giovedì 30 dicembre 2010

L'altare cristiano


di don Enrico Finotti (Parroco di S. Maria del Carmine in Rovereto TN. L'articolo apparirà sulla rivista Liturgia 'culmen et fons' di dicembre-gennaio 2011.)Da libertaepersona.org

Per comprendere in profondità la natura e la funzione dell’altare nella liturgia cattolica è indispensabile una adeguata indagine storica sulla sua origine e sul suo coerente sviluppo. Essa tuttavia non basterà. Infatti, si potranno capire le successive scelte storiche in ordine all’altare approfondendo la teologia sottesa, in base alla quale l’altare assunse forme e arredi consoni alla visione teologica che si voleva trasmettere.


Mensa, Ara e Croce.


E’ normale che venga individuata l’origine dell’altare cristiano nella mensa del cenacolo, sulla quale nostro Signore istituì il Sacrificio eucaristico e il Convivio sacro del suo Corpo e del suo Sangue. Veramente la mensa dell’ultima cena è il referente originario e originante dell’unico e definitivo Sacrificio del Nuovo Testamento. Da qui parte quell’oblazione pura che dall’oriente all’occidente è offerta fra le genti e in ogni luogo (Ml 1, 11). Occorre tuttavia approfondire e non fermarsi ad una facile visione superficiale, che potrebbe svuotare quel Sacrificio della sua profonda sostanza per fissarsi nella debole espressione di un ordinario convito umanitario ed usuale. In realtà, quando la famiglia ebraica si riuniva per la cena pasquale si relazionava in modo intimo e indissolubile con l’altare del tempio di Gerusalemme, sul quale in antecedenza veniva immolato l’agnello, che portato sulla mensa domestica consentiva la celebrazione della Pasqua. Senza quella vittima sacrificata sull’ara del tempio e trasferita poi sulla mensa delle case, la cena pasquale perdeva la sua identità. La relazione all’immolazione dell’agnello nel tempio era tanto necessaria che, per celebrare la Pasqua, si doveva alloggiare a Gerusalemme o nelle vicinanze. Non era, infatti, possibile stare fuori Gerusalemme, ossia lontani dal tempio, perché dal tempio veniva l’agnello immolato e ad esso rimandava. La cena pasquale ebraica era dunque una cena sacrificale, un banchetto mediante il quale si partecipava della vittima sacrificale. Ed ecco che mensa ed ara si trovano intimamente unite, geneticamente e indissolubilmente interiori l’una all’altra. Tolta l’ara è compromessa totalmente la natura di quella specifica mensa imbandita per la cena pasquale. Nel cenacolo però il Signore opera la novità e crea la realtà di quello che fino ad ora era figurato nelle antiche profezie e nel sacrificio dell’agnello. Egli immola incruentamente se stesso nel contesto ancora visibile del segno profetico dell’agnello, che come ombra sta ormai per scomparire e cedere il posto alla realtà, Cristo Gesù, col suo Corpo e il suo Sangue immolati nelle specie sacramentali del pane e del vino. E’ evidente che, nel mentre lo sguardo del Signore si ritrae ormai dalla figura dell’agnello che passa e dall’ara del tempio su cui fu immolato, si fissa con divina preveggenza e immedesimazione mistica sull’ara della Croce, che lo attende sul Calvario. Egli, infatti, anticipa sacramentalmente sulla mensa della cena e nella forma del convito il sacrificio cruento che avrebbe offerto di li a poco sull’altare della Croce.

La Croce, quindi entra nel cenacolo si pianta sulla sua mensa e, mentre l’antica ara del tempio si ritira, avendo assolto la sua funzione profetica, si erge ormai sovrana quale sostanza interiore di ciò che si compie nell’ultima cena e che si ripeterà per tutti i secoli fino alla fine del mondo per comando del Signore Fate questo in memoria di me. Mensa, Ara e Croce, ecco i tre simboli interiori e indissolubili del mistero grande che si compie nell’istante consacratorio quando il Signore, pronunziando le parole divine - Questo è il mio Corpo… Questo è il mio Sangue…-, istituisce il Sacrificio perenne, senza più tramonto. Le tre figure di riferimento – mensa, ara e croce – prima ancora di trovare espressione fisica nell’altare cristiano sono presenti nella sostanza stessa dell’atto sacrificale di Cristo e costituiscono, ancor prima di trovare la loro traduzione materiale nella liturgia, la forma interiore dell’atto sacrificale del Signore. Nel Cenacolo è visibile solo la Mensa, l’Ara del tempio è richiamata dall’agnello immolato, la Croce ancora non si vede, ma tutto è presente e unitario nella mente divina e nel cuore amante del Salvatore.

A questo punto si comprende bene perché la Chiesa, avuta la libertà religiosa (IV sec.) poté procedere alla costruzione dell’altare cristiano nel modo che la storia e l’arte ci attestano. Appena possibile la semplice mensa lignea, usata nelle case nei secoli della persecuzione, divenne l’altare marmoreo in tutto simile all’ara sia ebraica che pagana, ma eloquente per esprimere ciò che l’Eucarestia era in realtà, il Sacrificio di Cristo. Al contempo tale ara monumentale e preziosa non abbandonò la mensa, ma la assunse in sé adattandosi ad accogliere i santi doni conviviali e rivestendosi con una candida tovaglia. Infine, quando la Croce gloriosa del Signore potè essere rappresentata come un vessillo di vittoria e annunziare al contempo la sua Morte, la sua Risurrezione, la sua Ascensione e la sua mirabile Venuta nella gloria, non tardò a trovare il suo posto più logico e conveniente proprio sulla mensa di quell’ara sulla quale il sacrificio della Croce si attualizzava sacramentalmente.
Ed ecco che Mensa, Ara e Croce, possono costituire anche in modo visibile, nello splendore delle basiliche monumentali e nella solennità dei riti pontificali, il segno materiale e prezioso del mistero che si compie sotto la coltre del sacramento. Non si trattò certamente di una corruzione della semplicità delle origini, ma di uno sviluppo necessario e legittimo, coerente con la struttura interiore del mistero e che si esprimerà nel pensiero cristiano nella successiva sistemazione teologica relativa al dogma eucaristico. In tal senso, la Mensa, l’Ara e la Croce, sono talmente collegate alle dimensioni costitutive del mistero fin dalla sua istituzione da essere ormai ingredienti liturgici insopprimibili nell’edificazione dell’altare cristiano. Esso, infatti, per esprimere in modo completo ed equilibrato l’intero mistero del Sacrificio conviviale dell’eucaristia, dovrà avere la monumentalità dell’Ara, la dignità della Mensa e la gloria del vessillo della santa Croce.


L’altare sta in alto.

