lunedì 31 ottobre 2011

P. Tomas Tyn: La Chiesa postconciliare





Ecco, care sorelle, ho di nuovo il piacere di trovarmi qui in mezzo a voi per dirvi qualche parola sul tema scelto molto opportunamente con grande profondità, cioè la situazione della chiesa postconciliare.



Sapete che è un tema che sta a cuore anche al Santo Padre il quale ha convocato un sinodo appositamente per trattare proprio di questo tema piuttosto importante ed estremamente attuale. Così, rinfrancati e ristorati dalla preghiera del S. Rosario ci accingiamo a trattare di questo tema per dire la verità non del tutto facile.




Penso che è alla portata di tutti, un dato di comune esperienza, il fatto di un certo disagio per le anime buone, per le anime che tendono a rimanere veramente cristiane, che amano la santa tradizione – senza questo amore per la tradizione non c’è cristianesimo -, senza dubbio queste anime soffrono per alcuni aspetti deleteri di questa epoca chiamiamola così, postconciliare.




A che cosa è dovuto tutto questo, forse al concilio? E’ questa la domanda che dobbiamo farci. La mia risposta tende a dirvi per l’appunto, sorprendentemente forse, che non direttamente è la colpa del concilio, bensì di strane, peregrine interpretazioni del medesimo. In questo non posso essere completamente d’accordo con gli scritti di due presuli che voi conoscete, mons. Lefebvre e mons. De Castro Mayer, i quali hanno avuto la sollecitudine pastorale, molto comprensibile, di mettere in evidenza alcuni aspetti difficili di alcuni insegnamenti conciliari, in particolare in materia dell’ecumenismo ed in materia della libertà religiosa, due temi che tratteremo anche noi.




Questi due presuli fanno vedere giustamente che alcune espressioni di questi documenti conciliari che sembrano contraddire la tradizione cattolica in questa materia. Non c’è dubbio che studiando esattamente la lettera dei tesi conciliari potrebbe anche insinuarsi questa possibilità di interpretare in contrasto con la tradizione cattolica e non c’è dubbio che così alcuni, purtroppo molti della corrente modernista, hanno interpretato proprio così i testi conciliari. Ma è così che il concilio ha voluto essere interpretato? Io mi permetto di dire decisamente no.




Il concilio continuamente propone la necessità di riallacciarsi alla tradizione cattolica di tutti i tempi e lo stesso Papa Giovanni XXIII convocando il concilio insiste col dire che il concilio deve aggiungersi a tutta una serie di concili precedenti e molto spesso anche i testi conciliari adoprano la dicitura “vestigia concilii tridentini et vaticani primi prementes” cioè premendo, esattamente rifacendo le vestigia, le orme, le tracce dei concili di Trento e Vaticano I, noi insegniamo questo o quest’altro. Per esempio la Dei Verbum: l’insegnamento sulla autenticità storica dei vangeli ribadisce praticamente la dottrina tradizionale della chiesa; nell’insegnamento sulla infallibilità del sommo Pontefice si ribadisce la dottrina del Vaticano I con termini estremamente edificanti.




Quindi vedete certamente – direttamente per lo meno -, non è colpa del concilio tutto questo sconquasso che è successo nell’epoca postconciliare. Allora qua già si avvicina a noi una intuizione, una possibile terapia che poi proporremo alla fine di questo discorso, cioè la terapia sarebbe questa: rimanere fedeli al concilio contro le distorsioni del postconcilio: molto semplice in sostanza.



(Dalla conferenza di p. Tyn, La Chiesa postconciliare)


Diario Vaticano / Lo "spirito di Assisi" di cui il papa diffida




La formula ha grande fortuna sui media ed è il mantra dei francescani e della Comunità di Sant'Egidio. Ma le autorità vaticane non la ripetono più. E Benedetto XVI ancor meno.




di Sandro Magister



CITTÀ DEL VATICANO, 31 ottobre 2011 – Ha scritto sul quotidiano "Europa" Aldo Maria Valli, vaticanista della televisione di Stato italiana: con il primo incontro di Assisi del 1986 "nacque lo 'spirito di Assisi', che poi divenne una formula: bellissima per alcuni, devastante per altri".



In occasione del "pellegrinaggio" con cui Benedetto XVI ha voluto celebrare il venticinquesimo anniversario di quell’evento, la formula "spirito di Assisi" è stata ripetutamente ed enfaticamente evocata nel circuito dei media. Lo hanno fatto in molti. Per esemplificare: il priore del monastero di Bose Enzo Bianchi su "La Stampa"; il presidente della Comunità di Sant’Egidio Marco Impagliazzo in un editoriale di prima pagina sul quotidiano dei vescovi italiani "Avvenire"; il fondatore della stessa comunità Andrea Riccardi sul "Corriere della Sera" e su "Famiglia Cristiana", il più diffuso settimanale cattolico d'Italia; il sottosegretario del pontificio consiglio delle comunicazioni sociali Angelo Scelzo sul "Mattino"; il cardinale Roger Etchegaray, principale organizzatore dell'incontro del 1986, patrocinando un volume scritto da Sant’Egidio intitolato proprio "Lo spirito di Assisi”; i frati francescani e il vescovo di Assisi; il quotidiano cattolico francese "La Croix"; il patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo I nel corso dell’evento stesso...



Dal tripudio mediatico sullo “spirito di Assisi” sono risultate contagiate anche le cronache de "L'Osservatore Romano" e della Radio Vaticana. Ma non gli editoriali dei direttori dei due media della Santa Sede, Giovanni Maria Vian e padre Federico Lombardi.Il loro silenzio è stato un caso oppure è frutto di una precisa volontà?Nel preparare il venticinquesimo anniversario di Assisi, lo scorso mese di luglio "L’Osservatore Romano" ha pubblicato una serie di articoli che avevano l’obiettivo di spiegare bene l’evento, raccolti poi in un libro.Gli articoli erano firmati da tutti i capi degli uffici vaticani implicati nell’organizzazione dell’evento, e cioè dai cardinali Tarcisio Bertone, Jean-Louis Tauran, William J. Levada, Kurt Koch, Peter K. A. Turkson e Gianfranco Ravasi.



Ebbene, in nessuno di questi loro scritti ricorre una sola volta la formula “spirito di Assisi”. Che invece compare in tre degli altri quattro articoli della serie pubblicata da "L'Osservatore Romano", affidati a persone esterne alla curia.La formula compare, cioè, nell'articolo del vescovo di Assisi Domenico Sorrentino, in quello di Riccardi e in quello della presidente del movimento dei Focolari Maria Voce. Ma non in quello del leader di Comunione e Liberazione, don Julián Carrón.



E Benedetto XVI? Lui che da cardinale è stato uno dei pochi porporati curiali a non aver mai partecipato agli annuali, frequentatissimi meeting interreligiosi di Sant’Egidio intitolati proprio allo “spirito di Assisi”, ha usato la formula non più di un paio di volte.



Una di queste due citazioni di papa Joseph Ratzinger – la seconda – è stata inserita nel filmato commemorativo che è stato mostrato lo scorso 27 ottobre ad Assisi ai partecipanti al pellegrinaggio e allo stesso papa, durante l'evento.Il filmato è stato prodotto dalla televisione di Stato italiana e curato dal vaticanista don Filippo Di Giacomo e da Giuseppe Corigliano, già portavoce dell'Opus Dei. Sulla sua confezione non sembra che la Santa Sede abbia avuto voce in capitolo.



Ma va notato che la prima e più importante volta in cui Benedetto XVI ha usato la formula "spirito di Assisi", nel settembre del 2006, lo ha fatto proprio per spiegare come intenderla correttamente, affinché "non si prestasse ad interpretazioni sincretistiche, fondate su una concezione relativista".



In ogni caso, da quando Benedetto XVI ha annunciato di voler celebrare il venticinquesimo anniversario di Assisi, non ne ha mai evocato una sola volta lo “spirito”.Non l’ha fatto all’Angelus del 1° gennaio 2011 quando rivelò a sorpresa la sua intenzione.Non l’ha fatto in nessuno dei suoi successivi interventi e saluti pronunciati su Assisi e in Assisi.Non l'ha fatto neppure all'Angelus della domenica successiva al pellegrinaggio del 27 ottobre.



Insomma, per riprendere le categorie di Valli, per Benedetto XVI la formula “spirito di Assisi” non sarà forse “devastante” come pensano i lefebvriani. Ma gli appare talmente carica di ambiguità – come d’altronde quella dello “spirito del Concilio” – da far di tutto per evitarla.





domenica 30 ottobre 2011

Catholica: Mons Gherardini sulle due forme del rito latino






Sull'ultimo numero, il 113/Autunno 2011, della Rivista francese di riflessione politica e religiosa Catholica, cortesemente inviatami dal Prof. Bernard Dumont che ringrazio sentitamente, tra diversi interessantissimi temi su cui sarà utile attingere, è stata pubblicata un’intervista di Mons. Gherardini, molto ricca di spunti interessanti.

Tra i molti argomenti su cui è stato interpellato Mons Gherardini, prendendo le mosse dal nuovo linguaggio adottato dalla Chiesa (Benedetto XVI, discorso del 22 dicembre 2005) per rispondere ad una situazione nuova in una modernità che ha perso il suo radicalismo iniziale, affronta anche quello della Liturgia. Ecco, intanto, cosa dice delle forme ordinaria e straordinaria:


Domanda: se ci misuriamo con l’affermazione che il Nuovo ordo della messa di Paolo VI e il rito precedente non sono due riti diversi, ma due forme dello stesso rito, non ci troviamo forse di fronte ad un problema di metodo?
[La risposta inizia con una esauriente disquisizione sulla questione del metodo e sulle sue caratteristiche, molto interessante e rivelativa delle carenze attuali. Ma la salto per arrivare il punto delle “due forme”].
[…]


Non so se la sua domanda associa a questa preliminare consapevolezza [una pre-comprensione] la soluzione del problema di sapere se la Messa di Paolo VI e quella che si chiama impropriamente « tridentina » sono due forme di un unico e medesimo rito.


Certamente, ce ci si attiene alle parole con cui Paolo VI presentò la nuova forma senza, almeno formalmente parlando, abolire l’altra, si dovrebbe arrivare a questa conclusione: il rito è unico e due son le sue forme. Nei fatti, egli parlò d’un "ordinamento nuovo" « Novus ordo » in rapporto a quello precedente (o vetus): quindi, sull’asse permanente dell’unico e identico rito, introdusse la specificazione di due ordo distinti. E Benedetto XVI, restituendo legittimità all’utilizzazione dell’ordo antico, ha confermato l’unicità del rito, specificandone le forme in quella « ordinaria » e « straordinaria ».

Sia ben chiaro: è un po’ difficile considerare come « straordinaria » la forma classica nella quale, nel corso dei secoli, la Chiesa ha espresso il suo culto pubblico. Ma ciò non infirma la dottrina sull'unicità del rito e la duplicità delle forme. Sott'un tale profilo, pertanto, le due forme sarebbero incluse nel rito, ugualmente valide anche se specificate.

Chi tuttavia si impegnasse in un'analisi rigorosamente critica delle due forme non avrebbe alcuna difficoltà che quella presuntamente « straordinaria » si distacca sostanzialmente, almeno in certi passaggi, dalla forma cosiddetta « ordinaria ». Troppo lungo sarebbe lo scendere alla dimostrazione esauriente dell'asserto; ma anche un solo esempio può confermarlo.


Si sa che l'offerta è parte integrante del sacrificio: ci sono anzi autori che riconoscono il sacrificio già nell'offerta. in tale ottica si esprimeva si esprimeva l'Offertorio della Santa Messa nel messale riveduto da San Pio V. Vi si raccolsero infatti a partire dal XIII sec. le varie preghiere offertoriali che costituivano la tradizione liturgica della Chiesa cattolica: la Curia romana le aveva inserite nel messale suo proprio ed il Papa Pio V le estese alla Chiesa universale.


Eppure, oltretutto con il pretesto non dimostrato e storicamente infondato che si trattava di formule recenti, nuove, individualiste e liturgicamente aberranti, la Messa cosiddetta « di Paolo VI » abolì l'Offertorio. Se non che la scienza liturgica ha sempre sostenuto e dimostrato il contrario: Si dispone di manoscritti che comprovano la falsità dell'assunto: il «Suscipe sancte Pater», il «Deus, qui humanae substantiae», l’«Offerimus tibi Domine », il testo «In spiritu humilitatis», il «Veni sanctificator», il «Suscipe sancta Trinitas» sono preghiere attestate da manoscritti del IX secolo.


Non c'è bisogno di dilungarsi dunque per dimostrare che col nuovo ordinamento venne meno qualcosa di intimamente legato all'essenziale e innestato nella Tradizione. Non dico che la consacrazione delle specie eucaristiche venga con ciò resa impossibile. Mi limito a dire che le due forme non concordano sull'essenziale e che questo «essenziale» non è a pari titolo incluso nell'una e nell'altra forma.



giovedì 27 ottobre 2011

Il rapporto tra l’io e il noi, nella Chiesa e nella liturgia






“Le parole della dottrina” a cura di don Nicola Bux e don Salvatore Vitiello





Nel noto libro “Rapporto sulla fede” (1985), l’allora Cardinale Joseph Ratzinger osservava che la preghiera che precedeva la comunione, nella liturgia romana, “Domine Iesu Christe… ne respicias peccata mea, sed fidem Ecclesiae tuae…”, era stata cambiata nella versione italiana così: Non guardare “ai nostri” peccati …Dopo aver rilevato che un tale cambiamento è sintomatico della dissoluzione, nella Santa Messa, delle colpe di ciascuno, passava a dire che “ ‘magari inconsciamente’ si passi a intenderla come “non guardare ai peccati della Chiesa ma alla mia fede”… Se davvero questo avvenisse le conseguenze sarebbero gravi: le colpe dei singoli diventerebbero le colpe della Chiesa e la fede sarebbe ridotta a un fatto personale, al “mio” modo di comprendere e di riconoscere Dio e le sue richieste. C’è da temere che questo sia, oggi, un modo molto diffuso di sentire e di ragionare: è un segno di quanto la comune coscienza cattolica si sia allontanata in molti punti dalla retta concezione della Chiesa” .

