sabato 30 giugno 2018

Il “cambio di paradigma” e la sua vera portata





di Aldo Maria Valli  (29/06/2018)

Nel libro Il «cambio di paradigma» di papa Francesco. Continuità o rottura nella missione della Chiesa? (Instituto Plinio Corrêa de Olivera, 216 pagine) José Antonio Ureta si propone di fare un bilancio del pontificato di Bergoglio dopo cinque anni di regno, e i titoli dei capitoli in cui si suddivide il testo possono benissimo riassumere il contenuto delle argomentazioni dell’autore. Basta quindi elencare questi titoli per capire che cosa Ureta pensa della linea di Francesco in campo dottrinale, pastorale, sociale e politico.

Prima di tutto Ureta vede nel magistero di Francesco un «restringimento pastorale dei “valori non negoziabili”» che furono al centro dell’insegnamento sia di san Giovanni Paolo II sia di Benedetto XVI. Poi, di seguito, ecco la «promozione dell’agenda neomarxista e no global dei “movimenti sociali”», la «promozione dell’agenda “verde”, di un governo mondiale e di una mistica ambigua», la «promozione dell’immigrazione e dell’Islam» accompagnata da una «reticenza sui cristiani perseguitati in Medio Oriente», e ancora: un «indifferentismo religioso», un «relativismo filosofico» e un «evoluzionismo teologico» che si accompagnano a «una nuova morale soggettiva senza imperativi assoluti».
Infine Ureta, dopo aver fornito un esempio di questo «cambiamento di paradigma» concentrandosi sull’accesso dei divorziati risposati alla Comunione, rileva che «il denominatore comune del cambiamento di paradigma» introdotto da Francesco è il tentativo di «adattarsi alla Modernità rivoluzionaria e anticristiana», tentativo ampiamente dimostrato dal «rovescio della medaglia», ovvero «la simpatia dei poteri mondani e delle correnti anticristiane» per questo pontificato.

Prima della conclusione, nella quale l’autore parla esplicitamente di «confusione» nella Chiesa e arriva a mettere in conto una possibile «scissione pratica» come conseguenza dell’attuale «divisione virtuale» tra due correnti nettamente contrapposte, Ureta si chiede se via sia una «liceità della resistenza» a un magistero che sotto molti aspetti appare non più cattolico, e la risposta, considerate le argomentazioni precedenti, è ovviamente che una resistenza non solo è possibile, ma doverosa.
Ciò che sostiene Ureta è da tempo al centro dei tentativi di analisi che altri autori conducono in varie forme e ciascuno secondo il proprio stile. Tutto ciò che Ureta spiega e sottolinea con grande chiarezza, ricorrendo a un ricco apparato di citazioni, è verificabile e per molti è fonte di dolore. Alcuni (pochi) osservatori se ne sono accorti subito, altri hanno impiegato più tempo. Sta di fatto che le preoccupazioni di Ureta appaiono giustificate.

Manca solo, direi, un passaggio per andare un poco più in profondità. Occorre chiedersi: perché tutto ciò sta avvenendo? In quale direzione sta andando Francesco? Quale il disegno?
Per cercare di dare una risposta bisogna partire, credo, da un’osservazione, e cioè che, in realtà, fra le tante cose dette e scritte da Francesco si può trovare tutto ciò che Uretra e altri segnalano, ma anche il contrario, o quasi.
Prendiamo, per esempio, i valori non negoziabili. È vero che Bergoglio ha sostenuto che non è più necessario battere sui soliti tasti ed è arrivato a dire che l’espressione stessa, «valori non negoziabili», non la capisce. È vero che ha parlato delle famiglie numerose in termini non propriamente lusinghieri (il famoso «fare figli come conigli»), è vero che non è sceso in campo a difesa della vita nascente con la forza e la costanza dei predecessori e a volte è parso quasi prendere le distanze da chi si batte su questo fronte, però, nello stesso tempo, possiamo trovare sue parole a difesa della famiglia formata da un uomo e una donna, così come contro l’aborto e l’eutanasia.
Quanto a quella che Ureta definisce la «promozione dell’immigrazione», è inutile stare a ripercorrere tutti gli interventi di Francesco a favore dell’accoglienza, però nelle sue parole possiamo notare anche un graduale aggiustamento che lo ha spinto nel corso del tempo a prendere in considerazione le ragioni dei paesi ospitanti e a parlare non più genericamente di «immigrati» bensì di «profughi».
Infine è vero che sotto l’aspetto dottrinale possiamo riscontrare in Francesco una tendenza alla «liquidità», al primato della prassi sulla dottrina e dell’esperienza soggettiva sulla norma generale vincolante, però non mancano i richiami alla centralità di Gesù e alla necessità di non abbandonare la croce.
Insomma, per dirla in due parole un po’ spicce, con l’andare del tempo la vera caratteristica di questo pontificato appare quella di dare al papato una connotazione che, in senso lato, potremmo definire «politica».
Che cosa fanno i politici? Spesso dicono e non dicono, un giorno dicono A e un giorno dicono B, un giorno mettono l’accento più su A e un giorno più su B. La logica politica è quella dell’ambivalenza, a seconda dell’interlocutore di turno e delle circostanze. Per il politico non esiste nulla di assoluto, ma tutto può essere variato. La tipica risposta del politico è un «dipende», e possiamo vedere che il gesuita Bergoglio, in generale, procede proprio così. Esempio tipico la risposta che ha dato nella chiesa luterana di Roma a una domanda sull’intercomunione, quando la sua argomentazione, estremamente confusa, fu in sostanza riassumibile in un «forse sì, forse no, non so, dipende, vedete voi».
In fondo è la stessa logica che ritroviamo nel capitolo VIII di Amoris laetitia con la proposta della morale della situazione, in un documento che in altre pagine innalza invece un vero inno al matrimonio religioso e alla famiglia fondata su di esso.
Ho già avuto modo, in passato, di definire la logica bergogliana quella del «sì, ma anche no; no, ma anche sì». Tutto è fluido, indeterminato. Un giorno abbiamo A e un giorno ecco B, un giorno un po’ più A e un giorno un po’ più B.
Il professor Roberto Pertici in un suo fondamentale saggio messo a disposizione dal blog di Sandro Magister ha opportunamente parlato, a proposito del pontificato di Francesco, di «fine del cattolicesimo romano». Il «cambio di paradigma», nel senso più profondo, non sta tanto nel tentativo, che comunque c’è, di scendere a patti con la Modernità e di piacere ai padroni del pensiero contemporaneo, ma nel processo di destrutturazione del papato che Francesco ha messo in atto fin dall’inizio. Dalla logica ferrea del Dictatus Papae siamo passati alla logica che definisco «politica» e che, come dice Pertici, «finisce per mettere in discussione il principio di autorità». Ma non lo fa per incoscienza o sbadataggine, ma proprio perché intende perseguire questa linea: minimizzare i tratti giuridico-gerarchici, autoritari ed esteriori del munus petrino ed enfatizzarne la portata pastorale, dialogante, antidogmatica, inserita a tal punto nel mondo da far proprie le logiche del mondo stesso.
Il «carattere periferico» (la definizione è ancora di Pertici) della formazione di Bergoglio ha certamente un peso nella concezione che Francesco ha del papato. Una cosa è essere nati e cresciuti in Europa, un’altra cosa è essersi formati, anche dal punto di vista ecclesiale, in Argentina. Pertici dice che Bergoglio è così radicato nel mondo latino-americano da non riuscire a incarnare appieno l’universalità della Chiesa, e anche questo aspetto va tenuto presente per capire il processo di destrutturazione in corso.

D’altra parte l’evidente simpatia con la quale Francesco guarda ai luterani e al mondo protestante è significativa: da quelle parti la destrutturazione, con tutto ciò che essa porta con sé, è già avvenuta; il depotenziamento dell’autorità è già stato attuato; il decentramento è già stato sperimentato.
La vera forzatura da parte di Francesco sta avvenendo sul piano ecclesiologico. Di qui le ripetute sottolineature dell’importanza del «popolo», visto quasi in una dimensione mistica. Al centro non abbiamo più l’auctoritas del papa, la roccia, ma il «cammino» del popolo, il processo sinodale. Di qui anche la preferenza espressa da Francesco per il poliedro rispetto alla sfera: Bergoglio dice di non essere stato mai attratto dalla perfezione, dal rispetto del principio di non contraddizione, dal pensiero strutturato, bensì dalla multiformità, dall’incontro di tendenze diverse, dal multiculturalismo. Infatti, come ha detto tante volte, ritiene che il suo compito sia avviare processi più che prospettare soluzioni. Di qui anche la sua visione della Chiesa «quasi come una federazione di Chiese locali (sono di nuovo parole del professor Pertici) dotate di ampi poteri disciplinari, liturgici e anche dottrinali».

L’indeterminatezza fa parte di questo disegno. Dove deve condurre il «cammino»? Quale l’obiettivo del «discernimento» sempre invocato? Perché dalle periferie si vede meglio? Quali cure devono essere assicurate nella Chiesa «ospedale da campo»? Quale deve essere la direzione della Chiesa «in uscita»? Difficile trovare risposte. Perché più delle risposte a Francesco interessa il «processo».
Insomma, un cambio di paradigma certamente c’è ed è profondo. Ma riguarda, prima di tutto e sostanzialmente, proprio la figura del papa e la natura del pontificato.
Quanto alle riflessioni di Ureta sulla legittimità e la necessità delle critiche al papa, il dibattito è aperto. Con la speranza che l’attuale «divisione virtuale» tra visioni e sensibilità differenti non arrivi mai a una «scissione formale». Perché quella sarebbe la vera tragedia.

Aldo Maria Valli











venerdì 29 giugno 2018

CARD. MULLER: “STIAMO SPERIMENTANDO UNA CONVERSIONE AL MONDO, INVECE CHE A DIO”




In un’intervista esclusiva allo staff del The Catholic World Report, il card. Gerhard Muller, il prefetto emerito della Congregazione per la Dottrina della Fede, discute le tensioni sulla proposta di ricevere la Santa Comunione da parte dei protestanti, i continui conflitti sull’insegnamento della Chiesa in materia di ordinazione, omosessualità e ideologia.



Traduzione di Sabino Paciolla


CWR: Dal 2014 c’è stato all’interno della Chiesa un flusso costante di conflitti e tensioni che coinvolgono molti vescovi della Germania. Qual è il contesto in cui si inserisce questo fenomeno? Qual è la fonte di questi vari conflitti sull’ecclesiologia, la Santa Comunione e questioni correlate?

