le intenzioni della Chiesa?


Nel santo Natale, per secondare pienamente le intenzioni della Chiesa, dobbiamo fare queste quattro cose: prepararci la vigilia con unire al digiuno un raccoglimento maggiore del solito; apportarvi una grande purità per mezzo di una buona confessione e un grande desiderio di ricevere il Signore; assistere, se si può, agli uffizi divini nella notte precedente, e alle tre Messe, meditando il mistero che si celebra; impiegare questo giorno, per quanto possiamo, in opere di cristiana pietà.

Fonte: sodalitium.biz




sabato 24 dicembre 2022

VIGILIA DI NATALE DEL 496: IL BATTESIMO DI CLODOVEO CAMBIA LA STORIA D'EUROPA






BastaBugie n.800 del 21 dicembre 2022


Solo vent'anni dopo la caduta dell'Impero Romano d'Occidente un fatto clamoroso caratterizzerà i 14 secoli successivi e fu così che la Francia diventò la figlia primogenita della Chiesa (VIDEO IRONICO: Clodoveo)



da Circolo Plinio Corrêa de Oliveira

Oltre a convertire i barbari, la Chiesa doveva renderli capaci di sviluppare una grande civiltà. Tale era il piano divino e a questo scopo Essa aveva bisogno di un potente aiuto, di una spada che prendesse le sue difese, di un guardiano che preservasse i suoi diritti dalle aggressioni, di un potere secolare che fosse garante della sua indipendenza e le assicurasse, nel nuovo ordine di cose, una certa sovranità temporale diventatale più indispensabile che mai. Insomma, per assecondare l'azione della Chiesa, era necessario un popolo che unisse la rettitudine dell'animo, il carattere energico, il potere delle armi, un alto spirito di proselitismo e un ardore cavalleresco e cristiano per la causa della religione.

Questo popolo stava per comparire e inaugurare una missione che per 14 secoli sarebbe stata consacrata dalla famosa formula: "Gesta Dei per francos". I franchi, uno dei popoli barbari, avrebbero avuto questa missione provvidenziale.

Al contrario della maggioranza dei germani, che aveva abbracciato l'arianesimo, i franchi erano ancora pagani. Dall'anno 481 era alla loro testa un grande guerriero, Clodoveo, che nel 493 aveva sposato una nipote del Re dei burgundi, la principessa Clotilde. Il Re dei burgundi aveva assassinato tutta la famiglia di Clotilde (rimanendo così solo a governare), odiata dalla sua coscienza e dalla sua fede, che erano ariane come tutta la corte dei burgundi. Clotilde, infatti, era cattolica fervente e aveva sofferto la persecuzione degli ariani fanatici, temprando così le virtù che la dovevano sostenere nella sua grande missione.
Divenuta sposa di Clodoveo, ella seppe presto conquistare il cuore del barbaro per mezzo della sua dolcezza e santità e, a poco a poco, riuscì a moderare le feroci abitudini di Clodoveo. Ella gli parlava spesso della inutilità degli idoli e della grandezza e soavità della religione cristiana, così come della speranza nell'eternità ad essa congiunta.

Clodoveo, per quanto abbagliato, non voleva darsi per vinto. L'influenza di Clotilde era comunque tale che egli permise il battesimo del suo figlio primogenito; la creatura però morì e Clodoveo rimproverò aspramente la sua sposa attribuendo la morte del bambino alla collera degli dei. Tuttavia l'amore per Clotilde fece sì che ella riuscisse a far battezzare anche il secondo figlio. Ma quando, come il primo, anche questo bambino cadde gravemente malato, la collera del Re esplose in modo terribile. Iddio, che voleva mettere alla prova per l'ultima volta la fede della sposa, guarì miracolosamente la creaturina per le preghiere della madre: Clodoveo rimase profondamente impressionato da questo fatto.

Poco dopo, nel 496, un altro popolo barbaro, quello degli alemanni, attraversò il Reno. Clodoveo ingaggiò battaglia contro esso vicino a Colonia, nella pianura di Tolbiac. Nel cuore della battaglia l'esercito di Clodoveo sbanda, la vittoria gli sfugge ed egli stesso è sul punto di cadere in potere dei suoi nemici; in quel momento gli tornano alla memoria gli insegnamenti di Clotilde. "Dio di Clotilde - grida a tutto petto - dammi la vittoria e non avrò altro Dio all'infuori di te!"; pochi istanti dopo l'esito della battaglia si rovescia, gli alemanni sono presi dal terrore, retrocedono, fuggono e quelli che non vengono uccisi si arrendono.
Clodoveo mantenne il suo giuramento di rozzo, ma forte e lealissimo uomo naturale. Dopo Tolbiac, egli accettò di essere istruito nella fede da due santi vescovi (uno dei quali era il famoso S. Remigio, vescovo di Reims).