“Che fare dunque ?” chiedeva Messori. “Dobbiamo tornare a dire al Signore: ‘Noi pecchiamo, ma non pecca la Chiesa che è Tua ed è portatrice di fede’. La fede è la risposta della Chiesa a Cristo; essa è Chiesa nella misura in cui è atto di fede. La quale fede non è un atto individuale, solitario, una risposta del singolo. Fede significa credere insieme, con tutta la Chiesa” (pp. 51-53).

Questo a dimostrazione di quanto la mentalità deresponsabilizzante sia penetrata nella Chiesa fino a trovare espressione nella liturgia. La Chiesa è il “noi” del cristiano, dice San Girolamo. Tuttavia, un prete che pecca, sporca e scandalizza, ma non cambia la morale cattolica; uno che ha idee relativiste, sbaglia ma non esprime la dottrina della Chiesa. Analoga distinzione vale sul piano storico quando si sostiene che la Chiesa non è identificabile con tutto quanto si è fatto durante l’Inquisizione.

L’uomo ha un desiderio smisurato di dominare e di possedere, realtà che può tentare anche gli ecclesiastici. Un esempio: nella liturgia capita spesso di assistere a veri e propri “show” nei quali l’omelia è un’esercitazione di opinioni teologiche e morali, spesso banali e talvolta erronee. Se si fosse a corto di argomenti, non si dovrebbe ricorrere al Catechismo della Chiesa cattolica o al magistero pontificio?

La riforma della Chiesa (e della liturgia) parte sempre da noi: è un invito a diventare più umili, perché Gesù Cristo cresca. Per Charles de Foucauld “il prete è un ostensorio, suo compito è di mostrare Gesù. Egli deve sparire e lasciare che si veda solo Gesù… Mai un uomo può imitare più compiutamente Nostro Signore come quando offre il sacrificio - diventa ‘hostia’ cioè vittima - o amministra i sacramenti”. Tale umiltà del sacerdote è significata, nella liturgia, dalla povertà e semplicità dei gesti, dalla verginità o celibato, che rinuncia a ogni esibizione, dall’obbedienza alla legge liturgica, perché amministriamo e serviamo la liturgia, come cosa sacra, del Signore.

La liturgia ha bisogno di ascesi, di rinnovamento spirituale, per aiutare la gente ad arrivare a Gesù Cristo, Dio presente in mezzo a noi; come sovente viene celebrata, rischia di assomigliare più ad un percorso di sensazioni, alla New Age, cui lasciarsi andare. Anche quando si parla di inculturazione della liturgia, lo scopo deve essere quello di mettere in contatto gli uomini con Gesù Cristo, non con simboli astratti, che lascino spazio alle sensazioni soggettive.

Il Concilio Vaticano II richiama alla verità nei segni: la verità è solo Cristo e i segni o rimandano a Lui o esprimono il nostro narcisismo. Il culto cristiano è logico e spirituale perché, quando è celebrato nel “noi” della Chiesa e non da un “io” arbitrario, conduce l’uomo alla verità di Dio Padre: il culto come adorazione in spirito e verità. Anche nella liturgia entrano in rapporto la fede della Chiesa e la ragione dell’uomo. La fede permette alla ragione di cogliere meglio la verità del mistero di Gesù Cristo, così l’io e il noi si fondono in armonia.


Fonte: Luci sull'Est





mercoledì 26 ottobre 2011

Assisi, quei timori di una lettura “sincretista”







In una lettera scritta a un pastore luterano nel marzo scorso, Benedetto XVI ribadiva che avrebbe fatto di tutto per scongiurare simili interpretazioni



La preoccupazione di una lettura sincretista dell’evento di Assisi è sempre stata presente nel pensiero di Benedetto XVI. La prova definitiva arriva con una lettera scritta dal papa stesso il 4 marzo 2011 al pastore luterano tedesco Peter Beyerhaus, un suo vecchio amico. Nella missiva, rilanciata anche dal sito del vaticanista Sandro Magister, il pontefice spiega i veri motivi dell’incontro interreligioso.

“Comprendo molto bene – scriveva il papa rivolgendosi al pastore luterano – la sua preoccupazione rispetto alla partecipazione all’incontro di Assisi. Però questa commemorazione doveva essere festeggiata in ogni modo e, dopo tutto, mi sembrava la cosa migliore andarvi personalmente, per poter provare in tal modo a determinare la direzione del tutto. Tuttavia farò di tutto affinché sia impossibile un'interpretazione sincretista o relativista dell’evento, e affinché resti fermo che sempre crederò e confesserò ciò che avevo richiamato all’attenzione della Chiesa con la 'Dominus Iesus'”.


Questo testo di papa Joseph Ratzinger è stato reso pubblico lo scorso 1 ottobre, con l'autorizzazione del destinatario della lettera, il pastore Beyerhaus, all'inizio di un convegno organizzato a Roma dall'associazione “Catholica Spes” sul significato della convocazione di Assisi.


E in precedenza lo stesso Beyerhaus vi aveva fatto cenno in un'intervista al giornale tedesco “Kirchliche Umschau” dello scorso aprile.


Fonte: vatican insider

martedì 25 ottobre 2011

Intervista al Padre Abate di Le Barroux

Pubblichiamo uno stralcio dell’intervista al Padre Abate dell’abbazia Sainte-Madeleine di Le Barroux, Dom Louis-Marie Geyer d’Orth O.S.B., Un monastère pour le XXIe siècle, comparsa in La Nef, n. 230, ottobre 2011.





Voi siete legati alla forma extraordinaria del Rito romano: perché questa scelta e come giudicate la situazione liturgica nella Chiesa latina, particolarmente dopo il motu proprio Summorum Pontificum e la recente pubblicazione dell’istruzione Universae Ecclesiae?

La scelta della forma extraordinaria del Rito romano risale alle nostre origini, a Bédoin, nel 1970. Questa scelta non è affettiva, ma è una preferenza motivata da ragioni di manifestazione più netta di talune verità della fede: carattere centrale, sacrificale e sacro, della messa, presenza reale del Signore nelle sante speci, distinzione essenziale del sacerdozio ministeriale del prete e del sacerdozio battesimale. Aggiungo che la forma extraordinaria manifesta altamente la continuità della Chiesa, perché la Chiesa non accetta né rotture né rivoluzioni, essa non muta il contenuto della propria fede. Per finire, l’orientamento ecumenico dato dal Concilio Vaticano II trova nella forma extraordinaria un ponte con le Chiese orientali e finanche con le comunità cristiane anglicane e luterane, dalle forme liturgiche ancora antiche. La situazione liturgica tende a evolvere nel buon senso. Lo vedo per esempio alla messa crismale del Giovedì santo alla chiesa metropolitana di Avignone. Ma occorre del tempo, perché come diceva Dom Gérard, basta una notte per bruciare una foresta, e cinquant’anni per farla ricrescere. In ogni caso, il Santo Padre ha sbloccato una situazione. La forma extraordinaria non è più considerata dai fedeli come abolita. Mi sembra che il fine attuale del Vaticano sia di diffondere la celebrazione di questa forma con tutto ciò che gli va appresso – catechismo, patronati, pellegrinaggi, ecc. – al fine, in un primo tempo, d’influenzare la celebrazione corretta della forma ordinaria. Siamo all’inizio dell’inizio. Dopo di che, Dio provvederà.


Le Barroux si è reso noto per la pubblicazione di studi importanti in accordo con la preoccupazione del Santo Padre di una corretta “ermeneutica della riforma, del rinnovamento nella continuità”. Per voi questo è importante, e come percepite i progetti di Benedetto XVI in materia?


Si tratta di un punto fondamentale. La Chiesa non ha il potere di darsi nuove costituzioni nel corso del tempo. Essa deve rimanere sé stessa, com’è stata fondata dal suo Maestro. Spetta ai pastori coltivare nella vigna del Signore lo spirito di fedeltà, di comunione con la Tradizione e i suoi sviluppi fondamentali, e quindi di presentare il Concilio Vaticano II non come una novità assoluta, ma come uno sviluppo organico o una riforma nella continuità. I pastori che si comportano diversamente dovranno renderne conto al Signore. Io non sono nei segreti del Santo Padre, ma constato che le sue allocuzioni illustrano bene l’urgenza di riprendere la nostra storia: da cinque anni, egli dedica le sue udienze generali a presentare i giganti della storia della Chiesa, partendo dagli apostoli, passando per san Benedetto, e per finire con santa Teresa del Bambino Gesù. Giunti a questo punto, ci parla dell’uomo di preghiera. Mi sembra che il suo progetto sia il radicamento, tema della GMG, radicamento nella nostra fede, nella nostra storia e nella preghiera. Era anche il progetto di Dom Gérard quando lanciò i lavori di Le Barroux: “Il sommo criterio, quello al quale desideriamo sacrificare tutto, non sarà l’emergenza, ma il radicamento”. Promette buoni frutti.

Fonte: Romualdica

A Pistoia iniziativa di preghiera per Benedetto XVI

Liniziativa è organizzata dall'Associazione Madonna dell'Umiltà, ma aperta a tutti



venerdì 28 ottobre ore 21.00

ROSARIO PER IL PAPA



presso il Santuario della Madonna dell’Umiltà
via della Madonna - Pistoia

A lezione da San Tommaso d'Aquino


LECTIO SANCTI THOMAE

anno VIII


Conversazioni sul pensiero di S. Tommaso d'Aquino (1225-1274), dottore della Chiesa.
"Andate a S. Tommaso. Cercate e leggete le opere di S. Tommaso non solo per trovare in quei ricchi tesori un sicuro nutrimento per lo spirito, ma anche, e prima ancora, per rendervi conto personalmente della incomparabile profondità della dottrina che vi è contenuta" (Paolo VI).


Sessione autunnale:



Lezione su: La correzione fraterna in San Tommaso

Mercoledì 26 ottobre 2011, ore 21,15



L'incontro sarà tenuto da don Enrico Bini nei locali della Parrocchia dello Spirito Santo a Prato, in Via G. Silvestri, 21

lunedì 24 ottobre 2011

Pedane mobili e statue pagane






di Andrea Tornielli


Sul sito VinoNuovo da una settimana potete leggere una riflessione del vaticanista del Tg1, Aldo Maria Valli, dedicata all’uso della pedana mobile da parte di Benedetto XVI. Come sapete, domenica scorsa per la prima volta Papa Ratzinger ha fatto il suo ingresso in San Pietro usando la pedana mobile utilizzata negli ultimi anni da Giovanni Paolo II. Nell’annunciare questa novità, padre Federico Lombardi ha parlato di un aiuto per non far affaticare il Papa. Mentre nelle ultime ore il cardinale Tarcisio Bertone è tornato sull’argomento affermando che il Papa sta benissimo e che la pedana serve per aiutarlo e per farlo vedere meglio.

Trovo condivisibili le prime righe di Valli. Infatti, anche se il Papa sulla pedana mobile è più visibile dai fedeli e più protetto, ci si potrebbe chiedere perché i suoi collaboratori ci abbiano messo sei anni ad arrivarci… Mentre è evidente, più semplicemente, che Benedetto XVI ha qualche problema di deambulazione nei tragitti lunghi e dunque in piazza San Pietro arriva nei pressi dell’altare in papamobile, mentre in basilica è stata riesumata la pedana di Wojtyla. Il motivo è solo questo, non c’è bisogno di aggiungere altre motivazioni come la visibilità o la sicurezza.

Quella che ho trovato del tutto sopra le righe e immotivata è la seconda parte dell’articolo di Valli. Leggiamo: “Il papa trasportato sulla pedana mobile e spinto dai sediari pontifici sembra una statua portata in giro per essere mostrata alla folla. C’è qualcosa di idolatrico, di papolatrico, in quell’uomo issato sul carrelletto“.

Aldo Maria Valli inoltre scrive: “Se davvero, come dice il Vaticano, il papa sta bene, farlo trasportare da qualcuno è un gesto che stona e che ha una valenza profondamente anti-conciliare. Ha il gusto di un ritorno al papa re, al sovrano che domina sulla folla e che si distacca dal resto dell’umanità“.

E conclude: “Giovanni Paolo II, alla fine della sua vita, quando si lasciava trasportare era l’icona della sofferenza e al tempo stesso del coraggio. Benedetto XVI, sorridente e apparentemente integro, con tanto di pastorale in mano, assomiglia invece a una divinità pagana, alla quale occorre rendere omaggio“.