L’altare sta in alto e se non eleva perde la sua natura più vera. Si può in tal modo affermare una semplice regola: all’altare si ascende come al battistero si discende. Se l’etimologia alta-ara potrebbe essere ancora discussa e non da tutti è accettata, la storia dell’ altare cristiano e ancor prima di quello ebraico e pagano, afferma la sua posizione elevata. In particolare, non potendo accedere all’altare mediante i gradini per questioni di purità cultuale, nel tempio di Gerusalemme si saliva mediante una rampa (Es 20, 24-26). Ma è soprattutto nell’approfondire l’atto liturgico che si celebra sull’altare, il sacrificio, che emerge in tutta chiarezza la necessità della posizione alquanto elevata dell’altare. Nell’offerta del sacrificio si cerca il rapporto con Dio, ci si eleva a lui e tutta la ritualità porta a proiettarsi verso il cielo, lì dove l’intuito religioso universale contempla il trono di Dio: il corpo sale i gradini dell’altare, le mani si elevano verso l’alto, lo sguardo fissa le profondità sideree dei cieli. Ecco le movenze più spontanee che il sacerdote assume nell’azione sacrificale, ed è logico che tale spinta interiore sia tradotta visibilmente nei gesti del corpo e fissata materialmente nella posizione alta e maestosa dell’altare.
Possiamo allora individuare nella struttura interiore (metafisica) dell’altare due movimenti profondamente correlati e concordi nell’esprimere la direzione ascendente. L’altare sale verso la Maestà divina e segue le volute dell’incenso che ascendono in sacrificio di soave odore. Esso guarda certamente il popolo, ma non per muoversi verso di esso, quanto per attrarlo nella sua ascesa cultuale. Per questo l’altare assumerà una posizione otticamente centrale, ben visibile da tutta l’assemblea liturgica, per poter trainare dolcemente il popolo di Dio nel movimento ascendente dell’oblazione sacrificale, che sulla sua mensa si compie nel mistero sacramentale. E’ quindi consono alla natura più intima dell’altare salire e far salire tutti coloro che all’altare volgono lo sguardo adorante verso la contemplazione della Gloria divina. Il moto esattamente inverso, invece, si produce per la mensa. Essa deve discendere e rivolgersi fisicamente il più possibile verso i fedeli. Essa, infatti, porge la vittima immolata quale cibo e bevanda di salvezza. Questo moto del discendere e del rendersi prossima all’assemblea liturgica le è quindi necessario e connaturale ed è pienamente conforme al suo stesso essere mensa che nutre. Questo duplice ruolo di altare che ascende e attrae e di mensa che discende e si avvicina ai fedeli si esplica nella liturgia eucaristica che distingue la prece consacratoria in cui si compie il sacrificio, dai riti di comunione in cui la vittima immolata è data in cibo ai commensali.
Possiamo allora rilevare che gli altari storici esprimevano la loro natura ascendente-sacrificale e, senza mai rinunciare alla mensa in essi incorporata, la integravano ulteriormente con la balaustra, che nella sua posizione bassa e prossima ai fedeli consentiva la distribuzione del Corpo del Signore. Gli altari postconciliari, invece sembrano aver abbandonato il loro moto saliente in favore di una totale riduzione al loro ruolo di mensa. In tal modo essi non sono più in alto, ma in piano e fisicamente il più possibile prossimi all’assemblea. Il moto discendente e rivolto al popolo proprio della mensa è diventato esclusivo e totalizzante. Tale realtà si nota anche negli altari resi definitivi e anche dedicati, certamente solidi nella loro struttura marmorea, ma sempre e solo mensa. In altri termini si potrebbe dire che l’intera celebrazione del Sacrificio eucaristico è ridotta prevalentemente al rito di comunione. Certamente il Sacrificio si compie, ma la nuova configurazione dell’altare non lo esprime più come prima avendo rinunciato a modellare in se stesso le caratteristiche classiche che sono proprie dell’ara sacrificale. Per questo fu facile anche la rimozione così vasta della balaustra, avendo l’altare stesso assunta la sua funzione.
Ebbene, oggi si ode l’allarme del Magistero sulla crisi della dimensione sacrificale dell’Eucaristia. Non potrebbe essere opportuna allora una nuova e più profonda riflessione sulle modalità liturgiche dell’altare? E’ da ritenere ormai acquisita ed insuperabile la conformazione dell’altare alla forma della sola mensa, senza più ricuperare anche quella dell’ara elevata e maestosa? Non potrebbe nel tempo questa riduzione dell’altare condizionare l’equilibrio del dogma eucaristico, che si trasmette nel cuore dei fedeli primariamente nella correttezza del rito e dei luoghi liturgici che ad esso sono connessi? Gli altari storici sono da congedare definitivamente e il loro ruolo è ormai del tutto museale? La storia della Chiesa e della sua liturgia non è forse ancora aperta ad uno sviluppo coerente ed organico, che potrebbe trovare per l’altare nuove sintesi in perfetto accordo con la tradizione dei secoli? Credo che il Santo Padre Benedetto XVI stia richiamando alla Chiesa proprio queste problematiche e in tal senso il suo Magistero ha la forza della profezia.

La venerazione per Maria Madre di Dio e Madre Nostra



Una riflessione sull'amore dovuto alla Madonna di P. Gabriele M. Pellettieri FFI -
da mediatrice.net


Dobbiamo amare la Madonna perché è la nostra Mamma.
Noi apparteniamo a Lei, siamo suoi figli come Gesù. Il nostro cuore dovrebbe trasalire di gioia al pensiero che la Madonna ha verso di noi gli stessi sentimenti e affetti materni che ebbe verso Gesù. Per questo i Santi facevano a gara nell’esaltare, nel venerare, nell’amare la Vergine Santissima «che ci tratta sempre amorosamente e non ci castiga mai.

Il Figliuolo ha la giustizia, mentre la Madre non ha che l’amore» (Santo Curato d’Ars). Maria è una Mamma dolcissima, tutta piena di tenerezza verso i suoi figli. Come saremmo ingrati se non tenessimo in considerazione questa realtà e non amassimo la Madonna!

È necessario conoscere Maria Santissima per amarla? Per meglio venerare e amare Maria Santissima è necessario conoscerla. L’amore esige la conoscenza della persona amata. Chi ama veramente la Madonna sente il bisogno di approfondire il mistero della sua vita celestiale per conoscere i segreti e ascoltare i palpiti del suo cuore materno. La Chiesa ha sempre esortato i fedeli ad alimentare l’amore alla Madonna non col sentimento, ma con una conoscenza illuminata e profonda. Così hanno fatto i Santi. Le opere bellissime che ci hanno tramandato è la testimonianza più certa del loro amore alla Madonna.

Qual esigenza comporta l’amore alla Madonna? Il vero amore porta all’unione con la persona amata. Chi ama la Madonna sente il bisogno di vivere sempre unita a Lei, così come il bambino desidera vivere sempre vicino alla mamma. Amare la Madonna significa averla sempre presente, vivere in Lei, pensarla continuamente, lasciarsi prendere e conquistare dal suo amore dolcissimo. I Santi hanno realizzato in pieno e in modo sublime questo costante vivere con Maria.

In che modo possiamo provare il nostro amore alla Madonna? Possiamo provare il nostro amore alla Madonna anzitutto evitando ciò che a Lei dispiace: il peccato. Non è possibile amarla se la disgustiamo e l’offendiamo con i nostri peccati. Inoltre si dimostra di voler bene alla Madonna con la preghiera costante e devota. I Santi le offrivano ogni giorno bellissime orazioni e devozioni, numerosi rosari, pie giaculatorie e continui atti di amore. Molte opere prodigiose e importanti compiute dai Santi furono offerte e dedicate alla Madonna. Anche le nostre azioni, specialmente le più importanti della giornata, dovremmo affidarle a Maria, perché sia Lei a santificarle.

