martedì 31 maggio 2022

Aborto no, 194 sì: l'impossibile logica di Avvenire




Dopo le polemiche sollevate da una breve nota pubblicata all'indomani della Manifestazione per la vita del 21 maggio, è lo stesso direttore di Avvenire a intervenire in risposta a Massimo Gandolfini per confermare che il quotidiano della CEI non intende mettere in discussione la legge che in Italia ha introdotto l'aborto.




EDITORIALI
Tommaso Scandroglio, 31-05-2022

Si può essere pro-life e a favore della 194? La quadratura del cerchio pare essere riuscita presso Avvenire, quotidiano della CEI. Andiamo con ordine. Sabato scorso Massimo Gandolfini, portavoce della appena conclusa manifestazione Scegliamo la Vita, scrive al direttore di Avvenire, Marco Tarquinio. Gandolfini fa un bilancio della manifestazione: elogia l’unità delle sigle pro-life aderenti, sottolinea che non era una “marcia contro” ma una “marcia per”, evidenzia che l’iniziativa ha tentato di rimettere al centro dell’attenzione pubblica il tema dell’aborto e poi afferma che “passo dopo passo, emendamento dopo emendamento, marcia dopo marcia: quella legge [la 194] si può smontare”, confermando un assunto logico per cui se tu sei a favore di qualcosa sei necessariamente contro il suo opposto. E dunque se sei a favore della vita non puoi che essere contro la 194. Bene quindi che Gandolfini abbia scritto nero su bianco che questa legge “si ‘deve’ smontare” (le virgolette all’ausiliario crediamo siano un retaggio di un certa strategia mai impositiva, ma sempre e solo prudentemente propositiva). La chiusura della lettera di Gandolfini è altrettanto apprezzabile: “non possiamo rassegnarci a una legge ‘integralmente iniqua’”.

Risposta del direttore Tarquinio: “Penso […] che la 194, come tutte le leggi, ma un po’ di più, sia una legge che ha dentro di sé cose diverse. Non l’avrei votata così com’è proprio come non voterei mai per la pena di morte perché sono contro ogni norma ‘letale’. […] Non mi stanco di ripetere che le leggi sono anche, e spesso soprattutto, il ‘modo’ in cui le applichiamo. E io so che la 194 può essere usata per rimuovere le cause dell’aborto, ma so pure che purtroppo non lo si fa abbastanza e in molti casi per nulla”. Tarquinio, confermando un atteggiamento conservativo riguardo alla 194, ripropone un vecchio assunto caro ad una certa fetta del mondo cattolico: sulla 194 non si può dare un giudizio sintetico positivo o negativo perché in essa vi sono parti buone e altre cattive. Vi sono parti buone nella 194? Ne riusciamo ad individuare solo una: l’obiezione di coscienza.

È poi vero che non si riesce a dare un giudizio di sintesi sulla 194? Si riesce eccome. Ogni legge ha una sua ratio, ossia una sua finalità principale che costituisce la sua natura, la sua intima struttura, la sua essenza. A questa essenza poi si accompagnano parti accessorie. La ratio della 194 è da individuarsi nella legittimità di abortire. Questa è la sua identità e dunque possiamo dire che la 194 è una legge intrinsecamente ingiusta. A tale essenza iniqua si accompagna ad esempio un parte accessoria buona come l’obiezione di coscienza. Ma è parte accessoria proprio perché se non fosse legittimato l’aborto non ci sarebbe bisogno di prevedere l’obiezione di coscienza all’aborto.

Alla luce di ciò dichiarare “non l’avrei [la 194] votata così come è” configura un’affermazione non condivisibile perché significa “l’avrei votata se fosse stata differente”, ossia avrei votato una legge che permette l’aborto ma con alcune modifiche. L’affermazione dunque non è condivisibile perché non si dà 194 senza legittimità di abortire, perché questa è la sua essenza. Dunque non si può pensare la 194 senza pensare al diritto all’aborto. L’unica legge che in tema di aborto è lecito votare è una legge che lo vieta. Pare invece che il direttore di Avvenire accetti la ratio abortiva della 194, ma non ne accetti le sue parti accessorie che sarebbero da migliorare.

Veniamo poi a quelle sezioni della 194 che, secondo Tarquinio, dovrebbero permettere di individuare percorsi alternativi all’aborto così tanto invocati dai pro-life cattolici. Riproponiamo qui di seguito alcune nostre considerazioni, contenute in un articolo del 2018, che avevamo articolato in occasione di un’uscita infelice del presidente della CEI Gualtiero Bassetti il quale, anche lui, ravvisava nella 194 alcuni paletti che dovrebbero persuadere la donna a non abortire:

“In genere si fa riferimento agli artt. 2 e 5 che impongono alcuni oneri agli ospedali, ai consultori e ai medici. Un paio di brevi considerazioni. Alcuni obblighi si possono facilmente soddisfare non provocando il ben che minimo intoppo nella macchina abortiva. Ad esempio il dovere di contribuire ‘a far superare le cause che potrebbero indurre la donna all'interruzione della gravidanza’ può essere adempiuto semplicemente dicendo alla donna: ‘Ci pensi bene’.
Altri doveri sono a discrezione del personale sanitario (es. l’interessamento degli enti locali). Se poi la donna va dal medico gli oneri scendono solo a due assai generici: il medico ‘la informa sui diritti a lei spettanti e sugli interventi di carattere sociale cui può fare ricorso’.
Detto tutto ciò, due sono i punti che annullano la cogenza di questi obblighi. Il primo: è impossibile sanzionare chi non ottempera a tali doveri, perché è impossibile venire a conoscenza della loro infrazione. Infatti alla donna che ha avuto il suo aborto non verrà mai in mente di trascinare in giudizio il medico perché non l’ha informata a dovere sulle alternative all’aborto.
Medico abortista e donna che vuole l’aborto stanno dalla stessa parte. Ciò è comprovato da un dato inoppugnabile: a fronte di 6 milioni di procedimenti abortivi, ad oggi si sono celebrati in Italia, a motivo della non ottemperanza degli obblighi di cui sopra, zero processi. Zero. Secondo: la donna chi incontrerà nel colloquio pre aborto? Solo personale abortista, perché l’obiettore di coscienza è estromesso da tutto l’iter abortivo, compreso il colloquio con la donna. E volete che un medico pro-choice faccia ‘tutto il possibile’ – come ha detto Bassetti - per persuadere la donna a non abortire?”.

Torniamo al direttore di Avvenire che citava la pena di morte: affermare che bisogna applicare bene la 194 è come dichiararsi contro la pena di morte – come si dichiara Tarquinio - e chiedere che venga applicata meglio la legge sulla pena di morte. Una contraddizione in termini.

Tarquinio poi così prosegue la sua risposta a Gandolfini: “In sostanza non credo che la legge 194 debba essere smontata come lei dice, ma svuotata del suo carico di sofferenza e di morte”.
Anche questo è un topos classico della dialettica cattolica: non ingaggiamo una guerra giuridica-politica sull’aborto, ma solo culturale. Dopo aver educato le coscienze e rimosso le cause dell’aborto, la 194 si disapplicherà da sola, rimarrà lettera morta, cadrà su se stessa, diventerà come una città fantasma.

Un paio di considerazioni al volo. La prima: ve lo vedete voi un politico, un giurista, un parlamentare affermare che basterebbe educare le coscienze al valore della vita ed eliminare le cause che portano le persone ad assassinare gli altri e l’art. 575 cp che sanziona l’omicidio non servirebbe più? Sarebbe preso per ingenuo, perché l’art. 575 cp rimane necessario, come necessaria l’educazione al valore della vita, perché nonostante questa educazione gli assassini ci saranno sempre e occorre una norma che dissuada dal compiere omicidi e li sanzioni nel caso si verifichino. Parimenti è banale ricordare che, anche se le coscienze saranno educate e si farà di tutto per rimuovere la cause che spingono ad abortire, ci sarà sempre qualche donna che vorrà abortire e dunque serve abrogare la 194 per sostituirla con una legge che vieti l’aborto.

Inoltre l’educazione e la rimozione delle cause che portano ad abortire saranno sempre lance spuntate se rimane vigente la 194. La 194 rimarrà in questo contesto sempre come una grossa falla al centro dello scafo della difesa della vita perché una legge che permette l’aborto incentiva la mentalità abortiva, non è solo uno strumento che verrà usato unicamente da chi, a prescindere dalla legge, avrebbe comunque abortito. Moltissime sono le donne che abortiscono perché c’è la legge, altrimenti non l’avrebbero mai fatto. Se vogliamo eliminare le condizioni che portano all’aborto ricordiamoci che anche la 194 è per molte donne una condicio sine qua non.

Infine anche battersi per smontare la 194 è una battaglia culturale che educa le coscienze e, di contro, è la stessa 194 ad diseducare le coscienze è a fornire lo strumento per abortire per qualsiasi motivo, anche il più futile. Eliminiamo non solo le cause per abortire ma anche lo strumento per abortire. Si ripete fino alla noia che negli USA se sparissero le armi cesserebbero i massacri nelle scuole (tesi nella sua assolutezza criticabile) e allora perché non eliminiamo la 194 che è l’arma usata dai medici e donne per compiere quotidiani massacri?
In breve l’impegno lodevole per educare le coscienze e rimuovere le cause che portano all’aborto va di pari passo con l’impegno di abrogare la 194: et et non aut aut.






lunedì 30 maggio 2022

LA BEATIFICAZIONE DI DON LENZINI: Preti uccisi dai partigiani, Anpi ancora negazionista





Con la beatificazione di don Luigi Lenzini, sono già due i martiri in odium fidei del Triangolo rosso che la Chiesa eleva agli altari. Ma le parole negazioniste dell'Anpi riportano le lancette dell'orologio indietro di 70 anni.



EDITORIALI
Andrea Zambrano 30-05-2022

Con la beatificazione avvenuta sabato a Modena di don Luigi Lenzini, ucciso nel luglio 1945 – a guerra finita – da un commando di partigiani comunisti, la Chiesa raggiunge quota due. Tanti sono i beati riconosciuti martiri in odium fidei nel cosiddetto Triangolo della morte. Si tratta del beato Rolando Rivi, seminarista reggiano, ucciso il 13 aprile ’45 da una formazione di gappisti sulle montagne modenesi e don Lenzini, appunto, che era parroco non distante, a Crocette di Pavullo e che fu ucciso al termine di un periodo di attacco fatto di minacce, ritorsioni e una campagna d’odio di cui i suoi parrocchiani furono testimoni.