Il cardinale Gerhard Müller:
Un gruppo di vescovi tedeschi, con il loro presidente (cioè della Conferenza episcopale tedesca, ovvero il card. Reinhard Marx, ndr) in testa, si vede come trendsetter (chi detta la moda, ndr) della Chiesa cattolica nella marcia verso la modernità. Considerano la secolarizzazione e la scristianizzazione dell’Europa come uno sviluppo irreversibile. Per questo motivo la Nuova Evangelizzazione – programma di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI – è a loro avviso una battaglia contro il corso oggettivo della storia, simile a quella di Don Chisciotte contro i mulini a vento. Essi cercano per la Chiesa una nicchia dove si possa sopravvivere in pace. Perciò tutte le dottrine della fede che si oppongono al “mainstream”, il consenso sociale, devono essere riformate.

Una conseguenza di ciò è la richiesta della Santa Comunione anche per le persone senza fede cattolica e anche per quei cattolici che non sono in uno stato di grazia santificante. In agenda anche: la benedizione per le coppie omosessuali, l’intercomunione con i protestanti, la relativizzazione dell’indissolubilità del matrimonio sacramentale, l’introduzione dei viri probati e con essa l’abolizione del celibato sacerdotale, l’approvazione dei rapporti sessuali prima e dopo il matrimonio. Questi sono i loro obiettivi, e per raggiungerli sono disposti ad accettare anche la divisione della Conferenza episcopale.

I fedeli che prendono sul serio la dottrina cattolica sono bollati come conservatori ed espulsi dalla Chiesa, e sono esposti alla campagna diffamatoria dei media liberali e anticattolici.

Per molti vescovi, la verità della rivelazione e della professione di fede cattolica è solo un’altra variabile della politica di potere intraecclesiale. Alcuni di loro citano accordi individuali con papa Francesco e pensano che le sue dichiarazioni in interviste a giornalisti e personaggi pubblici lontani dal cattolicesimo offrano una giustificazione anche per “annacquare” verità di fede definite e infallibili (= dogmi). Nel complesso, ci troviamo di fronte a un palese processo di protestantizzazione.

L’ecumenismo, invece, ha come obiettivo la piena unità di tutti i cristiani, che è già sacramentalmente realizzata nella Chiesa cattolica. La mondanità dell’episcopato e del clero nel XVI secolo è stata la causa della divisione del cristianesimo, che è diametralmente opposta alla volontà di Cristo, il fondatore della Chiesa una, santa, cattolica e apostolica. La malattia di quell’epoca è ora presumibilmente la medicina con cui la divisione deve essere superata. L’ignoranza della fede cattolica in quel tempo era catastrofica, specialmente tra i vescovi e i papi, che si dedicavano più alla politica e al potere che alla testimonianza della verità di Cristo.

Oggi, per molte persone, essere accettate dai media è più importante della verità, di cui dobbiamo anche soffrire. Pietro e Paolo subirono il martirio per Cristo a Roma, centro del potere ai loro tempi. Non sono stati celebrati dai governanti di questo mondo come eroi, ma piuttosto sbeffeggiati come Cristo sulla croce. Non dobbiamo mai dimenticare la dimensione martirologica del ministero petrino e dell’ufficio episcopale.



CWR: Perché, nello specifico, alcuni vescovi tedeschi vogliono permettere che la Santa Comunione sia data a vari protestanti su base regolare o comune?

Il cardinale Müller:
Nessun vescovo ha l’autorità di amministrare la Santa Comunione a cristiani che non sono in piena comunione con la Chiesa cattolica. Solo in una situazione di pericolo di morte il protestante può chiedere l’assoluzione sacramentale e la Santa Comunione come viatico, se condivide tutta la fede cattolica ed entra così in piena comunione con la Chiesa cattolica, anche se non ha ancora dichiarato ufficialmente la sua conversione.

Purtroppo, persino i vescovi oggi non conoscono più la fede cattolica nell’unità della comunione sacramentale ed ecclesiale, e giustificano la loro infedeltà alla fede cattolica con presunte preoccupazioni pastorali o con spiegazioni teologiche, che però contraddicono i principi della fede cattolica. Ogni dottrina e prassi deve essere fondata sulla Sacra Scrittura e sulla Tradizione Apostolica, e non deve contraddire le precedenti dichiarazioni dogmatiche del Magistero della Chiesa. Questo è il caso del permesso per i cristiani non cattolici di ricevere la Comunione durante la Santa Messa, a parte la situazione di emergenza descritta sopra.



CWR: Come valuterebbe, prima, lo stato di salute della fede cattolica in Germania e poi, in secondo luogo, in tutta Europa? Pensa che l’Europa possa recuperare o recuperi il senso della sua precedente identità cristiana?


Il cardinale Müller:
Ci sono molte persone che vivono la loro fede, amano Cristo e la sua Chiesa, e pongono tutta la loro speranza su Dio nella vita e nella morte. Ma tra loro ce ne sono parecchi che si sentono abbandonati e traditi dai loro pastori. Essere popolare nell’opinione pubblica è oggi il criterio per un vescovo o un sacerdote presumibilmente buono. Stiamo vivendo una conversione al mondo, invece che a Dio, in contrasto con le affermazioni dell’apostolo Paolo: “Sto cercando il favore degli uomini, o di Dio? O sto cercando di compiacere gli uomini? Se fossi ancora un uomo gradito, non sarei un servo di Dio” (Gal 1, 10).

Abbiamo bisogno di sacerdoti e vescovi pieni di zelo per la casa di Dio, che si dedichino interamente alla salvezza degli uomini nel pellegrinaggio della fede alla nostra casa eterna. Non c’è futuro per un “Christianity Lite” (un cristianesimo dietetico, ndr). Abbiamo bisogno di cristiani con spirito missionario.



CWR: La Congregazione per la Dottrina della Fede ha recentemente ribadito l’insegnamento perenne della Chiesa che le donne non possono essere ordinate sacerdoti. Perché lei pensa che questo insegnamento, più volte ribadito negli ultimi anni, continui ad essere contestato da molti nella Chiesa?

Il cardinale Müller:
Purtroppo in questo momento la Congregazione per la Dottrina della Fede non è particolarmente stimata e il suo significato per il primato petrino non è riconosciuto. La Segreteria di Stato e il servizio diplomatico della Santa Sede sono molto importanti per i rapporti della Chiesa con i vari Stati, ma la Congregazione per la Dottrina della Fede è più importante per i rapporti della Chiesa con il suo Capo da cui ogni grazia procede.

La fede è necessaria per la salvezza; la diplomazia papale può fare molto bene nel mondo. Ma l’annuncio della fede e della dottrina non deve essere subordinato ai requisiti e alle condizioni del potere terreno. La fede soprannaturale non dipende dal potere terreno. Nella fede è abbastanza chiaro che il sacramento dell’Ordine sacro nei tre gradi di vescovo, sacerdote e diacono può essere ricevuto validamente solo da un battezzato cattolico, perché solo lui può simboleggiare e rappresentare sacramentalmente Cristo come lo Sposo della Chiesa. Se il ministero sacerdotale è inteso come una posizione di potere, allora questa dottrina della riserva dell’Ordine sacro ai cattolici di sesso maschile è una forma di discriminazione contro le donne.

Ma questa prospettiva di potere e di prestigio sociale è falsa. Solo se vediamo tutte le dottrine della fede e dei sacramenti con occhi teologici, invece che in termini di potere, sarà evidente anche per noi la dottrina della fede riguardo ai prerequisiti naturali per i sacramenti dell’Ordine sacro e del matrimonio. Solo un uomo può simboleggiare Cristo Sposo della Chiesa. Solo un uomo e una donna possono rappresentare simbolicamente la relazione di Cristo con la Chiesa.


CWR: Lei ha recentemente presentato l’edizione italiana del libro di Daniel Mattson Why I Don’t Call Myself Gay. Cosa l’ha colpita del libro e del suo approccio? Come si differenzia da alcuni degli approcci “pro-gay” o posizioni adottate da alcuni cattolici? Che cosa si può fare per spiegare, in termini positivi, l’insegnamento della Chiesa sulla sessualità, il matrimonio e le questioni correlate?

Il cardinale Müller:
Il libro di Daniel Mattson è scritto da un punto di vista personale. Si basa su una profonda riflessione intellettuale sulla sessualità e il matrimonio, che lo rende diverso da qualsiasi tipo di ideologia. Aiuta quindi le persone con un’attrazione omosessuale a riconoscere la propria dignità e a seguire un percorso benefico nello sviluppo della propria personalità, e a non lasciarsi usare come pedine nella domanda di potere degli ideologi. Un essere umano è un’unità interiore di principi organizzativi spirituali e materiali, e di conseguenza una persona e un soggetto che agisce liberamente, di natura spirituale, corporea e sociale.

L’uomo è creato per la donna e la donna per l’uomo. L’obiettivo della comunione coniugale non è il potere dell’uno sull’altro, ma piuttosto l’unità nell’amore che dona se stesso, in cui entrambi crescono e insieme raggiungono il traguardo in Dio. L’ideologia sessuale che riduce l’essere umano al piacere sessuale è infatti ostile alla sessualità, perché nega che l’obiettivo del sesso e dell’eros sia l’agape. Un essere umano non può lasciarsi degradare allo status di animale più sviluppato. Egli è chiamato ad amare. Solo se amo l’altro per il suo bene, allora raggiungo il mio bene; solo allora sono liberato dalla prigionia del mio egoismo primitivo. Non ci si può realizzare a spese degli altri.

La logica del Vangelo è rivoluzionaria in un mondo di consumismo e narcisismo. Perché solo il chicco di grano che cade in terra e muore non rimane solo, ma produce molto frutto. “Chi ama la sua vita la perde e chi odia la sua vita in questo mondo la conserverà per la vita eterna” (Gv 12,25).







giovedì 28 giugno 2018

NO ALL'OBIEZIONE DI COSCIENZA. Aborto in Irlanda: la Chiesa tace e punta sul sociale





Il premier Leo Varadkar vuole obbligare gli ospedali cattolici a praticare gli omicidi in grembo. Il suo ragionamento non fa una piega, ma svela l'inganno della libertà come intesa dal mondo moderno, non tollerando coloro che non vogliono compiere aborti. Ma la responsabilità maggiore è della Chiesa che pensa di dover riconquistare terreno partendo dai poveri.



di Benedetta Frigerio (28/06/2018)

Gli aborti saranno praticabili ovunque nell’Irlanda
che ha deciso di abrogare l’unica legge che la rendeva ancora un posto sicuro per gli innocenti in grembo. Ma al premier progressista Leo Varadkar non basta, bisogna forzare anche le poche strutture cattoliche a praticare gli omicidi, eliminando così l’obiezione di coscienza. Il ragionamento, dal suo punto di vista è coerente: se l’aborto è un bene da garantire che rende il «paese un posto più tollerante», perché bisognerebbe lasciare a qualcuno il diritto di essere intollerante?