I sacrifici offerti alla Vergine sono prove di vero amore? Il nostro amore alla Madonna possiamo e dobbiamo provarlo soprattutto con i sacrifici. Sarà questa la prova più sicura che l’amiamo veramente. Difatti non c’è amore più grande di colui che soffre e si immola per la persona amata. I Santi nutrivano il loro amore alla Madonna con il sacrificio; e questo diventava un bisogno, un’esigenza per appagare la loro sete d’amore. Essi soffrivano amando e amavano soffrendo. Anche il nostro amore alla Madonna sarà autentico solo quando sarà messo alla prova dal sacrificio e dal dolore.

Imitare la Madonna è un segno di amore sincero? Chi ama vuole imitare. È nella natura stessa dell’amore agire conformemente alla persona che si ama. Dove c’è amore non manca mai l’imitazione. L’amore alla Madonna vero e fattivo, sincero e profondo non si dimostra con il sentimento o con la vana pietà, ma con l’imitare la sua vita e le sue virtù. Imitare la Madonna significa aver compreso il senso vero e autentico della sua devozione. L’imitazione delle virtù di Maria non è fine a se stessa, ma porta all’imitazione di Gesù, di cui la Vergine è la copia più fedele e perfetta. Più ci sforzeremo di imitare la Madonna nella nostra vita, più diventeremo simili a Gesù.

mercoledì 29 dicembre 2010

Celebrazioni alla Chiesa della Madonna del Carmine a Pistoia


Santa Messa in Rito Romano Antico

(in latino, con canto gregoriano e organo)


Sabato 1 gennaio 2011: ore 18:30 - preceduta dal Santo Rosario ore 18:10


Mercoledì 5 gennaio 2011: ore 18:30 (Prefestiva dell'Epifania)

domenica 26 dicembre 2010

Messe del Papa: Comunione solo in bocca


Notizia di enorme significato: nelle Messe celebrate dal Santo Padre (a partire dalla Messa della Notte di Natale 2010), non solo lui, ma tutti i sacerdoti che lo aiutano a distribuire ai fedeli la comunione, non porranno più l'ostia santa sul palmo della mano, ma solo in bocca, a ciascun comunicando, laico o chierico che sia.

Non c'è dubbio, per chi è stato anche una sola volta alle messe celebrate in San Pietro dal Papa, che il momento della comunione è spesso di grande confusione, e c'è gente che allunga le mani verso ogni sacerdote, a volte dando quasi l'impressione di voler ghermire una particola.

Adesso ciascuno, con più ordine, e con meno pericoli di far cadere a terra le particole, dovrà con calma presentarsi di fronte al ministro e ricevere da lui sulla bocca la santa comunione.Questo modo di ricevere il Corpo di Cristo, non solo aumenta la devozione e la consapevolezza della reale presenza del Salvatore, ma previene anche non difficili furti delle sacre specie che possono avvenire nelle messe più affollate.

A quanti diranno che "si torna indietro" ecc. ecc., è bene SEMPRE ricordare:a) Il modo UNICO previsto dal Messale di Paolo VI è ricevere la comunione sulla bocca.b) La possibilità alternativa di ricevere sulle mani è regolata da un INDULTO.


La notizia è ripresa dal Blog di Fr. Z



giovedì 23 dicembre 2010

La novità di Gesù Cristo




San Leone Magno, Omelia II sul Santo Natale


Esultiamo nel Signore e con spirituale gaudio rallegriamoci, perché è spuntato per noi il giorno che significa la nuova redenzione, l'antica preparazione, la felicità eterna. Il mistero della nostra salvezza, promesso all'inizio del mondo, attuato nel tempo stabilito per durare senza fine, si rinnova per noi nel ricorrente ciclo annuale.

In questo giorno è giusto che noi, elevati in alto i cuori, adoriamo il divino mistero, affinché sia celebrato dalla Chiesa con grande letizia quel che si compie per munifica generosità di Dio.

Infatti, Dio onnipotente e clementissimo, la cui natura è bontà, la cui volontà è potenza, la cui azione è misericordia, allorché la malizia del diavolo con il veleno del suo odio ci sottomise alla morte, tosto indicò all'inizio del mondo la medicina che la sua misericordia metteva a disposizione per risollevare il genere umano.

Preannunciò al serpente la futura discendenza della donna che con la propria virtù gli avrebbe schiacciato il capo, sempre altero o pronto a mordere. In tal modo preannunciò Cristo, I'Uomo-Dio, che doveva venire nella carne e che, nascendo dalla Vergine con una nascita immacolata, doveva condannare colui che violò l'integrità del genere umano.

Infatti il diavolo, trovando un sollievo alle proprie pene nel compagno di peccato, si gloriava che l'uomo, da lui ingannato, fosse stato privato dei doni divini e, spogliato della immortalità, fosse stato assoggettato a dura sentenza di morte; in più si gloriava perché Dio, secondo le esigenze della giustizia, era stato costretto a cambiare proposito riguardo all'uomo che egli aveva creato insignito di grande dignità. Per questo è stato necessario che Dio, immutabile, la cui volontà è inseparabile dalla benignità, adempisse con segreta economia e con occulto mistero il suo primo disegno di grazia ai nostri riguardi, affinché l’uomo, caduto in colpa per l'insidia del maligno diavolo, contrariamente al piano di Dio non perisse.

LA NOVITÀ NELLA NASCITA DI CRISTO

Appena giunti i tempi prestabiliti per la redenzione degli uomini, Gesù Cristo, Figlio di Dio, fa il suo ingresso nella bassa condizione di questo mondo: discende dalla sede celeste senza, però, allontanarsi dalla gloria del Padre: è generato in un nuovo stato e con novità nella nascita. nuovo il suo stato, perché, pur rimanendo invisibile nella sua natura, è diventato visibile nella natura nostra. Egli, che è l'immenso, ha voluto essere racchiuso nello spazio: pur restando nella sua eternità, ha voluto incominciare a esistere nel tempo. Il Signore dell’universo, nascosta sotto il velo la gloria della sua maestà, ha assunto la natura di servo. Dio, inviolabile, non ha sdegnato di assoggettarsi al dolore; l'immortale non ha rifiutato di sottomettersi alla legge della morte.

Inoltre è stato generato con novità nella nascita, perché è stato concepito dalla Vergine ed è nato dalla Vergine senza l'intervento di padre terreno e senza la violazione della integrità della madre. A chi doveva essere il Salvatore degli uomini era conveniente una tale nascita, perché avesse in sé la natura umana e non conoscesse la contaminazione della umana carne. Dio stesso, infatti,è l’autore della nascita corporea di Dio, e l'arcangelo l’ha attestato alla santa Vergine Maria:«Lo Spirito Santo verrà sopra di te, e la potenza dell’Altissimo ti coprirà della sua ombra: per questo il bambino che nascerà sarà chiamato Figlio di Dio».

Dunque la sua origine è diversa dalla nostra, ma la sua natura è uguale alla nostra. Il fatto che la Vergine abbia concepito, che la Vergine abbia partorito e poi sia rimasta ancora vergine, certamente è estraneo alla comune esperienza umana, poiché è fondato sulla divina potenza. In questo caso, difatti, non bisogna considerare la condizione di colei che partorisce, ma il volere di colui che nasce, il quale è nato dall'uomo nel modo che ha voluto e potuto. Se tu osservi la realtà della natura, costati la sostanza umana; ma se scruti la causa dell'origine, vi riconosci la potenza divina. Invero, Gesù Cristo, nostro Signore, è venuto per abolire il contagio del peccato, non per tollerarlo; è venuto per curare ogni malattia di corruzione e tutte le ferite delle anime macchiate.