Si tratta di beatificazioni importanti che da un certo punto di vista contribuiscono a scrivere una pagina importante della storia della guerra civile nascosta dentro la narrazione della Resistenza buona. Nel biennio ’44 ’45 si moriva anche per vendetta politica, non solo per liberare l’Italia dall’invasore nazista, ma anche per farsi giustizia da soli su base ideologica e per affermare l’ideologia comunista che una parte – una parte – dei partigiani ha cercato di imporre con la violenza e l’odio mescolandola con la nobile lotta partigiana.

Invece, l’Anpi di Modena ha dimostrato ancora una volta che su questi temi siamo fermi a 70 anni fa.

Proprio in occasione della cerimonia di beatificazione, che si è svolta alla presenza del prefetto delle cause dei Santi, il cardinale Marcello Semeraro, l’associazione di combattenti di matrice comunista, ormai priva di qualunque protagonista della guerra dato che sono ormai tutti morti, ha scritto una lettera al vescovo di Modena stigmatizzando la beatificazione:
«Il barbaro assassinio di Don Lenzini non può essere in alcun modo attribuito alla lotta partigiana e a chi l’ha combattuta unicamente per liberare il Paese dalla dittatura e dall’occupazione tedesca. (…). Il processo per assicurare alla giustizia gli assassini di Don Lenzini si è concluso con l’assoluzione dei presunti colpevoli, ma ci spingiamo a dire che se anche fosse risultato colpevole un ex partigiano, non alla lotta partigiana e alla Resistenza si potrebbe attribuire quell’omicidio, bensì al singolo uomo che lo ha commesso».

I sospettati del delitto, infatti, vennero assolti per insufficienza di prove, e questo serve all’Anpi per sgravarsi da una responsabilità politica e culturale che invece è perfettamente accertata.

L’Anpi, infatti, tace sul pesantissimo clima di intimidazioni che subì il processo, con testimoni che per paura ritrattarono, e tace sulla precisa ricostruzione dei carabinieri che individuarono nella polizia partigiana e nel Pci di Pavullo, la mente di quel delitto. Delitto che maturò nel contesto delle omelie di don Lenzini, il quale, come molti preti della zona, aveva capito che dietro il fazzoletto rosso di tanti partigiani si nascondeva la volontà di fare giustizia dei nemici del popolo e ne denunciava ai fedeli il rischio anche in ordine all’auspicata ateizzazione della società.

Tutti i preti che si comportavano così facevano quella fine o hanno rischiato di farla. E anche le modalità con le quali don Lenzini venne prelevato di notte e rincorso fin sul campanile dove si era nascosto, erano le stesse dei delitti contro i preti perpetrate all’epoca: un combattente a cui andare a portare il viatico e poi il prete desaparecido o trovato morto.

Che il delitto di don Lenzini sia maturato in ambiente partigiano non c’è dunque alcun dubbio, anche se i colpevoli, nome e cognome non sono stati assegnati alla giustizia. Ma questo è compito dei tribunali, non della Chiesa che con queste beatificazioni sta compiendo una importantissima opera di ricostruzione di una storia che non si è voluto riconoscere a causa dell’egemonia comunista che ha impedito di ammettere che durante la Resistenza si uccideva per odio alla fede.

Da un certo punto di vista infatti, le parole dell’Anpi, sono sicuramente vere: il delitto di don Lenzini non ha a che fare con la lotta partigiana. Vero. Infatti, ha a che fare con il sistematico piano di giustizia arbitraria portato avanti da gappisti, dalle polizie partigiane e dal Pci di eliminazione di scomodi protagonisti della ricostruzione futura dell’Italia. Il fatto che non si sia dato un nome ai colpevoli spesso è per colpa di una giustizia che non ha fatto il suo lavoro e del fatto che se per questo tipo di delitto non si arriva aduna confessione, è difficile trovare le prove di certi omicidi viste anche le incrostazioni di omertà di cui queste terre, su questi temi, sono vittime.

Per dare un nome e un volto agli assassini di don Umberto Pessina, ad esempio, ci sono voluti quasi 50 anni e un processo di revisione clamoroso. Si arrivò ad una parola fine solo dopo che i responsabili, guarda caso ex gappisti sempre protetti dal Pci, confessarono e scagionarono così l’ex sindaco di Correggio che per quel delitto si fece 10 anni di carcere ingiustamente.

Ma la confessione o meno dell’esecutore non sminuisce l’essenza del martirio, che è chiaro e cristallino in tutti i casi, esattamente come in Spagna, dato che non conosciamo tutti i nomi e i cognomi dei rivoluzionari che nel ’36 uccisero i preti.

Nel caso di Rolando Rivi, che è stato il primo, la causa di beatificazione fu supportata da una solida ricostruzione storica comprensiva anche delle tre sentenze di condanna degli assassini; in quello di don Lenzini, pur in assenza di una condanna degli esecutori, è documentato il clima di persecuzione di cui il sacerdote era continuamente bersaglio per mano dei gappisti.

Ma, nonostante i negazionismi dell’Anpi, che lo Stato continua a foraggiare senza alcun motivo, la storia riporta a galla le sue verità.

Se si vuole portare avanti beatificazioni di sacerdoti uccisi in odium fidei nel Triangolo della morte, c’è solo l’imbarazzo della scelta. Ad esempio: per don Umberto Pessina i nomi degli assassini sono già scritti nella sentenza di revisione del 1991, mentre per don Giuseppe Iemmi, il cui martirio è lampante tanto da essere considerato da sempre il vero martire reggiano, ucciso sul monte Fòsola dove era stato condotto come un Cristo sul Calvario, i nomi degli assassini con tanto di nome di battaglia sono scritti nero su bianco perché visti da decine e decine di testimoni oculari: Astro e Briano.






domenica 29 maggio 2022

Prato 30 maggio. Conferenza del Canonico Enrico Bini in ricordo di mons. Brunero Gherardini e di mons. Antonio Livi






Lunedì 30 maggio 2022
 alle ore 21.15 

presso i locali della parrocchia dello Spirito Santo a Prato
 (Via G. Silvestri, 21)

il parroco, Canonico Enrico Bini 

ricorderà due insigni tomisti pratesi del Novecento: 

I Monsignori Brunero Gherardini e Antonio Livi.




Entrambi nati a Prato, hanno vissuto gran parte della loro vita a Roma, dove per decenni hanno insegnato nelle Pontificie Università. Eredi, tra gli ultimi, della grande Scuola Teologica Romana, che nel secolo scorso ha annoverato maestri quali Monsignor Antonio Piolanti, p. Cornelio Fabro, i Cardinali Palazzini e Parente, solo per citarne alcuni, Gherardini e Livi hanno messo la loro vita e la loro ricerca a servizio dell'Intelligenza della Fede, avendo quali punti di riferimento la Rivelazione, la Tradizione perenne della Chiesa e il Magistero infallibile.

Tra i grandi maestri che hanno caratterizzato la loro lunga carriera accademica e di ricerca, brilla San Tommaso d'Aquino. Gherardini nella sua ricerca teologica e Livi in quella filosofica hanno trovato del Dottore Angelico un riferimento sicuro e perenne. Mai proni alle mode o ideologie del tempo, si sono caratterizzati, ormai casi rarissimi, per la coerenza del loro insegnamento e della loro ricerca, e da quel parlar chiaro che affondava le radici non solo nel rigore scientifico, ma anche in quella schiettezza toscana che avevano ereditato dalle loro origini pratesi. 

Un doveroso tributo, quindi, a due illustri pratesi, che sembrano già caduti, a pochi anni dalla loro morte, nell'oblio della memoria di molti. Il Canonico Enrico Bini, che fu amico di entrambi e allievo, e molte volte collaboratore, di Monsignor Gherardini vuole con questa lodevole iniziativa, cercare di tenere vivo il loro ricordo, il loro insegnamento, la loro testimonianza.

(Rodolfo Abati)






sabato 28 maggio 2022

Quanto è pericolosa per la libertà l’autodeterminazione





Le trappole dell’autodeterminazione secondo il giudice Airoma



Andrea Mariotto, 24/05/2022

Lunedì 2 maggio è intervenuto per la Scuola di Cultura Cattolica di Bassano del Grappa, per un incontro dal titolo “Quanto è pericolosa per la libertà l’autodeterminazione”, Domenico Airoma, procuratore di Avellino e vicepresidente del Centro Studi Rosario Livatino.

Anzitutto, ha esordito, alla liberà è necessario conferire una dimensione “carnale”: la libertà, infatti, non resta una nozione astratta, ma si incarna nelle scelte concrete della vita di tutti i giorni. Quelle scelte che portano ragazzi anche di ottima famiglia, a cui non mancano benessere e istruzione, a prendere le strade della malavita, cosa che nella sua esperienza di procuratore ha sperimentato più volte: “Io dico sempre che di lavoro faccio il pessimologo, cioè studio cose che le persone fanno facendo un uso scorretto della loro libertà”. Quando siamo chiamati a fare una scelta, vuol dire che ci troviamo di fronte a più alternative e soluzioni concrete e per prendere una decisione servono delle informazioni. L’uomo, a differenza dell’animale, è un essere razionale, ma non bastano informazioni e intelletto, serve anche la volontà: video bona proboque, deteriora sequor (vedo le cose buone, ma faccio le peggiori) è l’aforisma di Ovidio con cui si può ben tratteggiare il dramma della libertà.

Airoma ha quindi tratteggiato una libertà “tridimensionale” fatta di ragione, volontà e circostanze.

“L’autodeterminazione non è altro che l’io senza le circostanze”, ha proseguito. Essa è “una contraffazione virtuale” della libertà: la modernità vuole presentare un io assoluto capace di assumere scelte in maniera autonoma e indipendente. “Ma chi di noi è veramente capace di immaginarsi indipendenti in maniera assoluta?”. La libertà è sempre una dipendenza relativa, ha spiegato, visto che dipendiamo dalle circostanze in cui siamo inseriti e nelle quali facciamo le scelte. Alla fine, “pensarsi indipendenti in maniera assoluta vuol dire pensarsi come schiavi, perché libertà da ogni cosa si traduce nel suo contrario, cioè nella schiavitù ad ogni cosa”. Oggi, per di più, si fa coincidere la dignità dell’uomo non tanto nel fatto di essere uomo, ma nella sua capacità di autodeterminazione. Al vertice di tutto non sta la ragione, ma il desiderio, quell’approccio che Benedetto XVI ha delineato in maniera memorabile con l’espressione «l’io e le sue voglie».