Date queste premesse l'obiezione di coscienza è difficilmente difendibile
, sebbene emerga tutta la falsità di un concetto di libertà senza oggetto né scopo, intesa come il mero atto di decidere di fare qualsiasi cosa si voglia a prescindere dal contenuto dell'azione. Se la libertà è tale e l'omicidio del proprio figlio è considerato un atto libero, si capisce anche il divieto a non impedire né ad opporsi a un atto di liberazione e "tolleranza". Come lo ha definito il primo ministro irlandese. La contraddizione mostra però la menzogna di una libertà così intesa. È impossibile che l'azione non abbia contenuto o scopo: in questo caso si è scelto di tutelare l'atto di uccidere che include il contrasto alle azioni che lo ostacolano.


È quindi un'illusione quella della liberazione dal vecchio mondo
che la nuova Irlanda ha gettato nel cestino considerandolo retrogrado. Non c’è più libertà oggi che ieri, sono semplicemente cambiati i valori che lo Stato vuole raggiungere: solo che un tempo si intendeva per libertà la difesa della famiglia e della vita, mentre oggi si indirizza la libertà verso l'opposto, la morte per mano dello Stato. Se quindi in passato si tutelava il bene per legge e vietando l’aborto, ora si legalizza il male vietando l’obiezione di coscienza.


Ma l’inganno risulta ancora più evidente guardando la maggioranza dei cattolici
che hanno votato per il sì in nome della libertà di coscienza, secondo la classica giustificazione per cui “io non lo farei mai, ma chi sono per impedire la libertà di un altro?". Alphonsus Cullinan, vescovo di Waterford e Lismore ha fatto notare al National Catholic Register che «è singolare che da un lato le persone che hanno votato “Sì” vengano lodate per aver seguito la loro coscienza mentre si cerca di costringere le persone a fare qualcosa contro la propria coscienza». Il vescovo ha poi fatto capire perché i politici dovrebbero almeno avere il coraggio di smettere di mentire parlando di tolleranza, perché «forzare il personale di un ospedale cattolico contro il proprio ethos non è coerente con la tolleranza». Sarebbe meglio essere leali e spiegare fin da subito che non c’è indulgenza per chi va contro un bene di Stato come viene considerato l’aborto da chi lo promuove.


Ma la vera debolezza è della Chiesa e del mondo cattolico
che ha assunto in sé questo concetto di libertà relativizzata dell’Occidente moderno, tanto che l’ospedale Mater di Dublino, di proprietà delle Suore della Misericordia, aveva già deciso di attenersi alla legge quando nel 2013 l’aborto fu legalizzato in caso di rischio reale per la vita della madre, sebbene la scelta rimase ancora legata alla coscienza del medico.


In generale, la posizione della Chiesa nel dibattito è stata comunque marginale
, anche perché dopo lo scandalo della pedofilia la paura verso il mondo ha generato un silenzio sulle questioni etiche non meno colpevole. Dall’altra parte sono anni che la cultura, persino dei cattolici adulti, rifiuta di obbedire agli insegnamenti del magistero. A campagna referendaria ancora in corso padre Joe McDonald di Ballyfermot aveva rivelato al Guardian che «il dibattito è stato perso molto tempo fa», mentre dopo la vittoria una religiosa, Annemarie McCarrick, ha chiarito all’Apche «il sì è stato "un voto contrario alla Chiesa”».


Ma se è vero che il primo spot uscito nel 2014
, a ridosso della vittoria sul cosiddetto matrimonio fra persone dello stesso sesso, parlava del divieto all'aborto come qualcosa che «porta sofferenza, anche morte alle donne» e che «incatena l’Irlanda al suo passato», ponendo sullo sfondo una chiesa diroccata, non può essere una scusa per la ritirata.


Infatti, in nome del fatto che la Chiesa non è ascoltata
, la sua voce si è fatta debole se non assente. La nuova strategia sarebbe infatti, non quella della verità e del coraggio delle ragioni della fede, ma dell'azione nel sociale. Come ha confermato il capo della conferenza episcopale irlandese Eamonn Martin affermando che il risultato del referendum dipende dal fatto che «la Chiesa viene vista come mancante di compassione» e che pro life significa invece «essere al fianco di coloro che sono minacciati dalle violenze o che non possono vivere a pieno a causa delle deprivazioni economiche, della mancanza di un tetto e dell’emarginazione».


Peccato che mettere sullo stesso piano l’aborto e la povertà
, oltre che errato e contrario agli insegnamenti millenari della Chiesa, sia culturalmente un boomerang, dato che la battaglia per la dignità non può che partire da quella per la vita nascente in ogni sua condizione. Ma se questa è la linea della conferenza episcopale, sia che gli ospedali decidano di scendere a patti con uno dei mali più gravi della nostra epoca (Madre Teresa spiegò perché era la prima causa delle guerre), sia che preferiscano chiudere senza provare a combattere come fece con Obama l’episcopato americano su richiesta di Benedetto XVI, verrà meno l’unico spazio pubblico dove la vita è tutelata senza compromessi. Provocando, con la responsabilità della Chiesa, un danno enorme a tutta la società, in cui i più deboli e senza voce non avranno più difese. Figurarsi i senza tetto.





mercoledì 27 giugno 2018

In Vaticano va in scena la morte della bioetica




PAV
VITA E BIOETICA
27-06-2018


L'Assemblea generale della Pontificia Accademia per la Vita ruota attorno al concetto di "bioetica globale", intendendo con ciò l'inserimento di temi - povertà, migrazione, salute infantile - che nulla hanno a che fare con la bioetica classica. Un modo per depotenziare una materia divisiva, dove si scontrano diverse concezioni antropologiche. Ma se tutto diventa bioetica, la bioetica è nulla.



di Tommaso Scandroglio  (27/06/2018)

Lunedì scorso, presso la Sala Stampa della Santa Sede, si è tenuta una Conferenza Stampa
per la presentazione della XXIV Assemblea Generale della Pontificia Accademia per la Vita (Pav), che si svolge in questi giorni sul tema «Bioetica globale». Alla Conferenza Stampa hanno partecipato mons. Vincenzo Paglia, presidente della Pav, mons. Renzo Pegoraro, Cancelliere della stessa e la dott.ssa Sandra Azab, responsabile del Gruppo di Giovani Ricercatori della Pav. Successivamente alla Conferenza Stampa ha preso la parola il Santo Padre.

Molti sono stati gli spunti di grande interesse toccati dai relatori
e altrettanti i concetti assai condivisibili da questi articolati. Ma, come spesso capita, esiste un “però”. Papa Francesco, riferendosi ai lavori dell’Assemblea, parla di “visione globale della bioetica” e poi di “bioetica globale”. Espressioni assai apprezzabili sia se considerate in merito all’oggetto proprio della bioetica – volontà di non escludere nessun argomento bioetico dalle tre giornate di studio della Pav e di trovare interconnessioni tra le varie materie – sia se considerate sotto l’aspetto metodologico – volontà di non escludere nessuna disciplina scientifica che ha una certa sua connessione con le tematiche di bioetica.

Ma poi a leggere le affermazioni di Papa Francesco e degli altri illustri relatori si scopre
che accanto a questi due significati ecco che si privilegia una terza accezione di “bioetica globale”: far rientrare nell’oggetto materiale di studio della bioetica tematiche che non riguardano la bioetica, quali il rapporto tra filiazione e fraternità, la socialità, la violenza, la guerra, la povertà, la schiavitù, le ineguaglianze economiche e l’immancabile migrazione dei popoli. Il termine “bioetica” viene inteso in senso letterale dal Pontefice e dunque l’etica della vita riguarda ogni fase dell’esistenza umana, non solo quella iniziale e finale – specifiche della bioetica intesa in senso classico – ma anche quelle intermedie. E così la bioetica dovrà trattare la “vita bambina”, la “vita adolescente”, la “vita adulta”, la “vita invecchiata e consumata” e addirittura “la vita eterna”. Ovviamente bambini, adulti, etc. possono essere interessati dalle tematiche di bioetica intesa in senso classico, ma accidentalmente, non essenzialmente; non perché ad esempio l’adolescenza sia materia di bioetica (può esserlo della pedagogia), ma perché anche le adolescenti, per ipotesi, possono scegliere di abortire.

Il concetto di bioetica globale
è così esplicitato da Pegoraro: “Il Workshop aperto a tutti è dedicato al tema della ‘bioetica globale’ (‘global bioethics’), ossia al confronto e discussione su una riflessione bioetica attenta ai processi di globalizzazione e a tutti i fattori che incidono sulla vita e salute delle persone. È tutto ‘interconnesso’”. Come prova di questa rinnovata natura della disciplina bioetica, martedì l’attenzione della Pav si è concentrata su un tema specifico che fino a ieri era poco pertinente con la bioetica: la salute materna e infantile.

Il lettore attento potrebbe giustamente obiettare
: e chi lo dice che la bioetica non possa occuparsi di migranti e schiavitù? In realtà ogni disciplina scientifica viene caratterizzata dal suo oggetto materiale, ossia dal “che cosa” studia. E così abbiamo i minerali per la mineralogia, la composizione della materia per la chimica, gli astri per l’astronomia, il passato per la storia, etc. Ora l’oggetto della bioetica si è andato configurando attraverso la prassi degli studiosi. In altri termini il suo oggetto non è stato deciso a priori in modo convenzionale, tramite un accordo tra tutti gli addetti ai lavori, bensì a posteriori, andando a leggere gli studi su una materia che inizialmente secondo alcuni ricadeva nell’alveo della sola deontologia medica, secondo altri nell’ambito delle scienze filosofiche morali e giuridiche, fino a che si è compreso che a tale materia spettava una sua disciplina di studio autonoma.

Ma qual è tale materia, ossia il suo oggetto così specifico?
Facciamo parlare gli esperti. Diamo la parola innanzitutto al cardinal Elio Sgreccia, dato che il Papa proprio nel suo saluto iniziale di lunedì ha usato parole di encomio all’indirizzo del già presidente della Pav. Sgreccia intende la bioetica “come etica che concerne gli interventi sulla vita […] e sulla salute dell’uomo” (Manuale di bioetica, Vita & Pensiero, Milano 2007, vol. I, p. 21). Il padre del neologismo “bioetica” Van Rensselaer Potter sulla copertina del suo libro chiamato proprio “Global Bioetichs” (Michigan State University Press, 1988) dava questa definizione di bioetica: “biologia combinata con diverse conoscenze umanistiche che strutturano una scienza che stabilisce un sistema di priorità mediche e ambientali per una sopravvivenza sostenibile”.

La bioetica veniva intesa in senso globale
sia perché, a differenza di quanto indicato dal Papa e da Pegoraro, l’ambito biologico era interessato da più settori del sapere, sia per le ricadute che simile riflessione avrebbe avuto a livello mondiale. Warren Reich diede invece questa definizione di bioetica: “lo studio sistematico della condotta umana, nell’ambito delle scienza della vita e della salute, esaminata alla luce di valori e principi morali” (Encyclopedia of Bioetichs, Macmillan-Free Press, New York, 1978, p. XIX). Nel 1995 Reich includerà nell’oggetto materiale della bioetica anche le condotte sociali e quelle politiche, ma sempre attinenti alla vita e alla salute delle persone.