Ora, va bene tirare in ballo sempre e comunque il Concilio, ma questa volta, a mio avviso, l’amico Aldo Maria ha esagerato. Capisco che qualcuno possa storgere il naso (e magari richiamarsi al Concilio) nel vedere come la decisione di liberalizzare la messa antica sia stata accompagnata da esagerazioni che nulla hanno a che vedere con la liturgia – ad esempio cardinali che si compiacciono nel farsi fotografare in abitazioni private mentre indossano improbabili cappamagne nuove di zecca, fatte confezionare con tanto di coda lunga 12 metri, in barba al taglio sancito da Pio XII – ma nel caso della pedana mobile, il Vaticano II che c’azzecca?

Vale la pena di ricordare che il Papa che volle e inaugurò il Concilio (Giovanni XXIII) usò sempre la sedia gestatoria con tanto di flabelli. Il Papa che lo concluse (Paolo VI) usò la sedia gestatoria per tutto il suo pontificato, anche dopo aver mandato in soffitta la corte pontificia, i flabelli, la guardia nobile. E nessuno ebbe mai nulla da ridire. La sedia gestatoria fu usata anche dall’umile Giovanni Paolo I. Era un modo per essere visibile a tutti, anche a chi non aveva la fortuna di essere nelle prime file…

Ora, la pedana mobile non è la sedia gestatoria. Non si capisce perché il Papa, evidentemente costretto a usarla, diventi una “statua pagana” (cosa che nessuno si è mai sognato di dire a Giovanni Paolo II). Così come non si capisce, sinceramente, che cosa c’entri il Concilio. Se lo si fa entrare anche nel caso della pedana mobile, che cosa vieta di invocarlo anche per una miriade di altre circostanze? L’inginocchiatoio è contro il Concilio? E il lumino elettrico è conciliare oppure no? Il candelabro a sette braccia è sincretistico? Le icone orientali in una chiesa latina sono in accordo con il decreto Unitatis redintegratio? Il fatto che a Milano certi vicari episcopali, pur non essendo vescovi, siano attaccatissimi all’uso della mitria e della ferula (che termina con un uovo sormontato da una piccola croce, che mia figlia ribattezzò il pastorale con l’ovetto Kinder), è conciliare o anticonciliare? E come dovrebbe rispondere un convinto tradizionalista al vigile urbano che mettendogli la multa gli chiede: “Concilia?”…

Insomma, bene ha fatto Valli a sottolineare l’unico vero motivo per cui la pedana mobile viene riesumata. Ma per favore, non tiriamo in ballo anche qui il Vaticano II! E quanto all’esibizione di statue pagane da venerare, basta conoscere anche soltanto un po’ Joseph Ratzinger, per sapere quanto sia umile e cosciente dei suoi limiti (illuminante a questi riguardo è il bellissimo libro intervista con Peter Seewald).


Fonte: andreatornielli.it

Halloween, una festa pagana che si sostituisce ad una festa cristiana









di Adolfo Morganti

E così come ogni anno ci risiamo. Ma in effetti ogni anno è peggio. Il triste - perché totalmente ripetitivo - rituale consumistico di Halloween sta re-iniziando a riempire non solo la nostra sopportazione, ma i manifesti del McDonald, le attività delle scuole, e persino molte sale parrocchiali. Mentre svuota le nostre tasche. Attorno a quest'ultimo fatto (quante parrocchie "lasciano (quantomeno) organizzare" al proprio interno feste di Halloween?) c'è solo da rimarcare e stigmatizzare l'ignoranza religiosa che, soprattutto dentro la nostra chiesa particolare, grida scandalo sempre di più. In attesa che si intervenga.

Per quanto concerne l'orgia di consumismo infantile ed adolescenziale cui Halloween si riduce, nulla da dire: come ogni moda che giunge dagli USA, possiede evidentemente una capacità di condizionamento sociale che oltrepassa le capacità d'analisi razionale di troppi di noi; se è razionale andare in giro (parlo delle ed alle signorine) ad ombelico nudo nella stagione fredda, può essere accettabile anche travestirsi da zucche o fantasmi.

Ma nella scuola, momento centrale della formazione delle giovani generazioni, obbligo pubblico cui sono tenuti i nostri ragazzi fino ai 18 anni, non si può scherzare con l'ignoranza né prostituirsi a mode create per diffondere superstizione e far soldi. E' semplicemente allucinante la prona e sorridente passività con cui questa moda culturale viene non solo accettata, ma attivamente promossa in troppe scuole pubbliche, dagli asili in su; come se fosse una moda neutra (e nessuna lo è) e come se non incidesse sui valori trasmessi.

Ora, solo chi non conosce il grande potere della Festa può pensare una fesseria simile. Halloween porta con sé un messaggio doppiamente negativo: acquiescenza totale al consumismo più sfrenato e marchiano (per favore, non si ciarli poi di "stili di vita" e di "maturità" dei ragazzi), e allenamento sistematico al peggiore dei relativismi, quello che volutamente confonde la Luce e l'Ombra, Dio e l'occulto, una cosa e il suo contrario. Viene da rimpiangere il sano materialismo di 40 anni fa. Qui siamo al culto della parodia, all'inversione del sacro. E si tratta spesso di una scelta prettamente ideologica, da radicalismo di massa, finalizzata a terminare la distruzione della vita liturgica cristiana, sostituendo ad essa la migliore delle liturgie della modernità, quella della magia e del denaro.

Halloween sta finendo di cancellare una festa familiare e religiosa così importante come la Festa dei Defunti. E guardate un po': nessuno leva la voce per protestare contro di essa in nome del rispetto delle altre religioni... Provate a vedere in quelle scuole che hanno cancellato in nome di un pluralismo imbecille e in malafede la presenza dei segni e delle feste cristiane se Halloween non viene semplicemente imposto dall'alto, leninisticamente, e per giunta difeso come "innocuo momento ludico ed educativo".

Ma sappiamo bene che il gioco è cosa serissima, così come l'educazione. Non ci si prenda ancora in giro. Buttiamo a mare le zucche. Diamo fuoco agli stracci stregoneschi e alle maschere di plasticaccia cinese. E dopo averlo fatto, andiamo a raccontarlo ai nostri morti tornando a trovarli ove riposano in attesa della Resurrezione della carne. Ci daranno ragione: loro sì che se ne intendono.


da Cultura Cattolica 21 ottobre 2009

Le religioni ad Assisi. Nessuna rinuncia alla Verità.








L'incontro delle religioni ad Assisi è ormai alle porte, venticinque anni dopo quella prima volta che tanti esaltarono e altri osteggiarono più o meno radicalmente.
«In riferimento ad Assisi – tanto nel 1986 quanto nel 2002 – ci si è chiesti ripetutamente e in termini molto seri se questo sia legittimo. La maggior parte della gente non penserà che si finge una comunanza che in realtà non esiste? Non si favorisce così il relativismo, l’opinione che in fondo siano solo differenze secondarie quelle che si frappongono tra le “religioni”? Non si indebolisce così la serietà della fede [...]? (J. Ratzinger – Fede, Verità Tolleranza, Ed. Cantagalli)

Sono questi gli interrogativi alla base del Convegno tenuto il 1 ottobre 2011 a Roma, domande che richiedono una risposta seria ed equilibrata. In questo libro - “Le religioni ad Assisi. Nessuna rinuncia alla Verità” (Ed. Fede&Cultura, pag. 144, € 12) - gli autori ci guidano sui passi di Benedetto XVI per cercare di capire il senso degli incontri di Assisi e a guardarci da pericolose interpretazioni sincretistiche e relativiste, che minerebbero la verità della fede, che è Gesù Cristo, Verbo di Dio.

La riflessione si sviluppa principalmente intorno al documento Dominus Iesus dell'anno 2000, un documento per cui il Card. Biffi ebbe a dire: “Che la congregazione per la dottrina della fede abbia ritenuto di dover intervenire con la dichiarazione ‘Dominus Iesus’ circa ‘l’unicità e l’universalità salvifica di Gesù e della Chiesa’ è di una gravità senza precedenti: perché in duemila anni mai si era sentito il bisogno di richiamare e difendere verità così elementari”.

Anche il Card. Burke, nel suo intervento al Convegno “Pellegrini della Verità verso Assisi”, ha definito la Dominus Iesus “provvidenziale”, “infatti, molti – i fautori della discontinuità – ritenevano che col Vaticano II la Chiesa dovesse abbandonare il suo insegnamento assertivo e censorio, per limitarsi ad una descrizione dei dati di fede di tipo pastorale, lasciando così pullulare gli errori. Invece, il Magistero funge da guida per i fedeli, indicando loro la verità rivelata da custodire fedelmente e mettendoli in guardia dagli errori dottrinali e morali.”

Oltre al Card. Burke intervengono in questo lavoro, Mons. Guido Pozzo, P. Serafino Lanzetta, Don Mauro Gagliardi, Don Alessandro Olivieri Pennesi, Don Nicola Bux, Don Manfred Hauke, Corrado Gnerre e Lorenzo Bertocchi.

Ciò che emerge dai contributi degli autori non è un voler dare a tutti i costi una lettura positiva degli incontri di Assisi, si cerca, invece, di rispondere a quesiti difficili che non possono essere risolti in modo sbrigativo.

Il prof. Gnerre, firmatario insieme ad altri di un appello al Santo Padre sui rischi degli incontri di Assisi, pur rimanendo convinto di questa sua adesione, ha detto: “il fatto che abbia firmato l’appello non mi impedisce però di formulare un augurio e nutrire una speranza per il 27 ottobre. La speranza che si tengano pienamente in considerazione le parole che Benedetto XVI pronunziò in occasione dell'udienza generale del 14 maggio 2008, evocando la figura di Dionigi l'Aeropagita: «[…] il dialogo non accetta la superficialità. Proprio quando uno entra nella profondità dell'incontro con Cristo si apre anche lo spazio vasto per il dialogo. Quando uno incontra la luce della verità, si accorge che è una luce per tutti; scompaiono le polemiche e diventa possibile capirsi l'un l'altro o almeno parlare l'uno con l'altro, avvicinarsi.”
Per questo – ha concluso il prof. Gnerre - “si vada ad Assisi per incontrare la Luce… e non si dimentichi che questa Luce è venuta perché tutti l’accolgano”.

D'altra parte questa era anche la convinzione di S. Francesco di Assisi che, come ricordava Giovanni Paolo II il 2 ottobre 1981, era ben consapevole che “il mistero della salvezza ci è rivelato ed è continuato e realizzato nella Chiesa, e da questa genuina ed unica fonte raggiunge, come acqua “umile, utile, preziosa e casta”, il mondo intero”.


Fonte: verumperegrinantes.blogspot.com

sabato 22 ottobre 2011

Differenze tra Concilio e Post-Concilio secondo il Cardinal Stickler

Il Cardinale Alfons Maria Stickler, S.D.B., (23/8/1910- 12/12/2007) Archivista e Bibliotecario (1985-1988) emerito di Santa Romana Chiesa. Laurea in Diritto Canonico è stato Rettore Magnifico dell’Università Salesiana. Il 25 marzo 1971 è stato nominato dal Papa Paolo VI Prefetto della Biblioteca Apostolica Vaticana. Fu perito di tre Commissioni del Concilio Vaticano II, consultore di congregazioni romane e membro della Commissione per il nuovo Codice di Diritto canonico. È stato membro delle Accademie di Scienze di Vienna, Bologna, Siena, e della Pontificia Accademia delle Scienze. Da Giovanni Paolo II fu creato Cardinale il 25 maggio 1985. Riportiamo il testo della conferenza da lui tenuta a New York nel maggio del 1995.










Alfons Maria Card. Stickler


Fin dalle origini della Chiesa la fede e la liturgia sono state intimamente legate. Il Concilio di Trento stesso ne è una delle prove: dichiarò solennemente che il Sacrificio della Messa è al centro della liturgia cattolica, contrariamente all’eresia di Martin Lutero che negava che la Messa fosse un sacrificio. La storia dello sviluppo della fede ci insegna che questa dottrina è stata stabilita con autorità dal Magistero, attraverso l’insegnamento dei Papi e dei Concili. Le Chiese ortodosse hanno conservato la fede grazie alla liturgia. Il Papa, nella sua ultima lettera scritta in occasione del Centenario della lettera del Papa Leone XIII sulle tradizioni delle Chiese orientali, sottolinea l’importanza di questa tesi, perché ha scritto che la Chiesa latina ha qualcosa da imparare dalle Chiese orientali, soprattutto in materia liturgica.


LE DICHIARAZIONI CONCILIARI

Si trascura non di rado la differenza tra due tipi di dichiarazioni e decisioni conciliari: ciò che riguarda la dottrina e ciò che riguarda invece la disciplina. La maggior parte dei Concili hanno emesso dichiarazioni e decisioni allo stesso tempo sia dottrinali che disciplinari; altri però solo o dottrinali o disciplinari. Molti Concili orientali, dopo quello di Nicea, trattarono solamente problemi di fede. Il secondo Trullano (a. 691) fu un Concilio interamente orientale ed un Concilio che emanò solamente decisioni di ordine disciplinare, perché queste erano state trascurate nelle Chiese d’Oriente all’epoca dei Concili precedenti. Questo Concilio mise a fuoco i problemi di disciplina nelle Chiese orientali, soprattutto in quella di Costantinopoli. Queste note sono importanti perché troviamo esplicitamente nel Concilio di Trento le due disposizioni, capitoli e canoni che trattano prima esclusivamente problemi di fede e dopo, quasi in tutte le Sessioni, esclusivamente argomenti di ordine disciplinare. Questa distinzione è importante: tutti i canoni teologici affermano che chiunque si oppone alle decisioni del Concilio è scomunicato: anathema sit. Mentre il Concilio non commina mai anatemi per opposizioni contro disposizioni puramente disciplinari.