Come faccio a soddisfare tutte le mie voglie? Chi può assicurarmi di ottenere ciò che voglio? Il giudice. Se ci si pensa bene, è nei tribunali che oggi avvengono i principali cambiamenti normativi, in linea con quanto sosteneva Gustavo Zagrebelsky nel libro Il diritto mite, “quel diritto che abbandona la funzione di ricognizione di un ordine esistente, quindi di limite”. Zagrebelsky, ha spiegato Airoma, dice infatti che nei temi più sensibili (famiglia, vita, ecc.) a stabilire le regole non devono essere “le mutevoli maggioranze parlamentari”, ma una nuova élite di tecnici, cioè i giudici.

Senza un limite, se c’è qualcosa che mi consente di realizzare il mio desiderio esso dev’essere realizzato, perciò “tutto quello che è tecnicamente possibile diviene moralmente lecito e quindi giuridicamente consentito”, perciò il cambiamento normativo diviene cambiamento sociale e di costume. Ma poiché è evidente che non tutti possono fare tutto, l’espansione del desiderio a nuovo diritto genera tutta una serie di nuovi soggetti deboli discriminati come il bimbo “scelto” da un catalogo e prodotto in laboratorio, o la mamma che presta per denaro il proprio corpo in una procedura di utero in affitto. “In questo mondo fatto di nuovi diritti giganteggia un uomo nuovo: di questo si parla oggi nelle aule giudiziarie e di questa mentalità sono intossicati i giovani oggi, una mentalità relativistica secondo la quale ogni opzione finisce per essere indifferente”.

È una logica a-morale in cui tutte le scelte diventano moralmente indifferenti e nella quale non si riscontra un criterio di giudizio che valga a determinare la bontà o meno di una decisione. Se la legge deve solo fornire la cornice affinché io realizzi i miei desideri, possiamo parlare di un “legalismo a-morale”.

La libertà, quindi, è il tema centrale di questi tempi. Siamo abituati a concepirla come una questione di indipendenza, ma è un equivoco, come scriveva il filosofo Gustave Thibon: «non esiste per l’uomo l’indipendenza assoluta, ma esiste una dipendenza morta che lo opprime o una dipendenza viva che lo fa sbocciare. La prima di queste dipendenze è schiavitù, la seconda è libertà. L’uomo non è libero nella misura in cui non dipende da nulla e da nessuno, è libero nell’esatta misura in cui dipende da ciò che ama ed è prigioniero nell’esatta misura in cui dipende da ciò che non può amare. Così il problema non si pone in termini di indipendenza, ma in termini di amore». Il problema non è la dipendenza, è ciò per cui noi vogliamo spendere la nostra vita: siamo veramente liberi se stiamo orientando la vita verso ciò che amiamo e se ciò che amiamo ha un’attinenza con la Verità siamo liberi davvero. L’autodeterminazione conduce al conflitto perenne tra i tanti “io” che vogliono affermarsi in maniera assoluta.

Di autodeterminazione si parla – più correttamente, si straparla – quando all’ordine del giorno c’è il tema dell’eutanasia: La vulgata su questo tema vuole che si debba garantire l’autodeterminazione, ma di chi? “Una persona in condizioni di sofferenza è davvero capace di prendere decisioni in maniera indipendente e autonoma?”, si è chiesto Airoma. “La Corte Costituzionale vieta l’omicidio del consenziente e fa bene perché mette una “cintura protettiva” a una persona che in quelle condizioni sarebbe capace di farsi fare di tutto”. Il problema però è che quella persona soffre, e allora è più facile accompagnare il sofferente o aiutarlo a farla finita? Inoltre, perché il bene “vita” non è disponibile? “Perché, come per la libertà, se ne disponessi rinuncerei alla mia dignità, che è correlata al fatto di essere uomo in quanto tale e non alle qualità e abilità che posso esprimere o alla situazione specifica in cui mi trovo, cosa che peraltro succede in Belgio e Olanda in cui si parla pericolosamente di diritto alla vita completata”. Peraltro, bisogna specificare che la legge 38/2010 sulle cure palliative è in gran parte inattuata quindi, se si vuole, c’è il modo per contrastare la sofferenza.

Non si deve però cedere alla disperazione, perché disseminati qui e là vi sono numerosi segnali di speranza. Dopo tanti anni di “nichilismo giuridico” (o “positivismo giuridico”) sembra che all’orizzonte si profilino dei cambiamenti anche nella giurisprudenza, basti considerare gli ultimi interventi sulla stampa del giurista Severino Irti, che da teorico del citato nichilismo giuridico ha fatto recentemente dei richiami alle radici spirituali, alla cultura, alle origini. “Abbiamo creato una società dell’odio – ha commentato Airoma – ma alla fine la realtà si prende le sue rivincite”.






giovedì 26 maggio 2022

Cordileone-Pelosi: un intervento dagli effetti salutari







Di Samuele Salvador 24 MAG 2022

“Lei non si deve presentare per la Santa Comunione e, se lo farà, non dovrà esservi ammessa, fintantoché non avrà ripudiato pubblicamente il suo appoggio alla legittimazione dell’aborto, si sia confessata ed abbia ricevuto l’assoluzione di questo grave peccato nel Sacramento della Penitenza”.

Con queste parole, in una lettera datata 19 maggio 2022, resa pubblica il giorno successivo, l’Arcivescovo di San Francisco (California, USA), Salvatore Cordileone, ha informato la Presidente della Camera dei Rappresentanti Nancy Pelosi che nei suoi confronti verrà applicato il canone 915 del Diritto Canonico che prevede la sua non ammissione alla Comunione.

L’Arcivescovo Cordileone motiva questo grave provvedimento alla Pelosi (fedele della sua diocesi) scrivendo: “Un legislatore cattolico che, dopo aver conosciuto l’insegnamento della Chiesa, appoggi l’aborto procurato commette peccato grave e manifesto, il quale è causa di scandalo ancor più grande nel prossimo. Pertanto la legge della Chiesa universale prevede che questa persona non sia ammessa alla Santa comunione”.

Non si tratta di un fulmine a ciel sereno: Cordileone ricorda alla Presidente di aver seguito le indicazioni pastorali dell’allora (2004) Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede Joseph Ratzinger, il quale raccomandava in questi casi di incontrare il politico, istruirlo circa l’insegnamento della Chiesa e avvertirlo delle conseguenze in caso di mancata cessazione della situazione di peccato. Si rammarica però di non aver mai ricevuto risposta alle sue numerose richieste di poter incontrare la Pelosi, avanzate da quando la democratica aveva proposto di rendere legge federale il contenuto della sentenza della corte Suprema Roe v. Wade in risposta all’approvazione in Texas, lo scorso settembre, della “Heartbeat Bill” che proibisce l’aborto dal momento in cui è possibile rilevare il battito cardiaco del feto.

In una Nota al proprio clero, pubblicata congiuntamente alla lettera, l’Arcivescovo di San Francisco chiarisce come la posizione della Pelosi sia divenuta sempre più estrema negli anni e in particolare negli ultimi mesi, giungendo a citare la propria “fede cattolica” a giustificazione della propria idea di aborto quale “scelta”.

Nella medesima nota Cordileone rigetta preventivamente l’accusa di fare dell’Eucaristia un’arma politica, ribadendo che il suo intento è pastorale. Ammette che la decisione non sia stata presa a cuor leggero, ma che sia stato spinto dalla cura per i tanti fedeli scandalizzati dalle posizioni della Pelosi e dal pericolo che queste costituiscono per l’anima della stessa.

Rivolgendosi infine ai fedeli della propria diocesi in un comunicato che spiega loro la decisione presa, l’Arcivescovo ammette il ruolo avuto dalle numerose lettere ricevute che esprimevano lo scandalo suscitato dalle posizioni assunte da figure pubbliche circa l’aborto.

Raccomanda loro preghiera e atti di penitenza in favore di Nancy Pelosi, sottolineando con compiacimento la sentita partecipazione alla scorsa campagna “una rosa e un Rosario per Nancy”. Da ultimo rinnova l’invito a prendere parte alle concrete attività pro vita della diocesi.

Si tratta di una misura che non è passata inosservata, né lo sarà in futuro. Cordileone stesso, con un laconico “il sacerdozio non è per i deboli di cuore…”, mette in guardia il proprio clero dal probabile aumento nel prossimo futuro di atti di disturbo e di violenza, che già si sono verificati in tutto il Paese in seguito alla fuga di notizie di un possibile ribaltamento della sentenza Roe v. Wade.

Qualcuno potrà ritenere che siano stati rispolverati metodi medioevali, di scontro tra potere spirituale e temporale. Tuttavia, oltre agli effetti sulla Pelosi cui è direttamente rivolto, questo provvedimento svolgerà una importante azione di catechesi dei fedeli, come pure dei non credenti, eliminando ogni ambiguità sul tema in ambito politico.

Prendendo esempio (e coraggio) altri pastori della Chiesa potrebbero auspicabilmente fare altrettanto nei confronti dei molti politici che, in ogni parte del mondo, incuranti degli effetti nefandi (e mortiferi, nel caso dell’aborto) considerano la fede come una vestaglia, buona solo tra le mura domestiche.

Che alla Casa Bianca debbano iniziare a temere l’arrivo del postino?

Samuele Salvador









26 maggio / L’Ascensione del Signore spiegata (bene) dal Catechismo di san Pio X





26MAG22


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by Aldo Maria Valli


Catechismo Maggiore di san Pio X


Dell’Ascensione del Signore

84

D. Che cosa si celebra nella festa dell’Ascensione?
R. Nella festa dell’Ascensione si celebra il giorno glorioso, in cui Gesù Cristo, in presenza dei suoi discepoli, sali per virtù propria al cielo, quaranta giorni dopo la stia risurrezione.

85

D. Per quali motivi Gesù Cristo è salito al cielo?
R. Gesù Cristo è salito al cielo,
1. per prendere possesso dell’eterno regno conquistato colla sua morte;
2. per prepararci il nostro luogo, e servirci di mediatore ed avvocato presso il Padre;
3. per mandare lo Spirito Santo a’ suoi Apostoli.

86

D. Nel giorno dell’Ascensione, entrò in cielo il solo Gesù Cristo?
R. Nel giorno dell’Ascensione non entrò in cielo Gesù Cristo solo, ma vi entrarono seco le anime degli antichi Padri, che aveva liberate dal limbo.

87

D. Come si trova Gesù Cristo in cielo?
R. Gesù Cristo in cielo siede alla destra di Dio Padre; cioè come Dio è uguale al Padre nella gloria, e come uomo è innalzato sopra tutti gli Angeli e tutti i Santi, e fatto Signore di tutte le cose.