Un episodio, avvenuto nel corso della sua istruzione religiosa, è utile per dare un'idea del forte spirito guerriero e del coraggio di questo capo dei franchi: all'udire che Gesù, uomo innocente e suo Salvatore, era stato impunemente crocifisso proruppe in un violento grido: "Infami assassini! fossi stato presente io coi miei franchi non sarebbe finita così!".

Clodoveo si fece battezzare la vigilia di Natale del 496. Tremila suoi guerrieri, disposti a lasciare, come il loro capo, il culto degli idoli per quello di Gesù Cristo, lo circondavano nell'imponente cerimonia la cui grandezza era accresciuta dalla presenza di numeroso clero e dal canto degli inni sacri. Nel battezzarlo S. Remigio, detto il Samuele francese, fece udire a Clodoveo queste sublimi parole, formula di tutto il nuovo ordine che stava per sorgere: "Abbassa il capo, condottiero; adora quel che bruciasti e brucia quel che adorasti!".

La conversione del Re e dei principali guerrieri franchi provocò la conversione della nazione, e l'esempio di Clodoveo contagiò anche le nazioni vicine, venendo imitato anche da altri capi franchi, come Valarico e i suoi figli. Due sorelle di Clodoveo, una pagana e l'altra ariana, ricevettero rispettivamente il battesimo e la riconciliazione con la Chiesa.

La conversione di Clodoveo decise il futuro religioso di tutta la sua razza, poiché egli non tardò ad estendere il suo dominio sui territori che dipendevano da altri capi e a riunire tutte le tribù sotto un'unica monarchia. Il battesimo dei franchi fu, dunque, un evento di immensa portata. La conversione di un potente popolo germanico alla fede cattolica portava il sigillo del trionfo del cristianesimo contro l'eresia ariana e se tre tribù di germani abbandonarono la dottrina di Ario nel corso del VI secolo, lo si deve alla conversione dei franchi al cattolicesimo.

Sarà necessario lavorare ancora per molto tempo per far penetrare la vita cristiana e sradicare i resti del paganesimo nel popolo franco, tuttavia la sua fedeltà alla Chiesa Romana non verrà smentita; la sua storia domina a partire da allora quella degli altri popoli e si lega strettamente alla storia della Chiesa. Esso salverà nel VII secolo la Cristianità contro l'invasione dell'Islam. Esso difenderà il papato minacciato dai longobardi e opererà sotto Carlo Magno per la conversione della Germania e, più tardi, dei Paesi Bassi. L'Inghilterra riceverà la civiltà da un popolo di cavalieri che l'aveva ricevuta dai franchi. I popoli scandinavi riceveranno da missionari franchi le prime scintille della fede. L'Oriente, durante le crociate, rimarrà tanto meravigliato dalle prodezze di questo popolo cavalleresco, che conserverà fino ai nostri giorni l'abitudine di identificare la fede romana con la civiltà francese.

Nota di BastaBugie: Massimo Viglione nell'articolo seguente dal titolo "Il battesimo e la consacrazione di Re Clodoveo" parla dell'ampolla del sacro crisma portato dal cielo per mezzo d'una colomba, che servì a consacrare Clodoveo e tutti i re di Francia, suoi successori.

Ecco l'articolo pubblicato su Radio Roma Libera l'8 maggio 2020:

Clodoveo, figlio del capo della tribù dei Sicambri, aveva 11 anni quando nel 476 cadde per sempre l'Impero Romano d'Occidente. Quattro anni dopo divenne Re dei Franchi Salii, e da sovrano seppe sempre scegliere come suoi consiglieri vescovi cattolici, sebbene egli fosse ancora pagano e metà del suo popolo cristiano ma ariano. [...]

Nel 493, dopo una serie di vittorie, l'esercito di Clodoveo stava per essere distrutto nella Battaglia di Tolbiac. Nel momento del più grande timore, Clodoveo ebbe la forza di imitare Costantino, giurando che qualora la sorte della battaglia si fosse rovesciata egli si sarebbe battezzato. [...]

La vittoria arrise miracolosamente e subitaneamente a Clodoveo, il quale, incoraggiato anche dalla nascita del desiderato erede, nella notte di Natale del 496, assistito dalle preghiere di Clotilde, ricevette il Battesimo da san Remigio. [...]

Ma un miracolo ancor più grande stava per avvenire, destinato a segnare per sempre la storia della Francia monarchica. Per un banale incidente, era venuto a mancare l'olio benedetto; san Remigio allora si mise a pregare, e subito, come riporta mons. Delassus, [...] che riprende il racconto del Baronio: Dio volle mostrare visibilmente quello che dice a tutti i fedeli: "Quando due o tre sono riuniti in mio nome, io mi trovo in mezzo a loro". Infatti, tutto ad un tratto, una gran luce, più risplendente che quella del sole, riempì tutta la cappella e in pari tempo s'intesero queste parole: "La pace sia con voi. Son io non temete: mantenetevi nel mio amore".