Il Documento di Erice del 1991
allarga la prospettiva fino a ricomprendere in seno alla bioetica anche gli interventi su altri esseri viventi diversi dall’uomo però sempre in relazione alla vita di quest’ultimo. Adriano Pessina amplia ancor di più il raggio d’azione: “La bioetica si pone come coscienza critica dello sviluppo tecnologico” (Bioetica. L’uomo sperimentale, B. Mondadori, Milano, 1999, p. 22). Quindi l’oggetto materiale è tutto ciò che è tecnologia. La bioetica proposta dalla filosofia analitica (ad esempio si veda Scarpelli) invece è non cognitivista, ossia crede che sia impossibile una posizione veritativa sulle questioni come l’aborto e l’eutanasia e quindi si astiene da ogni giudizio (ma già questo è un giudizio).

Se vogliamo trovare un minimo comun denominatore tra tutte queste definizioni potremmo dire che la bioetica tratta degli interventi umani sulla vita biologica: aborto, eutanasia, fecondazione artificiale, contraccezione, clonazione, utero in affitto, sperimentazione sugli embrioni, roboetica, etc. Questo è il suo oggetto materiale, non certo l’immigrazione e la povertà. Vero è che il perimento dell’ambito di ricerca di ogni disciplina scientifica non può essere tracciato con il righello (ciò che è accaduto settimana scorsa può essere già oggetto di studio della storia?), però è anche vero che se su alcuni temi c’è il dubbio che siano materie proprie della bioetica su altre il dubbio non c’è. Così oggetto proprio della mineralogia non potrà di certo essere il comportamento dei pinguini.

Inoltre bene l’interconnessione, bene la globalità ma
se intesa come mettere in relazione più materie proprie della bioetica oppure come approccio multidisciplinare ma sulle stesse materie specifiche della bioetica. Invece l’oggetto formale della bioetica, ossia la prospettiva di indagine, è primariamente dato dalla filosofia morale, la quale è chiamata a vagliare anche i dati offerti da altre discipline scientifiche: la medicina in primis, poi la giurisprudenza, la sociologia, la politica, etc.

Detto tutto ciò facciamoci una domanda
: perché questo nuovo concetto pontificio di “bioetica globale”? Perché far ricomprendere in seno alla bioetica tematiche sì importantissime, ma non pertinenti con la sua identità? Proviamo ad abbozzare qualche risposta. In primis si potrebbe ipotizzare che alcune tematiche quali la povertà e l’immigrazione siano ritenute, erroneamente, più importanti di aborto e eutanasia (ne avevamo già parlato qui). E dunque si chiede anche alla Pontificia Accademia per la Vita di occuparsi di esse, elasticizzando il concetto di “bioetica”.

In secondo luogo aborto, eutanasia e fecondazione artificiale
sono fortemente divisive, cioè possono scavare fossati tra credenti e non credenti e questo non va bene dato che la mission attuale della Chiesa è quella di costruire ponti che scavalchino i fossati. Invece di scavare fossati è meglio affossare le tematiche peculiari della bioetica sotto quelle di altra natura ben accette da tutti. Una sorta di occultamento pastorale: copriamo queste nudità cattoliche così scandalose agli occhi del mondo.

Il depotenziamento della bioetica passa quindi attraverso una liquefazione della sua identità
, cioè delle sue specifiche peculiarità: se bioetica è tutto, la bioetica è nulla. Non ci troviamo quindi di fronte ad una bioetica globale bensì alla globalizzazione della bioetica che sta a significare la neutralizzazione della sua specificità proprio per disinnescare il suo portato dinamitardo. E’ sulle questioni come aborto ed eutanasia che si evidenzia fortemente la differenza abissale della visione antropologica sposata dal sentito comune e dal pensiero cattolico. Fecondazione artificiale e contraccezione sono una cartina tornasole straordinaria per comprendere il divario esistente tra orientamento laicista e cattolico sulla visione etica della vita, questa sì intesa in senso globale. Sulla povertà invece è più facile cantare tutti le stesse note. Meglio quindi appianare le differenze. E come? Mettendo in soffitta le tematiche peculiari della bioetica e facendo svolgere ai bioeticisti il lavoro proprio dei sociologi, degli psicologi, degli economisti, etc.












Fonte 



Altri orrori “made in England”: mentalità eutanasica negli ospedali





di Aldo Maria Valli  (27/06/2018)

Centinaia di pazienti morti dopo aver assunto combinazioni pericolose di farmaci. Questo il quadro emerso da un’inchiesta condotta in Inghilterra sul Gosport War Memorial Hospital, dove tra il 1989 e il 2000 almeno 456 persone sono decedute dopo aver ricevuto farmaci antidolorifici di cui non avevano bisogno.

Una dottoressa ora in pensione, Jane Barton, è stata individuata come la principale responsabile delle uccisioni nell’ospedale dell’Hampshire, ma più in generale è emersa una cultura dell’eutanasia che per anni ha coinvolto medici, dirigenti e infermieri.

Come spiega il sito Lifesitenews (https://www.lifesitenews.com/news/uk-government-funded-hospital-killed-456-patients-with-drug-overdoses-repor), la commissione d’indagine, Gosport Independent Panel, ha esaminato moltissimi elementi di prova, ha intervistato i familiari delle vittime e si è procurata la documentazione relativa a più di duemila pazienti.

Il quadro che ne esce è caratterizzato da un marcato disprezzo per la vita umana, con la tendenza ad accorciare la vita dei malati, soprattutto se anziani, attraverso la prescrizione e la somministrazione di “dosi pericolose” di una combinazione di farmaci clinicamente non giustificata, a carico di pazienti e parenti in condizioni di sudditanza rispetto al personale medico e infermieristico. Quando i parenti si lamentavano, non ottenevano risposte né spiegazioni.

Le prime richieste di indagini da parte dei parenti risalgono a vent’anni fa, e fin dall’inizio dell’inchiesta il gruppo indipendente che se n’è occupato ha riferito che i sospetti avevano un fondamento.

In seguito all’inchiesta, Norman Lamb, ex ministro della salute, ha chiesto una nuova indagine della polizia sulle morti avvenute nell’ospedale e l’attuale ministro della sanità, Jeremy Hunt, scusandosi a nome del governo e del servizio sanitario nazionale, ha dichiarato alla Camera dei Comuni che dalle indagini potrebbero scaturire accuse di rilevanza penale.

Dopo i casi dei bambini Charlie Gard e Alfie Evans, il National Health Service torna dunque nell’occhio del ciclone con accuse pesanti.

“Mia nonna era una delle seicentocinquanta persone che morirono a Gosport e non smetteremo di lottare per ottenere giustizia”, dice una dei testimoni, Bridget Reeves, nipote di Elsie Devine (https://www.independent.co.uk/voices/gosport-hospital-deaths-scandal-opiates-elderly-fighting-for-justice-a8413041.html)
“La nonna, ottantotto anni, è stata tenuta stesa a terra e le hanno iniettato cinquanta mg di un antipsicotico chiamato clorpromazina. Un’iniezione molto, molto dolorosa che normalmente parte da una dose di dieci 10 mg. Circa cinquanta minuti dopo, le hanno iniettato 40 mg di diamorfina e 40 mg di midazolam, quello che usano nel braccio della morte. La vita della nostra nonna è stata accorciata proprio dalle persone che avrebbero dovuto prendersi cura di lei”.

“Non vogliamo aspettare tanti anni per avere giustizia. Abbiamo bisogno di consulenza legale e stiamo raccogliendo fondi per assumere un avvocato che possa portare avanti la nostra causa. Abbreviare la vita significa uccidere, e le domande devono essere poste ai responsabili. Come possiamo vivere in un paese nel cui sistema sanitario può esserci questa brutalità e i responsabili se ne vanno in giro come se nulla fosse accaduto?”.

Nel rapporto si legge che sono passati più di ventisette anni da quando alcune infermiere dell’ospedale incominciarono a esprimere le loro preoccupazioni e vent’anni da quando le famiglie hanno incominciato a cercare risposte mediante un’indagine adeguata. Gli esperti hanno scoperto che ci furono coperture e che i motivi di preoccupazione espressi dai parenti furono ignorati a fatti oggetto di denigrazione. Oltre un milione le pagine dei documenti consultati per la prima volta nella loro interezza e in modo indipendente.
“Sì, le vostre preoccupazioni si sono dimostrate fondate”, hanno detto gli ispettori alle famiglie. “Il rapporto dimostra che la pratica di somministrare oppioidi in dosi elevate ha colpito molti pazienti. Gli oppioidi sono farmaci potenti, che apportano benefici significativi se usati in modo appropriato, ma comportano rischi proporzionati. L’analisi del gruppo d’indagine dimostra che le vite di moltissime persone sono state abbreviate come risultato diretto del modello di prescrizione e somministrazione di oppioidi, un modello diventato la norma nell’ospedale. In sintesi, il gruppo di esperti scientifici ha trovato evidenza di uso di oppiacei senza un’indicazione clinica appropriata in 456 pazienti, ma il gruppo conclude che, tenendo conto delle registrazioni mancanti, probabilmente ci sono stati almeno altri duecento casi simili”.
Dai documenti esaminati, si legge nel rapporto, risulta che spesso le dosi massicce di farmaci furono somministrate mentre il medico non era in reparto e non poteva prescriverle. Risulta poi che l’uso inappropriato di oppioidi non clinicamente giustificati divenne sempre più comune durante gli anni, creando una situazione in cui la disponibilità di farmaci potenti e potenzialmente letali per un gran numero di pazienti era diventata abituale.
I documenti mostrano inoltre che i pazienti erano considerati vicini alla morte al di là delle loro reali condizioni, senza giustificazioni cliniche e senza tener conto delle opinioni degli stessi pazienti e delle famiglie. I pazienti coinvolti non erano ricoverati per ricevere cure da fine vita, ma per riabilitazione e altre terapie.
Significativa è la parte del rapporto in cui si parla della “cultura” che vigeva nell’ospedale. Quella cultura, si legge, era anche l’eredità del concetto di libertà clinica, secondo il quale le decisioni mediche non possono essere messe in discussione da altri medici e dirigenti. Verso la fine degli anni Novanta, in virtù delle nuove normative introdotte in materia di qualità dell’assistenza clinica e sicurezza dei pazienti, era lecito aspettarsi un miglioramento della situazione, ma i documenti provano l’incapacità da parte dei responsabili dell’ospedale di rispondere efficacemente alle preoccupazioni relative alla prescrizione di oppiacei sollevata da un medico, consulente esterno, che fornì una relazione già nel 1999. Insomma, il concetto di “libertà clinica” è stato usato per legittimare la partica dell’eutanasia.
Il rapporto, che si conclude con precise accuse anche alla polizia, rea di non aver preso in considerazione le segnalazioni e non aver indagato, si conclude affermando che “nulla può restituire alle famiglie i loro cari, le cui vite sono state abbreviate”. Ora tuttavia gli esperti invitano sia il ministro per la sanità e l’assistenza sociale sia le autorità investigative competenti “a riconoscere il significato di quanto rivelato dalla documentazione e ad agire di conseguenza”.