88

D. Che cosa dobbiamo noi fare per celebrare degnamente la festa dell’Ascensione?
R. Per celebrare degnamente la festa dell’Ascensione dobbiamo fare tre cose:
1. adorare Gesù Cristo nel cielo come nostro mediatore e avvocato;
2. distaccare intieramente il nostro cuore da questo mondo, come da un luogo d’esilio, e aspirare unicamente al Paradiso, come alla nostra vera patria;
3. risolvere d’imitare Gesù Cristo nell’umiltà, nella mortificazione e ne’ patimenti, per aver parte alla sua gloria.

89

D. Che cosa devono fare i fedeli nel tempo che corre dalla festa dell’Ascensione sino alla Pentecoste?
R. Dalla festa dell’Ascensione sino alla Pentecoste i fedeli devono, ad esempio degli Apostoli, prepararsi a ricevere lo Spirito Santo col ritiro, col raccoglimento interno, e con perseverante e fervorosa orazione.

90

D. Perché nella festa dell’Ascensione, letto il vangelo della Messa solenne, si estingue e poscia si leva il cero pasquale?
R. Nella festa dell’Ascensione, letto il vangelo della Messa solenne, si estingue e poscia si leva il cero pasquale per rappresentare la dipartita di Cristo dagli Apostoli.

Fonte: sodalitium.biz






mercoledì 25 maggio 2022

L’esempio degli Stati Uniti ci spinge a combattere l’aborto senza compromessi



Da CR 1743


di Virginia Coda Nunziante, 18 Maggio 2022 ore 12:19


Tra qualche giorno ricorrerà nel nostro Paese il triste anniversario dell’approvazione della legge 194 che quarantaquattro anni fa, il 22 maggio 1978, approvò l’aborto in Italia. Da quel giorno ad oggi, i dati che provengono dall’Istituto Superiore di Sanità indicano in oltre 6 milioni i bambini eliminati nel grembo materno, cifra che riguarda solo gli aborti ospedalizzati ma che non conta gli aborti farmacologici. Sappiamo che il numero è ben superiore…

Non possiamo dunque dimenticare l’anniversario di una tragedia che ogni giorno si perpetua in Italia. C’è tuttavia una ragione di grande speranza per il futuro, che proviene dagli Stati Uniti, un paese tanto spesso indicato come simbolo di decadenza morale, ma che sembra anche capace di esprimere germi di rinascita e reazione morale.

E’ trapelata nei giorni scorsi la bozza di un testo di voto della Corte Suprema americana, secondo cui i princìpi su cui si basa la sentenza Roe vs Wade che ha legalizzato l’aborto nel 1973, sono in contraddizione con la Costituzione degli Stati Uniti. Se la Corte Suprema annullerà la famigerata sentenza Roe/Wade, questa decisione avrà un impatto straordinario, non solo negli Stati Uniti ma anche in tutti i nostri Paesi. La sentenza della Corte uscirà ufficialmente a giugno ma la notizia è stata probabilmente fatta filtrare per fomentare una reazione contro i giudici pro-life. Reazione che si è fatta subito sentire anche se per la legge americana vi sarebbe divieto assoluto di manifestare per cercare di influenzare i “decisori” (che in questo caso sono i Giudici ma potrebbero essere anche dei Ministri o altro). I numeri di telefono e gli indirizzi privati dei Giudici sono stati pubblicati sui social, le case sono state circondate da facinorosi, le famiglie minacciate… ma niente è stato fatto da parte dell’amministrazione Biden per impedire questa violenza.

Steven Mosher, presidente del Population Research Institute, da quarant’anni impegnato sui temi pro-life, assicura però che i Giudici non si lasceranno intimidire e la sentenza seguirà il suo corso. La storica decisione è destinata probabilmente a spaccare in due gli Stati Uniti poiché spetterà ad ogni singolo Stato stabilire la propria legge, visto che la decisione non sarà più del Governo federale. Il panorama attuale indica una metà di Stati dove l’aborto sarà praticabile e una metà dove invece sarà proibito, con leggi più o meno restrittive. A questo punto la battaglia dei movimenti pro-life si concentrerà negli Stati più liberal per cercare di invertire la rotta. Già si prevede che la grande Marcia che si è sempre svolta a Washington ogni mese di gennaio, nell’anniversario dell’approvazione della Roe/Wade, si sposterà in ogni singolo Stato. Le Marce per la vita si moltiplicheranno e con il tempo, rovesceranno le leggi ingiuste contro la vita.

Sono convinta che tutte le Marce per la Vita che si sono susseguite negli USA dal 1974 ad oggi, hanno svolto un ruolo importantissimo per tenere alta l’attenzione dell’opinione pubblica e dei politici sul tema della difesa della vita innocente. Starà molto a noi, alla società civile e ai politici, a non lasciar passare questo momento particolarmente propizio per far penetrare il giusto messaggio: l’aborto è un delitto di Stato e deve essere combattuto senza eccezioni e senza compromessi. La legge 194 può essere abrogata. In America il passo successivo sarà quello di togliere i fondi del Governo federale ad organizzazioni abortiste tipo Planned Parenthood. Anche in Italia dovremmo chiedere di tagliare i fondi che il Ministero della Sanità dedica all’aborto: invece di uccidere bambini aiutare le famiglie ad avere figli.

Alla vigilia della nuova manifestazione per la Vita del 21 maggio, ci auguriamo che il messaggio contro la legge 194 sia chiaro come lo è stato negli Stati Uniti per 49 anni: se non si fanno compromessi con la cultura della morte, la vittoria è possibile.






Il silenzio dei vescovi




Sono molto pochi i vescovi che oggi parlano, come dimostra il clamore attorno al caso Cordileone-Pelosi. Oggi il vescovo ha scarsissimo potere reale nella sua diocesi. Prima di tutto, a influenzarlo, c’è la curia, poi le cordate tra sacerdoti, le conferenze episcopali, i rapporti con Roma, ecc. Sullo sfondo il grande problema: l’ambiguità sulla dottrina. Di fronte a cui tutti, o quasi, tacciono.


IL FENOMENO
Riccardo Cascioli, 25-05-2022

Da tempo siamo davanti ad una situazione nuova: il silenzio dei vescovi cattolici. Non il silenzio delle commissioni episcopali o delle conferenze episcopali - quelle parlano anche troppo - ma il silenzio dei singoli vescovi, come singoli successori degli Apostoli.

L’arcivescovo di San Francisco, Salvatore Joseph Cordileone, ha indicato a tutti i sacerdoti della sua arcidiocesi di non dare la Comunione a Nancy Pelosi, cattolica, speaker della Camera e spinta sostenitrice dell’aborto di Stato. Il fatto è stato visto come un evento eccezionale e alcuni suoi confratelli hanno parlato di comportamento “eroico”. Letto al contrario, ciò dimostra che per mille che tacciono, uno solo parla. La percentuale è veramente molto bassa. Perfino i rabbini ebrei parlano di più dei vescovi cattolici: è dei giorni scorsi la notizia di aver diffidato lo Stato di Israele dall’aderire alla nuova gestione monocratica dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Ve lo immaginate qualche vescovo italiano che intervenga su un argomento simile? Quali i motivi di questo silenzio?

Una prima cosa, molto concreta, da osservare è che il vescovo oggi ha scarsissimo potere reale, ammesso che ancora ne abbia, nella sua diocesi. Si può dire che sia esautorato di fatto. Prima di tutto c’è la curia, ossia il vicario generale, il consiglio episcopale e gli officiali di curia. Il vescovo deve contrattare o comunque tenere conto delle loro posizioni e resistenze, che riflettono l’equilibrio dei poteri reali nella realtà diocesana. Nessun vescovo può sfuggire a queste logiche, che spesso sono di ricatto.

Poi ci sono le cordate tra i sacerdoti in base alle loro affinità elettive, alla loro visione teologica e della pastorale, alle loro amicizie maturate durante lo studio in seminario o in altri luoghi, ai loro legami personali con il vescovo precedente, alle loro aspettative di carriera ecclesiastica, ai loro contatti con Roma. Nessun presbiterio diocesano è immune da queste dinamiche, varia solo il grado della loro pesantezza.

Poi ci sono i confratelli riuniti nelle conferenze episcopali regionali e nazionali. Questo segna una ragnatela in cui ogni vescovo rimane impaniato, specialmente in un tempo come il nostro in cui un vescovo può essere destituito - è stato il caso di Porto Rico (riguardante mons. Daniel Fernández Torres) - per non aver saputo “collaborare” con i suoi confratelli e in cui l’unico valore che conta è la cosiddetta sinodalità. I legami nelle conferenze episcopali sono spesso molto negativi, impediscono ai vescovi di dire la propria, impongono scelte pastorali impegnative e basate su un consenso formale, per compiacenza, o per evitare i conflitti. Nel clima di sospetto e di incertezza di questo pontificato, i singoli vescovi si premurano di non dire mai nulla su niente. I documenti collettivi sono quindi smunti e generici, parlano molto ma non dicono niente nemmeno quelli.

Poi c’è il magistero dell’attuale Papa che spesso saltella di qua e di là, dice e non dice, oppure dice e poi contraddice. Si slancia e poi si ritira, butta il sasso e nasconde la mano, dice e poi smentisce, parla di trasparenza ma poi colpisce di netto, tollera molte cose ma su altre è intransigente, parla di misericordia ma non perdona. I singoli vescovi faticano a seguirlo. I nuovi nominati rispondono a queste medesime caratteristiche e quindi moltiplicano nelle diverse conferenze episcopali regionali questa incertezza da stop and go. C’è incertezza, ma anche inquietudine, sospetto reciproco, senso di solitudine, cautela nel parlare anche in privato. Solo dei vescovi eroici possono superare questa situazione, ma l’eroismo uno non se lo può dare se non ce l’ha. Da qui il compromesso del silenzio.

Poi ci sono i rapporti con i dicasteri della Santa Sede. Un vescovo non ha potere sugli insegnanti del suo seminario, se questo ha dei legami con la Congregazione per l’educazione cattolica oppure con delle università pontificie. Ancora più non ne ha se si tratta di un seminario interdiocesano (cosa ormai assai frequente e in aumento, data la necessità per ovvi motivi di accorpare l’istruzione dei seminaristi di più diocesi limitrofe). Il vescovo oggi ordina sacerdoti sulla cui formazione non ha nessun potere di intervento. Se nota che in seminario ci sono insegnanti atei può farci ben poco. Sono molti, purtroppo, i vescovi che aspettano i 75 anni come una liberazione.