Poi, dette queste parole la luce disparve e un odore d'ineffabile soavità profumò il palazzo, a fine di provare evidentemente che l'autore della luce, della pace e della dolcezza era venuto, perché, eccettuato il Vescovo, nessuno degli astanti aveva potuto vederlo, perché erano tutti abbagliati dallo splendore della luce. Il suo splendore penetrò il santo Vescovo, e la luce che raggiava da lui illuminava il palazzo con maggior splendore delle luci che lo rischiaravano.

Un miracolo degno dei tempi apostolici - per usare le espressioni d'Ormisda, succedette a questa apparizione, come lo riferiscono Aimone ed Hincmaro, Vescovo di Reims "Voglio parlare dell'ampolla del sacro crisma portato dal cielo per mezzo d'una colomba, e che servì a consacrare Clodoveo e, dietro il suo esempio, tutti i re di Francia, suoi successori. La miracolosa conversione dei Franchi seguì quella del Re". Da quel momento, con quel Sacro Crisma sono stati consacrati tutti i Re di Francia fino alla Rivoluzione e quindi Carlo X, i quali acquisivano la miracolosa capacità di guarire alcune malattie con il loro solo tocco della mano. [...]

Il Sacro Crisma venne cercato e alla fine trovato dalla furia dei giacobini rivoluzionari per essere distrutto, come accadde per i resti mortali di molti Re di Francia. Evidentemente, il loro odio per il sacro e la vera fede non poteva tollerare l'esistenza e neanche il ricordo di quei simboli che incarnavano in sé la missione che Dio stesso aveva dato alla Francia di Clodoveo, Carlo Magno, san Luigi IX.



Titolo originale: La conversione di Clodoveo. La Francia, figlia primogenita della Chiesa

Fonte: Circolo Plinio Corrêa de Oliveira, 25 aprile 2010




La grazia del Natale




 24 DICEMBRE 2022


NATALE: Non sprechiamo l’infinita grazia di offrire tutto noi stessi, le nostre gioie e anche i nostri dolori, al Bambino della mangiatoia


di Maria Bigazzi

“Natus est vobis hódie Salvátor, qui est Christus Dóminus”.

È nato per noi il Salvatore Gesù, il Verbo si è fatto uomo ed è venuto ad abitare in mezzo a noi.

Siamo giunti al Santo giorno in cui le tenebre sono vinte dalla Luce, dalla Verità e dalla Vita: Cristo Gesù.

Le campane a festa nella notte svegliano dal torpore e inondano le vie e le case di quella gioia che solo Dio può portare; la luce delle candele illumina il volto del Dio Bambino e ci invita al raccoglimento; il suono dell’organo irrompe maestoso per annunciare la venuta del nostro vero Re; i fiori richiamano alla bellezza e alla vita; il profumo dell’incenso accoglie il Salvatore.

Tutto parla di bellezza, di gioia e di amore, dell’Amore infinito di Dio per noi.

Dal momento dell’Incarnazione ha avuto inizio la nostra Redenzione, e ora il nostro cuore freme perché attende Colui che ci ridona la libertà, aprendoci le catene che ci tenevano imprigionati.

Gli angeli invitano anche noi a prendere parte alla gioia di tutta la Terra: “Glória in altíssimis Deo, et in terra pax hóminibus bonæ voluntátis”. E come non potremo rallegrarci con loro?

In questo giorno, la tentazione della malinconia e della tristezza, le sofferenze e le prove, bussano più forti che mai per farci spostare lo sguardo da Gesù, ma, davanti alla sua culla, offriamogli ogni cosa, affidandoci completamente a Lui perché ci guidi sulla giusta via della salvezza.

Gesù Bambino ci aspetta, tra il ghiaccio della vita e il vento gelido della sofferenza, alla sola luce che viene da Lui, quella stessa luce della Grazia che investe chi gli dona il cuore con amore e pieno abbandono.

Spesso ultimamente si nota una grande superficialità nell’affrontare il Natale: niente presepi nelle case, nessun desiderio di avvicinarsi ai Sacramenti e di gioire assieme alla Chiesa per la nascita del Salvatore.

Se lasciamo che l’indifferenza riempia le nostre vite, perdendo la nostra identità di cristiani e quindi di figli di Dio chiamati a vivere come tali rivesti della Sua Grazia, vedremo scendere la notte oscura sulle nostre case, senza accorgerci della luce che vince le tenebre.

Che questo santo Natale del Signore ci apra il cuore a Lui, perché possa diventare Sua culla, per custodirlo ogni giorno con lo stesso amore con cui lo custodirono per primi la Vergine Maria e san Giuseppe.

