lunedì 31 gennaio 2022

Né muri senza porte. Ma nemmeno porte senza muri







di Corrado Gnerre, 31 GENNAIO 2022

La discussione sull’immigrazione non passa mai di moda. E in tal modo vengono spesso evocati simboli come quello dei “muri”. Una delle frase più citate è quella secondo cui si dovrebbero costruire ponti e non muri.

Ora, lasciando perdere il fatto che in un sistema stradario e urbano c’è bisogno di questi e di quelli e che una casa senza muri non sarebbe pensabile …lasciando perdere questo discorso, va da sé che è facile cadere in una certa demagogia.

Ed è interessante il fatto che a cadervi sono spesso coloro che accusano altri di demagogia e populismo.

Bisogna stare molto attenti e non pensare che l’intelligenza e la complessità del pensiero siano solo da una parte; e dall’altra invece alberghino posizioni ignoranti e retrive.

Non che tali posizioni siano offensive, tutt’altro! D’altronde non è scritto da nessuna parte che il buon senso si acquisti dai libri, anzi; o che sia necessariamente appannaggio del progresso del pensiero.

Torniamo al simbolo dei muri e ce ne mettiamo anche un altro: quello delle porte.

Il muro di per sé non è uno scandalo, perché se la famiglia ha bisogno di un luogo fisico qual è la casa, questa è fatta di muri. Così anche una comunità nazionale ha bisogno di un luogo fisico istituzionalizzato e delimitato, che è lo Stato, e questo è tale se è fatto di confini, i quali devono essere rispettati.

Lo scandalo è invece in due errori opposti fra loro. Il primo è quello di pensare che i muri non abbiano bisogno di porte. Il secondo è quello di pensare che le porte non abbiano bisogno di muri. Il primo è la chiusura totale. Il secondo è l’apertura senza se e senza ma.

Questo secondo errore è il sogno utopistico del cosmopolitismo illuminista e anche neoilluminista. E’ il delirio della sparizione di qualsiasi identità, al fine di nullificare l’uomo, di sradicarlo, e di renderlo funzionale ad ogni potere di turno.

Se a questa sacrosanta verità cattolica, facessero riferimento anche molti cattolici …non sarebbe mica male.

Dio è Verità, Bontà e Bellezza

Fonte: Il Cammino dei Tre Sentieri
 






Don Bosco ai protestanti e ai valdesi: Fatevi cattolici







Il finale di “Conversione di una valdese” di don Bosco (1854)

Protestanti valdesi, e voi tutti che vivete separati dalla Chiesa Cattolica, aprite gli occhi sopra l’immenso abisso che vi sta aperto finché vivete separati dalla vera religione: la Chiesa Cattolica qual madre pietosa vi stende amorosa le braccia: venite e ritornate a quella religione che fu pure per mille e cinquecento anni la religione de’ padri vostri; venite e rientrate nell’ovile di Gesù Cristo e congiungetevi al Pastore Supremo, cui disse Gesù Cristo:

«Pascola i miei capretti, pascola le mie pecore: ciò che scioglierai in terra, sarà sciolto in cielo, ciò che legherai in terra, sarà legato in cielo:» quel pastore in cui si compiono queste consolanti parole del Salvatore: «come il Padre celeste mandò me, così io mando voi; chi ascolta voi, ascolta me; Ecco io sono con voi, tutti i giorni fino al finir de’ secoli.»

Protestanti e valdesi! venite: è Dio che vi chiama: venite ad me omnes: fate ritorno a questo ovile che un tempo i vostri antichi hanno abbandonato, e ritroverete pace e ristoro alle anime vostre: et invenietis requiem animabus vestris.

Ministri, pastori valdesi e protestanti, che andate predicando che fa male colui che abbandona la propria religione, voi, secondo le vostre medesime parole, dovete dire ai cattolici che si guardino bene dall’abbandonare quella religione in cui sono nati, ed in cui furono allevati ed istruiti.

Voi dovete poi dire ai protestanti, che i vostri maggiori erano cattolici, e che fecero male ad abbandonare il cattolicismo, e che l’unico mezzo per rimediare a questo male si è di fare ritorno a quella medesima religione che un tempo i vostri maggiori abbandonarono.

Voi poi, che meglio degli altri conoscete queste verità, dovete essere i primi a dare buon esempio; voi i primi a riconoscere l’antica religione de’ vostri padri, voi i primi a rimediare ai loro mali, voi i primi a farvi cattolici.

Se così farete, riparerete la rovina eterna di tante anime, che vanno ad ascoltarvi, riparerete alla rovina dell’anima vostra e vi salverete.

Coraggio adunque, o protestanti e valdesi, e voi tutti che seguite qualche riforma fuori della Chiesa Cattolica, rinnovate nel mondo cristiano il maraviglioso spettacolo de’ primitivi tempi del cristianesimo, e faremo un cuor solo ed un’anima sola; ed io a nome di Dio posso assicurarvi che tutti i cattolici vi tenderanno amorose le braccia per accogliervi con gioia, e canteranno a Dio inni di gloria nel vedere avverate le parole di Gesù Cristo: Si farà un solo ovile, ed un sol pastore, et fiet unum ovile, et unus pastor.





domenica 30 gennaio 2022

La Tradizione vivente e il malinteso su Vincenzo di Lerino






La fedeltà alla Tradizione è il principio per ogni vero progresso nella Chiesa. La sinodalità rappresenta invece una rottura. Francesco mostra una malintesa idea di “tradizione vivente” quando fa una celebre citazione di san Vincenzo di Lerino, il cui pensiero però — nella sua interezza — si riferiva al dogma.




di mons. Nicola Bux, 25-01-2022

Il cardinale John Henry Newman esortava: “Costruite su fondamenta antiche e sarete al sicuro: non cominciate niente di nuovo, non fate esperimenti… per non far vergognare nella vecchiaia vostra Madre (la Chiesa)”. In questo discorso del 1849 sulla missione cattolica, il santo enuncia un principio: la fedeltà alla propria storia è garanzia di stabilità per il futuro. Così dovrebbe essere per ogni cattolico: fedeltà alla Tradizione per innovare ovvero costruire in modo stabile e ‘antisismico’ la Chiesa. Ma oggi, col cavallo di Troia della sinodalità, si vuol far passare lo squilibrio e la rottura.

Secondo papa Francesco, la sinodalità esprime la natura della Chiesa, la sua forma, il suo stile, la sua missione e ne fornisce alcune declinazioni: all’opposto di rigidità e verticismi gerarchici, la sinodalità si deve ritenere il movimento stesso della Tradizione, che porterebbe a rivolgersi verso il sensus fidei e la sua infallibilità in credendo; per il fatto che la sinodalità significa “camminare insieme”, è il popolo di Dio e non qualcun altro, anche se pastore della Chiesa, ad indicare la direzione di marcia, perché il popolo ne avrebbe il “fiuto”. Di conseguenza, secondo alcuni, la sinodalità corregge il primato petrino, e così possono governare la Chiesa anche i battezzati che partecipano al culto, all’ascolto e all’insegnamento della parola; in tal modo si supererebbe il ‘paternalismo’ della gerarchia: peccato che chi lo sostiene non si è accorto che proprio il paternalismo ha prodotto, ad esempio, Traditionis custodes.



Tutto questo sembra discendere dalla nozione di “tradizione vivente” che ha in mente papa Francesco quando ricorre alla citazione di san Vincenzo di Lérins (Lerino): “ut annis scilicet consolidetur, dilatetur tempore, sublimetur aetate” (progredisce, consolidandosi con gli anni, sviluppandosi col tempo, approfondendosi con l’età). Egli la menziona: nell’enciclica Laudato si’ (121) del 2015, per indicare l’autocomprensione crescente della Chiesa in sintonia e allo stesso tempo dipendente dal dialogo col mondo; nel discorso dell’11 ottobre 2017 – venticinquesimo della costituzione Fidei depositum di Giovanni Paolo II sul Catechismo della Chiesa Cattolica – per giustificare la modifica dell’articolo sulla pena di morte; ancora, nel discorso di chiusura dell’assemblea sinodale sull’Amazzonia, del 26 ottobre 2019; infine nel discorso ai fedeli della diocesi di Roma, del 18 settembre 2021, per avviare il processo sinodale. Si può dedurre che tale citazione costituisca il metro ricorrente con cui egli misura la “rigidità” o meno di persone e cose.

In realtà, la citazione del celebre monaco si riferisce al dogma della religione cristiana, che subito dopo continua: “È necessario però che resti sempre assolutamente intatto e inalterato”. Anzi, egli aveva prima riflettuto: “Qualcuno forse potrà domandarsi: non vi sarà mai alcun progresso della religione nella Chiesa di Cristo? Vi sarà certamente e anche molto grande. Chi infatti può essere talmente nemico degli uomini e ostile a Dio da volerlo impedire? Bisognerà tuttavia stare attenti che si tratti di un vero progresso della fede e non di un cambiamento. Il vero progresso avviene mediante lo sviluppo interno. Il cambiamento invece si ha quando una dottrina si trasforma in un’altra. È necessario dunque che, con il progredire dei tempi, crescano e progrediscano quanto più possibile la comprensione, la scienza e la sapienza così dei singoli come di tutti, tanto di uno solo, quanto di tutta la Chiesa. Devono però rimanere sempre uguali il genere della dottrina, la dottrina stessa, il suo significato e il suo contenuto”.



Dopo aver spiegato che si tratta della stessa legge della natura che presiede allo sviluppo organico dei corpi, san Vincenzo afferma: “Anche il dogma della religione cristiana deve seguire queste leggi. Progredisce, consolidandosi con gli anni, sviluppandosi col tempo, approfondendosi con l’età. È necessario però che resti sempre assolutamente intatto e inalterato […]. Del resto, se si comincia a mescolare il nuovo all’antico, le idee estranee a quelle domestiche, il profano al sacro, necessariamente ciò si propagherà dappertutto, e con quel che segue, nella Chiesa, non rimarrà più nulla intatto, incontaminato, inviolato, immacolato” (Primo Commonitorio, cap.23; PL 50,667-668). In corsivo, la frase citata da papa Francesco, che, estrapolata dal contesto, come accaduto non di rado con altre fonti nei suoi documenti, dà ad intendere il contrario del pensiero dell’autore; in questo caso, che la dottrina è in cammino, avanza, si ingrandisce e – soprattutto – si evolve ossia può mutare (Cfr. PAPE FRANÇOIS, Politique et société. Rencontres avec Dominique Wolton, Éditions de l’Observatoire, 2017, cap.7: “La Tradition est un mouvement”,pp.315-350).

A confermare il fraintendimento franceschino, si deve osservare che, nel precedente cap. 22 del Commonitorium, san Vincenzo di Lérins aveva formulato una regola sicura per distinguere la fede dall’eresia, a cui si dà talvolta il titolo di canone leriniano: «in ipsa item catholica ecclesia magnopere curandum est ut id teneamus quod ubique, quod semper, quod ab omnibus creditum est» (anche nella stessa Chiesa cattolica ci si deve preoccupare molto che ciò che noi professiamo sia stato ritenuto tale ovunque, sempre e da tutti). Il santo monaco delinea la giusta fede secondo le direttive spaziale (ubique), temporale (semper) e plenaria (ab omnibus); ma questa “regola cattolica” non è mai citata da papa Francesco.