Infine c’è l’argomento forse più importante. La dottrina non più chiara, lo sperimentalismo pastorale azzardato e imposto, l’incertezza sulle cose da insegnare, l’ordine implicito di dire solo cose che non siano divisive, l’obbligo di dimostrarsi aperti e misericordiosi ad oltranza, l’indicazione perentoria di non opporsi mai frontalmente al mondo. Capita così che o il vescovo si adegua o preferisce tacere. Non è detto che tutti quanti tacciono è perché non si adeguano, né è detto che tacere sia la cosa migliore da fare in questo momento per il bene della Chiesa. Però, intanto, tacciono.





martedì 24 maggio 2022

Avvenire e aborto, il fascino discreto della Legge 194




Con un riquadro legato all'articolo che dava conto della Manifestazione per la vita del 21 maggio a Roma, il quotidiano dei vescovi italiani difende la legge 194 del 1978 che in Italia ha introdotto l'aborto. E soprattutto lo fa mentendo spudoratamente su obiettivi e contenuti della legge. Un segnale inviato ai palazzi della politica ma anche agli organizzatori della manifestazione.



Riccardo Cascioli, 24-05-2022

Il segnale politico è chiaro: la Chiesa italiana – ovvero la sua gerarchia - difende la legge 194 che ha introdotto l’aborto nel 1978, ma lo fa in modo discreto, con una breve colonnina pubblicata da Avvenire (il giornale della Conferenza Episcopale Italiana, CEI) a fianco del resoconto della manifestazione per la vita svoltasi a Roma sabato 21 maggio. Il testo non è firmato, ma è chiaramente impensabile che su un tema tanto delicato possa uscire una nota del genere – molto precisa in quel che vuole comunicare - per distrazione o per l’iniziativa di un redattore disinformato o malintenzionato. E non può certo essere casuale il momento scelto, ovvero all'indomani della Manifestazione per la vita, a fianco del resoconto (neutrale) di cronaca, come a voler rassicurare qualcuno che comunque la Chiesa farà di tutto per evitare che venga messa in discussione la legge 194.


Cosa dice infatti questa nota che sotto l’etichetta “Da sapere” viene titolata “L’obiettivo della 194”? Vale la pena riportare il testo completo:

“Prima che un diritto è e resta una scelta drammatica ed estrema, quella dell’aborto. Che la legge italiana consente dal 22 maggio del 1978 nella misura in cui un bene giuridico costituzionalmente sancito – il diritto alla vita del concepito – si pone in insanabile contrasto con un altro di pari valore – la salute fisica e psichica della gestante.
Ecco il vero spirito della legge 194 sull’interruzione volontaria di gravidanza, che traspare da tutto il suo testo e che tante sentenze hanno confermato nel corso degli anni.
Lo Stato riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio, vi si legge nell’articolo 1. E riconosce, sì, il diritto ad abortire, ma imponendo ogni volta il tentativo di rimuovere le cause per cui esso viene chiesto e subordinandolo a procedure rigide”.

Intanto c’è da chiedersi che senso ha fare un colonnino sulla legge 194 quando questa non era a tema della Manifestazione per la vita e men che meno se ne parla nell’articolo di cronaca. Già da questo traspare la volontà di mandare un messaggio. Ma quello che è scandaloso sono la quantità di menzogne che il giornale dei vescovi riesce ad accumulare in così poche righe. Ci limitiamo a sottolineare le questioni fondamentali.

La legge italiana, ci dice Avvenire, consentirebbe l’aborto solo come soluzione di un insuperabile contrasto tra due beni giuridici (costituzionalmente sanciti) di pari valore. Falso. Intanto perché la vita non è espressamente tutelata dalla Costituzione sin dal concepimento, ma indirettamente: l’articolo 31 impone infatti la “protezione della maternità”, in quanto rientra tra gli adempimenti dei “compiti relativi” alla famiglia. Inoltre, se il problema fosse stato regolare il rapporto tra la vita del concepito e la salute della madre, la legge non sarebbe servita a nulla perché ci aveva già pensato la Corte Costituzionale tre anni prima. Con la sentenza numero 27 del 1975 la Corte aveva infatti già deciso che in questi casi a prevalere è la salute della madre.

E ancora: si vorrebbe far credere ai lettori che l’aborto in Italia è consentito soltanto in questi casi drammatici in cui si deve scegliere tra la madre e il bambino. Senonché casi del genere si possono contare ogni anno sulle dita di una sola mano, mentre dal 1978 ad oggi sono stati praticati in Italia circa 6 milioni di aborti, senza considerare che ormai tra RU486 e pillole del giorno dopo e dei 5 giorni dopo è diventato impossibile un conteggio esatto.
In realtà l’aborto in Italia è consentito praticamente sempre nei primi 90 giorni: il rischio per la salute fisica o psichica può essere infatti relazionato allo “stato di salute” della madre, “o alle sue condizioni economiche, sociali e familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito” (articolo 4). E dopo i 90 giorni “quando la gravidanza e il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna” e “quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna” (art. 6).

Ci vuole una bella dose di malafede per affermare che in Italia l’aborto sia una scelta estrema, così come nascondersi dietro al titolo della legge e all’articolo 1 che afferma come “lo Stato riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio”. Si tratta di un chiaro specchietto per le allodole, visto che di tutela della maternità si parla soltanto all’articolo 2 della legge ed esclusivamente per blindare il sistema dei consultori statali (decisivo per diffondere la pratica dell’aborto), del cui finanziamento si parla poi all’articolo 3. Dopodiché, dall’articolo 4 al 22 (in pratica tutta la legge) si parla esclusivamente di aborto, anzi di “interruzione volontaria della gravidanza” come il linguaggio politicamente corretto prescrive. E delle previste pene pesanti per chiunque causa l’aborto al di fuori di quelle che Avvenire considera “procedure rigide”, ci sanno dire dal giornale della CEI quante ne sono state comminate in questi 44 anni?

La realtà è che il vero spirito della legge 194 è la legalizzazione dell’aborto, fondata sull’autodeterminazione della donna. Peraltro il direttore di Avvenire era allora già cresciuto abbastanza per poter ricordare in quale clima culturale e politico è stata approvata la legge 194. “Il corpo è mio e lo gestisco io” era forse uno slogan per rivendicare il valore sociale della maternità? Le migliaia di aborti illegali praticati dalle militanti radicali – Emma Bonino in testa – per spingere il Parlamento a legalizzare l’aborto, intendevano promuovere una crociata a tutela della maternità?

La risposta è ovvia. C’è solo dunque da chiedersi quale sia il vero obiettivo di Avvenire e delle gerarchie ecclesiastiche a cui risponde. Di sicuro manda un segnale rassicurante a certi poteri: lasciate pure gridare un po’ in piazza questi pro-life, non vi preoccupate, sono innocui; in Italia non accadrà come negli Stati Uniti, è la Chiesa cattolica stessa a difendere la legge sull’aborto e a spegnere sul nascere qualsiasi velleità di rimetterla in discussione.
Quindi c’è un segnale chiaro anche per gli organizzatori della Manifestazione: fate pure delle belle marce, parlate della bellezza della vita, promuovete una cultura della vita, ma restate bene dentro il recinto, non provate neanche a uscire dai confini segnati, sennò restate da soli e niente più copertura mediatica della stampa cattolica istituzionale né saluti del Papa al Regina Coeli.
E certamente, nel momento del passaggio di consegne della presidenza CEI dal cardinale Gualtiero Bassetti al suo successore, che sarà deciso nei prossimi giorni, si tratta anche di un modo per blindare il futuro presidente (ammesso che ne avrà bisogno).





domenica 22 maggio 2022

Come santa Rita salvò l’anima del marito







Il Signore dispose che santa Rita passasse attraverso la prova di un duro matrimonio, così da poter salvare il marito e i figli.

Un giovane di una nobile e facoltosa famiglia di Cascia, Paolo Ferdinando, chiese in sposa la figlia di Antonio e Amata. I buoni genitori, conoscendo il proposito di consacrarsi di Rita, cercarono di distogliere il giovane dalle sue intenzioni. Purtroppo questi era un tipo violento e brutale e, di fronte alla possibilità di un rifiuto, cominciò a lanciare le più terribili minacce di vendetta.

Posta di fronte alla dolorosa alternativa di cedere alla richiesta del pretendente, rinunziando al suo desiderio di consacrazione a Dio, oppure di provocare col suo rifiuto una sanguinosa e tragica rappresaglia, Rita fu consigliata dal suo confessore di abbracciare la croce del matrimonio.

Dopo pochi mesi di vita coniugale, il giovane cominciò a sfogare anche in famiglia la sua brutale violenza. La santa sposa sopportò con pazienza ogni asprezza: percosse, insulti, bestemmie, torti senza numero. Ella si rifugiò nella preghiera e nella penitenza, offrendo a Dio lacrime e sacrifici per la conquista di quell’anima.

Con il passare degli anni, il Signore esaudì le suppliche di Rita, premiandone la pazienza con la conversione dello sposo. Vinto dall’esempio di bontà ricevuto, trasformato dalla grazia di Dio, Paolo chiese perdono alla sposa di averla fatta tanto soffrire, ritornò alle pratiche della fede cristiana e riportò pace nella famiglia, ove frattanto erano nati due bambini: Giacomo e Paolo Maria.

E quando accorse dal marito morente, perché questi aveva subito un agguato, vide che la mano sinistra dell’uomo stringeva un Rosario. La Vergine, che la Santa aveva invocato per anni fra tante lacrime al fine di ottenere la conversione di Paolo, lo aveva assistito nel tragico trapasso all’eternità.





sabato 21 maggio 2022

Il card. Burke afferma che il Papa deve destituire i vescovi tedeschi se non rinunciano alle eresie del loro Cammino sinodale




Apprendiamo da Infocatólica che anche il card. Burke - che già si era pronunciato sull' Attacco tedesco alla “Signoria di Cristo” [qui] - ha dichiarato che in quanto pontefice e successore di Pietro è compito di Bergoglio correggere i vescovi tedeschi. Ha anzi affermato che il papa deve destituire i vescovi tedeschi se non rinunciano alle eresie del loro Cammino sinodale e non si discostano dagli errori nella Chiesa del Paese mitteleuropeo. Riprendo le dichiarazioni virgolettate nella nostra traduzione.
Molti di quei vescovi si sono pronunciati a favore di cambiamenti nella dottrina e nella disciplina della Chiesa - per esempio, in relazione alla valutazione dell'omosessualità, del celibato sacerdotale o dell'ordinazione delle donne - o non si sono opposti espressamente a tali proposte nel quadro del “Cammino sinodale”.


Secondo il cardinale Burke, in un'intervista pubblicata da Azione Cattolica per la Fede e la Famiglia, il Santo Padre "deve attirare l'attenzione di questi Vescovi e chiedere loro di rinunciare alle eresie insieme alle posizioni contrarie alla sana disciplina della Chiesa. E se non rinunciano ai loro errori e non si correggono, allora deve rimuoverli. Questa è la situazione a cui siamo arrivati".