L’INSEGNAMENTO DEL CONCILIO DI TRENTO SULLA MESSA

Questo ci aiuta nel proseguire compiutamente nelle nostre riflessioni. Ho già fatto notare il nesso tra fede e preghiera, la liturgia cioè; ma in modo particolare ciò vale per il rapporto tra fede e la più alta espressione liturgica, il culto pubblico cioè della S. Messa. Una espressione classica di questo legame l’abbiamo nella trattazione che questo Concilio ha dedicato all’Eucaristia in tre Sessioni: nella tredicesima dell’ottobre 1551, nella ventesima del luglio 1562, che trattò del Sacramento dell’Eucaristia, e soprattutto nella ventiduesima del settembre 1562, che stabilì i capitoli ed i canoni dogmatici concernenti il Santo Sacrificio della Messa. A questo si aggiunge uno specifico decreto su ciò che deve essere osservato ed evitato nella celebrazione della Messa. E’ una dichiarazione ufficiale e classica centrale che esprime il pensiero della Chiesa su questa materia. Il decreto studia prima di tutto la natura della Messa. Martin Lutero rinnegò apertamente e chiaramente questa natura, dichiarando che la Messa non è un sacrificio. Occorre notare che i Riformatori, per non turbare i fedeli semplici, non eliminarono subito tutte quelle parti della Messa che esprimono la fede vera in contrasto con le loro nuove dottrine. Essi conservano, per esempio, l’elevazione dell’Ostia tra il Sanctus e il Benedictus. Per Lutero e i suoi seguaci, il culto consisteva principalmente nella predicazione destinata ad istruire e ad edificare, interrotta da preghiere e da inni. Ricevere la Comunione era solo cosa secondaria. Ciò nonostante Lutero sosteneva ancora la Presenza di Cristo nel pane al momento della Comunione, ma negava fortemente il Sacrificio della Messa. Per lui l’altare non poteva perciò mai essere il luogo del Sacrificio. Da questa negazione della vera natura della Messa possiamo meglio comprendere la rottura che si ebbe nella liturgia protestante, liturgia completamente diversa da quella della Chiesa Cattolica. Noi comprendiamo ugualmente meglio la ragione per la quale il Concilio di Trento ha definito la fede cattolica in ciò che concerne la natura del Sacrificio eucaristico: questo Sacrificio è una vera forza per la nostra salvezza. Nel Sacrificio di Gesù Cristo, il Sacerdote sostituisce Cristo stesso. Con l’Ordinazione diventa un vero «alter Christus». Con la Consacrazione il pane è trasformato nel Corpo di Cristo ed il vino nel Suo Sangue. Questa rinnovazione del Suo Sacrificio è una adorazione di Dio. Il Concilio specifica che questo Sacrificio non è un nuovo Sacrificio, indipendente dal Sacrificio unico della Croce: dipende piuttosto da questo Sacrificio unico di Cristo, rinnovato in modo incruento, che rende tuttavia sostanzialmente presenti il Corpo ed il Sangue di Cristo, che rimangono però sotto le apparenze di pane e di vino. Non esiste, di conseguenza, un nuovo valore del Sacrificio: ma Gesù Cristo produce e riattualizza piuttosto costantemente nella Messa il frutto infinito del Sacrificio cruento della Croce. Ne deriva che l’atto del Sacrificio si compie al momento della Consacrazione. L’Offertorio (con il quale il pane ed il vino sono preparati in vista della Consacrazione) e la Comunione sono parti integranti della Messa. Ma la parte essenziale è la Consacrazione con la quale il Sacerdote, nella persona di Cristo, e nello stesso modo, pronuncia le parole della Consacrazione usate da Cristo. Da ciò si comprende che la Messa non è e non può essere una semplice celebrazione di comunione, o un semplice ricordo o memoriale del Sacrificio della Croce, ma la riattualizzazione reale incruenta del Sacrificio della Croce. Perciò la Messa quale vero rinnovamento del Sacrificio della Croce è sempre essenzialmente una adorazione di Dio, offerta solo per Lui. Questa adorazione dà immediatamente luogo ad altri atti collegati, quali sono: la lode, l’azione di grazie per tutte le grazie ricevute, il dolore dei nostri peccati, la domanda di grazie indispensabili. La Messa può certamente essere offerta per una o per tutte queste intenzioni diverse. I capitoli ed i canoni della ventiduesima sessione del Concilio di Trento hanno disposto e promulgato insieme queste nozioni dottrinali.


GLI ANATEMI DI TRENTO

Questa natura fondamentalmente teologica della Messa ha molteplici conseguenze. La prima riguarda il Canone della Messa. La liturgia romana ha sempre previsto un solo Canone introdotto ed usato dalla Chiesa molti secoli fa. Il Concilio di Trento afferma espressamente, al capitolo IV, che questo Canone non può contenere alcun errore; in realtà contiene ciò che è pieno di santità e di pietà, e ciò che eleva le anime a Dio. La composizione di questo Canone è basata sulle parole stesse di Gesù, sulla tradizione degli Apostoli e sulle prescrizioni dei santi Papi. Il canone 6 al capitolo IV commina la scomunica a coloro che sostengono che il Canone della Messa contiene errori e deve, di conseguenza, essere abolito. Al capitolo V, il Concilio afferma che la natura umana necessita di segni esteriori che servano ad elevare lo spirito verso le cose divine. Per questa ragione la Chiesa ha introdotto alcuni riti e segni: la preghiera silenziosa o vocale, le benedizioni, i ceri, l’incenso, i paramenti sacri ecc. La maggior parte di questi segni traggono la loro origine dai precetti o tradizioni apostoliche. Grazie a questi segni visibili di fede e di pietà viene sottolineata la natura sublime del Sacrificio. Tali segni fortificano ed incoraggiano i fedeli nella loro meditazione sugli elementi divini contenuti nel Sacrificio della Messa. Per salvaguardare questa dottrina, il canone 7 commina la scomunica a coloro che ritengono che questi segni conducano all’empietà e non alla pietà. Questo è un esempio per ciò che ho detto sopra: questo genere di dichiarazione, ed il canone che la sanziona, comportano un senso eminentemente teologico e non semplicemente disciplinare. Al capitolo VI il Concilio mette in evidenza il desiderio della Chiesa di vedere che tutti i fedeli presenti alla Messa ricevano la Santa Comunione; dichiara però che nel caso in cui il Sacerdote che celebra la Messa sia il solo a comunicarsi, questa Messa non deve esser chiamata privata, né essere criticata o vietata per questo; perché in tal caso i fedeli ricevono la Comunione spiritualmente e, d’altronde, tutti i sacrifici offerti dal Sacerdote in veste di ministro ufficiale della Chiesa, sono offerti a nome di tutti i membri del Corpo Mistico di Cristo. Il canone 8 commina dunque la scomunica a tutti coloro che dicono che tali Messe sono illecite e che esse devono di conseguenza essere vietate. Ciò costituisce una nuova dichiarazione di ordine teologico. Il capitolo VIII è dedicato alla lingua particolare da usare nel culto della Messa. Sappiamo che tutte le religioni si servono di una lingua sacra per il loro culto. Durante i primi tre secoli la Chiesa Cattolica Romana si servì del Greco che era la lingua comune nel mondo latino. Dal quarto secolo il latino divenne la lingua comune in tutto l’Impero romano e lo restò per secoli nella Chiesa Cattolica Romana quale unica lingua di culto. E naturalmente il latino divenne anche la lingua utilizzata nel rito Romano particolarmente nel suo centro, la Messa. Questa situazione si mantenne anche quando il latino fu rimpiazzato, in quanto lingua vivente, dalle lingue viventi Romanze.


IL CONCILIO DI TRENTO: IL LATINO E IL SILENZIO

Domandiamoci ora perché non c’è più stato un nuovo cambiamento. La risposta è che la Divina Provvidenza interviene anche per cose di second’ordine. Per esempio: la Palestina con il centro di Gerusalemme è il luogo dove Gesù Cristo ha operato la Redenzione. Ma Roma è divenuta il centro della Chiesa Cattolica. Pietro non è nato a Roma ma è venuto a Roma perché era il centro dell’Impero Romano che voleva dire allora del mondo. Ciò ha permesso di propagare la fede in tutto il mondo allora conosciuto da un centro riconosciuto con tutte le possibilità inerenti allora. Fu un elemento umano e storico nel quale certamente intervenne la Divina Provvidenza. Lo stesso fenomeno linguistico si trova anche in altre religioni.

1) Per i Musulmani la vecchia lingua Araba è morta e pertanto resta la lingua liturgica, la lingua del culto religioso.

2) Per gli Indù è il Sanscrito.

3) A causa di questo necessario legame con il soprannaturale tutti i culti richiedono del tutto naturalmente una lingua propria religiosa che non può essere una lingua «volgare».

I Padri del Concilio sapevano perfettamente che la maggior parte dei fedeli che allora assistevano alla Messa non sapevano il Latino e neppure potevano leggere la traduzione essendo generalmente analfabeti ed illetterati. Ma sapevano anche che la Messa contiene molte parti di istruzioni per i fedeli. Tuttavia essi non approvarono la opinione dei Protestanti che fosse indispensabile celebrare la Messa solo in vernacolo. Al fine di favorire l’istruzione dei fedeli, il Concilio ordinò di mantenere ovunque l’antica tradizione approvata dalla Santa Chiesa Romana, la quale è madre e maestra di tutte le chiese, di aver cura cioè di spiegare alle anime il mistero centrale della Messa. Il canone 9 commina perciò la scomunica a coloro che affermano che la lingua della Messa deve essere solo il vernacolo. E’ il caso di evidenziare che, sia nel capitolo che nel canone, il Concilio di Trento ha rifiutato l’esclusività della lingua «volgare» nei riti sacri ma non un uso limitato ed eccezionale. Anche in questo caso dobbiamo di nuovo considerare il fatto che il carattere di tutti questi regolamenti conciliari non è unicamente disciplinare, ma è fondato su considerazioni dottrinali e teologiche che coinvolgono la stessa fede. Una delle ragioni di tutto ciò è anzitutto la venerazione dovuta al mistero della Messa. Il decreto che segue questo capitolo e questo canone e che riguarda ciò che deve essere osservato ed evitato durante la celebrazione della Messa, dichiara che «l’assenza di venerazione non può essere considerata come separata dall’empietà». L’irriverenza sottende sempre l’empietà. In più, il Concilio ha voluto salvaguardare le idee espresse nella Messa; e la precisione del latino preserva il contenuto da una interpretazione equivoca e da eventuali errori dovuti ad una imprecisione linguistica. Per queste ragioni la Chiesa ha sempre difeso la lingua sacra e, più vicino a noi, il Papa Pio XI ha espressamente dichiarato che la lingua impiegata doveva essere «non vulgaris». Per queste stesse ragioni il canone 9 comminò la scomunica a coloro che affermano che il rito della Chiesa Romana, nel quale una parte del Canone e le parole della Consacrazione sono pronunciate silenziosamente, deve essere condannato. Anche il silenzio ha un fondamento teologico. Per concludere, noi troviamo nel primo canone del decreto di riforma, alla ventiduesima sessione del Concilio, altre regolamentazioni che hanno un aspetto disciplinare, ma che completano ugualmente la parte dottrinale: niente è più adatto a portare i fedeli ad una comprensione approfondita del mistero che la vita e l’esempio dei ministri di culto. Questi ultimi devono modellare la loro vita ed il loro comportamento in vista di questo fine; ciò deve sgorgare dal loro vestito, da tutto il loro contegno e dai loro discorsi. In tutto ciò essi devono essere degni, modesti e religiosi. Essi sono ugualmente tenuti ad evitare anche i più piccoli errori, poiché, nel loro caso, un piccolo errore diviene grave. Questa è la ragione per cui i superiori devono esigere dai ministri sacri che vivano secondo l’uso propriamente clericale trasmesso dall’insieme della tradizione.


MESSA DI SAN PIO V E MESSA DI PAOLO VI

Adesso ci è più facile valutare e comprendere il fondamento teologico delle discussioni e delle regole del Concilio di Trento in ciò che concerne la Messa, considerata come l’apice della liturgia sacra. Possiamo ora meglio comprendere il fascino teologico della Messa Tridentina quale risposta alla seria sfida del Protestantesimo, non soltanto per quell’epoca storica, ma anche come modello per la Chiesa e la riforma liturgica del Vaticano II. In primo luogo dobbiamo determinare il vero senso di questa riforma. Proprio per la Messa Tridentina ci siamo domandati che cosa ha fatto il Papa Pio V per rispondere ai desideri dei padri del Concilio di Trento per poter comprendere quale è la retta denominazione della riforma uscita, come si dice, dal Concilio Vaticano II. Dobbiamo dire che è «la Messa della commissione liturgica postconciliare». E un semplice sguardo alla costituzione del Vaticano II sulla liturgia ci dice che la volontà del Concilio e la volontà della commissione che ha fatto la riforma spesso non solo non coincidono, ma si oppongono in maniera evidente. Passiamo brevemente in rassegna le principali differenze tra le due riforme, in modo da stabilire il rispettivo valore attrattivo - teologico. In primo luogo la Messa di Pio V, nel contesto della eresia Protestante, pose l’accento sulla verità centrale secondo la quale la Messa è un Sacrificio. Ciò risulta dalle discussioni teologiche e dalle prescrizioni specifiche del Concilio di Trento. La Messa di Paolo VI (così chiamata perché la commissione liturgica incaricata della riforma dopo il Vaticano II ha lavorato sotto la responsabilità definitiva del Papa) mette più che altro in luce la parte integrante della Messa quale è la Comunione, con il risultato che il Sacrificio viene trasformato in ciò che si può chiamare un pasto: «la Cena del Signore». Lo spazio importante accordato poi alle letture e alla predicazione nella nuova Messa, e la stessa possibilità data al Sacerdote di aggiungere discorsi e spiegazioni personali, è una riflessione in più su ciò che è legittimo chiamare un adattamento all’idea Protestante del culto.