Basterebbe, però, il concetto di Tradizione che viene dagli Apostoli e progredisce nella Chiesa con l’assistenza dello Spirito Santo (cfr. Dei Verbum, 8), per esporre cos’è la Tradizione vivente, senza le falsificazioni neo-moderniste, che aggiungono “vivente” per relativizzare, ad esempio, il deposito oggettivo della fede e le formulazioni dommatiche mediante le contestualizzazioni storiche, confondendo progresso e cambiamento, enfatizzando il ruolo delle persone e dei loro atti, rendendo fluida la distinzione tra rivelazione e assistenza dello Spirito Santo alla Chiesa [cfr. L. JESTIN, “Sur le concept de Tradition vivent”, Catholica, 2022(154), pp.16-17]. Simili falsificazioni non corrispondono al concetto di Tradizione vivente che formulò il suo ‘inventore’ Johann Adam Möhler, e lo confondono con una teologia che vuol appena essere contemporanea, mentre la Tradizione vede ogni cosa sub specie aeternitatis. Bisogna credere al Dio rivelante e non al teologo opinante, perché è la verità che misura l’uomo, non l’uomo la verità.

1. Continua






Per riscoprire il tesoro della Messa cattolica. Contro tutti gli abusi








Riprendiamo da Aldo Maria Valli, 30GEN22

È uscito il libro La Messa cattolica. Passi per ripristinare la centralità di Dio nella liturgia, scritto da monsignor Athanasius Schneider con Aurelio Porfiri.




Stiamo attraversando un periodo di esilio liturgico, spiega il vescovo Schneider in questo volume illuminante. La vasta proliferazione di abusi sta imponendo una vera riforma liturgica, e la fonte primaria di tali abusi è la tendenza narcisistica dell’uomo che vuole idolatrare se stesso invece di rendere gloria a Dio.

In uno dei libri più impressionanti e autorevoli scritti sulla Messa cattolica e sulla crisi della liturgia, il vescovo Schneider ribadisce ciò che generazioni di cattolici hanno saputo e testimoniato per secoli, ma hanno ampiamente dimenticato oggi, ovvero che la Messa è la più alta forma di preghiera cristiana, che ci consente di esprimere attraverso l’adorazione la nostra fede.


Alcuni giudizi autorevoli sul libro


La liturgia è al centro della nostra vita di cattolici. Abbiamo ricevuto questo grande dono da Dio, il nostro Creatore, che ci dà l’opportunità di lodarlo in bei riti, preghiere e canti, durante le belle cerimonie che la Chiesa deve conservare per il bene dei suoi fedeli. Questo libro del vescovo Athanasius Schneider, coadiuvato dal maestro Aurelio Porfiri, è una grande risorsa per riscoprire la bellezza della Messa e per metterci in guardia dai tanti abusi che la liturgia della Chiesa deve subire in troppe chiese nel mondo. È un libro che ci fa pensare a ciò che possiamo avere e anche a ciò che potremmo aver perso.

Cardinale Joseph Zen

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«La liturgia non riguarda noi, ma Dio», scriveva nel 2004 il cardinale Ratzinger. Questo è ancora più vero per ciò che riguarda il Santo Sacrificio della Messa: è opera di Dio, non nostra, anche se per grazia del Battesimo noi siamo partecipanti privilegiati alla sua azione salvifica. La profonda riverenza del vescovo Schneider per la Messa e la Santissima Eucaristia è nata dall’esperienza della loro privazione nella persecuzione. Se riusciremo ad assorbire anche un po’ della fede e dell’amore da cui è emerso questo libro, non solo capiremo perché è essenziale restituire la centralità di Dio nella liturgia, ma ci occuperemo noi stessi di questo necessario lavoro senza ulteriori indugi.

Cardinale Robert Sarah

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Con la Santa Eucaristia o Santa Messa è sempre con noi il Signore Gesù, Colui che sulla Croce ha trasformato l’atto di violenza compiuto dagli uomini contro di Lui in atto di donazione e di amore. Quello che gli uomini hanno fatto a Cristo è il culmine del male che si commette in ogni tempo: un male più grande non sarà mai commesso. Questo libro è un aiuto prezioso per entrare in un così grande Mistero.

Monsignor Nicola Bux

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Questo libro proclama un messaggio che tutti noi abbiamo bisogno di ascoltare. Ed è questo: vivere con la nostra vita centrata su Dio è l’unico modo sicuro di vivere. Lo facciamo nel modo più completo quando viviamo la Messa con profonda riverenza, quando ogni dettaglio proclama la grandezza e la misericordia di Dio. Il vescovo Athanasius Schneider attinge abbondantemente dalla Sacra Scrittura, dai santi e dai dottori della Chiesa. Leggere e meditare su questo libro sarà trasformativo e unitivo.

Scott Hahn

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Il vescovo Athanasius Schneider, che trascorse i primi anni di vita nella Chiesa clandestina sovietica, presenta con grande chiarezza il nucleo della missione della Chiesa: permettere ai fedeli, in questo mondo, di prendere parte alla liturgia celeste. Ciò avviene principalmente attraverso i sacramenti della Chiesa e si manifesta in modo particolarmente espressivo attraverso la tradizionale liturgia della Santa Messa. Nella presente opera, monsignor Schneider sottolinea in modo convincente la forza di questa liturgia cristocentrica, che è in grado di superare ogni ostacolo in un ambiente concentrato su questo mondo. La Chiesa del nostro tempo non può che essere grata per la voce di questa coraggiosa testimonianza.

Martin Mosebach

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Domani nella newsletter Traditio di Aurelio Porfiri uscirà un podcast in cui il maestro dialogherà con monsignor Athanasius Schneider a proposito del libro. Al centro del dialogo la Tradizione, il Concilio Vaticano II e Traditionis custodes.











sabato 29 gennaio 2022

Opzione preferenziale per i protestanti pentecostali








di Julio Loredo, 28/01/2022

L’America Latina era una volta chiamata il “continente colore porpora cardinalizia”. Allo scoccare del secolo XX, la percentuale dei cattolici superava abbondantemente il 90%, attestandosi in alcuni casi intorno al 98%. La Chiesa era in piena espansione. Affrancandosi dalla tutela di Propaganda Fide, la Chiesa in America Latina diventava a sua volta missionaria. Si moltiplicavano le nuove parrocchie e le diocesi. Nascevano le Pontificie Università Cattoliche. I movimenti laici come le Congregazioni Mariane e le Pie Figlie di Maria, raggiungevano il loro auge. I Papi cominciarono a riferirsi all’America Latina come “il continente della speranza”.


Poi arrivò il progressismo…

Il declino della Chiesa in America Latina iniziò molto prima del Concilio Vaticano II. Nell’analisi di diversi storici e sociologi, già dagli anni '40 in vari Paesi, tra cui il Brasile – per una scelta che poi si dimostrerà calamitosa – la gerarchia ecclesiastica cominciò ad abbandonare lo stile militante e impavido, paladino di un cattolicesimo integrale sulla scia del “omnia instaurare in Christo” di San Pio X, per abbracciare invece una linea di “dialogo” col mondo moderno e di accettazione delle tendenze del tempo. Cioè di “aggiornamento”. Mentre i fedeli chiedevano “più religione”, la gerarchia dava invece “meno religione”[1]. E i numeri iniziarono a declinare…

Quasi come per i vasi comunicanti, mentre la Chiesa cattolica si sgonfiava, le sette evangeliche invece prosperavano[2]. Cioè, la religiosità non diminuiva, ma soltanto cambiava di indirizzo. Negli anni '50, la crescita di queste sette era già percepibile in Brasile e in alcuni paesi dell’America Centrale, in questo caso soprattutto per influenza americana.


Opzione preferenziale per i poveri

La situazione precipitò negli anni '60. Sulla scia del Concilio era nata la cosiddetta Teologia della liberazione, di chiara ispirazione marxista, che lanciò lo slogan “opzione preferenziale per i poveri”. Secondo questa visione, i “poveri” sarebbero i destinatari preferenziali del messaggio evangelico, il locus theologicus privilegiato per l’intelligenza della fede[3]. “La teologia della liberazione — secondo Gustavo Gutiérrez, fondatore della corrente — è un tentativo di comprendere la fede dall’interno della prassi concreta, storica, liberatrice e sovversiva dei poveri di questo mondo”[4]. “I poveri sono il vero locus theologicus per la comprensione della verità e della prassi cristiana”, spiega il teologo Jon Sobrino[5].

Nel 1968, la II Conferenza Generale del CELAM (Conferenza Episcopale Latino-Americana) tenutasi a Medellín, Colombia, adottò ufficialmente questa linea. La presenza di Papa Paolo VI diede all’evento un’ulteriore autorevolezza. Gustavo Gutiérrez esultò: “L’opzione preferenziale per i poveri è il contributo più importante del nostro tempo per la vita e la riflessione dei cristiani in America Latina, e per la coscienza della Chiesa universale”[6].

Questa “opzione” implicava non solo un radicale cambio di prospettiva teologica, con l’introduzione dell’analisi marxista in sostituzione della teologia tradizionale, ma anche un mutamento non meno radicale nella pastorale. Non si predicava più una religione “spirituale” e “a-storica” incentrata sulla pratica della virtù, ma si promuoveva la “liberazione” socio-politica dei “poveri”. Il socialismo, e addirittura il comunismo, prendevano il posto del Regno di Dio. Insomma, si sostituiva la predica del Vangelo con la Rivoluzione. Pensavano che così avrebbero attirato dietro di sé le masse dei “poveri”. E invece…


Mentre la Chiesa latino-americana faceva l’opzione preferenziale per i poveri, i poveri facevano l’opzione preferenziale per i protestanti.

Prendiamo l’esempio del Brasile. Si passa dal 95% di cattolici nel 1940 al 44,9% nel 2020. In senso contrario, gli evangelici crescono dal 2,7% al 31,8%. Secondo il demografo José Eustáquio Alves, professore presso la Escola Nacional de Ciências Estatísticas, il sorpasso avverrà nel 2032[7]. Situazione non molto diversa in Guatemala, il più grande Paese dell’America Centrale. Si passa dal 99,5% nel 1950 al 45% nel 2022. Gli evangelici, invece, crescono dal 2% fino al 43%. Ci sono oggi 96 “templi” protestanti per ogni chiesa cattolica[8]. La situazione varia da paese a paese, ma la tendenza generale è la stessa: crollo dei cattolici e boom dei protestanti evangelici.

Alle soglie del Terzo millennio, perfino i progressisti più incalliti si rendevano ormai conto che qualcosa non funzionava nella pastorale della Chiesa. Alcune Conferenze episcopali si rivolsero addirittura a note aziende di marketing per chiedere un parere scientifico. Invariabilmente, queste aziende diedero la stessa soluzione: Volete recuperare i fedeli? Tornate alla Tradizione! [9] Con ostinazione, però, i progressisti continuarono imperterriti. Preferivano suicidarsi piuttosto che ammettere di aver sbagliato strada.