"Il romano pontefice, successore di Pietro, è per definizione principio di unità nella Chiesa", ha sottolineato il cardinale. “È suo compito correggere questi vescovi. E se non accettano la correzione fraterna, se non accettano la loro correzione gerarchica come vescovi della Chiesa universale, devono essere applicate misure adeguate affinché i fedeli sappiano che questi vescovi non li guidano nella fede cattolica ».


Ed ha aggiunto che "Purtroppo, la confusione è causata e sorretta da coloro che sono chiamati ad essere maestri della fede e pastori del gregge con chiarezza e coraggio".


Vescovi che non rappresentano chiaramente l'insegnamento cattolico, ha detto il cardinale, "lasciano il gregge e non si dimostrano pastori ma lavoratori salariati che cercano di adattare l'insegnamento della Chiesa alla visione del mondo, a una visione laica del mondo, a una visione del mondo senza Dio".


Il cardinale Burke è uno degli oltre 100 firmatari di una lettera aperta [qui] indirizzata al vescovo Georg Bätzing, presidente della Conferenza episcopale tedesca. Nella loro lettera, vescovi e cardinali di tutto il mondo [qui] avevano avvertito che il Cammino sinodale tedesco minaccia di condurre la Chiesa in un vicolo cieco di effetti distruttivi.


Bätzing ha respinto le critiche [qui], così come le analoghe preoccupazioni espresse dai vescovi di Scandinavia e Polonia [qui].







venerdì 20 maggio 2022

20 maggio: San Bernardino da Siena. L’Immacolata gli guarì la gola per poter meglio predicare





da I Santi e la Madonna, di padre Stefano Maria Manelli, volume 8


San Bernardino da Siena è stato certamente uno dei più grandi predicatori che l’Italia abbia mai avuto. Vivace e profondo, forte e geniale, luminoso e pratico attirava, in maniera così potente, che le città se lo contendevano e le più celebri piazze e cattedrali si gremivano fino all’inverosimile per ascoltarlo, dal centro al nord Italia.

Per 27 anni san Bernardino sarà predicatore instancabile, ammiratissimo ed efficacissimo, nell’istruire le genti e nell’illuminare le coscienze sul cammino di salvezza da percorrere.

I suoi viaggi apostolici lo porteranno in Lombardia e nella Liguria, nel Piemonte e nel veneto, nel Lazio, negli Abruzzi. Quando stava per scendere nel meridione, arrivò la sua ora di lasciare questa terra per il Regno dei cieli.

Ma, prima di iniziare la sua attività prodigiosa di predicatore, san Bernardino aveva un gravissimo limite, che doveva compromettere del tutto la missione di banditore della Parola di Dio per città e paesi: egli aveva una voce flebile ed era fragile nelle corde vocali per un male che non si riusciva né a definire né a debellare. Se riflettiamo che a quei tempi non esistevano certo gli impianti di microfoni e altoparlanti di cui disponiamo oggi, comprendiamo subito come dovessero risultare indispensabili al predicatore la sonorità della voce e la robustezza delle corde vocali, specie se si doveva parlare a grandi folle nelle ampie cattedrali e, più ancora, nelle vastissime piazze. L’ascolto e la comprensione delle parole del predicatore erano affidate proprio al vigore della sua voce, capace di coprire una vasta area gremita di gente.

Come andarono le cose per san bernardino? Andarono così: senza far troppo ricorso a medici e a medicine, egli si rivolse alla Madonna, alla mediatrice di ogni grazia temporale e spirituale. La pregò e la supplicò dicendole che, se lui doveva farsi annunciatore della Buona Novella, gli guarisse la gola e gli donasse la voce necessaria ad essere da tutti ascoltato e compreso. Pregò e insistette, con fiducia umile e serena.

Che cosa successe? Un giorno, mentre egli era immerso nella preghiera, vide all’improvviso venire dall’alto un globo di fuoco incandescente che gli toccò la gola per qualche attimo e subito sparì.

San Bernardino si scosse dalla rapida visione con un grido di esclamazione e si accorse immediatamente di essere guarito dal mal di gola, per grazia della Celeste Mediatrice e Madre, a cui rivolse subito un’accesissima preghiera di filiale riconoscenza, con il cuore commosso ed in festa.

Era evidente che la Madonna lo voleva predicatore.

Dio è Verità, Bontà e Bellezza

Il cammino dei Tre Sentieri




giovedì 19 maggio 2022

Conferenza di don Enrico Bini su due tomisti pratesi del Novecento: mons. Antonio Livi e mons. Brunero Gherardini

 



LECTIO SANCTI THOMAE

anno XIX

 

Conferenze sul pensiero di S. Tommaso d’Aquino

(1225-1274), dottore della Chiesa.

 

 

“Andate a S. Tommaso. Cercate e leggete le opere di S. Tommaso non solo per trovare in quei ricchi tesori un sicuro nutrimento per lo spirito, ma anche, e prima ancora, per rendervi conto personalmente della incomparabile profondità della dottrina che vi è contenuta” (Paolo VI).

 

 

Sessione primaverile

 

 

Ricordo di due tomisti pratesi del Novecento: mons. Antonio Livi e mons. Brunero Gherardini

Relatore: Don Enrico Bini

 

 

·  Lunedì 30 maggio 2022 ore 21,00

 

 

 

 

Sede: Parrocchia dello Spirito Santo

Via G. Silvestri, 21

59100- Prato

 

 


mercoledì 18 maggio 2022

Dietro l’eutanasia. Così il civilissimo Canada sta sopprimendo i poveri




18MAG22

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by Aldo Maria Valli

di Yuan Yi Zhu*

The Spectator

C’è una battuta, spesso ripetuta, del poeta Anatole France secondo cui “la legge, nella sua maestosa uguaglianza, proibisce ai ricchi e ai poveri di dormire sotto i ponti, di mendicare per le strade e di rubare il pane”. Ciò che la Francia di certo non prevedeva è che un intero paese – e per giunta ostentatamente progressista – ha oggi deciso di prendere il suo sarcasmo alla lettera e di portarlo alle estreme conseguenze.

Dall’anno scorso, la legge canadese, in tutta la sua maestosità, permette sia ai ricchi che ai poveri di suicidarsi se sono troppo poveri per continuare a vivere con dignità. In effetti, il sempre generoso Stato canadese pagherà persino per la loro morte. Quello che non farà è spendere soldi per permettere loro di vivere invece di uccidersi.


Come con la maggior parte dei pendii scivolosi, tutto è iniziato con una forte negazione dell’esistenza. Nel 2015, la Corte Suprema del Canada annullò ventidue anni di giurisprudenza dichiarando incostituzionale il divieto del paese al suicidio assistito e respingendo allegramente i timori che la sentenza avrebbe “iniziato una discesa lungo un pendio scivoloso verso l’omicidio” contro i vulnerabili, come dimostrato con “esempi aneddotici”. L’anno successivo, il Parlamento emanò debitamente una legislazione che consente l’eutanasia, ma solo per coloro che soffrono di una malattia terminale la cui morte naturale è “ragionevolmente prevedibile”.


Ci sono voluti solo cinque anni prima che la proverbiale pendenza si facesse ancora più scivolosa, quando il Parlamento canadese ha promulgato il disegno di legge C-7 , una legge radicale sull’eutanasia che ha abrogato il requisito del “ragionevolmente prevedibile” e il requisito che la condizione di salute dovrebbe essere “terminale”. Ora, fintanto che qualcuno soffre di una malattia o disabilità che “non può essere alleviata in condizioni che ritieni accettabili “, può usufruire gratuitamente di ciò che ora è noto eufemisticamente come “assistenza medica nella morte” (Maid in breve) .


Ben presto, i canadesi di tutto il paese scoprirono che, sebbene avrebbero preferito vivere, erano troppo poveri per migliorare le loro condizioni fino a un livello accettabile.

Non a caso, il Canada ha una delle spese sociali più basse di qualsiasi paese industrializzato, le cure palliative sono accessibili solo a una minoranza e i tempi di attesa nel settore sanitario pubblico possono essere insopportabili, al punto che nel 2005 la stessa Corte Suprema che ha legalizzato l’eutanasia ha dichiarato che i tempi di attesa sono una violazione del diritto alla vita.


Molti nel settore sanitario sono giunti alla stessa conclusione. Anche prima che venisse emanato il disegno di legge C-7, le segnalazioni di abusi erano all’ordine del giorno. Un uomo con una malattia neurodegenerativa ha testimoniato al Parlamento che infermieri e un esperto di etica medica in un ospedale hanno cercato di costringerlo a uccidersi minacciandolo di bancarotta con costi aggiuntivi o cacciandolo dall’ospedale e negandogli l’acqua per venti giorni. Praticamente ogni gruppo per i diritti dei disabili nel paese si è opposto alla nuova legge, ma è stato inutile: per una volta, il governo ha ritenuto opportuno ignorare questi gruppi altrimenti impeccabilmente progressisti.

Da allora, le cose sono solo peggiorate. In Ontario una donna è stata costretta all’eutanasia perché i suoi benefici abitativi non le hanno permesso di ottenere un alloggio migliore, il che non ha aggravato le sue allergie paralizzanti. Un’altra donna disabile ha chiesto di morire perché “semplicemente non poteva permettersi di continuare a vivere”. Un’altra ha chiesto l’eutanasia perché il debito legato al Covid l’ha resa incapace di pagare il trattamento che ha mantenuto il suo dolore cronico sopportabile. Sotto l’attuale governo, i canadesi disabili hanno ricevuto 600 dollari in assistenza finanziaria aggiuntiva durante il Covid; gli studenti universitari hanno ricevuto 5000 dollari.


Quando la famiglia di un disabile di trentacinque anni che ha fatto ricorso all’eutanasia è arrivata alla casa di cura in cui viveva, ha visto “urina e feci sul pavimento… punti in cui i tuoi piedi si stavano semplicemente attaccando. Ad esempio, se stavi al suo capezzale, quando te ne andavi il tuo piede era letteralmente bloccato”. Secondo il governo canadese, la legge sul suicidio assistito vuole “dare priorità all’autonomia individuale dei canadesi”; ci si può chiedere, nel soppesare la morte sulla vita, quanta autonomia avesse un uomo disabile che giaceva nella propria sporcizia.