IL FILOSOFO FRANCESE JEAN GUITTON DICE CHE IL PAPA PAOLO VI GLI CONFIDÒ CHE ERA NELLE SUE INTENZIONI DI ASSIMILARE IL PIÙ POSSIBILE LA NUOVA LITURGIA CATTOLICA AL CULTO PROTESTANTE.

Evidentemente si deve verificare il reale senso di questa affermazione, perché tutto l’insegnamento di Paolo VI dette prova della sua assoluta ortodossia, come, in particolare, la sua eccellente enciclica, Mysterium Fidei, pubblicata prima della chiusura del Concilio così come il «Credo del Popolo di Dio». Allora ci si deve domandare come spiegare questa dichiarazione contraria? Continuando questo nostro discorso possiamo cercare di comprendere la nuova posizione dell’altare e del Sacerdote.

1) Secondo gli studi ben fondati di Mons. Klaus Gamber sulla posizione dell’altare nelle antiche basiliche romane e altrove, il criterio dell’antica posizione non era che l’altare dovesse essere rivolto verso l’assemblea dei fedeli, ma che piuttosto dovesse essere girato verso l’Oriente, simbolo del sole nascente che rappresenta Cristo, Colui che si doveva adorare. La posizione tutta nuova dell’altare, così come la posizione del Sacerdote verso il popolo, vietate una volta, divengono oggi segno di una Messa concepita come riunione della comunità.

2) In secondo luogo nell’antica liturgia il Canone è il centro della Messa, intesa come un Sacrificio. Secondo la testimonianza del Concilio di Trento il Canone stesso risale alla tradizione degli apostoli ed è stato sostanzialmente già completo ai tempi di Gregorio Magno, ca. l’anno 600. La Chiesa Romana non aveva mai avuto altri Canoni. Il passo stesso del «mysterium fidei» nella formula della Consacrazione è un’antica tradizione che Innocenzo III testimonia esplicitamente in una risposta data all’Arcivescovo di Lione. Anche San Tommaso d’Aquino dedica un articolo della sua Somma Teologica alla stessa giustificazione del «mysterium fidei». Ed il Concilio di Firenze confermò esplicitamente il «mysterium fidei» nella formula della Consacrazione. Ci si può dunque giustamente domandare con quale ragione e diritto ai nostri giorni il «mysterium fidei» è stato eliminato dalle parole della Consacrazione che è il centro più sacro di tutta la Messa? Parimenti è stato accordato il permesso di usare altri Canoni. Il secondo, che non menziona il carattere sacrificale della Messa, ha senza dubbio il merito di essere il più corto, ma ha, di fatto, soppiantato del tutto l’antico Canone Romano. E così abbiamo perduto il profondo senso teologico ed insieme la certezza garantita dalla tradizione e da un Concilio Ecumenico Dogmatico. Il mistero del Sacrificio divino è attualizzato in tutti i Riti, anche se in modi differenti. Nel caso del Rito Latino esso fu sottolineato dal Concilio di Trento con la lettura silenziosa del Canone. Cosa che è stata abbandonata nella nuova Messa con la dizione del Canone ad alta voce.

In terzo luogo la riforma che seguì il Vaticano II ha distrutto o cambiato la ricchezza del simbolismo liturgico mentre questi simboli con il loro profondo senso sono stati conservati gelosamente in tutti i Riti orientali. Il Concilio di Trento aveva sottolineato l’importanza di questo simbolismo. Questo fatto è stato, del resto, deplorato pure da un celebre psicanalista ateo che ha definito il Concilio Vaticano II il «Concilio dei contabili»!


LA MESSA IN VOLGARE

La riforma liturgica ha totalmente distrutto un principio teologico che, pure, era stato affermato sia dal Concilio di Trento come dallo stesso Vaticano II dopo una lunga e approfondita discussione, alla quale io assistevo per cui posso affermare che la chiara risoluzione maturata in una tale discussione è stata chiaramente e sostanzialmente riaffermata nel testo votato dall’Assemblea e che fa parte della Costituzione liturgica. Questo principio è che la lingua latina deve essere conservata nel rito latino. Esattamente come lo permetteva il Concilio di Trento, LA LINGUA VERNACOLA È STATA AMMESSA LIMITATAMENTE DAI PADRI CONCILIARI ANCHE DEL VATICANO II SOLO COME UNA ECCEZIONE. Nella riforma di Paolo VI è diventata una esclusività che ha inoltre praticamente soppiantato la lingua latina anche come eccezione. Le ragioni teologiche del mantenimento del latino per la Messa, stabilite dai due Concili, appaiono ben giustificate alla luce delle conseguenze dell’uso esclusivo del vernacolo introdotto dalla riforma liturgica postconciliare. La Messa stessa è stata spesso volgarizzata dall’uso del vernacolo e anche gravi errori dottrinali o malintesi sono il risultato della traduzione del testo originale latino. In più, il vernacolo non fu permesso prima non solo a persone che erano illetterate, ma anche a quelle che erano del tutto estranee le une alle altre. Ai nostri giorni le differenti lingue e anche dialetti dei Cattolici di tribù o nazioni diverse possono essere utilizzati per il culto, mentre viviamo in un mondo che diviene di giorno in giorno sempre più piccolo: questa Babele nel culto pubblico ha per risultato la perdita dell’unità esterna in seno alla Chiesa Cattolica diffusa nel mondo intero che una volta era unita in una voce comune; proprio ora che si mette l’accento sulla vita comunitaria anche nel culto, si è abbandonata questa voce comune. In più: questa situazione è divenuta molte volte la causa di disunione interna in seno alla Messa, la quale doveva essere il centro ed anche l’espressione della concordia interna ed esterna dei Cattolici di tutto il mondo. Abbiamo molti esempi di questo fatto di disunione dovuta all’uso della lingua volgare. Aggiungiamo un’altra considerazione di ordine assai pratico: UNA VOLTA QUALUNQUE SACERDOTE POTEVA DIRE LA MESSA IN TUTTO IL MONDO PER TUTTE LE COMUNITÀ DI QUALUNQUE LINGUA VERNACOLA E TUTTI I SACERDOTI COMPRENDEVANO IL LATINO. Sfortunatamente ai nostri giorni nessun Sacerdote può dire la Messa dappertutto. Dobbiamo ammettere che in qualche decennio, dopo la riforma della lingua liturgica, noi abbiamo perduto questa possibilità di poter pregare e cantare insieme, anche nelle grandi assemblee comunitarie internazionali come nei Congressi Eucaristici e perfino negli incontri con il Papa che è il centro e l’espressione di questa nostra unità interna ed esterna. Finalmente dobbiamo considerare alla luce del Concilio di Trento con preoccupazione il comportamento di non pochi ministri sacri: questo Concilio ha sottolineato lo stretto rapporto che esiste tra il loro comportamento ed il loro sacro ministero. Il corretto comportamento clericale nel vestito, contegno ed atteggiamento incoraggia la gente ad accettare ciò che dicono ed insegnano i loro pastori. Sfortunatamente, il comportamento meno esemplare di numerosi sacerdoti fa oggi spesso dimenticare la differenza ontologica tra il ministro sacro ed il laico ed accentua una deplorevole disuguaglianza tra il sacro ministro e la sua natura di «alter Christus».

Riassumendo le nostre riflessioni possiamo dire che l’attrattiva teologica della Messa Tridentina fa riscontro alle deficienze teologiche della Messa uscita dal Vaticano II. Per questa ragione i “Christi Fideles” della tradizione teologica devono continuare a manifestare in uno spirito di obbedienza ai Superiori legittimi il loro giusto desiderio e la loro preferenza pastorale per la Messa Tridentina.


Fonte: Fede e Cultura

venerdì 21 ottobre 2011

Il meraviglioso valore della Santa Messa



I • Cristo per mezzo degli uomini rinnova il suo sacrificio. La Messa non è solamente una semplice rappresentazione del sacrificio della Croce; non ha solamente il valore di un semplice ricordo; ma è un vero sacrificio come quello del Calvario, che essa riproduce, continua e di cui applica i frutti. I frutti della Messa sono inesauribili, poiché sono i frutti stessi del Sacrificio della Croce. Se sapessimo a quali tesori possiamo attingere per noi stessi, per la Chiesa intera!... (D.C. Marmion).


• Assistendo devotamente alla Messa, rendi all'umanità di Gesù Cristo il massimo onore.


• Puoi procurare alle Anime del Purgatorio il migliore suffragio possibile.


• Una Messa a cui avrai assistito in vita ti sarà più salutare di tante altre ascoltate per te dopo la tua morte.


• Sappi, o cristiano, che si merita di più ascoltando devotamente una S. Messa che col distribuire ai poveri le proprie sostanze e col girare pellegrinando tutta
la terra (S. Bernardo).


• Il Signore ci accorda tutto quello che nella Santa Messa gli domandiamo, e ciò che è più, ci da quello che noi non pensiamo neppure di chiedere e che ci è pur necessario (S. Girolamo).


• Se conoscessimo il valore del S. Sacrificio della Messa, quale zelo maggiore porremo mai nell'ascoltarla! (S. Curato D'Ars).


• La Messa è medicina per sanare le infermità ed olocausto per pagare le colpe (S. Cipriano).


• Ti assicuro, disse Gesù a S. Geltrude, che a chi ascolta devotamente la S. Messa io manderò negli ultimi istanti della sua vita tanti dei miei San­ti per confortarlo e proteggerlo, quante saranno state le Messe da lui devotamente ascoltate (Lib 3, e. 16).


• Tutte le opere buone unite assieme, non valgono il Santo Sacrificio della Messa, perché quelle sono le opere dell'uomo; mentre la S. Messa è l'Opera di Dio (S. Curato d'Ars).


• Con l'orazione domandiamo a Dio le grazie, nella S. Messa lo costringiamo a darcele (S. Filippo Neri).


• La S. Messa è la rinnovazione del sacrificio della Croce; trattiene la Giustizia Divina; regge la Chiesa; salva il mondo.


• Ogni Messa presso la giustizia di Dio perorerà il tuo perdono.


• La Messa è l'unico Sacrificio che fa uscire prestamente le anime dalle pene del Purgatorio (San Gregorio).


• La Messa ha in certa maniera tanto pregio, quanto ne ebbe per le anime nostre la morte di Gesù Cristo sulla Croce (S. Giovanni Crisostomo).


• La S. Messa è l'atto più santo della religione, più glorioso a Dio, più vantaggioso alla nostra anima. Riceviamo forza per amare di più Dio e il prossimo, e per riuscire a perdonare (S.P. Eymar).


* Nell'ora della morte, le Messe che avrai devotamente ascoltate formeranno la tua più grande consolazione.


* Ogni Messa presso la giustizia di Dio perorerà il tuo perdono.


* Ad ogni Messa puoi diminuire la pena temporale dovuta ai tuoi peccati, più o meno secondo il tuo fervore.


* Assistendo devotamente alla Messa, rendi alla S. Umanità di Gesù Cristo il massimo onore.


* Egli compatisce a molte delle tue negligenze, e omissioni.


* Egli ti perdona i peccati veniali da te anche mai confessati dei quali sei pentito.


* Viene diminuito su di te l'impero di satana.


* Puoi procurare alle Anime del Purgatorio il migliore suffragio possibile.


* Una Messa a cui avrai assistito in vita ti sarà più salutare che a tante altre da altri ascoltate per te dopo morte.


* Sei preservato da molti pericoli e disgrazie da cui saresti stato abbattuto.


* Diminuisci il tuo Purgatorio con ogni Messa.


* Ogni Messa ti procura un più alto grado di gloria in cielo.


* Vieni benedetto nei tuoi affari e interessi personali.


* Cristo per mezzo degli uomini rinnova il suo sacrificio (D. C. Marmion).


* La Messa non è solamente una semplice rappresentazione del sacrificio della Croce; non ha solamente il valore di un semplice ricordo; ma è un vero sacrificio come quello del Calvario, che essa riproduce, continua e di cui applica i frutti (D. C. Marmion).


* I frutti della Messa sono inesauribili, poichè sono i frutti stessi del sacrificio della Croce (D. C. Marmion).


* Oh! Se conoscessimo il dono di Dio! Se sapessimo a quali tesori possiamo attingere per noi stessi, per la Chiesa intera! (D. C. Marmion).


* Sappi, o cristiano, che si merita di più ascoltando devotamente una S. Messa che col distribuire ai poveri tutte le proprie sostanze e col girare pellegrinando tutta la terra (S. Bernardo).