Non appena eletto al soglio pontificio, Francesco rilanciò questa linea pastorale fallimentare: “Ah!, come vorrei una Chiesa povera e per i poveri!”[10]. L’opzione preferenziale per i poveri trovò posto anche nell’enciclica Fratelli Tutti e nei documenti del Sinodo Panamazzonico tenutosi in Vaticano nel 2017. Più recentemente, nell’Udienza generale del 19 agosto 2019, egli ribadì: “L’opzione preferenziale per i poveri è un criterio chiave dell’autenticità cristiana, un’esigenza etico-sociale che viene dall’amore di Dio”[11]. E ancora nell’udienza generale del 5 agosto 2020 ripropose “il principio dell’opzione preferenziale per i poveri”[12].


Il popolo rigetta il progressismo


Il fenomeno sta ora cominciando a interessare anche i big media. Recentemente, il Wall Street Journal ha pubblicato un articolo intitolato “Papa Francesco sta perdendo fedeli”. Afferma il noto quotidiano di New York: “Per secoli essere latinoamericano è stato sinonimo di cattolico; la religione cattolica non aveva concorrenza. Oggi il cattolicesimo ha perso aderenti a favore di altre denominazioni nella regione, in particolare del pentecostalismo. Questa perdita non ha smesso di aumentare sotto il primo papa latinoamericano”[13].

Quando si studiano le possibili spiegazioni di questo fenomeno, sorgono diverse concause. Alcune toccano aspetti veri ma secondari, come il bisogno di sentirsi all’interno di una comunità fraterna (ma anche la Chiesa aveva questo, per esempio negli oratori e nelle associazioni laicali). Altre spiegazioni mettono l’accento sugli aspetti sociali: le sette protestanti aiutano materialmente le persone bisognose (ma anche la Chiesa aveva una pletora d’iniziative caritatevoli). La causa principale, però, è un’altra. Secondo un sondaggio dell’autorevole Pew Institute, ben l’81% dei protestanti dichiarano di aver lasciato la Chiesa cattolica perché “voleva sentire parlare di Dio”. Secondo loro, la Chiesa ormai “parla troppo di questo mondo”, mentre loro vorrebbero “sentire parlare di Cristo”[14].

In altre parole, c’è nel popolo latino-americano un’inestinguibile sete di spiritualità (“più religione”), mentre la Chiesa ormai parla quasi esclusivamente di problemi sociali o psicologici (“meno religione”).

Un altro motivo di questa moria di fedeli a vantaggio dei protestanti risiede nello stesso messaggio veicolato dalla Chiesa. Nelle versioni estreme (teologia della liberazione), questo messaggio predica apertamente l’ideale della povertà. Confondendo i Comandamenti con i consigli evangelici, si afferma che solo la povertà ci permetterà di diventare veramente fratelli. Nelle versioni mitigate, si predica la “semplicità”, la “quotidianità”, il “nascondimento”, la “piccolezza”, il “distacco” e via dicendo. In altre parole, per essere cristiani si deve quasi sparire. Tutto questo accompagnato da robuste prediche contro il “consumismo”.

Ora, come diceva pittorescamente un leader del carnevale di Rio de Janeiro, Joãozinho Trinta, “o povo gosta de luxo, miséria é para intelectual” (al popolo piace il lusso, la miseria è per gli intellettuali). Gli evangelici predicano la “teologia della prosperità”, secondo cui la grazia di Dio porta anche all’abbondanza materiale. E il popolo corre loro dietro. Evidentemente, la povertà non è fatta per i poveri…

Ma c’è ancora un’altra causa che vorrei evidenziare: lo spirito conservatore degli evangelici. Richiama subito l’attenzione che in molte cerimonie evangeliche gli uomini siano in giacca e cravatta e le donne con la gonna sotto il ginocchio. Ciò mostra un’evidente voglia di decenza e di pudore nel vestire che la Chiesa ha da molto abbandonato. Si moltiplicano negozi protestanti di abbigliamento, maschile e femminile, che offrono soltanto vestiti morigerati.

Questo spirito conservatore si manifesta anche nelle scelte politiche. Le sette evangeliche tendono decisamente verso il centro-destra, mentre la Chiesa si butta quasi sempre a sinistra. In America Latina il socialismo è ormai un fenomeno di élite. Un sano populismo, cioè un atteggiamento che tenga conto delle reali appetenze del popolo, non dovrebbe assecondare le loro preferenze politiche?

Chiudiamo questo articolo, ormai troppo esteso, facendoci la domanda dal milione di dollari: perché i progressisti si ostinano su questa via fallimentare? Secondo il Wall Street Journal, nell’articolo sopra citato, l’ipotesi che il cattolicesimo divenga minoranza non spaventa il Vescovo di Roma. Anzi, sembra proprio questo il suo scopo. E allora tante cose del suo pontificato si spiegherebbero.




Note

[1] Cfr. Massimo Introvigne, Una battaglia nella notte. Plinio Corrêa de Oliveria e la crisi del secolo XX nella Chiesa, Sugarco, 2008, pp. 29-44. Introvigne analizza la crisi della Chiesa in Brasile dal lato dell’offerta religiosa, e conclude: “La religione declina quando l’offerta non è abbastanza ‘religiosa’” (p. 35.). Plinio Corrêa de Oliveira era il leader della corrente che chiedeva “più religione”.

[2] Utilizziamo la parola “setta” nel senso stretto, cioè un gruppo religioso organizzato staccatosi dalla Chiesa cattolica.

[3] Cfr. Julio Loredo, Teologia della liberazione. Un salvagente di piombo per i poveri, Cantaglli, 2014.

[4] Gustavo GUTIÉRREZ, The Power of the Poor in History, Orbis Books, New York 1983, p. 37. Trad. italiana, La forza storica dei poveri, Queriniana, Brescia 1981.

[5] Jon SOBRINO, Ressurreição da Verdadeira Igreja. Os Pobres, Lugar Teologico da Eclesiologia, Edições Loyola, São Paulo 1982, p. 102. Locus theologicus, espressione coniata nel secolo XVI, vuol dire fonte o sorgente della teologia.

[6] Gustavo Gutiérrez, “Opción por los pobres. Evaluación y desafíos”, Allpanchis: n. 43-44, 1994, p. 583.

[7] “Evangélicos devem ultrapassar católicos no Brasil a partir de 2032”, Veja, 4 febbraio 2020.

[8] “Católicos superan por poco a evangélicos”, Prensa Libre, 21 gennaio 2022.

[9] Cfr. “Chiesa e marketing. Vince la Tradizione”, Tradizione Famiglia Proprietà, marzo 2015.

[10] Udienza ai mezzi di comunicazione, 16 marzo 2013. Cfr. Joan Planellas Barnosell, La Iglesia de los pobres: del Vaticano II al Papa Francisco, 2015, p. 2.

[11] “El Papa: El amor preferencial por los pobres es misión de todos”, Vatican News, 19 agosto 2020.

[12]https://www.vatican.va/content/francesco/it/audiences/2020/documents/papa-francesco_20200805_udienza-generale.html

[13] Cfr. “Wall Street Journal: El Papa Francisco está perdiendo a los católicos iberoamericanos”, InfoVaticana, 13 gennaio 2022.

[14] “Iberoamérica está dejando de ser católica”, Infovaticana, 18 gennaio 2022.










venerdì 28 gennaio 2022

Perché la Chiesa ha bisogno del latino?







Perché la Chiesa ha bisogno del latino?

Risponde un santo, un filosofo e uno scrittore:

«La Santa Sede ha gelosamente vegliato sulla conservazione e il progresso della lingua latina e la ritenne degna di usarla essa stessa, «come magnifica veste della dottrina celeste e delle santissime leggi», nell'esercizio del suo magistero, e volle che la usassero anche i suoi ministri... 

« La piena conoscenza e l'uso di questa lingua, così legata alla vita della Chiesa, non interessa tanto la cultura e le lettere quanto la Religione», come il nostro Predecessore di immortale memoria Pio XI ebbe ad ammonire; egli, essendosi occupato scientificamente dell'argomento, additò chiaramente tre doti di questa lingua, in modo mirabile conformi alla natura della Chiesa: «Infatti la Chiesa, poiché tiene unite nel suo amplesso tutte le genti e durerà fino alla consumazione dei secoli... richiede per sua natura un linguaggio universale, immutabile, non volgare»

(Giovanni XXIII, Costituzione Apostolica Veterum Sapientia, febbraio 22, 1962 ).



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“Il latino è la lingua della Chiesa; il doloroso degrado della liturgia cristiana dovuto alle traduzioni nella lingua volgare, che diventa sempre più volgare, fa intravedere la necessità di una lingua sacra la cui stessa immobilità protegga dalle depravazioni del gusto» 

(Étienne Gilson, Il filosofo e la teologia, Madrid 1962, p.22).

 
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«La Chiesa ha fatto suo il latino, lo ha custodito e difeso, con tanto maggior zelo e cura, quanto più i suoi figli si moltiplicavano e si diffondevano su tutta la faccia della terra; poiché, universalizzandosi, per così dire, nello spazio e nel tempo, se non avessero avuto un vincolo esterno di unione, avrebbero corso il rischio di divenire estranei a Lei e gli uni agli altri.

Non solo la Chiesa ha conservato il latino; lo ha fatto amare. Lo ha arricchito con l'incomparabile bellezza della sua slanciata poesia e della sua musica ispiratrice... ; e così la Chiesa, immagine viva della corte celeste, ha sempre cantato, con una sola voce, le lodi eterne – “una voce” – “ quam laudant Angeli atque Archangeli, Cherubim quoque ac Seraphim, qui non cessant clamor quotidie, una voce dicentes”, come ci racconta il meraviglioso Prefazio della Santissima Trinità, proprio delle domeniche.

L'idea di una lingua universale, il latino, per la Chiesa universale, fu lodata anche da quel grande paladino dell'unità della Chiesa, un laico, degno di essere paragonato a Dante in questo senso, José De Maistre, che nel suo libro sul papa scriveva: "Di luogo in luogo, ogni cattolico, che entra in una chiesa del proprio rito, poi si sente a casa, come in famiglia. Là nulla gli è estraneo, né alla sua mente né al suo cuore: egli vi sente la stessa cosa che ha sentito fin da bambino nella sua chiesa parrocchiale del suo paese natale, e, per questo, può unire la sua preghiera e i suoi canti alle persone che ora lo circondano e che considera fratelli; può capire ed essere compreso…”. E, guardando le cose da un punto di vista storico e filosofico, De Maistre aggiunge: «La fraternità, che risulta da un linguaggio comune, è un misterioso legame di potere indicibile. 

(Tito Casini, La tunica stracciata, Hawthorne 1967, pp. 30 e 31). -

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Dante e la Messa

di Tito Casini
 
Dice che, trovandosi la mattina del 7 marzo, or fan due anni, a Ravenna davanti alla tomba del Poeta, qualcuno sentì qualcosa scricchiolar dentro l'urna, come se un fremito, un brivido, interpretato di raccapriccio, facesse rimescolare quell'ossa. Era il momento in cui, dando principio alla «messa nuova», i sacerdoti ravennati dicevano: Nel nome del Padre, del... mentre altri, più su, e pur dentro i confini del bel paese, dicevano: Im Namen des Vater... e altri, più in là: Au nom du Pére... altri, più in là ancora: En el nombre... e via e via, come i protestanti, ciascun paese a suo modo, senza capirsi gli uni con gli altri, in luogo dell'unico fin lì vigente per tutta la famiglia cattolica: In Nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti...