Nonostante l’insistenza del governo canadese sul fatto che il suicidio assistito riguarda l’autonomia individuale, ha anche tenuto d’occhio i vantaggi fiscali. Già prima dell’entrata in vigore del disegno di legge C-7, il responsabile del bilancio parlamentare del paese ha pubblicato un rapporto sui risparmi rispetto ai costi che creerebbe: mentre il vecchio regime Maid ha risparmiato 86,9 milioni di dollari all’anno (una “riduzione dei costi netti”, nelle sterili parole del rapporto) il C-7 creerebbe ulteriori risparmi netti di 62 milioni di dollari all’anno. L’assistenza sanitaria, in particolare per chi soffre di malattie croniche, è costosa; ma il suicidio assistito costa al contribuente solo 2.327 dollari per “caso”. E, naturalmente, coloro che devono fare affidamento interamente sull’assistenza medica fornita dal governo rappresentano un onere molto maggiore per l’erario rispetto a coloro che hanno risparmi o un’assicurazione privata.


Eppure i media generosamente sovvenzionati del Canada, con alcune onorevoli eccezioni, hanno espresso poca curiosità per l’uccisione dei cittadini in uno dei paesi più ricchi del mondo. Forse, come molti medici, i giornalisti hanno paura di essere accusati di essere “non progressisti” se mettono in discussione la nuova cultura della morte, accusa fatale negli ambienti politicamente ben educati. L’emittente pubblica canadese, che nel 2020 rassicurava i canadesi che non c’era “nessun legame tra la povertà e la scelta della morte medicalmente assistita“, ha avuto ben poco da dire sugli sviluppi successivi.

L’anno prossimo le porte si apriranno ancora di più quando coloro che soffrono di malattie mentali – un altro gruppo sproporzionatamente povero – potranno beneficiare del suicidio assistito. E si parla già di consentire l’accesso all’eutanasia anche ai “minori maturi”.

Ma ricordiamo: i pendii scivolosi sono sempre un errore.

*ricercatore senior presso il Judicial Power Project di Policy Exchange e ricercatore presso il Nuffield College di Oxford

Fonte: spectator.co.uk







martedì 17 maggio 2022

Gli ultimi italiani. Impietoso Roberto Volpi




Foto: Gaetano Chierici, Le gioie infantili, (1895)




Samuele Salvador, 17  MAG 2022

Un quadro impietoso quello descritto dal demografo Roberto Volpi nel suo ultimo saggio, Gli ultimi italiani (Solferino, Milano 2022), un brutto sogno dal quale ci si vorrebbe svegliare, una cattiva notizia che si preferirebbe non ricevere: la popolazione italiana ha intrapreso una traiettoria che potrebbe portarla, già nel prossimo secolo, all’estinzione.

Numeri e dati ufficiali alla mano, ma nello stile scorrevole che gli è proprio, l’autore analizza le nuove previsioni dell’Istat che danno la popolazione italiana a 47,6 milioni nel 2070 (12,1 milioni in meno rispetto agli abitanti al 2020, anno di inizio delle previsioni 2020-2070), che diverrebbero 40 milioni alla fine del secolo, se non ancora meno. Un vero e proprio crollo, unito ad un drastico invecchiamento, che appare, tragicamente, del tutto realistico.

La ragione sta nella natalità, o per meglio dire denatalità: dagli anni ’70 in Italia nascono sempre meno bambini e le morti oramai sopravanzano largamente le nascite. La condizione demografica ordinaria, normale, di più nati che morti, nel biennio 2018-2019 si è registrata solo in una delle 107 province italiane (quella di Bolzano) ed anzi 6 province su 10 presentavano oltre 150 morti ogni 100 nati.

Volpi individua quale primaria causa della denatalità la progressiva riduzione quantitativa dei matrimoni. Sottolinea che tra questi sono in continua diminuzione quelli religiosi, statisticamente i più stabili e prolifici. Nota inoltre come l’introduzione del divorzio abbia indotto una deresponsabilizazione e, rendendo incerto il perdurare del matrimonio, lo abbia fatto divenire una scelta di vita meno appetibile, come emerge dall’aumento delle coppie di fatto e dalla più recente diffusione delle coppie di fatto non conviventi.

Inoltre dimostra come nel nostro Paese le nascite siano influenzate negativamente dall’innalzamento dell’età media alla quale le donne si sposano e più in generale hanno il primo figlio.

Ne emerge uno scenario sconfortante: un’Italia spopolata ed invecchiata, anche e soprattutto nel Mezzogiorno, con la desertificazione dei piccoli paesi, la riduzione delle grandi città, lo spopolamento della montagna e delle colline. Fenomeni, è bene ricordarlo, già in atto oggi.

Volpi tuttavia, oltre all’appello all’incentivazione con ogni mezzo della natalità, propone dei rimedi che favoriscano la formazione di famiglie giovani: accorciare i percorsi educativi e professionali di studio; lavorare sul piano programmatico e legislativo alla creazione di un mercato del lavoro aperto, il più possibile indirizzato e favorevole ai giovani; ripensare i meccanismi di un ascensore so­ciale basato sul merito che possa generare stabilità economica anche per i giovani.

L’autore intende insomma convincere che la questione demografica debba diventare prioritaria nel dibattito pubblico e lo fa con argomenti persuasivi: ne nascerà certamente un senso di urgenza, considerando che ogni anno che passa diminuiscono i giovani ed aumentano i vecchi, e che la forbice si amplia inesorabile.

La lettura di queste pagine riserva anche diversi spunti che possono e debbono orientare l’impegno sociale dei prossimi decenni. Con tutta probabilità assisteremo ad una profonda trasformazione nella composizione della società che avrà dei risvolti quasi antropologici: con la preponderanza dei figli unici (laddove vi saranno) verrà meno la rete parentale costituita da fratelli, zii, cugini…; rimarrà la sola parentela verticale con un progressivo isolamento degli individui. Ne conseguirà uno sfilacciamento ed allontanamento della stessa società. Se a ciò si aggiungono i mutati costumi affettivi vi sarà una quota sempre maggiore di popolazione di “famiglie unipersonali” (persone che vivono sole), stimata fino al 40% e oltre. Condizioni che, a nostro parere, potrebbero rendere la popolazione pericolosamente incline ad uno Stato leviatano pervasivo e centralista.

Di contro l’enorme differenza tra i territori nella densità di popolazione (si toccheranno rapporti di 100 a 1 tra metropoli e campagna) si ripercuoterà inevitabilmente nei costumi e nei rapporti sociali, marcando nette differenze all’interno del Paese e rendendo difficili una direttrice nazionale e politiche generalizzate. Ciò, sempre a parer nostro, potrebbe spingere all’adozione del federalismo o comunque riforme nella direzione di una maggiore sussidiarietà.

Il testo non affronta il tema ma con tutta evidenza la diminuzione e l’invecchiamento degli italiani si ripercuoteranno sull’economia: vi sarà una diminuzione del PIL? Data la quantità ingente di debito pubblico, quali effetti avrà la demografia sul bilancio statale? Sarà necessario trovare proposte credibili a questi problemi anche perché verosimilmente dagli ambienti progressisti giungeranno due risposte: da un lato la mutualizzazione del debito all’interno dell’unione Europea con una parallela ed ulteriore spinta alla centralizzazione; dall’altro il ricorso all’immigrazione, che dovrebbe assumere proporzioni enormi (centinaia di migliaia di arrivi ogni anno) con seri e fondati problemi di integrazione che ne conseguirebbero e che sono ben noti nell’Europa settentrionale. Volpi per di più ridimensiona molto l’effetto positivo sul piano demografico apportato dall’immigrazione, che paragona ad un paracadute che rallenta ma non arresta la caduta.

In ogni caso appare evidente che la questione non possa essere elusa e che a tutti i livelli sociali si debba assumere una prospettiva di lungo respiro; chi intende impegnarsi in politica, ad esempio, dovrà considerare che le decisioni attuali avranno effetti concreti solo nei prossimi decenni: infatti un eventuale aumento della natalità oggi significherebbe un potenziale aumento della popolazione solamente tra venti-trent’anni (quando cioè le donne avranno raggiunto l’età fertile).

Naturalmente il futuro qui descritto è tutt’altro che ineluttabile: Dio, vero Signore della Storia, e la libertà dell’uomo non possono essere racchiusa in modelli matematici, tuttavia questo libro costituisce un importante monito che aiuta a dare il giusto peso alle priorità odierne ed a prepararsi con realismo alle sfide di domani.

Samuele Salvador




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lunedì 16 maggio 2022

Come il progressismo ha distrutto la scuola italiana







di Federico Catani

Risale al 1967 il “manifesto” della nuova scuola italiana, ovvero la celebre Lettera ad una professoressa di don Lorenzo Milani. Il prete di Barbiana voleva una scuola diversa, democratica, non elitaria, vicina al popolo. E cosa proponeva? Di eliminare la letteratura e la grammatica, viste come materie che umiliavano i poveri. Ai figli dei contadini, diceva, bisognava insegnare come si lavorava i campi. Solo così non si sarebbero sentiti inferiori e non avrebbero percepito la scuola come un’istituzione che li escludeva.

A distanza di tanto tempo, questa visione dell’istruzione appare in tutto il suo delirio. Eppure all’epoca venne esaltata da molti come una grande e benefica novità. Ed anche oggi non mancano i suoi estimatori.

Attualmente abbiamo davanti agli occhi la catastrofe che la Lettera ha provocato. Una scuola pensata e fatta in nome dei più poveri, ma che ha portato solo a un livellamento verso il basso, ad un egualitarismo estremo che penalizza i meritevoli e svantaggia proprio i ceti più bassi che dice di voler difendere e valorizzare.

Questa è la tesi di fondo del libro “Il danno scolastico. La scuola progressista come macchina della disuguaglianza” (La nave di Teseo, Milano 2021), di Paola Mastrocola e Luca Ricolfi. I due autori, rispettivamente docenti al liceo e all’università, mette in luce con dolore e senza pietà tutte le contraddizioni e le mancanze dell’attuale sistema scolastico italiano. La cui crisi va fatta risalire alla scuola media unica, nel 1962, passando per la riforma dell’esame di maturità e il libero accesso alle università del 1969 sino ad arrivare alle devastanti riforme Berlinguer degli anni 2000, alle quali nessun successivo governo ha voluto porre realmente mano.

Il J’accuse è rivolto al mondo progressista (ma anche alla cosiddetta destra, che non si è mai preoccupata troppo di questi temi). Infatti – afferma la prof.ssa Mastrocola – «è la cultura progressista che si è battuta per la democratizzazione della scuola; è la cultura progressista che ha inteso la democratizzazione non come mettere la cultura alta a disposizione di tutti, ma come diritto al “successo formativo”; è la cultura progressista che ha demonizzato gli insegnanti che si opponevano all’abbassamento dell’asticella, o semplicemente erano contrari a rilasciare falsi attestati».