Era dunque opportuno che nascesse in maniera nuova colui che apportava agli uomini una nuova grazia di immacolata integrità. Era necessario che l'integrità di chi nasceva conservasse la nativa verginità della madre, e che l'adombramento della virtù dello Spirito Santo custodisse il sacro recinto del pudore e la sede della santità. Gesù, difatti, aveva stabilito di rialzare la creatura che era precipitata in basso, di rafforzare la creatura conculcata e di donare e accrescere la virtù della castità per cui potesse essere vinta la concupiscenza della carne. Dio ha voluto in tal maniera che la verginità, necessariamente violata nella generazione degli altri uomini, fosse imitabile negli altri con la rinascita spirituale.

mercoledì 22 dicembre 2010


S. Luigi Maria Grignion de Montfort nel Trattato della vera devozione a Maria ci mostra il ruolo di Maria nella storia della salvezza.
Ella è una semplice creatura, ma Dio ha voluto servirsi della Vergine Maria per manifestare la sua gloria e per attuare il suo volere. Attraverso di lei è stata possibile l’incarnazione del Verbo e per mezzo di lei riceviamo il Figlio di Dio.

Nessuno può avere Dio per Padre se non ha Maria per Madre, infatti Dio Padre ha radunato tutte le acque e le ha chiamate mare, ha radunato tutte le grazie e le ha chiamate Maria.

Per la nostra preparazione al Natale affidiamoci a Maria, poiché essendo la strada per la quale Gesù Cristo è venuto a noi la prima volta, è pure la strada che egli seguirà nella sua seconda venuta in quanto è il mezzo sicuro e la strada diritta e immacolata per andare a Gesù Cristo e trovarlo perfettamente, come ci esorta il Montfort.


MARIA NEL MISTERO DI CRISTO


Nell'incarnazione


Dio Padre ha dato al mondo il suo unico Figlio soltanto per mezzo di Maria. Per quanti sospiri abbiano elevato i patriarchi, per quante richieste abbiano presentato i profeti e i santi dell'antica legge, durante quattromila anni, per avere un simile tesoro, soltanto Maria l'ha meritato ed ha trovato grazia davanti a Dio con la veemenza delle sue preghiere e con la sublimità delle sue virtù. Il mondo - dice sant'Agostino - era indegno di ricevere il Figlio di Dio direttamente dalle mani del Padre. Questi l'ha dato a Maria perché il mondo lo ricevesse per mezzo di lei. Il Figlio di Dio si è fatto uomo per la nostra salvezza, ma in Maria e per mezzo di Maria.Dio Spirito Santo ha formato Gesù Cristo in Maria, ma dopo averle chiesto il consenso per mezzo di uno dei primi ministri della sua corte.


Nei misteri della redenzione


Dio Padre ha comunicato a Maria la propria fecondità, per quanto ne era capace una semplice creatura, per darle il potere di generare il suo Figlio e tutti i membri del suo corpo mistico.
Dio Figlio è disceso nel grembo della Vergine, come nuovo Adamo nel paradiso terrestre, per compiacersi in esso ed operarvi in segreto meraviglie di grazia. Questo Dio-uomo ha trovato la propria libertà nel vedersi racchiuso nel seno di lei. Ha fatto sfoggio della propria forza nel lasciarsi portare da questa fanciulla. Ha trovato la propria gloria e quella del Padre nel nascondere i suoi splendori a tutte le creature di quaggiù, per manifestarli solo a Maria. Ha glorificato la propria indipendenza e maestà nel dipendere da questa amabile Vergine nella concezione, nella nascita, nella presentazione al tempio, nei trent'anni di vita nascosta, anzi nella sua stessa morte, alla quale doveva essere presente, per compiute dall'Incarnata Sapienza nella sua vita nascosta Gesù Cristo rese maggior gloria a Dio suo Padre con la sua sottomissione a Maria per trent'anni, che non gliene avrebbe data convertendo tutta la terra con i più grandi miracoli.
Oh, come si glorifica altamente Dio quando, per piacergli, ci sottomettiamo a Maria, sull'esempio di Gesù Cristo, nostro unico modello.
Se esaminiamo da vicino i rimanenti anni della vita di Gesù Cristo, vedremo che egli ha voluto cominciare i suoi miracoli per mezzo di Maria. Con la parola di Maria, infatti, ha santificato san Giovanni ancora nel seno della madre santa Elisabetta: non appena Maria ebbe parlato, Giovanni fu santificato; e questo è il primo e più grande miracolo nell'ordine della grazia. All'umile preghiera di Maria, nelle nozze di Cana, egli ha cambiato l'acqua in vino, ed è il suo primo miracolo nell'ordine della natura. Gesù Cristo ha cominciato e continuato i suoi miracoli per mezzo di Maria e per mezzo di Maria li continuerà sino alla fine dei secoli.Lo Spirito Santo, che è sterile in Dio, cioè non da origine ad un altra persona divina, è divenuto fecondo per mezzo di Maria da lui sposata. Con lei, in lei e da lei egli ha realizzato il suo capolavoro, che è un Dio fatto uomo, e tutti i giorni, sino alla fine del mondo, dà vita ai predestinati e ai membri del corpo di questo Capo adorabile.Perciò, quanto più lo Spirito Santo trova Maria, sua cara e indissolubile Sposa, in un'anima, tanto più diviene operoso e potente per formare Gesù Cristo in quest'anima e quest'anima in Gesù Cristo.

Non si vuol dire con questo che la Vergine Maria dia allo Spirito Santo la fecondità, come se non l'avesse. Essendo Dio anch'egli come il Padre e il Figlio, ha la fecondità, ossia la capacità di generare quantunque non la riduca in atto, dal momento che non dà origine ad altra persona divina. Si vuole soltanto dire che lo Spirito Santo, tramite la Vergine Maria, di cui ama servirsi pur senza averne assolutamente bisogno, traduce in atto la propria fecondità, producendo in lei e per mezzo di lei Gesù Cristo e le sue membra.
O mistero di grazia sconosciuto anche ai più dotti e spirituali fra i cristiani!

martedì 21 dicembre 2010

I loro occhi si aprirono e lo riconobbero


Il teologo Nicola Bux spiega perché in cima alle preoccupazioni di Benedetto XVI c’è il «crollo della liturgia». E perché il restauro delle forme di culto passa necessariamente per il discusso Motu proprio sul rito in latino.

di Valerio Pece
da Tempi - 31 dicembre 2010

«In questo modo si impedisce pure “ai fedeli di rivivere l’esperienza dei due discepoli di Emmaus: ‘E i loro occhi si aprirono e lo riconobbero’”». Ecco spiegato in modo mirabile di cosa si parla quando si parla di cattiva liturgia. La citazione è presa da Redemptionis sacramentum, documento fortemente voluto da Giovanni Paolo II. Sono rimasti in pochi oramai a negare che in campo liturgico ai documenti ufficiali del Concilio Vaticano II si sia sostituito abusivamente un invasivo “Spirito del Concilio”. Due esempi su tutti: il canto gregoriano e il latino, l’uso dei quali era indicato tra le “consegne” liturgiche più importanti del Concilio. Non si sa bene come, nella prassi, com’è noto, tutto è svanito. «Effettivamente come questo sia successo se lo chiedono in molti», dice a Tempi il teologo don Nicola Bux.