Aldo Maria Valli










lunedì 25 giugno 2018

Essere cristiani nell’Europa occidentale





di Aldo Maria Valli

Anche se formalmente sono ancora cristiani, restano lontani dalle chiese, ma la religione continua ad avere un ruolo nella loro identità. Questo l’identikit dei cristiani nell’Europa occidentale, secondo il Pew Research Center, il più accreditato fra i centri di studio che si occupano di religione.
L’Europa occidentale, dove il cristianesimo protestante è nato e il cattolicesimo ha il suo centro, è diventata una delle aree più secolarizzate al mondo. Sebbene la stragrande maggioranza degli adulti affermi tuttora di essere battezzata, oggi molti europei sono di fatto pagani.
Secondo il sondaggio, intitolato Being Christian in Western Europe, i cristiani non praticanti (persone che si identificano come cristiane, ma frequentano la chiesa poche volte l’anno) sono ormai prevalenti rispetto ai praticanti (coloro che frequentano la chiesa almeno una volta al mese). Unica eccezione l’Italia.
Nel Regno Unito i cristiani non praticanti sono tre volte i cristiani che entrano in chiesa almeno una volta al mese.
Nell’Europa occidentale il numero dei cristiani non praticanti supera anche quello delle persone che ritengono di non avere alcuna affiliazione religiosa. Si tratta di coloro che si definiscono atei, agnostici o del tutto indifferenti rispetto alla religione.
Inoltre il rapporto mostra che nell’Europa occidentale ci sono molti più cristiani non praticanti rispetto alle persone di tutte le altre religioni (musulmani, ebrei, indù, buddisti, eccetera).

L’Europa può ancora dire di avere un’identità cristiana? E in che cosa si differenziano i cristiani non praticanti dagli europei che non si identificano con alcuna religione?
Lo studio del Pew Research Center afferma che nonostante tutto l’identità cristiana rimane un carattere significativo del cittadino europeo occidentale, anche tra coloro che raramente vanno in chiesa. E non si tratta di un’identità soltanto nominale.
Per esempio, sebbene molti cristiani non praticanti affermino di non credere in Dio così come è descritto nella Bibbia, tendono a credere in qualche altra autorità o forza spirituale. Al contrario, la maggior parte dei cristiani praticanti dicono di credere nella rappresentazione biblica di Dio, mentre una netta maggioranza di adulti religiosamente non affiliati non crede in alcun tipo di autorità superiore o forza spirituale regolatrice dell’universo.
A sorpresa, i cristiani non praticanti tendono ad esprimere opinioni più positive che negative verso le Chiese e le organizzazioni religiose, affermando che esse svolgono un servizio sociale aiutando i poveri e unendo le comunità. Anche se nel complesso il loro giudizio nei confronti delle istituzioni religiose non è altrettanto favorevole di quello dei cristiani praticanti, sono più propensi degli europei privi di appartenenza religiosa a sostenere che le Chiese e le altre organizzazioni religiose forniscono un contributo positivo alla società.

Nell’Europa occidentale l’identità cristiana appare associata a livelli più elevati di sentimenti negativi nei confronti degli immigrati e delle minoranze religiose. A conti fatti, coloro che si definiscono cristiani – che frequentino la chiesa o meno – sono più propensi delle persone religiosamente non affiliate ad esprimere opinioni negative sugli immigrati e in particolare sui musulmani. Ad esempio, nel Regno Unito il 45% dei cristiani praticanti afferma che l’Islam è fondamentalmente incompatibile con i valori e la cultura britannici. La quota sale leggermente tra i cristiani non praticanti (47%), mentre tra gli adulti religiosamente non affiliati è il 30% ad affermare che l’Islam è fondamentalmente incompatibile con i valori del proprio paese.
I cristiani non praticanti sono meno propensi a esprimere opinioni di stampo nazionalista rispetto ai cristiani praticanti. Tuttavia, sono più propensi dei non affiliati a dire che la loro cultura è superiore alle altre e che per condividere un’identità nazionale è necessario avere una discendenza familiare nel paese stesso.

La stragrande maggioranza dei cristiani non praticanti e dei non affiliati è a favore dell’aborto legale e del matrimonio tra persone dello stesso sesso. Tra i cristiani praticanti ci sono più riserve, ma nel complesso c’è un sostegno sostanziale sia all’aborto legale sia al matrimonio tra persone dello stesso sesso.
Quasi tutti i cristiani praticanti che sono genitori o tutori di minori affermano che stanno educando i figli nella fede cristiana. La percentuale scende leggermente tra i cristiani non praticanti. Al contrario, i genitori religiosamente non affiliati generalmente educano i loro figli a prescindere totalmente dalla religione.

Naturalmente l’identità e la pratica religiosa non sono gli unici fattori che influenzano le opinioni degli europei. Ad esempio, gli europei molto istruiti sono generalmente più favorevoli agli immigrati e alle minoranze religiose, e gli adulti religiosamente non affiliati tendono ad essere più istruiti rispetto ai cristiani non praticanti.
Il sondaggio del Pew Research Center ha riguardato 24.599 adulti selezionati a caso in quindici paesi dell’Europa occidentale. Le interviste sono state condotte attraverso telefoni cellulari e fissi dall’aprile all’agosto 2017, in dodici lingue..

Tra i risultati più sorprendenti c’è il caso della Spagna, dove, stando alla ricerca, solo un cristiano non praticante su cinque (il 21%) dice di credere in Dio “così come è descritto nella Bibbia”, mentre sei su dieci dicono di credere in qualche altra autorità superiore o forza spirituale.
Molti adulti privi di appartenenza religiosa rifuggono completamente da ogni forma di spiritualità e di religione. La maggioranza è infatti d’accordo con affermazioni come “Nell’universo non ci sono forze spirituali, ma solo leggi della natura” e “Nella mia vita la scienza rende la religione non necessaria”. Ma queste posizioni sono fatte proprie anche da circa un quarto dei cristiani non praticanti.

Quanto ai rapporti con la politica, in generale gli europei occidentali sono contrari agli intrecci tra i loro governi e la religione. In tutti i paesi prevale (60% circa) l’idea che la religione deve essere tenuta separata dalle politiche del governo, ma c’è comunque un 36% secondo cui le politiche governative dovrebbero sostenere i valori religiosi del paese. Ad esempio, nel Regno Unito il 40% dei cristiani non praticanti afferma che il governo dovrebbe sostenere valori e credenze religiose, mentre tra i non affiliati la quota di chi la pensa così è del 18%.
In Germania la maggioranza dei cristiani non praticanti (62%) concorda sul fatto che le Chiese e le altre organizzazioni religiose svolgono un ruolo importante nell’aiutare i poveri e i bisognosi, ma la quota di chi la pensa così (41%) è abbastanza elevata anche tra chi si definisce privo di affiliazione religiosa.

Sebbene i dibattiti attuali sul multiculturalismo in Europa si concentrino spesso sull’Islam e sui musulmani, in molti paesi dell’Europa occidentale ci sono antiche comunità ebraiche e il sondaggio rivela che i cristiani, siano praticanti o meno, sono più propensi degli europei senza religione a dire che non sarebbero disposti ad accettare ebrei nella loro famiglia. Inoltre appaiono più propensi ad accettare affermazioni altamente negative sugli ebrei, come “Gli ebrei perseguono sempre i propri interessi e non l’interesse del paese in cui vivono”.
I risultati della ricerca sono consultabili qui: http://www.pewforum.org/2018/05/29/being-christian-in-western-europe/

Aldo Maria Valli








venerdì 22 giugno 2018

La melassa ecumenica e il burbero Kliment




di Aldo Maria Valli

Penso che tutto sommato dovremmo essere grati al metropolita Kliment, secondo il quale noi cattolici siamo eretici. In mezzo all’insopportabile melassa ecumenica, che ci affligge con la retorica dell’unità motivata dalle «comuni sfide sociali», una parola chiara, per quanto aspra, apre uno squarcio di confronto serio.

Kliment, importante esponente del patriarcato di Mosca, ha manifestato le sue idee in un’omelia dai toni per niente concilianti verso la Chiesa cattolica

(http://www.asianews.it/notizie-it/Metropolita-Kliment:-I-cattolici-sono-sempre-eretici-44207.html)

e che costituisce probabilmente una risposta alle aperture verso i cattolici da parte del patriarca Kirill e di altri esponenti della Chiesa russa come i metropoliti Ilarion e Tikhon.

Unico avversario di Kirill nel corso dell’elezione patriarcale del 2009, il metropolita Kliment è noto come esponente più «rigorista» dell’ortodossia russa, in continuità con il defunto patriarca Alessio II che lo aveva indicato come suo successore. Dopo l’elezione di Kirill, è stato relegato in un ruolo di secondo piano, ma ciò non gli impedisce di farsi sentire, e nell’intervento di cui dà notizia Vladimir Rozanskij su Asianews, pubblicato dalla rivista Vechernaja Moskva, «contesta la diffusa opinione contemporanea per cui “tutte le religioni parlano dell’unico Dio” e che tutti coloro che pregano lo fanno a modo loro, ma sempre verso un unico indirizzo». Secondo Kliment, infatti, «bisogna rispettare le tradizioni religiose delle altre persone, ma questo non autorizza a essere indifferenti rispetto alla propria fede».

«Tra i grandi protagonisti del sinodo giubilare del 2000, durante il quale ha sostenuto con forza la canonizzazione dello zar Nicola II, concessa dai “riformisti” di Kirill in cambio dell’approvazione della “dottrina sociale” della Chiesa russa», Kliment non si fa problemi di linguaggio ecclesialmente corretto. Tanto da sostenere apertamente che «la causa della frattura nella comunione eucaristica con i cattolici e con gli altri eretici, con i quali la Chiesa [ortodossa, ndr] ha interrotto le relazioni a suo tempo, consisteva proprio nel fatto che la Chiesa, con i santi Padri e i santi Concili, riteneva inaccettabili le loro opinioni su Dio, poiché esse conducono alla catastrofe nella vita spirituale e impediscono la realizzazione del piano della salvezza».

Insomma, la frattura non riguarda dettagli, ma va al cuore della fede e della dottrina. E, secondo Kliment, la visione cattolica ha un problema non proprio secondario: impedisce la salvezza dell’anima.

Ora non è certamente questa la sede per condurre un’analisi critica di tali affermazioni, che nascono anche dalla necessità di marcare il territorio in ambito ortodosso. C’è però da segnalare che affermazioni come quelle di Kliment, per quanto ruvide, contribuiscono a diradare le nebbie ecumeniche alimentate da tanti discorsi e dichiarazioni comuni che, per il timore di toccare i nervi scoperti e andare al fondo dei problemi veri, diventano inodori e insapori. Kliment si pone il problema decisivo: spingere avanti l’ecumenismo a ogni costo, ignorando o minimizzando le differenze, non conduce per caso a un pericoloso indifferentismo che non fa bene a nessuno?