Facciamo nostra la preghiera del santo Curato d’Ars:

“Gesù, unisco i miei dolori ai tuoi, le mie sofferenze alle tue. Fammi la grazia di trovarmi sempre contento nella situazione nella quale mi hai posto. Benedirò il tuo santo Nome. Così sia”.





giovedì 22 dicembre 2022

Vogliamo amare di più Gesù? Chiediamo all’Immacolata di amarlo con lei





di Maria Bigazzi

Cantiamo con il Magnificat che grandi cose ha fatto l’Onnipotente in Maria Santissima.

Davvero Maria è l’eccelso capolavoro di Dio, Colei della quale lingua umana non può mai proferire abbastanza, dopo ovviamente il Suo e nostro Creatore.

Oggi purtroppo è tristemente diffusa una concezione erronea della Madre di Dio, per cui parlare e lodare la Madonna, significa allontanare il cuore dal Figlio Gesù.

Ci aiuta a scacciare tale pensiero san Massimiliano Kolbe, che ricorda di non avere paura di “amare troppo l’Immacolata”, infatti, “mai potremo eguagliare l’amore che ha avuto da Lei lo stesso figlio Gesù, e imitare Gesù è la nostra santificazione. Quanto più apparteniamo all’Immacolata, tanto meglio comprenderemo e ameremo il Cuore di Gesù, Dio Padre, la Santissima Trinità”.

Proprio così! Più cresce l’amore per Maria Santissima, più cresce quello per il Figlio Suo, se l’anima a Lei si consacra e affida, chiedendole la grazia di arrivare ad amare Dio con tutto il cuore e con il proposito di avvicinarsi alla perfezione.

“Ad Jesum per Mariam”, insegna san Luigi Grignion de Montfort. Infatti, chi trova Maria, trova Gesù per mezzo di Lei, e giunge a trovare Dio Padre per mezzo di Gesù. La Vergine è “l’eco meravigliosa di Dio”, come la chiama ancora il Montfort, poiché ogni lode che le viene fatta, viene da Lei rivolta a Dio per rendergli gloria.

Il Vangelo stesso con l’episodio della Visitazione di Maria Santissima alla cugina santa Elisabetta, ci dà conferma di come Maria eleva al Padre le lodi che riceve. Nulla tiene per sé, ma tutto rivolge a Dio.

Il canto del Magnificat è la più bella lode che la Vergine ci lascia per imparare a lodare Dio sempre, in ogni momento e per ogni suo dono.

Dio volle che il Suo Figlio Unigenito venisse nel mondo per mezzo di Maria, di cui Ella è Madre per opera dello Spirito Santo e Madre della Chiesa per volontà dello stesso Figlio Gesù. Donando anche a noi la Vergine quale dolce e amorosissima Madre, Egli ci ha anche indicato la via più perfetta per giungere a Lui.

Per questo possiamo unire a Maria e alle Sue intenzioni la nostra anima, che sempre deve trovarsi in stato di grazia per mezzo dei Sacramenti. Una volta uniti Lei, per mezzo Suo bisogna unirsi alle intenzioni di Gesù Cristo, lasciando che Ella agisca in noi secondo la volontà di Dio e per la sua maggior gloria. Questa devozione – ricorda il Montfort – se praticata fedelmente, fa sì che l’anima di Maria sia in noi per glorificare il Signore, e che il suo spirito sia in noi per rallegrarci in Dio suo Salvatore.

Quanto sarebbe bello che crescendo nella devozione alla Madonna si giungesse al punto che “Essa col nostro cuore povero ama il suo Divin Figliuolo. Noi diventiamo il mezzo per il quale l’Immacolata ama Gesù, e Gesù, vedendoci proprietà e quasi parte della Santissima Madre, ama Essa in noi e per noi”, come insegna san Massimiliano M. Kolbe.

In solo poche e povere righe, quanto appare grande il mistero di Maria Santissima!

E quanto ancora c’è da dire sulla Vergine Maria! Afferma san Bonaventura che “tanta è l’eccellenza della gloriosa Vergine, che nel parlare di lei e lodarla si può mancare solo per difetto”.

Accostiamo il nostro cuore al Cuore Immacolato di Maria, Colei che venne scelta da Dio e preservata dal peccato fin dall’eternità, creata pura da ogni colpa e consacrata tempio di purezza, preparata nel nascondimento, nel corpo e nello spirito perché diventasse degna dimora del suo Figlio Unigenito.