Era, in altre parole (che prendiamo a prestito dal Manzoni), il momento in cui la Chiesa, una d'altare, cessava d'essere, all'altare, anche una di lingua (e di una lingua come la sua, il latino, «sacra, grave, bella, espressiva, elegante», per non citar che una parte degli aggettivi con cui Paolo VI la definiva, e risparmiando il paragone, non mai come qui odioso, coi surrogati, i meschini prodotti autarchici con cui la si è barattata e la si baratta). 

Storie, e l'ho detto; ma lasciando star l'ossa e riferendoci allo spirito, certo è che Dante, nel suo fervente e fremente amor per la Chiesa, avrebbe sofferto, sofferto fino allo sdegno, quella prima domenica di Quaresima di quel 1965 che la Chiesa rinunziava col latino alla sua cattolicità linguistica, rinunziando così a invocare univocamente l'unico Padre. Nessuno, infatti, più di Dante (anima e genio più che alcun altro cattolico, universale) ha sentito la bellezza, oltre alla logica, di questa unità di voce, di lingua, nel pregare e lodare Dio, fra quelli che professano lo stesso Credo, la stessa fede in unum Deum... unum Dominum... unam Ecclesiam, che Gli dicono nel più solenne prefazio: Unus es Deus, unus es Dominus... che Lo supplicano inneggiando: Ut unus omnes unicum ovile nos Pastor regat... e si capisce che la voce, la lingua, non poteva esser che quella, quella appunto della Chiesa e perciò di tutti: il latino.

Nessuno, a questo latino sacro, liturgico, ha reso più di lui onore, e l'attestato si chiama Divina Commedia. Con la Divina Commedia egli lo ha portato difatti in cielo, mettendolo sulle labbra di quelli che son contenti nel foco del Purgatorio, come delle beate genti del Paradiso, e cosi accomunando, affratellando nell'unità della voce, implorante e benedicente, non più i membri di una Chiesa ma tutte e tre le Chiese: Militante, Purgante, Trionfante.


Perché questo facesse un Dante - uno che poteva pur chiedere alla propria mente, inventando, ciò che ha colto per quelle labbra dalle pagine del Messale, del Breviario e del Rituale latino - bisognava ch'egli fosse davvero innamorato di quel latino, di quelle preghiere, di quegl'inni liturgici; né peccava contro la ragione, vuoi che considerasse quei canti come divinamente ispirati e quindi venuti a noi di lassù, e lassù da noi riportati col trapasso delle nostre anime dalla nostra all'altre due Chiese; vuoi che considerasse la nostra quale il Manzoni la dirà nella Pentecoste: «Madre dei Santi» e «immagine della città superna», quindi univoca nella melode.

Di tali preghiere e tali inni risuonan tutti i gironi del Purgatorio, risuonan le sfere del Paradiso. L'Inferno, no, e si comprende, salvo un accenno che fugacemente ci tocca nelle parole di Virgilio a Chirone: Tal si parti dal cantare «alleluia»: parole che ci svelan che cosa, in che lingua lassù si canti: la lingua, appunto, della Chiesa, della sua liturgia, dove l'ebraico (alleluia) e il greco (Kyrie) si compongono col latino quasi a ricordare la scritta con cui il governatore romano proclamava, inconsciamente, misteriosamente, la regalità di Gesù: et erat scriptum bebraice, graece et latine, nell'ordine di successione delle lingue che la Chiesa, crescendo, avrebbe parlato, dalla sua infanzia all'età perfetta. Del latino liturgico, e precisamente del primo verso dell'inno con cui la Chiesa canta quella regalità della Croce, si serve ancora Virgilio, accostando per contrapporre, per indicare il re dell'Inferno: "Vexilla regis prodeunt" inferni, ed è pur un'eco di cielo che vaga, quasi a farci più vivamente avvertire il contrasto, fra le disperate strida, le lingue diverse, le orribili favelle, gli orridi gerghi diabolici (Papè Satan... Raphel mai amèch... che fanno la liturgia di laggiù.


Ma eccocene fuori, rieccoci nel chiaro mondo, eccoci, dico, nel Purgatorio, e che cos'è che consola, subito, prima del canto di Casella, l'anima affannata di Dante? È il coro delle anime pur ora giunte qui a farsi belle, ed è un coro latino, della nostra liturgia, ch'esse, d'ogni paese, d'ogni lingua, cantano una voce, all'unisono: «In exitu Israel de Aegypto» cantavan tutti insieme, ad una voce... Eccoci avviati al monte, eccoci ai primi passi del monte, fra coloro che avendo tardato a convertirsi si vedono qui tardata l'ora dei desiderati martiri, e come pregano, come invocan quell'ora? Venivan genti innanzi a noi un poco cantando «Miserere» a verso a verso... Altri negligenti, altri assetati e impediti di patire, su nella valletta in fianco della lacca, e anch'essi: «Salve, Regina», in sul verde e 'n su i fiori, quindi seder cantando anime vidi... ne altrimenti che così, con la Chiesa, con l'inno della Chiesa a Compieta, un d'essi invoca per tutti il presidio divino contro il tentatore che sta per giungere, a sera: «Te lucis ante» sì devotamente le usci di bocca e con sì dolci note... L'Antipurgatorio è finito, e con la recita dei Confiteor, ai piedi dell'angelo «portinaio», Dante ottiene che la porta tanto bramata da quelli giù che patiscono di non patire gli venga aperta. È dentro, ormai, e tutto il Purgatorio lo accoglie, tripudia, ne rende grazie al Signore, e l'inno, lingua e testo, è ancora quello della Chiesa, il maestoso inno ambrosiano: Io mi rivolsi attento al primo tuono e «Te Deum laudamus» mi parea udire in voce mista al dolce suono... Entriamo, con lui e Virgilio, seguiamolo su su fino in cima, e ci parrà di processionar per i nostri monti ai giorni delle Rogazioni.

Si sa che in ogni girone i penitenti vengono aiutati a espiare con esempi in vario modo loro rappresentati (il primo dei quali è sempre tratto dalla vita della Madonna) della virtù contraria al loro peccato, ed è ancora la Chiesa che parla e canta coi propri testi, in latino, facendolo perfin parlare e cantar dalla roccia, come qui, nel primo, dove ai superbi è ricordata l'umiltà di Maria dalla figura di Gabriele così veracemente scolpita nel marmo della ripa, lungo la quale essi vanno dicendo il Pater, che giurato di saria ch'el dicesse: «Ave», e da quella di Maria stessa, che allo stesso modo avea in atto impressa esta favella: «Ecce Ancilla Dei», propriamente... Né gli dispiace, al poeta, di sacrificar magari il proprio volgare, dico la scorrevolezza di un verso, come fa, sempre coi superbi, dando voce agli spiriti come là alla materia: «Beati pauperes spiritu» voci cantaron sì che nol dirìa sermone... Agl'invidiosi che, infiammati d'amore, invocano a pro degli altri la pietà celeste dicendo insieme le Litanie dei Santi, viene così ricordata la carità di Maria a Cana: La prima voce che passò volando, à «Vinum non babent» altamente disse; così come, agli stessi, l'appropriata parte del sermone della montagna: E «Beati misericordes fue» cantato retro... Ed ecco gl'iracondi che invocano il mite Agnello divino: Pure «Agnus Dei» eran le loro essordia, mentre l'angelo fa risuonar su di loro le parole dell'opposta beatitudine: Senti 'mi presso quasi un muover d'ala e ventarmi nel viso e dir: «Beati pacifici», che son sanz'ira mala. Agli accidiosi, che qui corron senza respiro, l'angelo fa cuore, «qui lugent» affermando esser beati, mentre gli avari piangono col Salterio il loro folle attaccamento alla terra: «Adhaesit pavimento anima mea», sentia dir loro con sì alti sospiri... Tra i quali un papa, Adriano, ed è in solenne latin di chiesa che per tale si svela egli stesso a Dante: Scias quod ego fui successor Petri.

È a questo punto, è di qui che un'anima, avendo finito di mondarsi, di farsi bella, s'alza e s'avvia per il Paradiso, ed è così che tutto il Purgatorio n'esulta: «Gloria in excelsis» tutti «Deo» dicean (l'inno di Betleem, l'inno che accomunò, quella notte, il cielo e la terra: e anche quello, ora, con la «nuova messa», ognun per suo conto). Col Salterio le anime dei golosi si dolgono della loro ingordigia: Ed ecco pianger e cantar s'udie: «Labia mea, Domine», per modo... mentre i lussuriosi chiedono col Breviario che Dio bruci con retto fuoco gl'impuri lombi: «Summae Deus clementiae» nel seno al grande ardore allora udii cantando, e si rampognano ricordando la castità della Vergine: Appresso il fine ch'a quell'inno fassi gridavan alto: «Virum non cognosco», sostenuti dall'angelo che li aspettava di là dal fuoco e cantava; «Beati mundo corde...» Anche Dante, con Virgilio e Stazio, ha da attraversare quel fuoco e lo incoraggia e lo guida l'angelo stesso, chiamando: «Venite, benedicti Patris mei...»

Così, con la liturgia, nel sacro latino della Chiesa, si prega, si salmeggia, s'inneggia, per bocca dei seniori, degli angeli, di Beatrice, nel paradiso terrestre, in cima al monte dove siam giunti... e dove non indugeremo a esemplificare per la ragione stessa detta a questo punto da Dante: S'io avessi, lettor, più lungo spazio... Ma perché piene son tutte le carte... Affrettiamoci dunque a salire con lui e Beatrice alle stelle; ed eccoci, nella prima, al primo incontro, al primo colloquio di Paradiso, quello con la dolce Piccarda, e come si chiude? Così parlommi e poi cominciò «Ave, Maria», cantando... (l'amore, la tenerezza di Dante per la Madonna è una delle caratteristiche della sua vita e del poema). Il lungo discorso di Giustiniano, nel secondo cielo, sfocia coralmente nell'inno che conclude nella Messa il prefazio: «Osanna, sanctus, Deus Sabaoth» fu viso a me cantare, e con l' Amen liturgico con cui i fedeli rispondono alle orazioni della Messa le anime dei sapienti fan coro, nel cielo del Sole, a quel di loro che parla della reincarnazione finale: Tanto mi parver subiti e accorti e l'uno e l'altro coro a dicer «Amme», che ben mostrar disio de' corpi morti... Nello stesso spirito, possiamo dire, della liturgia, Cacciaguida manifesta in latino la sua gioia e la sua gratitudine a Dio per l'incontro che gli è concesso di avere, lì nel cielo di Marte, col suo discendente; e in latino, più su, nel cielo di Giove, gl'innamorati della giustizia esaltano questo loro amore disponendosi agli occhi di Dante in maniera da comporre con le loro luci le parole del precetto a cui hanno servito: «Diligite iustitiam» primai fur verbo e nome di tutto il dipinto... Nel cielo dei Gemelli i beati palesano l'alto affetto ch'elli avieno a Maria, il bel fiore che Dante (ce lo vuol proprio far sapere!) prega, invoca sempre... e mane e sera, cantando la grande antifona mariana pasquale: Indi rímaser lì nel mio cospetto «Regina coeli» cantando sì dolce... Al termine del parlare di Adamo tutto il Paradiso canta, cattolicamente, il Gloria Patri... e gli esempi di questo amore, di questa sacra riverenza di Dante per la lingua e la liturgia della Chiesa potrebbero moltiplicarsi... Sospinti dalla via lunga a concludere, lo facciamo con l'ultimo (il quale non è che una ripetizione del primo, come del Paradiso così del Purgatorio, e ben conclude il poema, la cui azione ha principio non nella selva ma qui nell'Empireo, di dove Maria ha veduto, prima ch'egli se n'avvedesse, lo smarrimento del suo fedele, e attraverso Lucia, Beatrice, Virgilio gli ha mandato il soccorso): E quello amor che primo lì discese cantando « Ave, Maria, gratia plena », dinanzi a lei le sue ali distese...
È ancora Gabriele, è il mistero dell'Annunziazione, così caro alla pietà mariana dei fiorentini, e ci sembra di veder Dante, non il poeta ma l'uomo, ma il picciolo mortale Dante, che prega, curva la fronte, che dice, mane e sera, la sua avemaria.
In latino, naturalmente.