Gli argomenti del metropolita, scrive Asianews, «non sono certo nuovi, ma la loro diffusione oggi indica un tentativo di riequilibrare la posizione del patriarcato moscovita». Di fronte a un Kirill che persegue la linea ecumenica, ecco un Kliment che preferisce «stare alla larga dai cattolici e dalle confusioni ecumeniche», rappresentando così le idee di ampie fasce dell’ortodossia.

Ma la questione non è solo strategica e non riguarda soltanto la partita tra le diverse anime ortodosse. Proprio mentre papa Francesco va a Ginevra, per visitare il Consiglio ecumenico delle Chiese, le questioni bruscamente poste dal burbero Kliment costituiscono una bella scossa rispetto a un confronto ecumenico che molto spesso, procedendo lungo le sonnacchiose vie della convenzionalità, si esaurisce nel reciproco appiattimento e di certo non rende omaggio alla verità.

Aldo Maria Valli











Il culto della SS. Eucarestia






Una bella catechesi liturgica che prendiamo da Culmen et Fons.



di Andrea Maccabiani (01-06-2018)
Il culto alla Santissima Eucarestia è presente in tutto l’anno liturgico: ogni singola celebrazione ha infatti al suo centro la contemplazione di questo mistero. Tuttavia ci sono due solennità in cui potersi soffermare in maniera più specifica su questo grande dono: il Giovedì Santo e il Corpus Domini.

La celebrazione del giovedì della Settimana Santa è tra le due la più antica (ne parlammo qui) ed è il momento più importante in cui fare memoria dell’istituzione storica di questo sacramento e occasione di solenne ringraziamento della Chiesa alla Santissima Trinità di questa presenza indispensabile per la sua vita e per quella di ciascun credente. Il rito liturgico prevede l’allestimento di un solenne altare per la reposizione e l’adorazione, sottolineando con i simboli la fede eucaristica della Chiesa.


Questa fede doveva essere in grave crisi -anche a causa di numerose dottrine ereticali- se nel XIII secolo il Signore stesso chiese al Santa Giuliana di Liegi di adoperarsi presso la gerarchia cattolica affinchè si istituisse una nuova festa dedicata alla Santissima Eucarestia. Nel 1246 la festa del Corpus Domini fu istituita nella diocesi di Liegi e nel 1264 fu estesa alla Chiesa universale da papa Urbano IV. Si colloca nel giovedì successivo alla festa della Santissima Trinità, anch’essa di tarda istituzione. In Italia, non essendo festa civile, è celebrata spesso la domenica successiva.
Nella nostra travagliata epoca c’è più che mai bisogno di tornare a celebrare queste feste in maniera esemplare, riscoprendo il patrimonio della nostra tradizione spirituale. Nei riguardi del culto eucaristico ci sono infatti tanti segni che testimoniano la devozione e l’onore tributati a Gesù sacramentato nei secoli:

1) L’esposizione e Adorazione Eucaristica: si può fare in qualsiasi giorno o tempo liturgico. Consiste nell’esporre l’Ostia consacrata alla visione dei fedeli, mediante l’uso di un apposito oggetto chiamato appunto “ostensorio” che ha al centro una vetrinetta trasparente dove porre l’Ostia, circondata da raggi metallici simboleggianti il sole e sostenuta da un piede solitamente di ricca lavorazione. Per favorirne la visione si possono usare basi o tempietti di vario materiale per sopraelevare l’ostensorio e arricchire l’apparato decorativo. Per l’esposizione con l’ostensorio è obbligatorio anche l’uso dell’incenso. È possibile anche esporre solo la pisside chiusa; in questo caso l’apparato è meno solenne. Il Santissimo Sacramento viene esposto affinchè sia adorato dai fedeli. E’ uso dedicare dei giorni durante l’anno a questa lodevole pratica: essi sono chiamati Quarantore. In alcune comunità sia religiose che parrocchiali c’è inoltre il bellissimo uso dell’Adorazione perpetua, 24 ore su 24 tutti i giorni dell’anno, resa possibile con una sapiente turnazione di fedeli. I frutti spirituali sono incalcolabili.


2) processione eucaristica: associata alla festa del Corpus Domini è la bella usanza della processione con Gesù Sacramentato. In alcune località è un vero e proprio evento. Le strade si preparano con drappi e luci e le campane delle chiese suonano al passaggio. Il sacerdote che reca in mano l’Ostia consacrata è sormontato da un drappo sostenuto da 4 o più aste chiamato baldacchino, solitamente di colore bianco o oro. In mancanza del baldacchino è possibile usare (soprattutto all’interno dell’edificio sacro) l’ombrellino anch’esso di stoffa pregiata.



3) la S. Messa con il Santissimo esposto: questa particolarità esiste solo nel rito antico ed è stata abolita dal messale di Paolo VI. Consiste nel celebrare il rito della Messa di fronte al Sacramento esposto, solitamente collocato sopra al tabernacolo. Questa S. Messa si svolge come tutte le altre eccetto la proibizione per il celebrante di voltare le spalle al Santissimo e per la presenza di numerose genuflessioni normalmente non previste. Si può celebrare in occasione delle Sante Quarantore o per il Corpus Domini.



4) paramenti liturgici: il colore delle celebrazioni in onore della Santissima Eucarestia è il bianco o l’oro. Esiste un paramento utilizzato per la Benedizione Eucaristica (cioè fatta con l’ostensorio ): si chiama “velo omerale” e serve per non toccare con le mani nude l’ostensorio. Un altra rubrica proibisce l’utilizzo dei copricapi liturgici in presenza del Santissimo: il Vescovo perciò presiede l’Adorazione o la processione eucaristica privo di zucchetto e di mitria, mentre gli altri ministri non utilizzano le berrette.



5) suppellettili dell’altare: per la solenne esposizione eucaristica è obbligatorio collocare altre candele oltre alle solite utilizzate per le Sante Messa. E’ inoltre vietato collocare reliquie sull’altare quando il Sacramento è esposto. L’incenso viene usato per l’esposizione e la benedizione. Si possono usare i campanelli (e le campane) mentre il sacerdote benedice con il Santissimo.

6) particolarità ambrosiane: il rito ambrosiano presenta differenze vistose rispetto a quanto finora descritto. Anzitutto il colore liturgico che è rosso e non bianco, anche per il baldacchino. L’ostensorio non ha forma di raggiera ma è a tempietto. I vescovi presiedono la processione del Corpus Domini senza zucchetto ma con la mitria.

giovedì 21 giugno 2018

Attacco al sacerdozio, attacco all’Eucarestia




Senza Eucaristia non c’è la Chiesa. Per questo quelli che vogliono annientare la Chiesa cattolica (o cambiarla dall’interno), cercano di distruggere l’Eucarestia. E non c’è modo di migliore di distruggere l’Eucarestia che quello di rovinare il sacerdozio.



di Roberto de Mattei (20-06-2018)

L’Eucarestia è sempre stata il bersaglio preferito di chi odia la Chiesa.
L’Eucarestia, infatti, riassume la Chiesa. Essa, come osserva un teologo passionista, «compendia tutte le verità rivelate, è l’unica sorgente della grazia, è anticipazione della beatitudine, riepilogo di tutti i prodigi dell’Onnipotenza» (Don Enrico Zoffoli, Eucarestia o nulla, Edizioni Segno, Udine 1994, p. 70).

Gli attuali attacchi al Sacramento dell’Eucarestia erano stati previsti dalla Madonna a Fatima nel 1917. Alla Cova da Iria la Vergine esortò i tre pastorelli a pregare «Gesù Cristo, presente in tutti i tabernacoli della terra, in riparazione degli oltraggi, dei sacrilegi e delle indifferenze con cui Egli è offeso».

E, prima ancora, nella primavera del 1916, l’Angelo era apparso ai bambini tenendo nella sua mano sinistra un calice, sul quale era sospesa un’ostia. Diede la santa Ostia a Lucia, e il Sangue del calice a Giacinta e Francesco,che rimasero in ginocchio, mentre diceva: «Prendete e bevete il Corpo e il Sangue di Gesù Cristo, orribilmente oltraggiato dagli uomini ingrati. Riparate i loro crimini e consolate il vostro Dio».


Il cardinale Robert Sarah, prefetto della Congregazione per il culto divino
, nella sua prefazione al bel libro di don Federico Bortoli, La distribuzione della Comunione sulla mano. Profili storici, giuridici e pastorali (Edizioni Cantagalli, Siena 2017), afferma che questa scena «ci indica come noi dobbiamo comunicare al Corpo e al Sangue di Gesù Cristo».

Secondo il Cardinale, «gli oltraggi che Gesù riceve nell’Ostia santa» sono, in primo luogo «le orribili profanazioni, di cui alcuni ex-satanisti convertiti hanno dato notizia e raccapricciante descrizione»; ma anche «le Comunioni sacrileghe, ricevute non in grazia di Dio, o non professando la fede cattolica». Inoltre: «Tutto ciò che potrebbe impedire la fruttuosità del Sacramento, soprattutto gli errori seminati nelle menti dei fedeli perché non credano più nell’Eucaristia».

Ma il più insidioso attacco diabolico
consiste «nel cercare di spegnere la fede nell’Eucaristia, seminando errori e favorendo un modo non confacente di riceverla; davvero la guerra tra Michele e i suoi Angeli da una parte, e Lucifero dall’altra, continua nel cuore dei fedeli: il bersaglio di satana è il Sacrificio della Messa e la Presenza reale di Gesù nell’Ostia consacrata». Questo attacco segue a sua volta due binari: il primo è «la riduzione del concetto di ‘presenza reale’», con la vanificazione del termine “transustanziazione”.

Il secondo è «il tentativo di togliere dal cuore dei fedeli il senso del sacro». Scrive il cardinale Sarah: «Mentre il termine “transustanziazione” ci indica la realtà della presenza, il senso del sacro ce ne fa intravedere l’assoluta peculiarità e santità. Che disgrazia sarebbe perdere il senso del sacro proprio in ciò che è più sacro! E come è possibile? Ricevendo il cibo speciale allo stesso modo di un cibo ordinario». Poi ammonisce: «Che nessun sacerdote osi pretendere di imporre la propria autorità su questa questione rifiutando o maltrattando coloro che desiderano ricevere la Comunione in ginocchio e sulla lingua: veniamo come i bambini e riceviamo umilmente in ginocchio e sulla lingua il Corpo di Cristo».

Le osservazioni del cardinale Sarah sono più che giuste, ma vanno inquadrate in un processo di secolarizzazione della liturgia che ha la sua origine nell’equivoco Novus Ordo Missae di Paolo VI del 3 aprile 1969, di cui l’anno prossimo ricorderemo l’infausto cinquantenario.