Gli amari frutti della scuola progressista


Ad alcuni questo libro potrà apparire un testo nostalgico. Tuttavia si tratta solo della descrizione di cosa abbiamo perso in questi anni di scuola “democratica” e “progressista” e della constatazione degli amari frutti raccolti dalle varie riforme. Frutti ben riassunti dalla Mastrocola quando scrive che oggi «mediamente almeno un terzo di una classe di prima liceo fa errori gravi di ortografia, non ha nessuna nozione di punteggiatura, confonde una congiunzione con un avverbio, non sa fare l’analisi logica di una frase né l’analisi di un periodo; non è in grado di fare un discorso orale più lungo di un minuto; non comprende un romanzo del Novecento; non sa costruire un testo organizzandolo su basi logiche ma affianca solo le frasi una accanto all’altra, scarne e banali, senza alcuna capacità di raccontare, di esprimere compiutamente un pensiero, una riflessione, un’opinione».

Del resto – e chi ha figli o nipoti a scuola lo saprà benissimo – «un ragazzo degli anni duemila non solo sostiene un esame di maturità farsa, ma ha imparato fin dalla scuola media che può permettersi benissimo di studiare solo in prossimità dell’interrogazione (le interrogazioni sono “programmate”), e che quando sarà interrogato lo sarà solo su piccole porzioni di programma. E più recentemente, dopo l’introduzione massiccia degli strumenti di valutazione “a crocette”, sa perfettamente che quello su cui deve veramente attrezzarsi non è a rispondere, cioè a costruire una risposta riproducendo lui stesso un discorso, un ragionamento, un’argomentazione, ma è a selezionare una risposta fra un piccolo numero di risposte preconfezionate. A valutarlo, infatti, saranno sempre di meno esseri umani, ma quiz, test, questionari che una macchina provvederà a elaborare e trasformare in punteggi».

Questo accade alle superiori. Ma all’università non va certo meglio. Come nota il prof. Ricolfi, «se gli studenti universitari hanno permanente bisogno di essere supportati, aiutati, assistiti, stimolati, monitorati, è prima di tutto perché arrivano largamente impreparati; e se arrivano largamente impreparati è perché, per decenni e decenni, la scuola è stata indotta ad abbassare gli standard, non tanto e non solo nel senso di annacquare i programmi (cosa avvenuta in Italia meno che altrove), ma nel senso di abbassare sempre più l’asticella della promozione». Tanto che «qualsiasi docente universitario non afflitto da chiusure ideologiche – osserva – non ha difficoltà ad ammettere che, in mezzo secolo, i contenuti dei programmi sono stati di molto alleggeriti, e che nessuno oggi, agli esami, si sogna di pretendere dagli studenti quel che potevano pretendere Bobbio, Magris o getto alla fine degli anni sessanta».

E ci siamo mai chiesti perché oggi tanti ragazzi non ce la fanno e abbandonano gli studi o cambiano scuola? Per la Mastrocola è molto semplice. Perché, per l’appunto, non sono stati ben preparati negli anni precedenti. Senza temi, analisi grammaticale, logica, del periodo e le parafrasi, ad esempio, non si può essere pronti a studi più complessi. Non si può frequentare il liceo classico. O, se lo si fa, bisognerà faticare il doppio o il triplo. Eppure tutti vogliono andare in un liceo. Ecco allora che «s’è creato un liceo per coloro che non vogliono fare latino, ma desiderano comunque fare un liceo (meraviglioso controsenso!). Abbiamo pensato a opzioni più facili e snelle, nonché più “moderne”: un liceo scientifico-tecnologico, per esempio, o altri infiniti surrogati. Così le classi basse scelgono il tecnologico, e le classi alte continuano a scegliere lo scientifico tradizionale. Perfetto! Dovremmo dire apertamente che è un imbroglio, dirlo alle famiglie meno accorte. […] Dovremmo dire: guardate che il vero liceo è quello con il latino, se scegliete l’altro va bene, ma vostro figlio non potrà poi andare all’università. Cioè, ci andrà ma farà molta più fatica, e riuscirà solo se sceglierà corsi di laurea deboli, perché certi esami duri non ce la farà a passarli, senza aver fatto il liceo con il latino». Che poi oggi in seconda liceo si arriva grosso modo al programma di latino che un tempo si faceva in terza media…!

Certo, in un mondo in cui bisogna esprimere un pensiero con al massimo 140 caratteri (vedi Twitter) o con video di pochi secondi su Tik Tok e dove si sta tornando a una sorta di linguaggio primitivo per immagini con le foto su Instagram o con messaggi costituiti di emoticon, la prof.ssa Mastrocola che parla dell’importanza del latino, della parafrasi, dell’analisi logica sembra un marziano. E lo appare ancor di più quando, riferendosi alla scuola media da lei frequentata alla fine degli anni sessanta, ricorda l’importanza di studiare scrivendo. E oltretutto a mano! «Scrivere – osserva – era un modo di studiare. Studiare era far durare le cose che si leggevano. E per farle durare bisognava inciderle sulla testa, stamparle. […] Ciò che si legge soltanto, vola via. […] Studiare non è leggere. Bisogna selezionare, riorganizzare, trattenere, ricordare. E ricordare è imprimere».



Una scuola contro i ceti popolari


Insomma, per andare al punto, «abbassare il livello culturale dello studio – dice Ricolfi – non è democratico, anzi è il contrario: è il gesto più antidemocratico e classista! Favorisce i ricchi e i privilegiati, che possono non studiare e, grazie a fenomeni quali le lezioni private a gogò, ce la faranno sempre. Bisogna rendere in grado i “poveri” (gli umili, gli svantaggiati, i ceti meno abbienti) di fare le scuole migliori. Rendere in grado! Un ragazzo non potrà fare il liceo se noi per otto anni (cinque di elementari e tre di medie) non gli abbiamo insegnato quasi niente o, se gli abbiamo insegnato qualcosa, poi non abbiamo anche deciso di esigere e di pretendere che lui le sapesse, quelle cose! Non farà né il liceo né l’università, un ragazzo, se non sa scrivere, se non sa fare un discorso compiuto, se non sa capire il senso di quel che legge, e se non sa ripetere con parole sue quel che ha studiato».

In barba alle sciagurate tesi espresse da don Milani, «una volta raggiunta l’unità linguistica degli italiani, dagli anni settanta in poi, una scuola alta e difficile avrebbe avvantaggiato (non svantaggiato!) i poveri. […] Se il cosiddetto ascensore sociale non funziona più, è perché ai poveri, per non farli sentire poveri, abbiamo dato una scuola impoverita. Senza dei ed eroi e senza le parole antiche», dice la Mastrocola. Ed «era il sapere teorico che bisognava mettere a disposizione di tutti (soprattutto dei figli di contadini, visto che il sapere pratico lo possedevano già), invece di svilire questo genere di studi bollandoli come elitari e lasciando i figli dei contadini nell’angolo della loro cultura d’origine».

Perché «sul destino sociale di un ragazzo non influiscono solo l’origine sociale, il contesto economico, la lunghezza degli studi, ma anche altri due elementi cruciali: la qualità dell’istruzione ricevuta e il grado di indulgenza nella valutazione. A parità di altre condizioni, una scuola indulgente e di bassa qualità riduce le chance si successo, ma soprattutto – qui sta il punto cruciale – una cattiva istruzione amplifica il vantaggio dei ceti alti nei confronti dei ceti bassi. La scuola senza qualità è una macchina che genera disuguaglianza».

Ecco allora che «ricevere un’ottima istruzione era l’unica vera carta in mano ai figli dei ceti bassi per competere con i figli di quelli alti».



Opporsi alla Cancel Culture


La prof.ssa Mastrocola delinea anche l’immagine del vero insegnante, del tipo di maestro oggi diventato sempre più raro, quasi una mosca bianca, proprio a causa del generale livellamento verso il basso, in pieno stile comunista.

Nello studente la motivazione, la “scintilla”, nasce solo se il maestro ti fa innamorare dei libri, a lezione. «Con la sua voce, le parole che sceglie di dire e le pause che decide di fare. Con gli occhi, come li muove, come li posa. E anche con quante cose sa, perché più cose sa, più riuscirà a intessere legami, imprevedibili e stupefacenti, tra i testi, tra le parole, tra i temi, anche lontani tra loro. Deve aver letto molti libri, e deve averli amati: perché così trasmetterà quei libri, ma anche l’amore. Dev’essere molto colto un’insegnante, lo vogliamo dire? Parlo di cultura, non di erudizione. Parlo di quella cultura profonda e non esibita, nemmeno tanto consapevole, fatta di sottili strati, accumulata negli anni e depositata sul fondo, che riemerge a tratti, senza nemmeno volerlo. […] Se un insegnante ne sa poco o niente della sua materia, si arrampica sui vetri, legge dal libro, parla d’altro e si butta su attività esterne».

Per la Mastrocola la scuola media di un tempo «faceva due cose uguali per tutti: dava a tutti la letteratura antica ed esigeva che tutti la studiassimo. C’insegnava l’altezza. E la lontananza. E il rispetto della distanza, della diversità, di se stessi. E ancor di più c’insegnava l’uguaglianza, l’essere giudicati tutti con lo stesso metro: per quel che si dimostra di sapere, e di valere […]. Nulla più della letteratura (e dell’arte in generale) è democratico: è esattamente ciò che può aiutare tutti, portandoli alle altezze che non hanno avuto in sorte».

Solo una scuola così potrà evitare quel nefasto fenomeno cui stiamo assistendo negli ultimi anni qui in Occidente chiamato cancel culture, che porta ad abbattere statue, abolire le favole classiche, i miti antichi, Omero e Dante, perché tutti ritenuti fonti di violenza, maschilismo, omofobia e quant’altro. Non adatti ai tempi nuovi. Discriminatori. Origine di odio sociale. Questo, come scrive la Mastrocola «succede quando non si ha più dimestichezza con il passato, non si sanno collocare le cose nel tempo. Succede quando non si è più in grado di leggere interpretando, di cogliere il valore simbolico di una storia, il doppio livello semantico di una parola. Così, tutto viene travolto dal delirio del politicamente corretto, frullato in un presente che confonde e distrugge».

Purtroppo, come spiega varie volte Luca Ricolfi, non ci troviamo di fronte ad un disastro, dal quale prima o poi e seppur con grande sforzo, si riesce a ricostruire. Siamo piuttosto davanti ad una vera e propria catastrofe educativa, dalla quale, umanamente parlando, è impossibile uscir fuori.