In latino, si capisce, e perché veda, Sua Eccellenza Baldassarri, che cosa s'è osato fare traducendo quella Divina Commedia che ha le sue cantiche nel Messale, nel Rituale, nel Breviario Romano, legga questa ipotetica circolare d'un ipotetico ministro dell'Istruzione ai provveditori agli studi in merito a Dante (e mi perdoni Dante stesso questo trapasso dalla «chiesa», i suoi versi , alla «taverna» di quegli altri):

«(Omissis) riconoscendo che il libro del divino poeta, noto e apprezzato in ogni tempo e in tutto il mondo, e amato in particolare dagl'Italiani, è veramente un capolavoro di poesia; ma tenuto conto che il popolo, per la sua insufficiente cultura, non è in grado d'intenderlo e conviene quindi, anziché il testo in versi, dargliene una volgarizzazione prosastica; considerando, al tempo stesso, come sarebbe antidemocratico far eccezione in questo campo e poco pratico pretendere che anche il popolo venga educato alla comprensione e al gusto dei versi mediante testi adeguatamente spiegati, ordiniamo: la Divina Commedia, in versi, non sia più testo di studio in nessuna scuola di nessun grado; in luogo del testo fin qui usato si adottino versioni in prosa, che ogni scuola si preparerà per suo conto, senza preoccupazioni per la forma, più o meno "bella"; si proceda in fretta all'allestimento di questi testi, per la preparazione dei quali non occorrerà servirsi di "competenti", ed è consigliabile, ai fini della democrazia, valersi di persone del popolo, già addette alla scuola, come sarebbero i bidelli.

Diamo, a modo di esempio, la versione di alcune terzine fra le più celebri, ossia l'inizio dell'ottavo canto del Purgatorio: Era già l'ora che volge il disìo eccetera eccetera:

"Erano circa le diciotto (ora solare): quell'ora che volta indietro il desiderio dei naviganti e che commuove il loro cuore, il giorno che hanno detto addio ai loro cari amici, e che al pellegrino nuovo fa l'effetto d'una puntura sentire una campana lontana che sembra piangere il giorno che finisce; quando io cominciai a non sentir più nulla e a guardare una di quelle anime che s'era alzata in piedi e che con la mano chiedeva la parola... Te della luce avanti e con tanta devozione si mise a cantare che io andai fuori di me eccetera eccetera".

Gli esteti, o "estetisti" che dir si debbano, diranno forse che il testo originale è più bello, e noi vogliamo ammetterlo, ma non potranno negare che la versione da noi data qui in saggio (fatta da un nostro usciere) è più chiara, più accessibile al popolo, più democratica, in una parola, e questo basta a giustificare il provvedimento; il quale, avvertiamo fin d'ora, sarà esteso, gradualmente, a tutti i testi di poesia in uso nelle scuole...».

Vedo che Sua Eccellenza, buon dantista, storce la bocca, e mi sembra di sentirlo esclamare: «Assurdo!» Assurda è infatti l'ipotesi, riguardando il Governo e non il Consilium; ma quanto a questo, dico nei riguardi dei testi composti dalla Chiesa per darci modo, come voleva Pio X, di «pregare in bellezza», l'ipotesi è un fatto, e i fatti son lì. Ne ho dato un minimo saggio nel mio libro, mettendo a confronto testi e versioni di alcune sequenze del Messale; ne colgo ancora, a caso, due campioncini, e... verrò a Ravenna, il giorno del Corpusdomini, per vedere il viso dell'Arcivescovo che canta, col suo clero e il suo popolo, in Sant'Apollinare o per le vie della città, là verso quella tomba: Quando spezzi il sacramento, non temere ma ricorda: Cristo è tanto in ogni parte, quanto nell'intero... È certezza a noi cristiani: si trasforma il pane in carne, si fa sangue vino... lasciando incerti, per l'appunto, se sia il sangue che si fa vino o il contrario. Quanto a me, il giorno che mi s'obbligasse, forca in vista, a ingozzare di quella roba, direi come quel tale: «Tiremm innanz!» - 










giovedì 27 gennaio 2022

La bestemmia è la via più sicura per andare all'inferno








di Pierfrancesco Nardini

C’è un fenomeno sempre più frequente tra i ragazzi, anche giovanissimi: la bestemmia.

Questo peccato è, ovviamente, da condannare in assoluto, non solo per i giovani ma per tutte le età. È però sempre più frequente sentire ragazzi, sempre più giovani, che lo fanno, anche molto spesso, a volte quasi come fosse un vero e proprio intercalare.

A molti potrà sembrare qualcosa di ben poco conto rispetto ad altri problemi, come ad esempio quello delle chat erotiche (vedi qui). Forse per altri non sarà nemmeno un problema.

È, invece, un grande problema, perché è uno dei segnali della sensibile diminuzione, se non proprio della perdita della fede per molti, da cui poi scaturisce la perdita del senso del peccato e della sua gravità.

Se questi ragazzi continuano a bestemmiare, viene il dubbio che all’interno delle famiglie non ci sia chi li rimproveri (non sembra verosimile che i genitori non se ne accorgano mai, così come non possono essere tutti casi di ribellione). L’unica spiegazione di un eventuale mancato rimprovero è che manchi la consapevolezza della gravità.

Questo processo ha come conseguenza, appunto, di far perdere il significato di certe cose, di non far conoscere più il senso della fede, così da arrivare a non preoccuparsi più di ciò che è peccato. O, come oggi sembra per molti, purtroppo anche all’interno della Chiesa, di ciò che una volta era peccato, ma che oggi non è più ritenuto tale.

Alla luce di questo viene anche il dubbio, che vale anche per molti adulti: sanno cos’è la bestemmia? Sanno Chi bestemmiano? Credono, soprattutto, in Chi bestemmiano?

Si dovrebbero sempre fare delle domande (quasi standard) quando si sente qualcuno bestemmiare.

“Credi in Dio?”; “No”; “Allora perchè bestemmi? Chi bestemmi? Qualcuno che non credi esista? Bestemmi il nulla?”. Molto spesso può essere utile…

“Credi in Dio?”; “Sì”; “Allora perché lo bestemmi?”. Qui a volte capita di trovare chi risponde “non l’ho bestemmiato”, allora si può far notare ad esempio che, non solo lo ha nominato invano, ma, ben più grave, la parola “mannaggia” significa “maledizione”, o argomentazioni simili. Altre volte rispondono “vabbè, è un intercalare, mica è grave”. Si può quindi far notare la “coincidenza” con il secondo Comandamento e la maggior gravità rispetto a quello. Anche in questo caso molto spesso si fa centro.

Non possiamo qui entrare nel tema della reale e piena avvertenza (necessaria per il peccato mortale). Men che meno si vuole entrare nel foro interno di ogni singolo. Ci soffermiamo solo a notare come, nonostante tutto, è ancora avvertita istintivamente da tante persone, anche lontani dalla fede, come cosa grave, almeno come cosa deplorevole. Ed anche che è bestemmia non solo quella classica, ma anche altro, che sembra oggettivamente più difficile fare senza un minimo di avvertenza.

La bestemmia, infatti, è semplice (disprezzo di Dio) o imprecativa (si augura un male a Dio). Può essere però ereticale, quando «attribuisce a Dio qualche difetto o colpa» (cattiveria, imperfezione), «nega qualche suo attributo o la sua esistenza». Anche il “semplice” negare l’esistenza di Dio rientra, dunque, in questo peccato. È ereticale anche «attribuire al demonio qualità e poteri propri di Dio» (citazioni da Dragone, Spiegazione del Catechismo di San Pio X, CLS, 2009, n. 181).

E comunque, indipendentemente dalla piena avvertenza, la bestemmia è comunque una offesa a Dio, che tale rimane pur se fatta inavvertitamente (ci saranno meno “conseguenze” per chi la dice, ma l’offesa rimane).

Per questo insistiamo così tanto sulla formazione. Molte volte è davvero poco quel che serve per conoscere/approfondire la propria fede ed evitare di peccare. A volte basta leggere il Catechismo (quello di San Pio X, magari). Il Santo di Riese è chiarissimo: «La bestemmia è grande peccato, perché ingiuria e scherno di Dio o dei suoi Santi, e spesso anche orribile eresia» (n. 181).

È un peccato gravissimo perché contravviene al secondo Comandamento, ma va anche oltre, contrastando con il massimo comandamento dell’amare Dio. È anche contrario alla virtù della religione (obbligo di onorare il Signore).

La Chiesa ha sempre insegnato la gravità di questo peccato. Impossibile fare un elenco delle tante citazioni possibili. È utile però, ricordare quel che dicevano due santi molto conosciuti per rendere l’idea che dai primi secoli ai tempi nostri è sempre stato così.

San Giovanni Crisostomo (334-407): «Per la bestemmia vengono sulla terra le guerre, le carestie, i terremoti, le pestilenze. Il bestemmiatore attira il castigo di Dio su se stesso, sulla sua famiglia e sulla società: Dio, per la bestemmia, spesso punisce gli uomini in generale, ma a volte punisce anche il singolo in particolare. Pur se nel corso della vita ci sono dei bestemmiatori che non vengono puniti dalla giustizia di Dio, alla fine della vita nessuno sfuggirà alla sua sentenza» (Annali).

San Pio da Pietrelcina (1887-1968): «La bestemmia attira la maledizione di Dio sulla tua casa ed è la via più sicura per andare all’inferno» (Epistolario).

Dio è Verità, Bontà e Bellezza

Il Cammino dei Tre Sentieri






mercoledì 26 gennaio 2022

Padre Bamonte, evidenzia alcuni aspetti del demonio durante gli esorcismi


foto Avvenire



La testimonianza del Presidente internazionale degli Esorcisti




Di Rita Sberna, 26 Gennaio 2022

Il demonio ha parlato della Madonna(chiamandola soltanto Lei o Quella) in molti esorcismi di Padre Francesco Bamonte:

“Voi pensate che Lei (Maria Santissima) sia lassù, ma Lei non sta lassù. Lei vi sta vicino….cosa avete mai fatto,voi ,per averla così vicino ? (lo ripete con rabbia) E quando morite, Lei è là, Lei è là e aspetta un vostro pensiero, un vostro palpito del cuore per il bene, una vostra chiamata a Quello (a Gesù) e Lei è là, Lei è là che vi aspetta con il cuore aperto di Madre! Tu sai che cos’è una madre, eh? Una madre guarda teneramente tutti i figli, insegna loro il bene, li richiama al bene e piange, e piange se il figlio, il figlio, il figlio non l’ascolta, perchè sa che io, io lo prenderò, se non l’ascolta io lo prenderò!”