Questa riforma liturgica, come scrivevano i cardinali Ottaviani e Bacci, presentando il loro Breve esame critico, ha rappresentato «sia nel suo insieme come nei particolari, un impressionante allontanamento dalla teologia cattolica della Santa Messa, quale fu formulata nella Sessione XXII del Concilio Tridentino». Alla teologia tradizionale della Messa se ne è sostituita una nuova, che ha rimosso la nozione di sacrificio e ha illanguidito, nella prassi, la fede nell’Eucarestia.

D’altra parte, l’apertura ai divorziati risposati, incoraggiata dall’Esortazione Amoris laetitia, e l’inter-comunione con i protestanti, auspicata da molti vescovi, cosa sono se non oltraggi all’Eucarestia? Il sacerdote bolognese don Alfredo Morselli ha ben illustrato le radici teologiche che legano l’Amoris laetitia e l’inter-comunione con gli evangelici.

Aggiungiamo che l’attacco all’Eucarestia è divenuto oggi un attacco all’Ordine Sacro
, per lo stretto legame che unisce i due sacramenti. La costituzione visibile della Chiesa è fondata sull’Ordine, il sacramento che rende il battezzato partecipe del sacerdozio di Cristo; il sacerdozio è esercitato principalmente nell’offerta del Sacrificio eucaristico che esige il prodigio della transustanziazione, dogma centrale della fede cattolica.

Se la presenza di Cristo nel Tabernacolo non è reale e sostanziale e la Messa è ridotta a semplice memoria, o simbolo, di quel che avvenne sul Calvario, non c’è bisogno di sacerdoti che offrano il sacrificio e poiché nella Chiesa la gerarchia è fondata sul sacerdozio, viene meno la costituzione della Chiesa e il suo Magistero.

In questo senso l’ammissione all’Eucarestia dei divorziati-risposati e dei protestanti ha un nesso con la possibilità di attribuire il sacerdozio a laici sposati e di conferire gli ordini sacri minori alle donne.

L’attacco all’Eucarestia è attacco al sacerdozio.

Non c’è nulla di più grande, di più bello, di più commovente, della misericordia di Dio nei confronti del peccatore. Quel Cuore che ha tanto amato gli uomini, per l’intercessione del Cuore Immacolato di Maria, a cui è inscindibilmente legato, vuole portarci a godere la felicità eterna in Paradiso e nessuno, neanche il peccatore più incallito, può dubitare di questo amore salvifico.

Per questo non dobbiamo mai perdere la fiducia in Dio, ma conservarla fino all’estremo della nostra vita, perché mai nessuno è stato ingannato da questa ardente fiducia. Il Signore non ci inganna, ma noi possiamo cercare di ingannare Lui e possiamo ingannare noi stessi. E non c’è inganno più grande di far credere che è possibile salvarsi senza pentirsi dei propri peccati e senza professare la fede cattolica.

Chi pecca, o vive nel peccato, se si pente, si salva; ma se presume di ingannare Dio, non si salva. Non è Dio che lo condanna è egli stesso che, accostandosi indegnamente ai sacramenti, mangia e beve il cibo della propria condanna. È san Paolo che lo spiega ai Corinti, con queste gravi parole: «Chi mangia il pane, o beve il calice del Signore indegnamente, sarà reo del Corpo e del Sangue del Signore. Che ciascuno esamini se stesso, prima di mangiare di quel pane e bere di quel calice; poiché chi mangia e beve indegnamente, se non distingue il corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna» (1 Cor. 11, 27-29). San Paolo constatava poi che, nella chiesa di Corinto, in seguito a comunioni sacrileghe, molti erano i casi di persone che misteriosamente si ammalavano e morivano (1 Cor 11, 30).

Triste è la sorte di chi non si accosta ai sacramenti perché si ostina a vivere nel peccato. Peggiore è il destino di chi si accosta sacrilegamente ai sacramenti, senza essere in grazia di Dio. Più grave ancora è il peccato di chi incoraggia i fedeli a comunicarsi in stato di peccato e amministra loro illecitamente l’Eucarestia. Sono questi gli oltraggi che feriscono e trafiggono più profondamente il Sacro Cuore di Gesù e il Cuore Immacolato di Maria.

Sono questi i peccati che esigono la nostra riparazione, la nostra presenza accanto al Tabernacolo, la nostra difesa pubblica dell’Eucarestia contro ogni genere di profanatori. Così facendo ci assicureremo la nostra salvezza e quella del nostro prossimo e accelereremo l’avvento del Regno di Gesù e di Maria sulla società, che non tarderà ad instaurarsi sulle macerie del mondo moderno.



martedì 19 giugno 2018

Perché consacrare un bambino alla Madonna in occasione del suo Battesimo?





Felipe Aquino | Giu 19, 2018


I santi sono unanimi nell'affermare che nessuna intercessione presso Dio è efficace come quella della Vergine Maria.

È ormai diventata una bella abitudine cattolica che i genitori consacrino i bambini alla Madonna dopo il Battesimo. Si è creato perfino il costume di scegliere una madrina per il bambino in questa consacrazione. Ha senso? È valido?

Sì, certamente! La Chiesa raccomanda la nostra consacrazione alla Madonna tutti i giorni della nostra vita. Il motivo è molto semplice e chiaro: Ella è la nostra Madre benedetta. Ai piedi della Croce, prima di consegnare lo Spirito al Padre, Gesù ci ha donato Sua Madre perché fosse Madre nostra. Non è certo poco, è moltissimo! Se Gesù ha fatto così, è perché abbiamo bisogno di lei!
Gesù ci ha donato Sua Madre come intercessore per noi

Dopo averci donato tutto, la Sua vita, il Vangelo, Egli ci ha donato Sua Madre. Vedendo ai piedi della Croce il discepolo che amava, San Giovanni, Gesù gli ha affidato Maria perché fosse Madre sua e nostra. Tutti i Papi e i santi hanno visto in questa scena San Giovanni come rappresentante di ciascuno di noi, ciascuno di coloro che Gesù ha riscattato con il Suo preziosissimo Sangue redentore e a cui ha confidato Sua Madre.

L’evangelista ha poi scritto: “Il discepolo la prese nella sua casa” (Giovanni 19, 27), perché Ella non aveva più Giuseppe e non aveva altri figli. San Giovanni l’ha portata ad Efeso, la grande città romana che era la capitale della provincia romana del Medio Oriente. San Giovanni è andato a evangelizzare in quella grande città, che all’epoca aveva circa 300.000 abitanti, e ha portato con sé la Madre sua e nostra.

Ancora oggi esiste a Efeso un santuario mariano in cui si trova la casetta in cui vissero, sulla cima di un monte, visitata da molti pellegrini.


Intercessione dei santi
Se Gesù ci ha donato Sua Madre perché fosse anche Madre nostra è perché abbiamo bisogno di Lei per la nostra salvezza. I santi dottori, come Sant’Agostino, San Bernardo, Sant’Alfonso Maria de’ Liguori, San Pietro Canisio, San Roberto Bellarmino e altri, sono unanimi nel dire che tutte le grazie che Dio concede agli uomini, anche quelle ottenute per intercessione dei santi, arrivano a noi mediante le mani di Maria. Per questo è chiamata Mediatrice di tutte le grazie e Avvocata nostra. Come la grande grazia che abbiamo ricevuto dal Padre è stata Gesù, il nostro Salvatore, ed Egli è venuto a noi attraverso Maria, anche tutte le altre grazie vengono a noi attraverso di Lei.

Tutti i santi affermano che nessuna intercessione davanti a Dio è efficace quanto quella della Vergine Maria per noi. Oltre a questo, sappiamo che Dio Le ha donato il potere e la missione di schiacciare la testa di satana (Genesi 3, 15), che vuole allontanarci da Dio mediante il peccato. È la Vergine Santissima che ci protegge dai suoi attacchi maligni. Questa è una ragione importante per consacrarci a Lei.


Ricevendo la protezione di Maria
In particolare, consacrarle un bambino dopo il suo Battesimo ha un significato molto speciale, perché mediante il Battesimo sappiamo che Dio – per la morte e resurrezione di Cristo a cui il bambino partecipa – lo ha riscattato dalle mani del maligno per farlo ora appartenere a Dio, come figlio, erede del cielo, membro della Chiesa, la cui Madre è Maria.

La Vergine potente in quel momento riceve certamente quel bambino tra le sue braccia inespugnabili e lo custodisce e lo protegge, prendendosi cura della sua vita perché segua le vie di Dio. Non invano le Litanie Lauretane la invocano come Porta del Cielo, Rifugio dei peccatori, Consolatrice degli afflitti e Ausilio dei cristiani.















lunedì 18 giugno 2018

Parole chiare sulla famiglia? Purtroppo no






di Aldo Maria Valli

Un amico mi dice: «Sarai contento ora che Francesco ha parlato a favore della famiglia formata da un uomo e una donna. Non è quello che voi “tradizionalisti” gli chiedete?».

La mia risposta è molto semplice: non sono contento. E per diversi motivi.

Il primo motivo è che se si è arrivati al punto da segnalare come novità e motivo di soddisfazione il fatto che il papa abbia detto qualcosa di cattolico significa che qualcosa non funziona.

Il secondo motivo è che quelle parole pronunciate a braccio contengono errori e alimentano equivoci.

Risentiamole.

«Poi oggi – fa male dirlo – si parla di famiglie “diversificate”: diversi tipi di famiglia. Sì, è vero che la parola “famiglia” è una parola analogica, perché si parla della “famiglia” delle stelle, delle “famiglie” degli alberi, delle “famiglie” degli animali… è una parola analogica. Ma la famiglia umana come immagine di Dio, uomo e donna, è una sola. È una sola. Può darsi che un uomo e una donna non siano credenti: ma se si amano e si uniscono in matrimonio, sono immagine e somiglianza di Dio, benché non credano. È un mistero: San Paolo lo chiama “mistero grande”, “sacramento grande” (cfr Ef 5,32). Un vero mistero».

Concentriamoci su quella frase del papa: «Può darsi che un uomo e una donna non siano credenti: ma se si amano e si uniscono in matrimonio, sono immagine e somiglianza di Dio, benché non credano».

Domanda: è davvero così? Davvero è sufficiente che un uomo e una donna, sebbene non credenti, si amino e siano uniti in matrimonio (quale? civile? cattolico?) perché siano immagine e somiglianza di Dio? E davvero si può chiamare Paolo a supporto della tesi?

Vediamo.

Prima di tutto occorre leggere Efesini 5 integralmente.