È una pagina ancora da chiarire.
I fatti sono questi: Paolo VI costituì il Consilium ad exsequendam Constitutionem de Sacra Liturgia, con il compito, appunto, di “eseguire” ciò che era nella Costituzione conciliare Sacrosanctum Concilium. Su questa esecuzione è poi accaduto di tutto, perché confrontando la lettera del testo e le applicazioni successive appaiono differenze notevoli. Prendiamo il gregoriano. Al numero 116 della Sacrosanctum Concilium si legge che la Chiesa lo riconosce come “il canto proprio della liturgia romana” e come tale gli riserva “il posto principale”. Ora, “canto proprio” è un’espressione specifica, significa che il gregoriano è tutt’uno con il rito latino. Eliminare il canto proprio è come strappare la pelle di dosso a una persona. È quello che è stato fatto». La ragione accampata è che non lo si saprebbe cantare. «Ma questo è un falso problema», spiega il teologo. «Se pensiamo a quanti mottetti la gente canta, solo perché questi sono stati custoditi e perpetuati: la Salve Regina, il Kyrie… E poi basta davvero che il canto sia in italiano perché la gente canti?».

La stessa Chiesa in tutto il mondo

I biografi concordano che il fascino esercitato dal cattolicesimo su convertiti quali Newman, Benson e Chesterton, fu dovuto anche a quell’universalismo della liturgia latina che ancora oggi gioca un ruolo importante nel persuadere molti anglicani a bussare alla Chiesa di Roma. Ebbene, oltre il gregoriano certi occultamenti hanno riguardato anche il latino. Eppure la Sacrosanctum Concilium al n. 36 prescrive espressamente: “L’uso della lingua latina, salvo diritti particolari, sia conservato nei riti latini”. «Tradurre le letture nelle lingue parlate – sostiene don Bux – è stata cosa buona, dobbiamo capirla. Ma il Papa ha aggiunto che “una presenza più marcata di alcuni elementi latini aiuterebbe a dare una dimensione universale, a far sì che in tutte le parti del mondo si possa dire: Io sono nella stessa Chiesa”. Almeno alla preghiera eucaristica e alla colletta il latino dovrebbe tornare. Tra l’altro Paolo VI stabilì che i messali nazionali fossero pubblicati sempre bilingui, italiano e latino. Per permettere in ogni momento la celebrazione in latino, poi per tenere allenati i sacerdoti, e infine poiché l’italiano cambia e le traduzioni, spesso vere e proprie interpretazioni, tendono sempre più a tradire. C’era una lettera del Papa che lo prescriveva: non gli hanno obbedito». La liturgia è sacra se ha le sue regole. E se da un lato l’ethos, cioè la vita morale, è un elemento chiaro per tutti, dall’altro lato si ignora quasi totalmente che esiste anche uno jus divinum, un diritto di Dio a essere adorato. Don Bux: «Si dice: Dio, anche se c’è, con la mia vita non c’entra. Invece Dio c’entra con tutto. “Tutto mi appartiene”, si legge nelle Scritture, anche la vita del regista Monicelli gli apparteneva. Attenzione, perché il Signore è geloso delle sue competenze, e il culto è quanto di più gli è proprio. Invece proprio in campo liturgico siamo di fronte a una deregulation». Per sottolineare quanto senza jus ed ethos il culto diventa necessariamente idolatrico, nel suo recentissimo libro (Come andare a Messa e non perdere la fede, Piemme) don Nicola Bux cita un passo dell’Introduzione allo spirito della liturgia di Joseph Ratzinger. Scrive Ratzinger: «In apparenza tutto è in ordine e presumibilmente anche il rituale procede secondo le prescrizioni. E tuttavia è una caduta nell’idolatria (…), si fa scendere Dio al proprio livello riducendolo a categorie di visibilità e comprensibilità». E ancora: «Si tratta di un culto fatto di propria autorità (…) diventa una festa che la comunità si fa da sé; celebrandola, la comunità non fa che confermare se stessa». Il risultato è irrimediabile: «Dall’adorazione di Dio si passa a un cerchio che gira attorno a se stesso: mangiare, bere, divertirsi». Un effetto domino. È fondamentale notare – scrive don Bux – che «la caricatura del divino in sembianza bestiale» è un chiaro indice del fatto che «lo stravolgimento del culto trascina con sé l’arte sacra». Difficile non pensare all’architettura di tante chiese moderne. Decadimento che riguarda anche musica e costumi, visto che intorno al vitello d’oro si cantava e danzava in modo profano. Insomma, è tutto legato alla liturgia. Non per nulla nella sua autobiografia (La mia vita, San Paolo) Ratzinger dichiarava solennemente: «Sono convinto che la crisi ecclesiale in cui oggi ci troviamo dipende in gran parte dal crollo della liturgia» .

Un gesto di ecumenismo

Facilmente, frequentando la Messa per dieci domeniche in parrocchie diverse, capiterebbe di assistere a dieci differenti liturgie. E se è vero che cattolico significa universale, qualcosa forse non torna. Eppure l’enciclica Ecclesia de Eucharistia era stata chiarissima: «La liturgia non è mai proprietà privata di qualcuno, né del celebrante, né della comunità». La tesi di don Bux è che in soccorso alla liturgia potrebbe andare quel Motu proprio Summorum Pontificum che nel 2007 ha liberalizzato la forma straordinaria del rito latino. Per il teologo «le due forme del rito possono arricchirsi a vicenda, proprio a partire da questo clima religioso di Mistero, il Sitz im Leben, l’ambiente vitale dove è possibile incontrare Dio». Ma si può già fare un primo bilancio del Motu proprio? Don Bux risponde così: «Una settimana fa ero a Parigi. La Messa che dietro richiesta ho celebrato in forma straordinaria era affollatissima di giovani. Il parroco di Sainte-Clotilde mi diceva che celebra tranquillamente con i due riti, senza alcun problema. La verità è che dovremmo tutti liberarci da questa deleteria contrapposizione tra vecchio e nuovo rito, il nostro amato Papa incoraggia e desidera la continuità. E celebrare sia in forma ordinaria che straordinaria significa mettere in pratica questa continuità della Chiesa. Seguiamolo!».Non si può nascondere, però, che siano molti a boicottare il Motu proprio. Per tutti, l’ex vescovo di Sora, Luca Brandolini, che alla notizia della liberalizzazione del rito straordinario confidò a Repubblica di aver pianto per quel “giorno di lutto”. Eppure in una prospettiva ecumenica la liberalizzazione della Messa antica è un passo avanti. «Lo ha dimostrato – aggiunge don Bux – il defunto patriarca di Mosca Alessio II, il quale applaudì al Motu proprio con parole chiarissime: “Il Papa ha fatto bene. Tutto ciò che è recupero della tradizione avvicina i cristiani tra loro”». Secondo il teologo «il movimento di giovani creatosi intorno al rito antico è in forte crescita». Ma nessuno, specie se nato negli anni Settanta-Ottanta, può essere “tradizionalista” in nome della nostalgia per i bei tempi che furono. «Molti giovani domandano una sola cosa: incontrare il sacro. Ecco la ragione del successo della Messa gregoriana. Ignorare questa richiesta, che ha un contorno tutto spirituale e per nulla ideologico (come invece si vorrebbe far credere), è almeno contraddittorio per chi, per definizione, dovrebbe “episcopein”, cioè osservare, scrutare». La situazione è paradossale: «Si era fatto di tutto per rinnovare la liturgia e attirare i giovani, e adesso proprio loro non si sentono attratti. È un fatto che con la forma straordinaria del rito non pochi di loro riescano maggiormente ad adorare il Signore. La liturgia serve per dare al Signore la lode e la giusta adorazione. Una liturgia che non mette al primo posto il Signore è una fiction, e loro se ne accorgono. Quando i sacerdoti recitano la preghiera eucaristica (cioè il momento culminante della Messa, quello del Suo sacrificio per noi) continuando a roteare lo sguardo sul popolo invece che guardare alla Croce dinanzi a loro, diventa allora chiaro che non stanno parlando col Signore, non sono rivolti a Lui. E ciò non è senza conseguenze: i fedeli saranno portati a distrarsi, a scapito della partecipazione».