* Il Signore ci accorda tutto quello che nella Santa Messa gli domandiamo, e ciò che è più, ci dà quello che noi non pensiamo neppure di chiedere e che ci è pur necessario (S. Girolamo).


* Se conoscessimo il valore del Santo Sacrificio della Messa,qual zelo maggiore porremo mai nell'ascoltarla (S. Curato d'Ars).


* La Messa è l'unico Sacrificio che fa uscire prestamente le Anime dalle pene del Purgatorio (San Gregorio).


* La messa ha in certa maniera tanto pregio, quanto ne ebbe per le anime nostre la morte di Gesù Cristo sulla Croce (S. Giovanni Crisostomo).


* E' più accetto a Dio la S. Messa che i meriti di tutti gli Angeli (S. Lorenzo Giustiniani).


* Tutti i passi che uno fa per recarsi ad ascoltare la S. Messa sono da un Angelo scritti e numerati e per ognuno sarà concesso da Dio sommo premio in terra e in Cielo (S. Agostino).


* La Messa è medicina per sanare le infermità ed olocausto per pagare le colpe (S. Cipriano).


* Ti assicuro, disse Gesù a S. Geltrude, che a chi ascolta devotamente la S. Messa io manderò negli ultimi istanti della sua vita tanti dei miei Santi per confortarlo e proteggerlo, quante saranno state le Messe da lui ben ascoltate (Lib. 3 c. 16).






Fonte: Luci sull'Est

giovedì 20 ottobre 2011

La splendida lezione di Inos Biffi su «theòs» e «lògos». Teologo a chi?







«Di Biffi arguto e mordace non ce n'è soltanto uno, nell'Italia cattolica che fa i conti con se stessa dopo centocinquant'anni tutti di corsa». Così inizia l'intervista di Marco Burini su «Il Foglio» di sabato 15 ottobre a monsignor Inos Biffi, direttore dell'Istituto di Storia della teologia, nonché ordinario emerito di teologia sistematica e di storia della teologia alla Facoltà teologica dell'Italia Settentrionale (e docente delle stesse materie presso la Facoltà di teologia di Lugano).

Il risultato è uno splendido squarcio sulla buona teologia («che non è quella aperta al mondo, ma quella aperta a Dio»), sugli ingredienti necessari affinché un uomo possa essere ritenuto un teologo («Giovanni Battista Guzzetti affermava che per essere teologi bisogna avere una testa, dei testi [ossia una biblioteca] e vent'anni di studio»), sulla genealogia di quel «disio di sé veder n'avvora» di cui parlava Dante. La convinzione di Inos Biffi, infatti, è «che la teologia non è priva di padre e di madre; che non nasce oggi e non inizia con noi; che prima di noi non c'è stato un diluvio teologico e anche che, se si parla e si scrive, lo si deve fare per farsi capire».

Di grande interesse le osservazioni che l'autore di Per continuare a sentirci cristiani (Milano, Jaca Book, 2011, pagine 160, euro 14) fa sul secondo Concilio ecumenico nella storia della Chiesa. «Non si può assolutamente parlare del Vaticano II come di una censura e rottura rispetto al magistero precedente. Parlerei di continuità e di approfondimento. In ogni caso, mi chiedo quanti abbiano letto davvero tutti i documenti del concilio. Chi l'ha fatto, si accorge che la tradizione cristiana ne è la sostanza». E se era senza dubbio necessaria una nuova impostazione teologica, «il concilio in parte ne è il frutto, in parte ne pone le premesse». Per solito, quando si parla del Vaticano II, un termine che ritorna sempre è «aggiornamento», e anche qui il professore centra il bersaglio: «l'aggiornamento è un linguaggio nuovo che dice l'antico. Perché non è la fede che deve aggiornarsi al mondo; è il mondo che deve aggiornarsi alla fede».

Nel ripercorrere il suo itinerario di formazione, Inos Biffi racconta di sé -- e della «sua» teologia -- molto più di quanto non risulti prima facie. «Quando chiesero a Tommaso come si fa a diventare teologi, rispose: mettendosi alla scuola di un buon maestro di teologia. Al seminario di Venegono ho avuto la fortuna di avere maestri come Carlo Colombo, un grande teologo che fu poi al servizio di Paolo VI e che sapeva unire tradizione e innovazione. Per il mio impianto teologico -- continua Biffi -- sono stati determinanti autori come Chenu e Leclercq, e figure come Scheeben e Newman. Ho conosciuto De Lubac che, insieme con Chenu, mi ha fornito illuminanti indicazioni sulla mia tesi riguardante I misteri di Cristo in Tommaso d'Aquino. Non mi sentivo invece in sintonia con Rahner, dall'intelligenza estremamente penetrante e sistematica, ma troppo influenzato da Heidegger». Il faro era e resta l'Aquinate: «sono semplicemente uno che ha cercato di comprendere san Tommaso e ne è rimasto conquistato».

Biffi prosegue ricordando la sua formazione filosofica. Oltre che la frequentazione decennale con il gesuita belga André Hayen, «ho avuto la fortuna di studiare in Cattolica con Gustavo Bontadini e Sofia Vanni Rovighi, una donna di grande libertà intellettuale, molto competente. Non chiacchierava sugli autori, come spesso avviene, conosceva le fonti di prima mano. Grazie a lei ho conosciuto Husserl, l'autore che ho studiato di più dopo Tommaso, Bernardo e Anselmo» (era del resto proprio la Vanni Rovighi -- ricorda Biffi -- a dire di non seguire più Heidegger «da quando questi da filosofo si era messo a fare l'oracolo»).

In stimolante equilibrio tra tradizione e innovazione, tra teologia dell'intellectus e teologia dell'affectus, Biffi conclude osservando che se «è innegabile che si vanno smontando istituzioni, mentalità ed espressioni già segnate da spirito cristiano, vedrei anche dei segni di risveglio. La nuova evangelizzazione non è altro che la vecchia evangelizzazione, cioè l'annuncio del Vangelo, quello di ieri, di oggi e di sempre. È l'annuncio di Gesù Cristo, senza del quale non c'è né umanità vera né umanesimo compiuto. È quello che il credente e il teologo non devono cessare di proclamare e di insegnare, senza lasciarsi deprimere di fronte al rifiuto o all'inaccoglienza, e soprattutto non impegnandosi a piacere a ogni costo».

L'Osservatore Romano - 19 ottobre 2011

martedì 18 ottobre 2011

22 ottobre: memoria del Beato Giovanni Paolo II

Sabato 22 e domenica 23 ottobre

sono a Masotti (Pistoia)




le reliquie del Beato Papa Giovanni Paolo II

Al Santuario della Divina Misericordia

MOTU PROPRIO PORTA FIDEI








BENEDETTO XVI INDICE L'ANNO DELLA FEDE



1. La “porta della fede” (cfr At 14,27) che introduce alla vita di comunione con Dio e permette l’ingresso nella sua Chiesa è sempre aperta per noi. E’ possibile oltrepassare quella soglia quando la Parola di Dio viene annunciata e il cuore si lascia plasmare dalla grazia che trasforma. Attraversare quella porta comporta immettersi in un cammino che dura tutta la vita. Esso inizia con il Battesimo (cfr Rm 6, 4), mediante il quale possiamo chiamare Dio con il nome di Padre, e si conclude con il passaggio attraverso la morte alla vita eterna, frutto della risurrezione del Signore Gesù che, con il dono dello Spirito Santo, ha voluto coinvolgere nella sua stessa gloria quanti credono in Lui (cfr Gv 17,22). Professare la fede nella Trinità – Padre, Figlio e Spirito Santo – equivale a credere in un solo Dio che è Amore (cfr 1Gv 4,8): il Padre, che nella pienezza del tempo ha inviato suo Figlio per la nostra salvezza; Gesù Cristo, che nel mistero della sua morte e risurrezione ha redento il mondo; lo Spirito Santo, che conduce la Chiesa attraverso i secoli nell’attesa del ritorno glorioso del Signore.


2. Fin dall’inizio del mio ministero come Successore di Pietro ho ricordato l’esigenza di riscoprire il cammino della fede per mettere in luce con sempre maggiore evidenza la gioia ed il rinnovato entusiasmo dell’incontro con Cristo. Nell’Omelia della santa Messa per l’inizio del pontificato dicevo: “La Chiesa nel suo insieme, ed i Pastori in essa, come Cristo devono mettersi in cammino, per condurre gli uomini fuori dal deserto, verso il luogo della vita, verso l’amicizia con il Figlio di Dio, verso Colui che ci dona la vita, la vita in pienezza” [1]. Capita ormai non di rado che i cristiani si diano maggior preoccupazione per le conseguenze sociali, culturali e politiche del loro impegno, continuando a pensare alla fede come un presupposto ovvio del vivere comune. In effetti, questo presupposto non solo non è più tale, ma spesso viene perfino negato [2]. Mentre nel passato era possibile riconoscere un tessuto culturale unitario, largamente accolto nel suo richiamo ai contenuti della fede e ai valori da essa ispirati, oggi non sembra più essere così in grandi settori della società, a motivo di una profonda crisi di fede che ha toccato molte persone.


3. Non possiamo accettare che il sale diventi insipido e la luce sia tenuta nascosta (cfr Mt 5,13-16). Anche l’uomo di oggi può sentire di nuovo il bisogno di recarsi come la samaritana al pozzo per ascoltare Gesù, che invita a credere in Lui e ad attingere alla sua sorgente, zampillante di acqua viva (cfr Gv 4,14). Dobbiamo ritrovare il gusto di nutrirci della Parola di Dio, trasmessa dalla Chiesa in modo fedele, e del Pane della vita, offerti a sostegno di quanti sono suoi discepoli (cfr Gv 6,51). L’insegnamento di Gesù, infatti, risuona ancora ai nostri giorni con la stessa forza: “Datevi da fare non per il cibo che non dura, ma per il cibo che rimane per la via eterna” (Gv 6,27). L’interrogativo posto da quanti lo ascoltavano è lo stesso anche per noi oggi: “Che cosa dobbiamo compiere per fare le opere di Dio?” (Gv 6,28). Conosciamo la risposta di Gesù: “Questa è l’opera di Dio: che crediate in colui che egli ha mandato” (Gv 6,29). Credere in Gesù Cristo, dunque, è la via per poter giungere in modo definitivo alla salvezza.


4. Alla luce di tutto questo ho deciso di indire un Anno della fede. Esso avrà inizio l’11 ottobre 2012, nel cinquantesimo anniversario dell’apertura del Concilio Vaticano II, e terminerà nella solennità di Nostro Signore Gesù Cristo Re dell’Universo, il 24 novembre 2013. Nella data dell’11 ottobre 2012, ricorreranno anche i vent’anni dalla pubblicazione del Catechismo della Chiesa Cattolica, testo promulgato dal mio Predecessore, il Beato Papa Giovanni Paolo II [3], allo scopo di illustrare a tutti i fedeli la forza e la bellezza della fede. Questo documento, autentico frutto del Concilio Vaticano II, fu auspicato dal Sinodo Straordinario dei Vescovi del 1985 come strumento al servizio della catechesi [4] e venne realizzato mediante la collaborazione di tutto l’Episcopato della Chiesa cattolica. E proprio l’Assemblea Generale del Sinodo dei Vescovi è stata da me convocata, nel mese di ottobre del 2012, sul tema de La nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana. Sarà quella un’occasione propizia per introdurre l’intera compagine ecclesiale ad un tempo di particolare riflessione e riscoperta della fede. Non è la prima volta che la Chiesa è chiamata a celebrare un Anno della fede. Il mio venerato Predecessore il Servo di Dio Paolo VI ne indisse uno simile nel 1967, per fare memoria del martirio degli Apostoli Pietro e Paolo nel diciannovesimo centenario della loro testimonianza suprema. Lo pensò come un momento solenne perché in tutta la Chiesa vi fosse “un'autentica e sincera professione della medesima fede”; egli, inoltre, volle che questa venisse confermata in maniera “individuale e collettiva, libera e cosciente, interiore ed esteriore, umile e franca” [5]. Pensava che in tal modo la Chiesa intera potesse riprendere “esatta coscienza della sua fede, per ravvivarla, per purificarla, per confermarla, per confessarla” [6]. I grandi sconvolgimenti che si verificarono in quell’Anno, resero ancora più evidente la necessità di una simile celebrazione. Essa si concluse con la Professione i fede del Popolo di Dio [7], per attestare quanto i contenuti essenziali che da secoli costituiscono il patrimonio di tutti i credenti hanno bisogno di essere confermati, compresi e approfonditi in maniera sempre nuova al fine di dare testimonianza coerente in condizioni storiche diverse dal passato.


5. Per alcuni aspetti, il mio venerato Predecessore vide questo Anno come una “conseguenza ed esigenza postconciliare” [8], ben cosciente delle gravi difficoltà del tempo, soprattutto riguardo alla professione della vera fede e alla sua retta interpretazione. Ho ritenuto che far iniziare l’Anno della fede in coincidenza con il cinquantesimo anniversario dell’apertura del Concilio Vaticano II possa essere un’occasione propizia per comprendere che i testi lasciati in eredità dai Padri conciliari, secondo le parole del beato Giovanni Paolo II, “non perdono il loro valore né il loro smalto. È necessario che essi vengano letti in maniera appropriata, che vengano conosciuti e assimilati come testi qualificati e normativi del Magistero, all'interno della Tradizione della Chiesa … Sento più che mai il dovere di additare il Concilio, come la grande grazia di cui la Chiesa ha beneficiato nel secolo XX: in esso ci è offerta una sicura bussola per orientarci nel cammino del secolo che si apre” [9]. Io pure intendo ribadire con forza quanto ebbi ad affermare a proposito del Concilio pochi mesi dopo la mia elezione a Successore di Pietro: “se lo leggiamo e recepiamo guidati da una giusta ermeneutica, esso può essere e diventare sempre di più una grande forza per il sempre necessario rinnovamento della Chiesa” [10].