«1 Fatevi dunque imitatori di Dio, quali figli carissimi, 2 e camminate nella carità, nel modo che anche Cristo vi ha amato e ha dato se stesso per noi, offrendosi a Dio in sacrificio di soave odore. 3 Quanto alla fornicazione e a ogni specie di impurità o cupidigia, neppure se ne parli tra voi, come si addice a santi; 4 lo stesso si dica per le volgarità, insulsaggini, trivialità: cose tutte sconvenienti. Si rendano invece azioni di grazie! 5 Perché, sappiatelo bene, nessun fornicatore, o impuro, o avaro – che è roba da idolàtri – avrà parte al regno di Cristo e di Dio. 6 Nessuno vi inganni con vani ragionamenti: per queste cose infatti piomba l’ira di Dio sopra coloro che gli resistono. 7 Non abbiate quindi niente in comune con loro. 8 Se un tempo eravate tenebra, ora siete luce nel Signore. Comportatevi perciò come i figli della luce; 9 il frutto della luce consiste in ogni bontà, giustizia e verità. 10 Cercate ciò che è gradito al Signore, 11 e non partecipate alle opere infruttuose delle tenebre, ma piuttosto condannatele apertamente, 12 poiché di quanto viene fatto da costoro in segreto è vergognoso perfino parlare. 13 Tutte queste cose che vengono apertamente condannate sono rivelate dalla luce, perché tutto quello che si manifesta è luce. 14 Per questo sta scritto: “Svègliati, o tu che dormi, déstati dai morti e Cristo ti illuminerà”. 15 Vigilate dunque attentamente sulla vostra condotta, comportandovi non da stolti, ma da uomini saggi; 16 profittando del tempo presente, perché i giorni sono cattivi. 17 Non siate perciò inconsiderati, ma sappiate comprendere la volontà di Dio. 18 E non ubriacatevi di vino, il quale porta alla sfrenatezza, ma siate ricolmi dello Spirito, 19 intrattenendovi a vicenda con salmi, inni, cantici spirituali, cantando e inneggiando al Signore con tutto il vostro cuore, 20 rendendo continuamente grazie per ogni cosa a Dio Padre, nel nome del Signore nostro Gesù Cristo. 21 Siate sottomessi gli uni agli altri nel timore di Cristo. 22 Le mogli siano sottomesse ai mariti come al Signore; 23 il marito infatti è capo della moglie, come anche Cristo è capo della Chiesa, lui che è il salvatore del suo corpo. 24 E come la Chiesa sta sottomessa a Cristo, così anche le mogli siano soggette ai loro mariti in tutto. 25 E voi, mariti, amate le vostre mogli, come Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei, 26 per renderla santa, purificandola per mezzo del lavacro dell’acqua accompagnato dalla parola, 27 al fine di farsi comparire davanti la sua Chiesa tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata. 28 Così anche i mariti hanno il dovere di amare le mogli come il proprio corpo, perché chi ama la propria moglie ama se stesso. 29 Nessuno mai infatti ha preso in odio la propria carne; al contrario la nutre e la cura, come fa Cristo con la Chiesa, 30 poiché siamo membra del suo corpo. 31 Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà alla sua donna e i due formeranno una carne sola. 32 Questo mistero è grande; lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa! 33 Quindi anche voi, ciascuno da parte sua, ami la propria moglie come se stesso, e la donna sia rispettosa verso il marito».

Ecco qua. Come si può ben vedere, Paolo dice sì che i due che vanno a formare una carne sola diventano un «mistero grande», ma soltanto se lo fanno alla luce di Cristo, secondo la legge divina e nella Chiesa. Sostenere che qualsiasi coppia, anche non credente, è per ciò stesso «mistero grande» è una distorsione. Grave.

Non basta amarsi e unirsi in matrimonio (anche civile?) per essere immagine e somiglianza di Dio. Non è l’amore umano che santifica il matrimonio. Ciò che santifica l’unione e la rende immagine di Dio è la presenza di Dio. Se io non invito Dio al mio matrimonio, se non mi unisco in matrimonio alla luce di Cristo e in obbedienza alla legge divina, se non chiedo la benedizione divina, se non vivo il matrimonio nella dimensione sacramentale, io posso amare quanto voglio ma non posso ritenere che la mia unione mi porti a essere immagine e somiglianza di Dio. Né posso utilizzare Paolo per tirare l’acqua al mio mulino. Anche perché le parole di Paolo (unite a quelle di Gesù in Matteo, 19,3-6) hanno una conseguenza decisiva, che è l’indissolubilità del vincolo matrimoniale.

Ecco il motivo per cui non posso essere contento della frase del papa. Perché, una volta ancora, è fonte di confusione.

Mi si dirà: ma tu sei incontentabile! No, cerco solo di essere cattolico.

Ma c’è un terzo motivo per cui non sono contento.

Il papa che davanti al Forum delle famiglie difende la famiglia tra uomo e donna e condanna l’aborto è lo stesso che poi invita padre James Martin, paladino della causa LGBT, all’Incontro mondiale delle famiglie di Dublino. È lo stesso che (di ritorno da Rio de Janeiro) dice che su questioni come aborto e matrimoni tra persone dello stesso sesso non è necessario ritornare, è lo stesso che lascia invitare in Vaticano esponenti della cultura abortista, lo stesso che sostiene di non aver mai capito l’espressione «valori non negoziabili», lo stesso che in Amoris laetitia sostiene la morale del caso per caso, e via dicendo.

Allora? Qual è l’insegnamento del papa?

La risposta è che l’insegnamento del papa, con Francesco, non vuole più ribadire la verità ma, come lui ama dire, «avviare processi». Lo ha spiegato molto bene il professor Roberto Pertici nel suo saggio Fine del cattolicesimo romano. Siamo di fronte a un pontificato che intende destrutturare il papa e il pontificato stesso, rendere più elastico e adattabile il magistero, depotenziare alcuni sacramenti, sminuire l’importanza della ricerca di principi stabili, sostenere il primato della (presunta) concretezza della realtà sulla (presunta) astrattezza della legge.

Di questo si dovrebbe parlare quando ci si confronta sull’attuale pontificato. Senza mai stancarsi di segnalare, in ogni caso, le contraddizioni interne e i veri e propri errori dottrinali, voluti o non voluti che siano.

Aldo Maria Valli








Dalla Rivoluzione francese al Concilio Vaticano II: come il nostro mondo ha smesso di essere cristiano


Guillaume Cuchet


Per i tipi della Seuil, di Parigi, è uscito recentemente il volume di Guillaume Cuchet*, Comment notre monde a cesse d’ètre chrétien. Anatomie d’un èffrondement (Come il nostro mondo ha smesso di essere cristiano: Anatomia di un crollo). L’autore, docente di Storia contemporanea presso l’Università di Parigi Créteil, ha già scritto diversi volumi sul cattolicesimo in Francia.




Nel secolo XIX, ricorda Cuchet, il 75% dei missionari nel mondo erano francesi. Dopo gli orrori della Rivoluzione francese, e in parte come reazione ad essa, la Chiesa cattolica ebbe un vigoroso rinnovamento: mentre la devozione al Sacro Cuore si diffondeva come mai prima, la Provvidenza adornava la Francia con una fioritura di santi, come san Pietro Giuliano Eymard e santa Teresina del Bambino Gesù. In questo periodo, la Madonna è apparsa in Francia ben tre volte: Rue du Bac (1830), La Salette (1846) e Lourdes (1858). Questa situazione è continuata, con sfumature, fino alla metà del secolo scorso. Fino agli anni Cinquanta, infatti, la pratica religiosa in alcune regioni, come la Vandea, era praticamente del 100%. Oggi, invece, la pratica religiosa non supera il 2% a livello nazionale: “Il cattolicesimo è cambiato radicalmente, sia nei suoi aspetti religiosi sia in quelli sociali. Diventando minoritario, andando cioè sotto una certa soglia statistica, anche i suoi effetti sociali e culturali non sono più gli stessi”. Cosa è successo?

Cuchet analizza l’edizione del 1947 della Carte religieuse de la France rurale
, che già mostrava importanti falle nella struttura religiosa di Francia: mentre alcune regioni, come la Vandea, registravano un’altissima pratica religiosa, altre, come il Limousin, erano quasi piatte. Come mai? La risposta ci offre una chiave di lettura della crisi religiosa della Francia moderna: “Dalla carta emerge con chiarezza che i paesi che hanno accettato la politica religiosa della Rivoluzione francese, sono diventati i ‘cattivi’ della situazione, mentre quelli che l’hanno respinta, o addirittura avversata, hanno continuato ad essere ‘virtuosi’”.



In altre parole, è nella Rivoluzione francese che vanno cercate le cause mediate della crisi spirituale e religiosa in Francia. “La scristianizzazione in Francia – afferma Cuchet – è una storia vecchia e risale almeno fino alla Rivoluzione francese, con alcuni alti e bassi. Dopo la Seconda guerra, la Chiesa aveva messo in atto iniziative missionarie che avevano, se non ribaltato, almeno stabilizzato la crisi. Negli anni Sessanta del secolo scorso, invece, c’è stata una rottura di portata paragonabile solo a quella della Rivoluzione. Dal 1965 al 1966, tutti gli indicatori hanno cominciato a crollare in modo brutale. Un esempio: mentre nel 1965 il 94% dei francesi era battezzato, oggi la cifra si aggira intorno al 30%. E mentre il 35% andava alla Messa, oggi non superano il 2%”.

Con logica tutta francese, l’autore si domanda cosa mai sia successo in quegli anni
per provocare una tale catastrofe. E risponde: “Fra il 1965 e il 1966, ossia in appena due anni, la Chiesa cattolica ha perso un terzo dei fedeli, soprattutto giovani. Ci deve essere un avvenimento che spieghi questo crollo così vistoso e veloce. Io non vedo altro se non il Concilio Vaticano II. Il maggio 1968 ha avuto un ruolo nell’acuire la crisi, ma non l’ha certo provocata”.




Cuchet non arriva a tale conclusione a cuor leggero: “Per molto tempo noi, sociologi e storici, abbiamo avuto qualche rimorso nel sostenere questa tesi, perché avevamo paura che potesse portare acqua al mulino degli avversari del Concilio, che avevano fatto appunto di questa terribile ‘coincidenza’ un punto di polemica. La mia tesi non è che il Concilio Vaticano II abbia propriamente provocato la crisi, poiché essa occorre anche nei paesi protestanti, ma l’ha sicuramente detonata all’interno del cattolicesimo, comunicandole poi un’intensità tutta particolare”.

Interpellato sul futuro del cattolicesimo in Francia,
Cuchet risponde: “Tutta la questione, molto complessa, sta nel sapere che cosa nel Concilio abbia potuto produrre un effetto così devastante: i suoi testi, la loro interpretazione, la loro applicazione, i suoi effetti indiretti? Taluni affermano che la causa vada cercata nella riforma liturgica, iniziata nel 1963. Secondo me, la polemica intorno alla questione liturgica ha velato un aspetto molto più importante e profondo del problema: l’abbandono della cultura cattolica come punto di partenza per la Fede”.

* Tratto da un’intervista a Guillaume Cuchet, “Le Figaro”, 30 marzo 2018.

© Tradizione Famiglia Proprietà / giugno 2018