Che sia la Vergine Maria a portarci a Dio per mezzo della Sua intercessione, Lei che per noi è guida e maestra, ma anche rifugio e consolazione nelle prove della vita.






mercoledì 21 dicembre 2022

Per la Messa tradizionale, anche a costo di un esilio liturgico. Monsignor Schneider sulla vera obbedienza





21 DIC 2022


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by Aldo Maria Valli

In occasione della Conferenza sull’identità cattolica organizzata dalla rivista The Remnant l’1 e 2 ottobre 2022 a Pittsburgh (Stati Uniti), monsignor Athanasius Schneider ha rilasciato diverse dichiarazioni. Qui le parole più significative del vescovo ausiliare di Astana (Kazakhstan), sulla Messa tradizionale e sulla persecuzione a cui è sottoposta a Roma e nelle diocesi.

***

Su LifeSiteNews del 4 ottobre si potevano leggere queste parole di monsignor Schneider tratte dal convegno di Pittsburgh: “Il potere attuale odia ciò che è santo, e quindi perseguita la Messa tradizionale”. Parole forti, integrate da questo saggio appello: “Ma la nostra risposta non dev’essere né rabbia né pusillanimità, ma una profonda sicurezza nella verità e pace interiore, gioia e fiducia nella Divina Provvidenza”.

Il presule ha anche affermato: “Dichiarare la Messa riformata di papa Paolo VI espressione unica ed esclusiva della lex orandi del rito romano — come sta facendo Papa Francesco — viola la tradizione bimillenaria di tutti i romani pontefici, che non hanno mai mostrato una così rigida intolleranza”.



E ha aggiunto: “Non si può creare all’improvviso un nuovo rito — come ha fatto Paolo VI — e dichiarandolo voce esclusiva dello Spirito Santo ai nostri tempi, e allo stesso tempo tacciando il precedente rito — rimasto pressoché immutato nell’arco di almeno mille anni — di essere carente e dannoso per la vita spirituale dei fedeli”. E precisa questa argomentazione affermando che ciò “porta inevitabilmente alla conclusione che lo Spirito Santo contraddice Se Stesso”.



Monsignor Schneider va nel meritodel le critiche mosse, già nel 1969, dai cardinali Alfredo Ottaviani e Antonio Bacci nel loro Breve esame: “Senza dubbio il Novus Ordo di Paolo VI indebolisce la chiarezza dottrinale relativa al carattere sacrificale della Messa e indebolisce notevolmente il carattere di sacralità e di mistero del culto stesso”. Mentre la Messa tradizionale contiene e irradia “un’eminente integrità dottrinale e sublimità rituale”.



Ecco spiegata l’ostilità di quanti perseguitano la Messa tradizionale: “Lo splendore della verità, della sacralità e della soprannaturalità del rito tradizionale della Messa preoccupa quei chierici che occupano alte cariche della Chiesa in Vaticano e altri che hanno abbracciato una nuova posizione teologica rivoluzionaria, più vicina alla visione protestante dell’Eucaristia e del culto, caratterizzata dall’antropocentrismo e dal naturalismo.”



E insiste: Paolo VI è “il primo papa in duemila anni ad aver osato realizzare una rivoluzione dell’Ordo della Messa, un’autentica rivoluzione”. Tale dichiarazione, nel momento in cui monsignor Schneider pubblica il suo libro La Messa cattolica (Chorabooks), fa desiderare che scelga la celebrazione esclusiva della Messa tradizionale, lui che per ora celebra anche la Messa di Paolo VI in determinate circostanze.

Tanto più che, nel resto del suo intervento, invita con forza i sacerdoti e i fedeli legati alla Messa tradizionale a non temere una forma di “esilio liturgico”, accolto come una persecuzione sofferta per Dio.

Stabilisce poi questo parallelo storico: “L’attuale persecuzione contro un rito che la Chiesa romana ha custodito gelosamente e immutabilmente per almeno un millennio — quindi da molto prima del Concilio di Trento — sembra ora una situazione analoga alla persecuzione dell’integrità della fede cattolica durante la crisi ariana nel IV secolo.”



“Coloro che all’epoca hanno mantenuto immutabile la fede cattolica sono stati banditi dalle chiese dalla stragrande maggioranza dei vescovi, e sono stati i primi a celebrare una sorta di messe clandestine.”

E aggiunge al discorso sui persecutori: “Possiamo dire agli uomini di chiesa spiritualmente accecati e arroganti dei nostri giorni, che disdegnano il tesoro del rito tradizionale della Messa e perseguitano i cattolici che vi sono attaccati, non riuscirete a sconfiggere e a estinguere il rito tradizionale della Messa”.

“Santo Padre Papa Francesco, Lei non riuscirà a estinguere il rito tradizionale della Messa. Perché? Perché sta combattendo contro l’opera che lo Spirito Santo ha intessuto così accuratamente e con tanta arte nel corso dei secoli e dei tempi.”