Ma quali “spalle al popolo”

Sta nascendo un movimento liturgico nuovo che guarda al modo di celebrare di Benedetto XVI. «La cosa di gran lunga più importante che il Papa vuol farci comprendere – dice don Bux – è l’orientamento del sacerdote, del suo sguardo soprattutto. “Là dove lo sguardo su Dio non è determinante, ogni altra cosa perde il suo orientamento” scrive magnificamente Benedetto XVI, ed è appunto questo il nocciolo della questione: il giusto orientamento». Sembra dunque di essere arrivati a uno snodo rischioso. «“In alto i nostri cuori, sono rivolti al Signore”, lo diciamo ma non lo facciamo. Se il sacerdote guardasse la croce, o il tabernacolo, ci sarebbe per i fedeli un effetto fortissimo. Se proprio dall’offertorio alla comunione il sacerdote non vuol stare rivolto ad Dominum, cioè a Oriente, abbia almeno la Croce al centro dinanzi a sé. Si badi bene, questo sarebbe possibile anche con i nuovi altari, per cui senza tornare a distruggere nulla (abbiamo assistito già alla demolizione dissennata di tanti altari antichi e belli), basterebbe porre sull’altare la croce e voltarsi ad essa. Esattamente come fa Benedetto XVI, che interpone la croce tra sé e i fedeli, una croce ben visibile». In fondo Ratzinger aveva in mente proprio questo quando si rammaricava perché «il sacerdote rivolto al popolo dà alla comunità l’aspetto di un tutto chiuso in se stesso». Eppure – si obietta – dare le spalle al popolo o anche solo interporre la croce sull’altare fa venir meno il senso di convivialità. «Conosco l’obiezione: è l’idea di Messa-banchetto che fa tanto “comunità di base anni Settanta”, dura a morire. Per questo fu coniata l’espressione “Messa di spalle al popolo”. Davvero è pensabile che le spalle al popolo del sacerdote farebbero perdere il senso di comunione? Ma questa, per esser tale, non deve venire prima dall’alto? Davvero il mistero della comunione ecclesiale si risolve nel guardare l’assemblea?», chiosa don Bux.

Gli strani intenti di Bugnini

C’è poi la lezione silenziosa di Benedetto XVI sulla comunione data in bocca e in ginocchio. «Un atteggiamento di riverenza – osserva il teologo pugliese – che rallenta la processione di comunione e rende più consapevoli del gesto. Avendo sempre chiaro che la comunione sulla mano è un gesto permesso da un indulto, cioè un atto dalla durata limitata, che invece è diventato regola». Don Bux aggiunge: «Oggi anche il tabernacolo è diventato “segno di conflitto”. Come non comprendere che se il tabernacolo non è più al centro, non sarà più ritenuto nemmeno il centro?». Da qui la sua proposta ai sacerdoti: uno scambio tabernacolo-sede sacerdotale al centro del presbiterio. «La gente tornerà a credere nel santissimo Sacramento, noi preti guadagneremo in umiltà e al Signore sarà restituito il posto che gli spetta ».Tornando al Concilio “tradito”, Annibale Bugnini, indiscusso protagonista della riforma liturgica, dichiarava tranquillamente all’Osservatore Romano: «Dobbiamo togliere dalle nostre preghiere cattoliche e dalla liturgia cattolica ogni cosa che possa essere l’ombra di una pietra d’inciampo per i nostri fratelli separati, ossia i protestanti». Anche al di là della sua discussa appartenenza massonica su cui tanto è stato scritto (tra gli altri, dal vaticanista Andrea Tornielli su 30 Giorni), la vera domanda è se un intento come quello riportato sia stato ininfluente rispetto alla situazione in cui oggi versa la liturgia, a quella cioè che Benedetto XVI chiama «deformazione al limite del sopportabile». «Delle sue responsabilità – afferma don Bux – Annibale Bugnini risponderà al Signore. Un aiuto a capire la riforma può arrivare dal libro di Nicola Giampietro che contiene la testimonianza del cardinale Ferdinando Antonelli, autorevole protagonista di quel Consilium deputato a eseguire i documenti della riforma. Antonelli ha scritto cose decisamente forti sul clima che aleggiava in quel Consilium di cui Bugnini era il factotum, nonché sul ruolo di quei sei esperti protestanti che ebbero una funzione molto maggiore di quella di semplici osservatori. Servirebbe certamente pubblicare i diari secretati di Annibale Bugnini. Non foss’altro che per una maggiore comprensione di cosa sia stata davvero la riforma liturgica postconciliare».

lunedì 20 dicembre 2010

Solo la verità salva...


Alcuni brani del Discorso del Papa alla curia romana del 20 dicembre 2010, sull'Anno sacerdotale, sulla pedofilia nella chiesa, sulla cristianofobia e sul tema della coscienza, tanto caro al Beato Newman.


“Excita, Domine, potentiam tuam, et veni” – con queste e con simili parole la liturgia della Chiesa prega ripetutamente nei giorni dell’Avvento. Sono invocazioni formulate probabilmente nel periodo del tramonto dell’Impero Romano. [...]
Anche oggi abbiamo motivi molteplici per associarci a questa preghiera di Avvento della Chiesa. [...]

Nelle grandi angustie, alle quali siamo stati esposti in quest’anno, tale preghiera di Avvento mi è sempre tornata di nuovo alla mente e sulle labbra. Con grande gioia avevamo iniziato l’Anno sacerdotale e, grazie a Dio, abbiamo potuto concluderlo anche con grande gratitudine, nonostante si sia svolto così diversamente da come ce l’eravamo aspettato. In noi sacerdoti e nei laici, proprio anche nei giovani, si è rinnovata la consapevolezza di quale dono rappresenti il sacerdozio della Chiesa Cattolica, che ci è stato affidato dal Signore. [...]

Tanto più siamo stati sconvolti quando, proprio in quest’anno e in una dimensione per noi inimmaginabile, siamo venuti a conoscenza di abusi contro i minori commessi da sacerdoti, che stravolgono il Sacramento nel suo contrario: sotto il manto del sacro feriscono profondamente la persona umana nella sua infanzia e le recano un danno per tutta la vita.In questo contesto, mi è venuta in mente una visione di sant’Ildegarda di Bingen che descrive in modo sconvolgente ciò che abbiamo vissuto in quest’anno. [...]

Nella visione di sant’Ildegarda, il volto della Chiesa è coperto di polvere, ed è così che noi l’abbiamo visto. Il suo vestito è strappato – per la colpa dei sacerdoti. Così come lei l’ha visto ed espresso, l’abbiamo vissuto in quest’anno. Dobbiamo accogliere questa umiliazione come un’esortazione alla verità e una chiamata al rinnovamento. Solo la verità salva.