6. Il rinnovamento della Chiesa passa anche attraverso la testimonianza offerta dalla vita dei credenti: con la loro stessa esistenza nel mondo i cristiani sono infatti chiamati a far risplendere la Parola di verità che il Signore Gesù ci ha lasciato. Proprio il Concilio, nella Costituzione dogmatica Lumen gentium, affermava: “Mentre Cristo, «santo, innocente, senza macchia» (Eb 7,26), non conobbe il peccato (cfr 2Cor 5,21) e venne solo allo scopo di espiare i peccati del popolo (cfr Eb 2,17), la Chiesa, che comprende nel suo seno peccatori ed è perciò santa e insieme sempre bisognosa di purificazione, avanza continuamente per il cammino della penitenza e del rinnovamento. La Chiesa «prosegue il suo pellegrinaggio fra le persecuzioni del mondo e le consolazioni di Dio», annunziando la passione e la morte del Signore fino a che egli venga (cfr 1Cor 11,26). Dalla virtù del Signore risuscitato trae la forza per vincere con pazienza e amore le afflizioni e le difficoltà, che le vengono sia dal di dentro che dal di fuori, e per svelare in mezzo al mondo, con fedeltà anche se non perfettamente, il mistero di lui, fino a che alla fine dei tempi esso sarà manifestato nella pienezza della luce” [11].


L’Anno della fede, in questa prospettiva, è un invito ad un’autentica e rinnovata conversione al Signore, unico Salvatore del mondo. Nel mistero della sua morte e risurrezione, Dio ha rivelato in pienezza l’Amore che salva e chiama gli uomini alla conversione di vita mediante la remissione dei peccati (cfr At 5,31). Per l’apostolo Paolo, questo Amore introduce l’uomo ad una nuova vita: “Per mezzo del battesimo siamo stati sepolti insieme a lui nella morte, perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una nuova vita” (Rm 6,4). Grazie alla fede, questa vita nuova plasma tutta l’esistenza umana sulla radicale novità della risurrezione. Nella misura della sua libera disponibilità, i pensieri e gli affetti, la mentalità e il comportamento dell’uomo vengono lentamente purificati e trasformati, in un cammino mai compiutamente terminato in questa vita. La “fede che si rende operosa per mezzo della carità” (Gal 5,6) diventa un nuovo criterio di intelligenza e di azione che cambia tutta la vita dell’uomo (cfr Rm 12,2; Col 3,9-10; Ef 4,20-29; 2Cor 5,17).


7. “Caritas Christi urget nos” (2Cor 5,14): è l’amore di Cristo che colma i nostri cuori e ci spinge ad evangelizzare. Egli, oggi come allora, ci invia per le strade del mondo per proclamare il suo Vangelo a tutti i popoli della terra (cfr Mt 28,19). Con il suo amore, Gesù Cristo attira a sé gli uomini di ogni generazione: in ogni tempo Egli convoca la Chiesa affidandole l’annuncio del Vangelo, con un mandato che è sempre nuovo. Per questo anche oggi è necessario un più convinto impegno ecclesiale a favore di una nuova evangelizzazione per riscoprire la gioia nel credere e ritrovare l’entusiasmo nel comunicare la fede. Nella quotidiana riscoperta del suo amore attinge forza e vigore l’impegno missionario dei credenti che non può mai venire meno. La fede, infatti, cresce quando è vissuta come esperienza di un amore ricevuto e quando viene comunicata come esperienza di grazia e di gioia. Essa rende fecondi, perché allarga il cuore nella speranza e consente di offrire una testimonianza capace di generare: apre, infatti, il cuore e la mente di quanti ascoltano ad accogliere l’invito del Signore di aderire alla sua Parola per diventare suoi discepoli. I credenti, attesta sant’Agostino, “si fortificano credendo” [12]. Il santo Vescovo di Ippona aveva buone ragioni per esprimersi in questo modo. Come sappiamo, la sua vita fu una ricerca continua della bellezza della fede fino a quando il suo cuore non trovò riposo in Dio [13]. I suoi numerosi scritti, nei quali vengono spiegate l’importanza del credere e la verità della fede, permangono fino ai nostri giorni come un patrimonio di ricchezza ineguagliabile e consentono ancora a tante persone in ricerca di Dio di trovare il giusto percorso per accedere alla “porta della fede”.


Solo credendo, quindi, la fede cresce e si rafforza; non c’è altra possibilità per possedere certezza sulla propria vita se non abbandonarsi, in un crescendo continuo, nelle mani di un amore che si sperimenta sempre più grande perché ha la sua origine in Dio.


8. In questa felice ricorrenza, intendo invitare i Confratelli Vescovi di tutto l’orbe perché si uniscano al Successore di Pietro, nel tempo di grazia spirituale che il Signore ci offre, per fare memoria del dono prezioso della fede. Vorremmo celebrare questo Anno in maniera degna e feconda. Dovrà intensificarsi la riflessione sulla fede per aiutare tutti i credenti in Cristo a rendere più consapevole ed a rinvigorire la loro adesione al Vangelo, soprattutto in un momento di profondo cambiamento come quello che l’umanità sta vivendo. Avremo l’opportunità di confessare la fede nel Signore Risorto nelle nostre Cattedrali e nelle chiese di tutto il mondo; nelle nostre case e presso le nostre famiglie, perché ognuno senta forte l’esigenza di conoscere meglio e di trasmettere alle generazioni future la fede di sempre. Le comunità religiose come quelle parrocchiali, e tutte le realtà ecclesiali antiche e nuove, troveranno il modo, in questo Anno, per rendere pubblica professione del Credo.


9. Desideriamo che questo Anno susciti in ogni credente l’aspirazione a confessare la fede in pienezza e con rinnovata convinzione, con fiducia e speranza. Sarà un'occasione propizia anche per intensificare la celebrazione della fede nella liturgia, e in particolare nell’Eucaristia, che è “il culmine verso cui tende l’azione della Chiesa e insieme la fonte da cui promana tutta la sua energia” [14]. Nel contempo, auspichiamo che la testimonianza di vita dei credenti cresca nella sua credibilità. Riscoprire i contenuti della fede professata, celebrata, vissuta e pregata [15], e riflettere sullo stesso atto con cui si crede, è un impegno che ogni credente deve fare proprio, soprattutto in questo Anno.


Non a caso, nei primi secoli i cristiani erano tenuti ad imparare a memoria il Credo. Questo serviva loro come preghiera quotidiana per non dimenticare l’impegno assunto con il Battesimo. Con parole dense di significato, lo ricorda sant’Agostino quando, in un’Omelia sulla redditio symboli, la consegna del Credo, dice: “Il simbolo del santo mistero che avete ricevuto tutti insieme e che oggi avete reso uno per uno, sono le parole su cui è costruita con saldezza la fede della madre Chiesa sopra il fondamento stabile che è Cristo Signore … Voi dunque lo avete ricevuto e reso, ma nella mente e nel cuore lo dovete tenere sempre presente, lo dovete ripetere nei vostri letti, ripensarlo nelle piazze e non scordarlo durante i pasti: e anche quando dormite con il corpo, dovete vegliare in esso con il cuore” [16].


10. Vorrei, a questo punto, delineare un percorso che aiuti a comprendere in modo più profondo non solo i contenuti della fede, ma insieme a questi anche l’atto con cui decidiamo di affidarci totalmente a Dio, in piena libertà. Esiste, infatti, un’unità profonda tra l’atto con cui si crede e i contenuti a cui diamo il nostro assenso. L’apostolo Paolo permette di entrare all’interno di questa realtà quando scrive: “Con il cuore … si crede … e con la bocca si fa la professione di fede” (Rm 10,10). Il cuore indica che il primo atto con cui si viene alla fede è dono di Dio e azione della grazia che agisce e trasforma la persona fin nel suo intimo.


L’esempio di Lidia è quanto mai eloquente in proposito. Racconta san Luca che Paolo, mentre si trovava a Filippi, andò di sabato per annunciare il Vangelo ad alcune donne; tra esse vi era Lidia e il “Signore le aprì il cuore per aderire alle parole di Paolo” (At 16,14). Il senso racchiuso nell’espressione è importante. San Luca insegna che la conoscenza dei contenuti da credere non è sufficiente se poi il cuore, autentico sacrario della persona, non è aperto dalla grazia che consente di avere occhi per guardare in profondità e comprendere che quanto è stato annunciato è la Parola di Dio.


Professare con la bocca, a sua volta, indica che la fede implica una testimonianza ed un impegno pubblici. Il cristiano non può mai pensare che credere sia un fatto privato. La fede è decidere di stare con il Signore per vivere con Lui. E questo “stare con Lui” introduce alla comprensione delle ragioni per cui si crede. La fede, proprio perché è atto della libertà, esige anche la responsabilità sociale di ciò che si crede. La Chiesa nel giorno di Pentecoste mostra con tutta evidenza questa dimensione pubblica del credere e dell’annunciare senza timore la propria fede ad ogni persona. È il dono dello Spirito Santo che abilita alla missione e fortifica la nostra testimonianza, rendendola franca e coraggiosa.


La stessa professione della fede è un atto personale ed insieme comunitario. E’ la Chiesa, infatti, il primo soggetto della fede. Nella fede della Comunità cristiana ognuno riceve il Battesimo, segno efficace dell’ingresso nel popolo dei credenti per ottenere la salvezza. Come attesta il Catechismo della Chiesa Cattolica: “«Io credo»; è la fede della Chiesa professata personalmente da ogni credente, soprattutto al momento del Battesimo. «Noi crediamo» è la fede della Chiesa confessata dai Vescovi riuniti in Concilio, o più generalmente, dall’assemblea liturgica dei fedeli. «Io credo»: è anche la Chiesa nostra Madre, che risponde a Dio con la sua fede e che ci insegna a dire «Io credo», «Noi crediamo»” [17].


Come si può osservare, la conoscenza dei contenuti di fede è essenziale per dare il proprio assenso, cioè per aderire pienamente con l’intelligenza e la volontà a quanto viene proposto dalla Chiesa. La conoscenza della fede introduce alla totalità del mistero salvifico rivelato da Dio. L’assenso che viene prestato implica quindi che, quando si crede, si accetta liberamente tutto il mistero della fede, perché garante della sua verità è Dio stesso che si rivela e permette di conoscere il suo mistero di amore [18].


D’altra parte, non possiamo dimenticare che nel nostro contesto culturale tante persone, pur non riconoscendo in sé il dono della fede, sono comunque in una sincera ricerca del senso ultimo e della verità definitiva sulla loro esistenza e sul mondo. Questa ricerca è un autentico “preambolo” alla fede, perché muove le persone sulla strada che conduce al mistero di Dio. La stessa ragione dell’uomo, infatti, porta insita l’esigenza di “ciò che vale e permane sempre” [19]. Tale esigenza costituisce un invito permanente, inscritto indelebilmente nel cuore umano, a mettersi in cammino per trovare Colui che non cercheremmo se non ci fosse già venuto incontro [20]. Proprio a questo incontro la fede ci invita e ci apre in pienezza.


11. Per accedere a una conoscenza sistematica dei contenuti della fede, tutti possono trovare nel Catechismo della Chiesa Cattolica un sussidio prezioso ed indispensabile. Esso costituisce uno dei frutti più importanti del Concilio Vaticano II. Nella Costituzione Apostolica Fidei depositum, non a caso firmata nella ricorrenza del trentesimo anniversario dell’apertura del Concilio Vaticano II, il Beato Giovanni Paolo II scriveva: “Questo Catechismo apporterà un contributo molto importante a quell’opera di rinnovamento dell’intera vita ecclesiale… Io lo riconosco come uno strumento valido e legittimo al servizio della comunione ecclesiale e come una norma sicura per l’insegnamento della fede” [21].


E’ proprio in questo orizzonte che l’Anno della fede dovrà esprimere un corale impegno per la riscoperta e lo studio dei contenuti fondamentali della fede che trovano nel Catechismo della Chiesa Cattolica la loro sintesi sistematica e organica. Qui, infatti, emerge la ricchezza di insegnamento che la Chiesa ha accolto, custodito ed offerto nei suoi duemila anni di storia. Dalla Sacra Scrittura ai Padri della Chiesa, dai Maestri di teologia ai Santi che hanno attraversato i secoli, il Catechismo offre una memoria permanente dei tanti modi in cui la Chiesa ha meditato sulla fede e prodotto progresso nella dottrina per dare certezza ai credenti nella loro vita di fede.


Nella sua stessa struttura, il Catechismo della Chiesa Cattolica presenta lo sviluppo della fede fino a toccare i grandi temi della vita quotidiana. Pagina dopo pagina si scopre che quanto viene presentato non è una teoria, ma l’incontro con una Persona che vive nella Chiesa. Alla professione di fede, infatti, segue la spiegazione della vita sacramentale, nella quale Cristo è presente, operante e continua a costruire la sua Chiesa. Senza la liturgia e i Sacramenti, la professione di fede non avrebbe efficacia, perché mancherebbe della grazia che sostiene la testimonianza dei cristiani. Alla stessa stregua, l’insegnamento del Catechismo sulla vita morale acquista tutto il suo significato se posto in relazione con la fede, la liturgia e la preghiera.