La vera obbedienza nella Chiesa

Rispondendo alle domande di Michael Matt, direttore di The Remnant, il 13 ottobre monsignor Schneider ha chiarito la natura della vera obbedienza nella Chiesa, con elementi di spiegazione che ricordano quelli sviluppati da monsignor Marcel Lefebvre, più di quarant’anni fa: “Dobbiamo continuare anche se in alcuni casi diciamo che non possiamo obbedire al Papa in questo momento perché ha emanato questi comandamenti o ordini che ovviamente minano la fede, o che ci tolgono il tesoro della liturgia; è la liturgia di tutta la Chiesa, non la sua, ma quella dei nostri padri e dei nostri santi, quindi ne abbiamo diritto.”

“In questi casi, anche se disobbediremo formalmente, obbediremo a tutta la Chiesa di sempre, e anche, con tale disobbedienza formale, apparente, faremo onore alla Santa Sede custodendo i tesori della liturgia, che è un tesoro della Santa Sede, ma che è temporaneamente limitata o discriminata da coloro che attualmente ricoprono alte cariche nella Santa Sede.”



In un’intervista rilasciata il 28 ottobre al direttore di LifeSiteNews, John-Henry Westen, monsignor Schneider torna sulla persecuzione, evocando il tempo delle catacombe: “Un esempio di questo tipo di situazione, sia per i fedeli che per i sacerdoti – di essere in qualche modo perseguitati ed emarginati da chi occupa le alte cariche nella Chiesa, dai vescovi – è quello che abbiamo conosciuto nel 4° secolo, con l’arianesimo.”

“In quel tempo i vescovi validi, i vescovi leciti, comunque la maggioranza di loro, perseguitavano i veri cattolici che conservavano la tradizione della fede nella divinità di Gesù Cristo, Figlio di Dio. Era questione di vita o di morte per la verità, per la tradizione della fede. E così quelli venivano cacciati dalle chiese, costretti ad andare alle radici, alle messe all’aperto.”

“In un certo senso, anche noi possiamo trovarci in situazioni del genere. Ed è già successo, soprattutto dopo Traditionis custodes. Ci sono luoghi dove le persone vengono letteralmente cacciate dalle parrocchie dove avevano avuto, per molti anni, la Messa tradizionale in latino approvata da papa Benedetto XVI e dai vescovi locali.”

“Oggi, nel nuovo contesto di Traditionis custodes, certi vescovi – ripeto – espellono letteralmente dalle chiese, dalle parrocchie, i migliori fedeli, i migliori sacerdoti: li espellono dalla chiesa parrocchiale che si chiama chiesa madre. E questi fedeli sono quindi costretti a cercare nuovi luoghi di culto, palestre, scuole o sale di riunione eccetera”.


“È una situazione simile a una qualche forma di catacomba. Non sono letteralmente catacombe perché si può ancora celebrare pubblicamente, ma può essere paragonata al tempo delle catacombe perché non si possono utilizzare le strutture e gli edifici ufficiali della Chiesa.”

E ricorda ancora cosa sia veramente l’obbedienza nella Chiesa: “Dobbiamo chiarire il vero concetto e significato dell’obbedienza. San Tommaso d’Aquino dice che l’obbedienza assoluta, incondizionata, la dobbiamo solo a Dio, ma a nessuna creatura, nemmeno al Papa stesso. L’obbedienza verso il Papa e i vescovi nella Chiesa è dunque un’obbedienza limitata”.

“Quindi, quando il Papa o i vescovi ordinano qualcosa che mina manifestamente la pienezza della fede cattolica e la pienezza della liturgia cattolica – quel tesoro della Chiesa, la Messa tradizionale latina –, è dannoso perché minano la purezza della fede; e minando la purezza della santità della liturgia, miniamo tutta la Chiesa”.

“Riducono il bene della Chiesa, il bene spirituale della Chiesa. Riducono il bene delle nostre anime. E a questo non possiamo collaborare. Come potremmo collaborare a sminuire la purezza della fede, come potremmo collaborare a sminuire il carattere sacro e sublime della liturgia della Santa Messa, la millenaria Messa tradizionale di tutti i santi?”.



In una situazione del genere, abbiamo l’obbligo (non si tratta solo di dire che “possiamo” in certe occasioni) di dire al Santo Padre e ai vescovi: “Con tutto il rispetto e l’amore che vi dobbiamo, non possiamo eseguire questi ordiniche date perché nuocciono al bene della nostra santa Madre Chiesa”.

“Quindi dobbiamo cercare altri luoghi, essendo anche in qualche modo formalmente disobbedienti. Ma in realtà saremo obbedienti alla nostra santa Madre Chiesa, che è più grande di ogni papa particolare. La Santa Madre Chiesa è più grande di un papa particolare! E così, obbediamo alla nostra santa Madre Chiesa.”