Dobbiamo interrogarci su che cosa possiamo fare per riparare il più possibile l’ingiustizia avvenuta. Dobbiamo chiederci che cosa era sbagliato nel nostro annuncio, nell’intero nostro modo di configurare l’essere cristiano, così che una tale cosa potesse accadere. Dobbiamo trovare una nuova risolutezza nella fede e nel bene. Dobbiamo essere capaci di penitenza. Dobbiamo sforzarci di tentare tutto il possibile, nella preparazione al sacerdozio, perché una tale cosa non possa più succedere. È questo anche il luogo per ringraziare di cuore tutti coloro che si impegnano per aiutare le vittime e per ridare loro la fiducia nella Chiesa, la capacità di credere al suo messaggio.

Nei miei incontri con le vittime di questo peccato, ho sempre trovato anche persone che, con grande dedizione, stanno a fianco di chi soffre e ha subito danno. È questa l’occasione per ringraziare anche i tanti buoni sacerdoti che trasmettono in umiltà e fedeltà la bontà del Signore e, in mezzo alle devastazioni, sono testimoni della bellezza non perduta del sacerdozio.
Siamo consapevoli della particolare gravità di questo peccato commesso da sacerdoti e della nostra corrispondente responsabilità. Ma non possiamo neppure tacere circa il contesto del nostro tempo in cui è dato vedere questi avvenimenti.

Esiste un mercato della pornografia concernente i bambini, che in qualche modo sembra essere considerato sempre più dalla società come una cosa normale. La devastazione psicologica di bambini, in cui persone umane sono ridotte ad articolo di mercato, è uno spaventoso segno dei tempi. Da Vescovi di Paesi del Terzo Mondo sento sempre di nuovo come il turismo sessuale minacci un’intera generazione e la danneggi nella sua libertà e nella sua dignità umana.[...]
In questo contesto, si pone anche il problema della droga, che con forza crescente stende i suoi tentacoli di polipo intorno all’intero globo terrestre – espressione eloquente della dittatura di mammona che perverte l’uomo. Ogni piacere diventa insufficiente e l’eccesso nell’inganno dell’ebbrezza diventa una violenza che dilania intere regioni, e questo in nome di un fatale fraintendimento della libertà, in cui proprio la libertà dell’uomoviene minata e alla fine annullata del tutto.
Per opporci a queste forze dobbiamo gettare uno sguardo sui loro fondamenti ideologici.
Negli anni Settanta, la pedofilia venne teorizzata come una cosa del tutto conforme all’uomo e anche al bambino. Questo, però, faceva parte di una perversione di fondo del concetto di ethos.

Si asseriva – persino nell’ambito della teologia cattolica – che non esisterebbero né il male in sé, né il bene in sé. Esisterebbe soltanto un “meglio di” e un “peggio di”. Niente sarebbe in se stesso bene o male. Tutto dipenderebbe dalle circostanze e dal fine inteso. A seconda degli scopi e delle circostanze, tutto potrebbe essere bene o anche male. La morale viene sostituita da un calcolo delle conseguenze e con ciò cessa di esistere. Gli effetti di tali teorie sono oggi evidenti.

Contro di esse Papa Giovanni Paolo II, nella sua Enciclica Veritatis splendor del 1993, indicò con forza profetica nella grande tradizione razionale dell’ethos cristiano le basi essenziali e permanenti dell’agire morale. Questo testo oggi deve essere messo nuovamente al centro come cammino nella formazione della coscienza. [...]

Come secondo punto vorrei dire una parola sul Sinodo delle Chiese del Medio Oriente.[...]
Nel Sinodo lo sguardo si è poi allargato sull’intero Medio Oriente, dove convivono fedeli appartenenti a religioni diverse ed anche a molteplici tradizioni e riti distinti.[...]
Negli sconvolgimenti degli ultimi anni è stata scossa la storia di condivisione, le tensioni e le divisioni sono cresciute, così che sempre di nuovo con spavento siamo testimoni di atti di violenza nei quali non si rispetta più ciò che per l’altro è sacro, nei quali anzi crollano le regole più elementari dell’umanità. Nella situazione attuale, i cristiani sono la minoranza più oppressa e tormentata. Per secoli sono vissuti pacificamente insieme con i loro vicini ebrei e musulmani. [...]
Così le parole e i pensieri del Sinodo devono essere un forte grido rivolto a tutte le persone con responsabilità politica o religiosa perché fermino la cristianofobia; perché si alzino a difendere i profughi e i sofferenti e a rivitalizzare lo spirito della riconciliazione. In ultima analisi, il risanamento può venire soltanto da una fede profonda nell’amore riconciliatore di Dio. Dare forza a questa fede, nutrirla e farla risplendere è il compito principale della Chiesa in quest’ora.[...]

Infine, vorrei ancora ricordare la beatificazione del Cardinale John Henry Newman.[...]
La forza motrice che spingeva sul cammino della conversione era in Newman la coscienza. Ma che cosa si intende con ciò? Nel pensiero moderno, la parola “coscienza” significa che in materia di morale e di religione, la dimensione soggettiva, l’individuo, costituisce l’ultima istanza della decisione. Il mondo viene diviso negli ambiti dell’oggettivo e del soggettivo. All’oggettivo appartengono le cose che si possono calcolare e verificare mediante l’esperimento. La religione e la morale sono sottratte a questi metodi e perciò sono considerate come ambito del soggettivo. Qui non esisterebbero, in ultima analisi, dei criteri oggettivi. L’ultima istanza che qui può decidere sarebbe pertanto solo il soggetto, e con la parola “coscienza” si esprime, appunto, questo: in questo ambito può decidere solo il singolo, l’individuo con le sue intuizioni ed esperienze.

La concezione che Newman ha della coscienza è diametralmente opposta. Per lui “coscienza” significa la capacità di verità dell’uomo: la capacità di riconoscere proprio negli ambiti decisivi della sua esistenza – religione e morale – una verità, la verità. La coscienza, la capacità dell’uomo di riconoscere la verità, gli impone con ciò, al tempo stesso, il dovere di incamminarsi verso la verità, di cercarla e di sottomettersi ad essa laddove la incontra. Coscienza è capacità di verità e obbedienza nei confronti della verità, che si mostra all’uomo che cerca col cuore aperto. [...]

Per poter asserire l’identità tra il concetto che Newman aveva della coscienza e la moderna comprensione soggettiva della coscienza, si ama far riferimento alla sua parola secondo cui egli – nel caso avesse dovuto fare un brindisi – avrebbe brindato prima alla coscienza e poi al Papa. Ma in questa affermazione, “coscienza” non significa l’ultima obbligatorietà dell’intuizione soggettiva. È espressione dell’accessibilità e della forza vincolante della verità: in ciò si fonda il suo primato. Al Papa può essere dedicato il secondo brindisi, perché è compito suo esigere l’obbedienza nei confronti della verità.