“Lei è Tutta Santa, io invece tutto dannato. Lei è Tutta Bella e io sono tutto ciò che è brutto. Lei è cresciuta nella pienezza di grazia, io sono cresciuto nella pienezza della morte!”. E ancora: “Quando contemplate i misteri di quella corona (il Santo Rosario), sto male. Sono bastonate. Mi strappa tante…tante anime…perché è sua (di Maria Vergine)…è di Quella!”.

In ultimo: “Lei è l’unica che è dovunque; mi ‘uccide’, mi ha sempre ‘ucciso’, mi mette in testa i piedi; il suo velo maledetto mi strozza ogni volta; nessuno di noi (demoni) resiste!”.


Se lo scopo del demonio è quello di far pensare che non esista, la possessione, pur se tanto sofferta da chi la subisce, diviene testimonianza del contrario ed è spesso strumento di guarigione e di conversione per il sofferente e per i suoi familiari , perchè offre inequivocabilmente testimonianza della potenza dell’Amore di Gesù Cristo e di Maria Santissima per ognuno di noi.


Un altro caratteristico atteggiamento del demonio, durante gli esorcismi, è il parlare frequentemente di sterminio e distruzione: tutto ciò che è bello, buono, sano, pulito, armonioso, con linguaggio beffardo, viene preso di mira, con la minaccia di volerlo deturpare e distruggere. Si avverte il suo particolare odio verso il sacramento del matrimonio e verso gli affetti familiari: reagisce in maniera estremamente violenta quando si benedice il matrimonio di due sposi; o quando li si invita a rinnovare le loro promesse matrimoniali.

Un giorno (nell’anno 2005), espresse molto bene il suo odio per la famiglia con queste parole:
Non mi piacciono ancora come vanno vestite le donne. Devono essere sempre più svestite, così che il sesso sia sempre più dominante e io possa distruggere sempre più le famiglie!. Altre volte ha definito gli organi sessuali, con evidente linguaggio metaforico, il centro del mondo. Ho riscontrato altre reazioni furibonde anche quando ho benedetto il fidanzamento di giovani che si erano impegnati seriamente a vivere nella castità. Il demonio qualificava questa loro scelta come una porcheria.

Un altro aspetto della personalità del demonio, che si evidenzia fortemente negli esorcismi, è il suo puro odio. Egli gode del male, in qualunque forma si realizzi. Una volta ha gridato queste parole: Prendi quello schifo del libro dell’Apocalisse. C’è scritto di quella Donna che partorisce. Io i bambini cerco sempre di mangiarli. Sai come? E ha descritto, con parole tremende, lo sterminio giornaliero, in ogni parte del mondo, di migliaia di bambini nel grembi materno con l’aborto e le violenze sessuali sui piccoli. Quel che ancor più rendeva raccapricciante tali descrizioni, era ogni volta l’aggiunta dell’espressione come godo!.

Questa stessa espressione l’ha usata anche riferendosi ai giovani che, con la droga, si riducono a larve umane, e ai kamikaze, che si fanno esplodere. Mi ha colpito molto anche il modo con cui capovolge le cose, considerando il bene male e il male bene. Ad esempio varie volte, presentandogli una reliquia, ha detto: Che puzza! E’ la puzza di chi ha scelto Lui! (si riferisce a Gesù Cristo, che, per odio e disprezzo, non nomina quasi mai); presentandogli una corona del Rosario l’ha definita: “Catena maledetta, con la Croce in fondo”; all’aspersione con l’acqua benedetta, ha protestato, affermando di non voler essere lavato da quell’acqua, che puzza e che lo brucia; alle mie parole: Benedici Signore questo nostro fratello! Ha prontamente risposto: Che sia maledetto, lo porterò con me all’inferno!; alle parole del Vangelo: Venite con me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò (Mt 11, 28), immediatamente ha replicato: Venite a me voi tutti che siete allegri, venite a me voi tutti che siete perversi e io vi ristorerò.

Una volta , mentre facevo un esorcismo, giunti alle parole dell’esorcismo inimìce fidei, hostis, géneris umani, mortis adductor (Nemico della fede, avversario del genere umano, portatore di morte), il demonio espresse tutta la sua irresistibile aspirazione al male e per il male con queste parole: Il potere del peccato sarà il nostro altare, su quello sacrificheremo le anime dei tuoi figli maledetti, su quell’altare faremo il sangue dei tuoi figli maledetti. C’è un dio per chi odia, e questo dio è il mio dio.

Sempre, poi, nelle sue invettive, emerge anche come egli è davvero colui che tenta continuamente di dividere gli uomini e di aizzarli gli uni contro gli altri. Ama infatti sottolineare che gli piace vedere l’odio fra gli uomini ed è avido della malvagità umana perché, come ha affermato più volte: sono cibo che mi alimenta e mi rafforza.

A tale proposito , tante volte l’ho sentito affermare, in perfetta sintonia con la teologia, che il male è una scelta della nostra volontà e quando la volontà umana, sorretta dalla grazia gli si oppone, non può nulla. Allo stesso tempo, tante volte ha anche affermato, in maniera molto chiara, questa sua principale attività in mezzo agli uomini, che è appunto la tentazione. Una volta, al momento in cui viene definito dal rituale degli esorcismi: malorum radix, fomes vitiorum, sedùctor hòminum, proditor gentìum (radice di tutti i mali, fomite dei vizi, seduttore degli uomini, ingannatore dei popoli), ha espresso la sua attività tentatrice con queste parole eloquentissime: Il nostro dovere è tentare sempre, chiunque, dovunque e comunque. Qualcuno ci cade nella nostra rete, qualcuno ci cade per sempre!.

Un’ultima esperienza che riporto, tra quelle che mi colpiscono durante l’esorcismo, è toccare con mano la potenza e l’efficacia della preghiera. L’esorcismo è un’azione liturgica, quindi è preghiera della Chiesa. L’esorcista non esorcizza a suo nome, ma in nome di Cristo e della Chiesa. Ebbene, se si rimane molto dispiaciuti per le sofferenze che il demonio infligge alla persona che possiede, allo stesso tempo, riflettendo, comprendiamo che se questa preghiera disturba così tanto il demonio, al punto di causargli tali reazioni, allora qualsiasi altra preghiera, liturgica o privata, se fatta con fede, porta il suo frutti, anche se non ne vediamo così sensibilmente ed immediatamente gli effetti. 

Tutto questo ci sprona ad amare la preghiera, sia quella comunitaria, sia quella individuale e ad aumentare il desiderio e la frequenza, con la certezza che la preghiera sincera è sempre causa di un effetto benefico, anche su noi stessi, sebbene sul momento non sia sempre percepibile. Ricordo come una volta il demonio stesso, suo malgrado dovette confermarlo, dicendo, senza dubbio costretto da Dio: Se voi uomini viveste in ginocchio davanti a Lui (Dio, n.d.r.) e cantaste le Sue lodi come fanno gli Angeli, noi non avremmo tutto il potere che ci date su di voi.







Germania, il coming out dei cattogay alla resa dei conti





125 tra sacerdoti e impiegati della Chiesa cattolica in Germania hanno fatto coming out come persone queer e hanno chiesto la fine della discriminazione istituzionale contro le persone Lgbtq. Nel docufilm trasmesso dalla tv pubblica compaiono preti, un vescovo e funzionari di strutture ecclesiali come la Caritas e le curie. La tempistica di messa in onda coincide con le accuse a Papa Benedetto XVI sugli abusi. E ora la "Chiesa Lgbt" vuole la resa dei conti finale.




CHIESA FUORI CONTROLLO

ECCLESIA

Luca Volontè, 26-01-2022

Non per caso, ma come parte integrante del complotto scatenatosi negli ultimi giorni verso Papa Benedetto, il 24 gennaio, 125 tra sacerdoti e impiegati della chiesa cattolica in Germania hanno fatto coming out come persone queer e hanno chiesto la fine della discriminazione istituzionale contro le persone LGBTQ e di eliminare le «dichiarazioni obsolete della dottrina della Chiesa» quando si tratta di sessualità e genere.

Il documentario è stato trasmesso dalla tv tedesca pubblica Ard. I protagonisti sono funzionari della Caritas, dipendenti della curia di varie diocesi, preti, monaci, suore, educatori ed educatrici, insegnanti, dottoresse e infermiere delle cliniche cattoliche tedesche. Tra essi un sacerdote gesuita Ralf Klein, parroco nella Foresta Nera, il francescano Fratello Norbert, insegnanti di religione cattolica, due suore lesbiche che hanno lasciato l’abito e il vescovo di Aquisgrana, Helmut Dieser secondo il quale la richiesta di cambiare il diritto canonico per permettere a gay, lesbiche, bisessuali e transgender di lavorare per la Chiesa è «giustificata» e si è scusato con tutte le persone ferite ed incomprese dalla Chiesa per i loro genere sessuale.

Nell’autonomia garantita dalla legge tedesca alla Chiesa c’è la clausola di lealtà che obbliga i dipendenti della Chiesa cattolica a vivere e comportarsi secondo la dottrina cattolica, i protagonisti del documentario potrebbero dunque rischiare il licenziamento. Questi stessi membri LGBTI della Chiesa hanno pubblicato sette richieste sui social media con l’iniziativa "OutInChurch".

Le richieste vanno da quelle delle persone queer che pretendono di aver accesso a tutti i tipi di attività e occupazioni nella Chiesa senza discriminazione, altri che invitano la Chiesa a rivedere le sue dichiarazioni sulla sessualità sulla base di «scoperte teologiche e umano-scientifiche». La Chiesa dovrebbe anche assumersi la responsabilità per la discriminazione contro le persone LGBTI verificatesi nel corso della storia.

Nella scelta dei tempi di messa in onda del documentario (dopo 5 anni di lavoro di indagine ed interviste), hanno pesato certamente gli attacchi scatenatisi negli ultimi giorni a Papa Benedetto XVI e i lunghi silenzi incomprensibili che da più di un anno accompagnano le stravaganze scismatiche della chiesa tedesca (almeno due vescovi in Germania, tra cui il cardinale Reinhard Marx di Monaco, hanno mostrato un certo sostegno per una sorta di benedizione "pastorale" per le unioni dello stesso sesso).

Le accuse bestiali ed i loquaci silenzi dei giorni scorsi verso Papa Benedetto XVI dimostrano, come detto da Stefano Fontana su La Bussola e nell’intervista di Mons. Massimo Camisasca sul Corriere della Sera del 22 gennaio scorso, non solo il fastidio nei suoi confronti, ma anche la proterva volontà di cancellarlo il prima possibile.

Il livore con cui la stampa di sinistra di tutto il mondo ha sbandierato le scuse di Papa Benedetto XVI, dopo la pubblicazione del rapporto indipendente sugli abusi nella Diocesi di Monaco, è emblematica della cattiveria verso Ratzinger. «L’Ex-Papa Benedetto sapeva degli abusi sessuali e non ha fatto nulla», questo il titolo fotocopia che il 20 gennaio si poteva leggere sulle colonne dei network dei mass media di tutto il mondo: Cbc in Canada, Abc , CNN e NYT negli Usa, Reuters e Associated Press, DW in Germania, Aljazeera in medio oriente etc.