“Obbediamo ai papi di tutti i tempi che hanno promosso, difeso, protetto la purezza della fede cattolica, incondizionatamente, senza compromessi, e che hanno anche difeso la santità e l’immutabile liturgia della Santa Messa nel corso dei secoli.”

Fonte: fsspx.news






L'angelo custode è meno intelligente del demonio?





di Plinio Corrêa de Oliveira

La Chiesa insegna che Dio ha creato gli Angeli molto superiori a noi. Essendo puri spiriti, con un'intelligenza lucidissima e un grande potere, sorpassano per loro natura persino gli uomini più dotati. In conseguenza della loro ribellione, gli Angeli cattivi persero la virtù, non però la loro intelligenza, e neanche il potere. Di solito, Dio restringe più o meno la loro azione, secondo i disegni della sua Provvidenza. Tuttavia, rimangono di per sé, e secondo la loro natura, superiori agli uomini. Ecco perché la Chiesa ha sempre approvato che gli artisti raffigurassero il demonio come un essere intelligente, sagace, astuto e potente, anche se pieno di malizia in tutti i suoi progetti. La Chiesa ha approvato persino la rappresentazione del demonio come una creatura con suggestioni affascinanti, per manifestare in questo modo le parvenze di qualità di cui lo spirito delle tenebre può rivestirsi per sedurre gli uomini.

La nostra prima immagine mostra un esempio di tale rappresentazione del demonio. Mefistofele, con una sembianza fina, astuta, di psicologo penetrante ed assai loquace, suggerisce, in maniera ingannevole, pensieri di perdizione, soavi e profondi, al Dottor Faust mentre dorme, in pieno sogno. Questo tipo di rappresentazione è diventata così frequente che si raffigura il demonio soltanto sotto questo aspetto. Tutto ciò è, come abbiamo detto, perfettamente ortodosso. 

In quale senso vanno le rappresentazioni degli Angeli buoni secondo una certa iconografia molto diffusa?

Queste li mostrano come esseri eminentemente bene intenzionati, felici, candidi, e tutto questo è secondo la santità, la beatitudine, la purezza che possiedono in grado eminente. Tuttavia, tali rappresentazioni vanno oltremisura e, volendo risaltare la bontà e la purezza degli Angeli fedeli, e non sapendo, da un altro canto, come esprimere allo stesso tempo la loro intelligenza, la loro fortezza, la loro mirabile maestà, raffigurano esseri insipidi e senza valore.



La seconda immagine mostra una bambina che varca un fiumicello. Un Angelo Custode la protegge. Il quadro, essendo popolare e senza pretensioni artistiche, risveglia comunque legittime simpatie, perché evoca in modo piacevole un panorama campagnolo, in fondo al quale c'è il campanile del paese, ed è impregnato dall'innocenza della vita che in campagna si può conservare molto più facilmente. Da un'altra parte è commovente l'idea di una fanciulla che segue spensieratamente il suo cammino, custodita da un Principe celeste, che la protegge con tenerezza. Facciamo caso, però, alla fisionomia di questo Principe: non sembra totalmente carente di quella forza, di quella intelligenza, di quell'acume, di quella sottigliezza propria della natura angelica, con cui si rappresenta sempre Satana? Osserviamo il fisico attribuito all'Angelo buono: un atteggiamento molle, rilassato, non intelligente. Adesso paragoniamolo con la snellezza, l'agilità, l'alta espressione del portamento di Mefistofele: potrebbe esserci maggior differenza?

Da tutto questo nasce un grave inconveniente. Raffigurando con insistenza il demonio come intelligente, sveglio, capace, e rappresentando sempre gli Angeli buoni – come lo fa una certa iconografia sdolcinata – come esseri rammolliti, inespressivi, quasi stolti, quale impressione si crea nell'anima popolare? Una impressione che la pratica delle virtù produce persone sfibrate e istupidite, mentre il vizio forma degli uomini intelligenti e virili.

Vi è qui un aspetto in più di quell'azione sdolcinata che il romanticismo ha esercitato così profondamente, e continua ancora ad esercitare, in molti ambienti religiosi.



Fonte: Catolicismo, n° 41, Maggio 1954. Traduzione a cura di Tradizione Famiglia Proprietà – Italia






Investigatore Biblico: il caso del versetto mozzato





21 DIC 2022

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di Investigatore Biblico

Ne abbiamo visti di errori di termini, ultimamente, nella traduzione Cei 2008.

Nel caso di questo articolo, invece, in cui analizziamo il versetto 2 del Salmo 147, ci troviamo davanti a un versetto mozzato, letteralmente troncato. E in quanto mozzato nel testo, diventa mozzato nel suo significato.

Andiamo ad analizzarlo.