12. In questo Anno, pertanto, il Catechismo della Chiesa Cattolica potrà essere un vero strumento a sostegno della fede, soprattutto per quanti hanno a cuore la formazione dei cristiani, così determinante nel nostro contesto culturale. A tale scopo, ho invitato la Congregazione per la Dottrina della Fede, in accordo con i competenti Dicasteri della Santa Sede, a redigere una Nota, con cui offrire alla Chiesa ed ai credenti alcune indicazioni per vivere quest’Anno della fede nei modi più efficaci ed appropriati, al servizio del credere e dell’evangelizzare.


La fede, infatti, si trova ad essere sottoposta più che nel passato a una serie di interrogativi che provengono da una mutata mentalità che, particolarmente oggi, riduce l’ambito delle certezze razionali a quello delle conquiste scientifiche e tecnologiche. La Chiesa tuttavia non ha mai avuto timore di mostrare come tra fede e autentica scienza non vi possa essere alcun conflitto perché ambedue, anche se per vie diverse, tendono alla verità [22].


13. Sarà decisivo nel corso di questo Anno ripercorrere la storia della nostra fede, la quale vede il mistero insondabile dell’intreccio tra santità e peccato. Mentre la prima evidenzia il grande apporto che uomini e donne hanno offerto alla crescita ed allo sviluppo della comunità con la testimonianza della loro vita, il secondo deve provocare in ognuno una sincera e permanente opera di conversione per sperimentare la misericordia del Padre che a tutti va incontro.


In questo tempo terremo fisso lo sguardo su Gesù Cristo, “colui che dà origine alla fede e la porta a compimento” (Eb 12,2): in lui trova compimento ogni travaglio ed anelito del cuore umano. La gioia dell’amore, la risposta al dramma della sofferenza e del dolore, la forza del perdono davanti all’offesa ricevuta e la vittoria della vita dinanzi al vuoto della morte, tutto trova compimento nel mistero della sua Incarnazione, del suo farsi uomo, del condividere con noi la debolezza umana per trasformarla con la potenza della sua Risurrezione. In lui, morto e risorto per la nostra salvezza, trovano piena luce gli esempi di fede che hanno segnato questi duemila anni della nostra storia di salvezza.


Per fede Maria accolse la parola dell’Angelo e credette all’annuncio che sarebbe divenuta Madre di Dio nell’obbedienza della sua dedizione (cfr Lc 1,38). Visitando Elisabetta innalzò il suo canto di lode all’Altissimo per le meraviglie che compiva in quanti si affidano a Lui (cfr Lc 1,46-55). Con gioia e trepidazione diede alla luce il suo unico Figlio, mantenendo intatta la verginità (cfr Lc 2,6-7). Confidando in Giuseppe suo sposo, portò Gesù in Egitto per salvarlo dalla persecuzione di Erode (cfr Mt 2,13-15). Con la stessa fede seguì il Signore nella sua predicazione e rimase con Lui fin sul Golgota (cfr Gv 19,25-27). Con fede Maria assaporò i frutti della risurrezione di Gesù e, custodendo ogni ricordo nel suo cuore (cfr Lc 2,19.51), lo trasmise ai Dodici riuniti con lei nel Cenacolo per ricevere lo Spirito Santo (cfr At 1,14; 2,1-4).


Per fede gli Apostoli lasciarono ogni cosa per seguire il Maestro (cfr Mc 10,28). Credettero alle parole con le quali annunciava il Regno di Dio presente e realizzato nella sua persona (cfr Lc 11,20). Vissero in comunione di vita con Gesù che li istruiva con il suo insegnamento, lasciando loro una nuova regola di vita con la quale sarebbero stati riconosciuti come suoi discepoli dopo la sua morte (cfr Gv 13,34-35). Per fede andarono nel mondo intero, seguendo il mandato di portare il Vangelo ad ogni creatura (cfr Mc 16,15) e, senza alcun timore, annunciarono a tutti la gioia della risurrezione di cui furono fedeli testimoni.


Per fede i discepoli formarono la prima comunità raccolta intorno all’insegnamento degli Apostoli, nella preghiera, nella celebrazione dell’Eucaristia, mettendo in comune quanto possedevano per sovvenire alle necessità dei fratelli (cfr At 2,42-47).


Per fede i martiri donarono la loro vita, per testimoniare la verità del Vangelo che li aveva trasformati e resi capaci di giungere fino al dono più grande dell’amore con il perdono dei propri persecutori.


Per fede uomini e donne hanno consacrato la loro vita a Cristo, lasciando ogni cosa per vivere in semplicità evangelica l’obbedienza, la povertà e la castità, segni concreti dell’attesa del Signore che non tarda a venire. Per fede tanti cristiani hanno promosso un’azione a favore della giustizia per rendere concreta la parola del Signore, venuto ad annunciare la liberazione dall’oppressione e un anno di grazia per tutti (cfr Lc 4,18-19).


Per fede, nel corso dei secoli, uomini e donne di tutte le età, il cui nome è scritto nel Libro della vita (cfr Ap 7,9; 13,8), hanno confessato la bellezza di seguire il Signore Gesù là dove venivano chiamati a dare testimonianza del loro essere cristiani: nella famiglia, nella professione, nella vita pubblica, nell’esercizio dei carismi e ministeri ai quali furono chiamati.


Per fede viviamo anche noi: per il riconoscimento vivo del Signore Gesù, presente nella nostra esistenza e nella storia.


14. L’Anno della fede sarà anche un’occasione propizia per intensificare la testimonianza della carità. Ricorda san Paolo: “Ora dunque rimangono queste tre cose: la fede, la speranza e la carità. Ma la più grande di tutte è la carità!” (1Cor 13,13). Con parole ancora più forti - che da sempre impegnano i cristiani - l’apostolo Giacomo affermava: “A che serve, fratelli miei, se uno dice di avere fede, ma non ha le opere? Quella fede può forse salvarlo? Se un fratello o una sorella sono senza vestiti e sprovvisti del cibo quotidiano e uno di voi dice loro: «Andatevene in pace, riscaldatevi e saziatevi», ma non date loro il necessario per il corpo, a che cosa serve? Così anche la fede: se non è seguita dalle opere, in se stessa è morta. Al contrario uno potrebbe dire: «Tu hai la fede e io ho le opere; mostrami la tua fede senza le opere, ed io con le mie opere ti mostrerò la mia fede»” (Gc 2,14-18).


La fede senza la carità non porta frutto e la carità senza la fede sarebbe un sentimento in balia costante del dubbio. Fede e carità si esigono a vicenda, così che l’una permette all’altra di attuare il suo cammino. Non pochi cristiani, infatti, dedicano la loro vita con amore a chi è solo, emarginato o escluso come a colui che è il primo verso cui andare e il più importante da sostenere, perché proprio in lui si riflette il volto stesso di Cristo. Grazie alla fede possiamo riconoscere in quanti chiedono il nostro amore il volto del Signore risorto. “Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt 25,40): queste sue parole sono un monito da non dimenticare ed un invito perenne a ridonare quell’amore con cui Egli si prende cura di noi. E’ la fede che permette di riconoscere Cristo ed è il suo stesso amore che spinge a soccorrerlo ogni volta che si fa nostro prossimo nel cammino della vita. Sostenuti dalla fede, guardiamo con speranza al nostro impegno nel mondo, in attesa di “nuovi cieli e una terra nuova, nei quali abita la giustizia” (2Pt 3,13; cfr Ap 21,1).


15. Giunto ormai al termine della sua vita, l’apostolo Paolo chiede al discepolo Timoteo di “cercare la fede” (cfr 2Tm 2,22) con la stessa costanza di quando era ragazzo (cfr 2Tm 3,15). Sentiamo questo invito rivolto a ciascuno di noi, perché nessuno diventi pigro nella fede. Essa è compagna di vita che permette di percepire con sguardo sempre nuovo le meraviglie che Dio compie per noi. Intenta a cogliere i segni dei tempi nell’oggi della storia, la fede impegna ognuno di noi a diventare segno vivo della presenza del Risorto nel mondo. Ciò di cui il mondo oggi ha particolarmente bisogno è la testimonianza credibile di quanti, illuminati nella mente e nel cuore dalla Parola del Signore, sono capaci di aprire il cuore e la mente di tanti al desiderio di Dio e della vita vera, quella che non ha fine.


“La Parola del Signore corra e sia glorificata” (2Ts 3,1): possa questo Anno della fede rendere sempre più saldo il rapporto con Cristo Signore, poiché solo in Lui vi è la certezza per guardare al futuro e la garanzia di un amore autentico e duraturo. Le parole dell’apostolo Pietro gettano un ultimo squarcio di luce sulla fede: “Perciò siete ricolmi di gioia, anche se ora dovete essere, per un po’ di tempo, afflitti da varie prove, affinché la vostra fede, messa alla prova, molto più preziosa dell’oro – destinato a perire e tuttavia purificato con fuoco – torni a vostra lode, gloria e onore quando Gesù Cristo si manifesterà. Voi lo amate, pur senza averlo visto e ora, senza vederlo, credete in lui. Perciò esultate di gioia indicibile e gloriosa, mentre raggiungete la mèta della vostra fede: la salvezza delle anime” (1Pt 1,6-9). La vita dei cristiani conosce l’esperienza della gioia e quella della sofferenza. Quanti Santi hanno vissuto la solitudine! Quanti credenti, anche ai nostri giorni, sono provati dal silenzio di Dio mentre vorrebbero ascoltare la sua voce consolante! Le prove della vita, mentre consentono di comprendere il mistero della Croce e di partecipare alle sofferenze di Cristo (cfr Col 1,24), sono preludio alla gioia e alla speranza cui la fede conduce: “quando sono debole, è allora che sono forte” (2Cor 12,10). Noi crediamo con ferma certezza che il Signore Gesù ha sconfitto il male e la morte. Con questa sicura fiducia ci affidiamo a Lui: Egli, presente in mezzo a noi, vince il potere del maligno (cfr Lc 11,20) e la Chiesa, comunità visibile della sua misericordia, permane in Lui come segno della riconciliazione definitiva con il Padre.


Affidiamo alla Madre di Dio, proclamata “beata” perché “ha creduto” (Lc 1,45), questo tempo di grazia.






Dato a Roma, presso San Pietro, l’11 ottobre dell’Anno 2011, settimo di Pontificato.


Benedetto XVI



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[1] Omelia per l’inizio del ministero petrino del Vescovo di Roma (24 aprile 2005): AAS 97(2005), 710.
[2] Cfr BENEDETTO XVI, Omelia S. Messa al Terreiro do Paço, Lisbona (11 maggio 2010): Insegnamenti VI,1(2010), 673.
[3] Cfr GIOVANNI PAOLO II, Cost. ap. Fidei depositum (11 ottobre 1992): AAS 86(1994), 113-118.
[4] Cfr Rapporto finale del Secondo Sinodo Straordinario dei Vescovi (7 dicembre 1985), II, B, a, 4: in Enchiridion Vaticanum, vol. 9, n. 1797.
[5] PAOLO VI, Esort. ap. Petrum et Paulum Apostolos, nel XIX centenario del martirio dei Santi Apostoli Pietro e Paolo (22 febbraio 1967): AAS 59(1967), 196.
[6] Ibid., 198.
[7] PAOLO VI, Solenne Professione di fede, Omelia per la Concelebrazione nel XIX centenario del martirio dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, a conclusione dell’ “Anno della fede” (30 giugno 1968): AAS 60(1968), 433-445.
[8] ID., Udienza Generale (14 giugno 1967): Insegnamenti V(1967), 801.
[9] GIOVANNI PAOLO II, Lett. ap. Novo millennio ineunte (6 gennaio 2001), 57: AAS 93(2001), 308.
[10] Discorso alla Curia Romana (22 dicembre 2005): AAS 98(2006), 52.
[11] CONC. ECUM. VAT. II, Cost. dogm. sulla Chiesa Lumen gentium, 8.
[12] De utilitate credendi, 1,2.
[13] Cfr AGOSTINO D’IPPONA, Confessioni, I,1.
[14] CONC. ECUM. VAT. II, Cost. sulla sacra liturgia Sacrosanctum Concilium, 10.
[15] Cfr GIOVANNI PAOLO II, Cost. ap. Fidei depositum (11 ottobre 1992): AAS 86(1994), 116.
[16] Sermo 215,1.
[17] Catechismo della Chiesa Cattolica, 167.
[18] Cfr CONC. ECUM. VAT. I, Cost. dogm. sulla fede cattolica Dei Filius, cap. III: DS 3008-3009; CONC. ECUM. VAT. II, Cost. dogm. sulla divina rivelazione Dei Verbum, 5.
[19] BENEDETTO XVI, Discorso al Collège des Bernardins, Parigi (12 settembre 2008): AAS 100(2008), 722.
[20] Cfr AGOSTINO D’IPPONA, Confessioni, XIII, 1.
[21] GIOVANNI PAOLO II, Cost. ap. Fidei depositum (11 ottobre 1992): AAS 86(1994), 115 e 117.
[22] Cfr ID., Lett. enc. Fides et ratio (14 settembre 1998), nn. 34 e106: AAS 91(1999), 31-32, 86-87.

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