Ciò che ha fatto da Cardinale e da Papa Joseph Raztinger contro gli abusi e la sporcizia nella Chiesa rimane nella storia come un’impareggiabile ed efficace segno esemplare. Sono però l’intero insegnamento di Papa Benedetto e le 18 pagine di appunti pubblicati sul mensile tedesco Klerusblatt, ripreso integralmente dal Corriere della Sera del 11 aprile 2019, sulla dimenticanza di Dio, gli inaccettabili ritardi della Chiesa e sul processo di cedimento della morale e della chiesa alle ideologie sessantottine, ad essere la vera ragione degli attacchi violenti.

Ora la lobby gay ed LGBTI presente nella Chiesa e fuori dalla Chiesa pensa evidentemente sia giunto il tempo per lo showdown finale. Il silenzio tombale della chiesa tedesca sulle performances blasfeme della Madonna trans e della sacra famiglia pubblicate sulle riviste LGBTI tedesche dall’ambasciatore europeo LGBTI è stato emblematico. Con l’evaporazione della appartenenza alle chiese cristiane tedesche, nel 1990 cattolici e protestanti rappresentavano 58 milioni, oggi solo 41 milioni su 83 milioni di abitanti ed il prossimo anno (prevedibilmente) ancor meno cittadini doneranno il proprio obolo fiscale alle chiese, si sta pensando di ammontare la propria immagine con una bella tovaglia arcobaleno sull’altare (come si mostra nella prima immagine del documentario tedesco). Prendiamo atto di circostanze concorrenti: nel condannare alla ‘damnatio memoriae’ Papa Benedetto Magno, si vuol in realtà distruggere la dottrina della Catholica ed il Creatore. A Roma si batta un colpo.









martedì 25 gennaio 2022

Claude Barthe: "Una teologia ed una prassi della morte del sacerdozio"





Riprendiamo dal blog Messa in latino del 05/01/2022



L'ABBÉ CLAUDE BARTHE, Res Novae

«La Chiesa è senza fiato»: è questo il messaggio, in parte corrispondente alla realtà, in parte inventato, che un intenso battage mediatico sugli scandali dovuti ad abusi sessuali intende diffondere in Francia, Germania ed altrove. E il messaggio continua: la Chiesa deve dunque riformarsi strutturalmente, purificandosi da ogni clericalismo con modalità di funzionamento più democratiche, più sinodali.

Non si tratta di negare che il clericalismo sia nefasto, qualora lo si intenda come l’arroganza di taluni sacerdoti, che dimenticano come la loro «parte d’eredità», kleros in greco, sia prima di tutto il ministero ed il servizio. Ma il termine, utilizzato come uno slogan ed in modo dispregiativo, riecheggia in realtà i principi ideologici della società moderna, sempre più secolarizzata. E come ai tempi di Gambetta e del suo grido «Il clericalismo, ecco il nemico», è il sacerdozio cattolico ad essere preso di mira.


Una teologia per cancellare il sacerdozio


Come abbiamo conosciuto i teologi della morte di Dio, che sostengono «religiosamente» l’ateismo o l’agnosticismo contemporaneo[1], così potremmo parlare di una teologia della morte del sacerdozio, che offre una garanzia «cattolica» alla cancellazione appunto del sacerdozio nella società. I teologi, che se ne occupano, analizzano due tipi di riflessione, che non si escludono ma si completano a vicenda.

La prospettiva sinodale consiste nel far sì che il presbiterato e l’episcopato siano per il popolo della Chiesa locale concreta e che emanino da esso. Padre Hervé Legrand O.P. è un buon esponente di tale obiettivo[2]. È opportuno uscire dal ruolo amministrativo che ha ricoperto, secondo lui, un clero burocratizzato e ritrovare la sua concezione tradizionale, ciò che gli si accorderà di buon grado, salvo confrontarsi sulla maniera di ritornare alla tradizione. Da parte sua, vorrebbe recuperare il modello dell’organizzazione ecclesiastica dell’inizio del III secolo, come lo si può immaginare tramite la Tradizione apostolica d’Ippolito di Roma. 

La Chiesa locale, spiega, era una comunità presieduta da un vescovo, unico vero sacerdote, circondato da alcuni preti, che non erano ancora sacerdoti. Questa comunità sceglieva il suo pastore, al quale non era richiesto uno stato di vita speciale (celibato). Secondo Hervé Legrand, si potrebbe tornare a questa organizzazione, ispirandosi al modo in cui si sceglievano i diaconi permanenti: la Chiesa locale s’interrogherebbe sul tipo di pastori di cui necessiti, li chiamerebbe e fornirebbe loro una formazione locale in linea con la cultura ed i bisogni concreti, senza obbligarli necessariamente al celibato. I pastori, in questa prospettiva sinodale, nascerebbero praticamente dal Popolo di Dio per accompagnarlo nella sua missione ed il sacerdozio ministeriale apparirebbe come un’emanazione ed un servizio del sacerdozio dei fedeli.

La prospettiva della «pluriministerialità» (Henry-Jérôme Gagey, Céline Baraud) cerca di integrare, per non dire di soffocare, il sacerdozio in un pullulare di ministeri laici originati dai carismi del Popolo di Dio[3]. All’origine di tale prospettiva v’è un articolo di Padre Joseph Moingt, S.J.: « L’avenir des ministères dans l’Église catholique »[4], che parlava della possibilità di «distribuire ad altri ministri, ed in particolare ai laici, la totalità o parte delle funzioni fin qui esercitate dai sacerdoti».


Padre Christoph Theobald, S.J., che svolge attualmente un ruolo molto attivo nelle commissioni preparatorie del Sinodo sulla sinodalità, con teologi quali Arnaud Join-Lambert (Svizzera), Alphonse Borras (Belgio), Gilles Routhier (Québec), immagina così il futuro[5]: in Europa occidentale, i rarissimi sacerdoti di domani dovranno essere «preti-traghettatori», per la maggior parte del tempo itineranti, educheranno i cristiani alla fede, faranno maturare il loro senso di responsabilità, poi s’eclisseranno; dei ministri laici stabili li sostituiranno sul territorio ed assicureranno una «presenza della Chiesa» nel governare le comunità, nel servizio della Parola (predicazione, catechesi, animazione della liturgia, ascolto, che potrebbe tra l’altro sorpassare o sostituire il sacramento della penitenza), nell’ospitalità (accoglienza, incontri). I «preti-traghettatori» potranno d’altronde essere individuati e scelti dalle comunità tra coloro che garantiranno questi ministeri plurali. E piuttosto di una formazione specializzata nei seminari, l’insieme di questi attori e l’insieme della comunità potranno beneficiare di una formazione permanente.


Una laicizzazione del personale ecclesiastico


Il Vaticano II, concilio per definizione molto innovativo poiché voleva andare oltre la dottrina tridentina, è stato un concilio di accomodamento tra progresso e tradizione nei testi, «aggiustati», come dice lo storico Yvon Tranvouez, per riportare un’adesione quasi unanime.


L’insegnamento ed il governo politico, seguiti al Concilio, quale che sia l’orientamento del potere romano, montiniano, wojtylo-ratzingeriano o bergogliano, sono stati transazionali: si è sempre trattato di dare garanzie all’«apertura» o al contrario di praticare un «ricentramento», ma senza eccessi né da una parte né dall’altra per evitare, nei due casi, di far esplodere in qualche modo la macchina conciliare. Ciò non toglie che la secolarizzazione del personale ecclesiastico, e dunque la cancellazione del sacerdozio, pur essendo meno radicali di quanto si augurassero le correnti teologiche sopra menzionate, siano comunque molto reali.


In primo luogo, c’è questo fatto massiccio, che cioè l’«apertura» operata dal Concilio sia stata intesa dal clero come tale da implicare, senza che neppure avesse luogo una discussione, l’adattarsi alla secolarizzazione della società. Secolarizzazione clericale, che aveva d’altronde, soprattutto all’inizio, considerevolmente accelerato la secolarizzazione sociale. Da qui l’abbandono dell’abito ecclesiastico, ed in forma più grave i numerosi abbandoni dello stato ecclesiastico, la trasformazione della vita religiosa col conseguente prosciugamento di vocazioni dovuto ad una perdita di senso di detto stato agli occhi dei giovani cattolici.


Per quanto riguarda le decisioni romane relative al governo (pertinenti l’auctoritas gubernandi), che hanno per forza di cose un aspetto dottrinale (facultas docendi), esse sono state liturgiche e istituzionali.


Così Paolo VI, guidando e poi applicando il Vaticano II, pur mantenendo con fermezza il principio del celibato sacerdotale (enciclica Sacerdotalis Cælibatus del 24 giugno 1967), ha assunto tre scelte pesanti:
Istituendo, con Lumen gentium n. 29, contrariamente all’antica disciplina del celibato, un diaconato come grado gerarchico proprio e permanente, per uomini eventualmente sposati e non destinati al sacerdozio.

Assai vicino al sacerdozio s’è formato così del personale sociologicamente più laico che clericale, che non cessa di crescere (in Francia, dal 2000 al 2019, il numero dei diaconi permanenti è pressoché raddoppiato, passando da 1.499 a 2.794, mentre il numero dei preti in attività è sceso da 5.000 a 3.000).
Abrogando col motu proprio Ministeria quædam del 15 agosto 1972 il sottodiaconato e gli ordini minori e rimpiazzandoli coi semplici ministeri istituiti del lettorato e dell’accolitato, i cui destinatari restano semplici laici[6]. A ciò si aggiunse la distribuzione della comunione ad opera di laici, uomini e donne (istruzione Immensæ caritatis del 29 gennaio 1973).

Rendendo quasi automatica la dispensa dal celibato per i preti dimessi dallo stato clericale, avendovi essi rinunciato, con l’intenzione in sé buona ch’essi non restino nel peccato ma provocando di conseguenza come effetto, eminentemente lassista, un’emorragia verso la mondanizzazione (norme del 1971). Il tentativo di Giovanni Paolo II di rendere questa dispensa più rara (norme del 1980) è d’altronde fallita.


Giovanni Paolo II e Benedetto XVI hanno pubblicato bellissimi testi per esaltare il sacerdozio ed il celibato (Esortazione Pastores dabo vobis del 25 marzo 1992), ma papa Wojtyla ed il suo successore non hanno nemmeno preso in considerazione l’idea di fare marcia indietro sul fatto che l’altare fosse ormai circondato da attori liturgici laici, uomini e donne, lettori e lettrici, ministranti uomini e donne o ministri straordinari della comunione.


Quanto a Francesco, infine, egli ha ampliato le misure precedenti:
Approvando il documento finale dell’assemblea speciale del Sinodo dei Vescovi per l’Amazzonia, che propone, in assenza di preti nelle comunità, che il vescovo possa conferire, per un periodo determinato, l’esercizio della responsabilità pastorale ad un laico a turno (n. 96). In merito, l’esortazione Querida Amazonia del 2 febbraio 2020 ha stabilito che i responsabili laici dotati d’autorità possano presiedere alla vita delle comunità, specialmente per render concreti i diversi carismi laici, al fine «di permettere lo sviluppo di una cultura ecclesiale propria, marcatamente laica» (n. 94 – sottolineato nel testo).
pubblicando il motu proprio Spiritus Domini dell’11 gennaio 2021, che ha modificato il canone 230 §1 e permesso che i ministeri del lettorato e dell’accolitato potessero essere conferiti alle donne, in più evidentemente laiche, se così si può dire (decisione ch’era d’altronde di puro principio, visto ch’esse ne esercitavano già le funzioni).