Cei 1974: “Lodate il Signore, è bello cantare al nostro Dio, dolce è lodarlo come a Lui conviene” (Sal 147,2)

Vulgata: “Alleluja. Laudate Dominum, quoniam bonus est psalmus; Deo nostro sit jucunda, decoraque laudatio” (Sal 147,2)


Cei 2008: “È bello cantare inni al nostro Dio, è dolce innalzare la lode” (Sal 147,2)

Per comprendere meglio lo stravolgimento immotivato della Cei 2008, prendiamo in esame il testo ebraico traslitterato: “Ki tov zammerah Elohènu, ki na’im na’wat tehillah”: “Lodate il Signore, perché è bene inneggiare al nostro Dio, perché è soave, a lui gradita la lode”.


In primis, nella nuova versione (Cei 2008) è stato omesso (cancellato!) l’incipit del Salmo, ovvero: “Lodate il Signore”, presente sia nel testo originale ebraico sia nella Vulgata e nella Cei 1974.

Pertanto, senza mezzi termini, il versetto è stato mozzato, segato, amputato, o come preferiamo dire: a voi il termine più congeniale.


Secondo, l’espressione “gradita la lode”, che in ebraico è “na’wah”, (“gradevole”, “conveniente”), sparisce grazie ad altra magia della nuova traduzione. Il grande e geniale update.

In sostanza, il pool di traduttori (o cosca?) Ccei 2008 stravolge (o distrugge?) completamente il versetto in questione, riducendolo in modo banale.


Torno a insistere sulla necessità di rispettare la Parola di Dio in continuità con la tradizione secolare di chi ha tradotto, con solerzia, cercando di rispettare e amare il lascito di quel testo. Come facciamo a fidarci di una traduzione così sommaria e piena di errori grossolani?

La mia voce è solo di un poveretto che cerca di evidenziare questo grossissimo problema, che sta alla base di ogni deviazione.

Possiamo discutere di mille argomenti, in seno alle questioni di Chiesa, e molte diatribe sono in atto e corrette. Ma se, scusate l’eufemismo, sputtaniamo la Bibbia in questo modo, come possiamo pensare di seguire una via diritta?

Prego Dio che in futuro qualcuno riprenderà le redini e rimetterà a posto ogni cosa, a partire dal testo, fino a tutte le storture ideologiche che ogni cattolico è costretto a subire, consapevole e inconsapevole.





martedì 20 dicembre 2022

Testimonianza. Una Messa ancora cattolica?




20 DIC 2022


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by Aldo Maria Valli

Ricevo da un lettore e vi propongo questa testimonianza dalla Svizzera.


***

Domenica 18 dicembre. Lucerna, chiesa collegiata di San Maurizio, Messa delle 11:15.

Un’assistente femminile in camice guida la preghiera dei fedeli, compresa di orazione finale, e tiene svariate monizioni. Al momento della comunione, amministrano l’ostia il prete e un’altra donna, questa senza camice ma che aveva proposto le intenzioni della preghiera dei fedeli con affettata maestria da presentatrice televisiva.



Come si può vedere dalla foto che invio, l’assemblea domenicale presente alla Messa mattutina nella chiesa principale non è numerosa, eppure la comunione viene distribuita dalle due ministre. E rigorosamente in mano, senza particolari cenni di riverenza da parte dei fedeli.

Poco prima, un uomo in completo nero e camicia bianca aveva portato sull’altare una pisside contenente ostie prelevate da un tabernacolo di un altare laterale. Lo stesso signore, terminata la distribuzione della comunione, ha riposto la medesima pisside nel tabernacolo e ha sgombrato l’altare dal calice. E tutto ciò mentre il prete e la ministra predicatrice in camice stavano seduti ai loro seggi.



Infine annoto che se le due ministranti dai capelli lunghi sciolti e fluenti sul bianco camice sono rimaste in ginocchio durante la consacrazione, la ministra predicatrice in camice invece è rimasta accanto al prete in piedi all’altare, senza mai neppure genuflettersi dopo l’elevazione (proprio come costumano da tempo i concelebranti).

Si può veramente dire che la signora abbia perlopiù svolto il ministero liturgico come lo svolgono attualmente i diaconi.



Dopo la benedizione, il drappello di ministri e ministranti ha aspettato fuori dalla chiesa collegiata per salutare i fedeli, ma ho avuto l’impressione che la maggior parte cercasse il modo di evitarli anche se tutti venivano fermati con la stessa solerzia dei promotori commerciali; io ho percepito che era un gesto connesso al servizio ma ben poco spontaneo.

La professione di fede è stata diversa dai due simboli previsti dall’edizione attuale del messale romano. Nulla da eccepire invece per il valente servizio organistico e per la cura estetica del rito.



Come a dire: tutto bellissimo, se non che mi è sembrato di essere in un’altra religione.

Lettera firmata