Le contraddizioni di una sinodalità ideologica



Non è tuttavia contraddittorio che si tenga tanto a far riconoscere la sinodalità attraverso testi ufficiali da parte del potere romano centrale? Perché le Chiese locali o le comunità territoriali non decidono esse stesse, da sole, di porre in essere (di porre maggiormente in essere) questa «cultura ecclesiale propria, marcatamente laica»? Perché questa «pluriministerialità» non emana dall’ambiente dei cristiani laici, in funzione dei bisogni delle comunità e dei carismi dei loro membri?


In realtà, nessuno immagina che la sinodalità, vita della Chiesa alla base e dalla base, venga istituita (o accresciuta) se non per decreti provenienti dall’alto! Di fatto, la centralizzazione tridentina, posta al servizio, dopo il Vaticano II, di un contenuto dottrinale anti-tridentino, non è mai stata tanto assoluta, con un sistema ecclesiastico bloccato all’estremo, con vescovi-prefetti, un papa autoritario, una Curia militante, assemblee sinodali ed episcopali, i cui membri si autocensurano con notevole efficienza, il tutto al servizio di una campana di vetro ideologica.


A meno che la salvezza non venga proprio dalla sinodalità, da una vera sinodalità, intesa come quella di una Chiesa, in cui il papa, i vescovi, i sacerdoti, i fedeli esercitino in maniera responsabile, all’interno di un ordine reale, il servizio relativo alla trasmissione del Buon Deposito e della sua diffusione mediante la missione. In breve, per dirla tutta, ci si augura l’avvento di una sinodalità tradizionale, che farebbe crollare l’imposizione della sinodalità ideologica. Ne avevamo parlato nel nostro editoriale sul n. 20 di Res Novæ del giugno 2020 (https://www.resnovae.fr/uno-scisma-dovuto-allautorita-dimissionaria/) circa la necessità dell’avvio di crisi salutari, di crisi cattoliche, di atti liberatori, dove vescovi, preti, fedeli si rendano capaci di fare il bene della Chiesa.


don Claude Barthe


[1] Si veda una versione cattolica della teologia della morte di Dio in Christian Duquoc, Dieu différent [Dio differente], Cerf, 1977: il Dio che si rivela in Gesù Cristo è un Dio fragile e morente, un «Dio differente» da quello della ragione ed anche dal Dio dell’Antico Testamento.
[2] « La théologie de la vocation aux ministères ordonnés. Vocation ou appel de l’Église » [«La teologia della vocazione ai ministeri ordinati. Vocazione o chiamata della Chiesa»], La Vie spirituelle, dicembre 1998, pp. 621-640; « Ordonner des pasteurs. Plaidoyer pour le retour à l’équilibre traditionnel des énoncés doctrinaux relatifs à l’ordination » [«Ordinare i pastori. Un appello per il ritorno al tradizionale equilibrio delle dichiarazioni dottrinali relative all’ordinazione»], Recherches de Science religieuse, aprile 2021, pp. 219-238.
[3] Joseph Doré e Maurice Vidal (sotto la direzione di), Des ministres pour l’Église [Sui ministri per la Chiesa], Cerf, 2001; Céline Béraud, Prêtres, diacres, laïcs. Révolution silencieuse dans le catholicisme français [Preti, diaconi, laici. Rivoluzione silenziosa nel cattolicesimo francese], PUF, 2007.
[4] [«L’avvenire dei ministeri nella Chiesa cattolica»], Études, luglio 1973, pp. 129-141.
[5] Urgences pastorales. Comprendre, partager, réformer [Urgenze pastorali. Comprendere, condividere, riformare], Bayard, 2017.
[6] Peter Kwasniewski, Ministers of Christ: Recovering the Roles of Clergy and Laity in an Age of Confusion [Ministri di Cristo: Recuperare i Ruoli del Clero e dei Laici in un’Epoca di Confusione],Sophia Institute Press, 2021.






La vera sinodalità nella Chiesa: percorrere insieme la strada che è Gesù, via, verità e vita





25GEN22

Dal blog Duc in altum di Aldo Maria Valli




di monsignor Héctor Aguer*

Recentemente nella basilica di San Pietro è stata inaugurata la XVI sessione del sinodo dei vescovi. Fin dalla sua nascita, per volontà di Paolo VI, il sinodo è diventato praticamente un’istituzione del governo ecclesiale. Ma si tratta di una risorsa a cui la Chiesa ha fatto ricorso molte volte lungo la sua storia, fin dall’antichità, nelle diverse regioni e province ecclesiastiche. Anche se scopo di questo scritto non è fare un trattato sulla storia dei sinodi, sottolineo che il sinodo è un riflesso della vita ecclesiale che appassiona e permette di apprezzare l’organizzazione delle Chiese locali e le loro relazioni, un’ammirevole ricchezza della Chiesa cattolica. Lungo la storia la convocazione di un sinodo cercava di affrontare situazioni difficili, di crisi, facendo fronte alle distorsioni della fede. Non è stata un’invenzione stravagante, ma è nata in modo naturale, come espressione del fatto che la Chiesa di Cristo è una comunione.

La stessa parola sinodo esprime il cammino della storia della Chiesa in quanto comunione. Deriva dal greco, il che indica anche l’origine antica e orientale di questa istituzione. Sinodo è syn-hodós: la preposizione o l’avverbio syn, cioè con, è posta prima del sostantivo hodós, cammino. Quindi è un percorrere insieme la strada. Il termine greco è femminile e si potrebbe quindi tradurre anche come la via. Ed era proprio così che, durante le assemblee sinodali, dopo studi e dibattiti, si prendevano decisioni congiunte: lungo un percorso.


L’episcopato, successore degli apostoli di Gesù, esercitava il compito che gli era stato attribuito, quello di vegliare (skopeîn: guardare dall’alto per poter vedere come si svolgono le cose e giudicarle con autorità). Il servizio o ministero del vescovo è quello di sentinella, espressione di amore per Cristo e il suo popolo. Su questo abbiamo bei documenti nelle esortazioni post-sinodali dei grandi pontefici san Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. È il vescovo di Roma, sommo pontefice della Chiesa universale, che ha il compito di presiedere questa istituzione. È lui, il papa, che indica i temi e gli atteggiamenti pastorali. Nell’annunciata XVI riunione del sinodo dei vescovi, durante la messa di apertura, il sommo pontefice ha ribadito le sue già note linee guida. Ha detto ancora una volta che la Chiesa non deve essere «asettica», ma «attaccata alla realtà e ai suoi problemi»; deve addentrarsi nei «percorsi accidentati» della vita nel mondo, essere pronta per «l’avventura del cammino», non temere di fronte all’incertezza, né rifugiarsi in scuse giudicando che qualcosa di nuovo non serve perché «si è sempre fatto così». Ha auspicato, come riportato dai media, «una Chiesa che affronti le sfide del mondo moderno».


Questo linguaggio si ripete da almeno mezzo secolo, un tempo in cui è innegabile che la Chiesa sia caduta in una notte terrificante, salvo brevi e locali lampi di luce che ci permettono di sostenere la speranza nell’azione di Dio e nella sua misteriosa provvidenza. I pontificati di san Giovanni Paolo II e Benedetto XVI hanno diligentemente custodito questi splendori. Ma questo fa ormai parte del passato.

L’organizzazione approvata durante il vertice di Roma per il XVI sinodo includerà, come annunciato, una fase di consultazione con i fedeli per la quale verrà inviato un questionario a ciascuna diocesi. Ho anche sentito parlare di una specie di sinodo generale di tutta la Chiesa, simile a un parlamento permanente. Nel frattempo, non si parla più di Gesù Cristo e non viene neanche rivendicata la conversione alla Verità e alla Grazia. I peccati che vengono denunciati sono la costosissima proliferazione delle armi, la distruzione della natura, la deforestazione, la negligenza che favorisce il cambiamento climatico, e più recentemente si è insistito sull’obbligo morale di vaccinarsi contro il Covid.


La Chiesa è rimasta intrappolata in un moralismo razionalista d’ispirazione kantiana, mentre Dio, il mistero di Cristo e la sua opera salvifica sono finiti sotto l’influsso della Ragione Pratica.

È terribile la responsabilità in cui incorrono i pastori della Chiesa quando non invocano più la conversione con fervore apostolico. È molto doloroso constatare, da questo angolo desolato dell’Argentina, che quell’amore fervente che trasmette la Parola non arriva dalle grandi chiese della Riforma – più rovinate di quella cattolica – ma da qualche pastore appartenente alla chiesa evangelica.


È vero che questa predicazione evangelica include un certo fondamentalismo ed eccessi pseudocarismatici, ma almeno fa risuonare la Verità in un mondo nel quale il peccato regna indisturbato: Gesù verrà di nuovo, nella gloria, per il giudizio del mondo e la conclusione della storia. È la realtà proclamata nel Credo niceno: «Et iterum venturus est cum gloria iudicare vivos et mortuos, cuius Regnum non erit finis». È la verità che si deve credere nell’umile fervore della fede, senza incorrere in sciocchezze millenariste, perché solo Dio sa quando. Nel frattempo avviene il mistero della salvezza, che dobbiamo offrire incessantemente a ogni uomo e ad ogni donna. Il moralismo freddo e improduttivo, e le imprecazioni per il suo fallimento, hanno bisogno di essere vivificati dalla grazia dell’amore, perché senza di essa non si potrà ottenere alcun effetto. L’apparato politico della Chiesa, ormai piegato alla «correttezza» che regna nel mondo, sarà un peso insopportabile se non assolverà al compito che il Signore risorto, prima di ritornare al Padre, ha affidato agli apostoli.


Sinodo: percorrere insieme la strada, ma quale? La Chiesa moderna (o meglio modernista) sottolinea il syn: ciò che conta è lo stare insieme. Ma dove ci porta questo cammino? Nella conversazione che ha con i suoi discepoli durante l’Ultima Cena, Gesù cerca di spiegare il suo ritorno al Padre; Egli dice che va a preparare un posto per loro: nella Casa del Padre ci sono molte dimore; sapete già dove sto andando e conoscete la strada. Tommaso gli domanda: «Signore, non sappiamo dove vai e come possiamo conoscere la via?». Gli risponde Gesù: «Io sono la via (ἐγώ εἰμι ἡ ὁδὸς), la verità e la vita» (Gv. 14,6). Come sottolineano diversi Padri della Chiesa, egli è la Via che dà accesso al fine che è lui stesso come Verità e Vita.

Sinodo: percorrere insieme la strada che è Gesù. Questo è il cammino che la Chiesa deve annunciare con piena convinzione e amore, liberandosi del moralismo che l’imprigiona e rinchiude nell’atmosfera soffocante della Ragione Pratica. E deve guidare il mondo su questa Via, che è l’unica che ha un’uscita, contemplandola con gioia e amore. Per questo le è stato affidato di trasmettere il mistero soprannaturale della fede.

*arcivescovo emerito di La Plata, Argentina

Fonte: infocatolica.com

Titolo originale: La sinodalidad de la Iglesia

Traduzione di Valentina Lazzari