Celebrazioni periodo natalizio


celebrazioni del periodo natalizio
Chiesa della Madonna del Carmine - Pistoia
(p.zza del Carmine)

Venerdì 24 Dicembre 2010 ore 21.00 (Notte di Natale)

Sabato 1 Gennaio 2011 ore 18.30 (Circoncisione del Signore, in Octava Nativitatis Domini)

Mercoledì 5 Gennaio 2011 ore 18.30 (Epifania di Nostro Signore)

sabato 18 dicembre 2010

Comunione in ginocchio, l'esempio del Papa




Articolo tratto da La bussola quotidiana del 18-12-2010
«Nella celebrazione eucaristica noi non inventiamo qualcosa, ma entriamo in una realtà che ci precede, anzi che abbraccia cielo e terra e quindi anche passato, futuro e presente». Le parole pronunciate da Benedetto XVI lo scorso giungo al convegno ecclesiale della diocesi di Roma sintetizzano bene l’intervento che il 3 dicembre 2010 il Maestro delle celebrazioni liturgiche pontificie, monsignor Guido Marini, ha pronunciato inaugurando il master in architettura, arte sacra e liturgia che si svolge al Pontificio ateneo «Regina Apostolorum» di Roma.

La lezione di Marini è un aiuto significativo per comprendere ciò che Benedetto XVI vuole indicare alla Chiesa con il suo esempio nel celebrare l’eucaristia. Vale la pena di leggere integralmente il testo del Maestro delle cerimonie pontificie. In questa breve presentazione e anticipazione, vale la pena di soffermarsi su un paragrafo dell’intervento, dedicato a spiegare la decisione del Papa di distribuire la comunione ai fedli in ginocchio.

«Che cosa intendiamo per adorazione?», si domanda Marini. «Certamente non si tratta di una relazione intellettuale o sentimentale con il mistero. La si potrebbe definire come il riconoscimento pieno di meraviglia della onnipotenza di Dio, della sua maestà intangibile, della sua signoria provvidente e misericordiosa, della sua bellezza infinita che è coincidenza di Verità e di Amore... E l’adorazione, quando è autentica, conduce all’adesione, ovvero alla riunificazione dell’uomo e della creazione con Dio, all’uscita dallo stato di separazione, alla comunione di vita con Cristo... Tutto questo è quanto la Chiesa, sposa di Cristo, vive nella celebrazione della liturgia. Adora e aderisce, adora per aderire».

Don Divo Barsotti ha scritto: «L’Avvenimento, l’Atto del Cristo, è prima di tutto Sacrificio, Sacrificio di adorazione. Il Verbo, nella natura umana che Egli ha assunto, riconosce con la sua Morte l’infinita santità di Dio e la sua sovranità. In Lui la creazione finalmente adora […] Una partecipazione nostra al Sacrificio di Gesù importa che noi si viva lo stesso annientamento suo… La condizione terrestre della nostra vita, nella sua accettazione volontaria, diviene il segno di una nostra partecipazione al Sacrificio di Gesù, alla sua adorazione».

Ecco perché, continua monsignor Marini, tutto nell’azione liturgica, deve condurre all’adorazione: la musica, il canto, il silenzio, il modo di proclamare la parola di Dio e il modo di pregare, la gestualità, le vesti liturgiche e le suppellettili sacre, così come anche l’edificio sacro nel suo complesso.

«Mi soffermo un istante – spiega il Maestro delle cerimonie pontificie – su un gesto tipico e centrale dell’adorazione che oggi rischia di sparire, quale il mettersi in ginocchio, rifacendomi a un testo del cardinale Ratzinger: “Noi sappiamo che il Signore ha pregato stando in ginocchio (Lc 22, 41), che Stefano (At 7, 60), Pietro (At 9, 40) e Paolo (At 20, 36) hanno pregato in ginocchio. L’inno cristologico della Lettera ai Filippesi (2, 6-11) presenta la liturgia del cosmo come un inginocchiarsi di fronte al nome di Gesù (2, 10) e vede in ciò adempiuta la profezia isaiana (Is 45, 23) sulla signoria sul mondo del Dio d’Israele.

Piegando il ginocchio nel nome di Gesù, la Chiesa compie la verità; essa si inserisce nel gesto del cosmo che rende omaggio al vincitore e così si pone dalla parte del vincitore poiché un tale inginocchiarsi è una rappresentazione e assunzione imitativa dell’atteggiamento di Colui che “era uguale a Dio” ed “ha umiliato se stesso fino alla morte”» (Rivista Communio, 35/1977).

Per questo, spiega Marini, è «del tutto appropriata la pratica di inginocchiarsi per ricevere la santa Comunione». A ulteriore conferma ascoltiamo il Santo Padre in un passaggio di Sacramentum caritatis: «Già Agostino aveva detto: “Nessuno mangia questa carne senza prima adorarla; peccheremmo se non la adorassimo”».

Il Maestro delle cerimonie papali non ritiene vi sia «una contraddizione rispetto all’incedere processionalmente», cioè all’avvicinarsi ricevendo in piedi l’eucaristia, «quale segno di un popolo che di dirige verso il suo Signore». Perché, spiega, «la Chiesa che, nel segno esteriore, si dirige in processione verso il Signore è la stessa Chiesa che, sempre nel segno esteriore, alla sua presenza, si inginocchia e adora. Ancora una volta si tratta di complementarietà in vista di una ricchezza più grande e non di esclusione».

mercoledì 15 dicembre 2010

Intervista a Mons. Luigi Negri sulla liturgia




Uno stralcio dell'intervista a Mons. Negri, vescovo di San Marino-Montefeltro, tratto dal blograffaella, pubblicato su La voce di Romagna il 15 dicembre 2010


Mons. Negri fa il punto sulla “riforma della riforma


Paolo Facciotto
DOMAGNANO -

“Nel rapporto con la liturgia si decide il destino della fede e della Chiesa”: lo dice Joseph Ratzinger-Benedetto XVI nel primo volume della sua opera omnia, “Teologia della liturgia”.
Il 27 novembre ai Vespri d’inizio Avvento, il Papa ha inoltre definito la liturgia “il luogo dove viviamo la verità e dove la verità vive con noi”. Affrontiamo questi temi a tu per tu con il vescovo di San Marino - Montefeltro, mons. Luigi Negri, che si prepara alla visita del Papa nel 2011.

Eccellenza, il tratto distintivo di questo pontificato è il rapporto tra fede e ragione: perché insistere sulla liturgia?

«La liturgia è la vita di Cristo che si attua nella Chiesa e coinvolge esistenzialmente i cristiani. La liturgia non è semplicemente un culto che si elevi dall’uomo a Dio, come nella stragrande maggioranza delle formulazioni religiose naturali. La liturgia è l’attuarsi ampio dell’avvenimento della vita, passione, morte e resurrezione del Signore che prende forma nell’organismo sacramentale e coinvolge i cristiani in senso sostanziale e fondamentale, facendoli appartenere a Cristo e alla Chiesa attraverso i sacramenti dell’iniziazione cristiana, e poi li accompagna nelle grandi scelte e nelle grandi stagioni della loro vita. Nelle grandi scelte vocazionali - matrimonio, ordine - o nelle stagioni della vita. Ora, la liturgia difende la fattualità di Cristo e della Chiesa. Per questo ho molta gratitudine verso il professor De Mattei, il suo straordinario volume sulla storia del Vaticano II e le pagine dedicate a un lento e inesorabile “socializzarsi” della liturgia, già prima del Concilio: come se il valore della liturgia fosse nella possibilità che il cosiddetto popolo cristiano partecipasse attivamente a un evento che era poi svuotato di fatto della sua sacramentalità e finiva per essere un’iniziativa di socialità cattolica. E io credo che sulla liturgia si giochi la verità della fede perché si gioca la grande alternativa che Benedetto XVI ha messo all’inizio della “Deus caritas est”: il cristianesimo non è un’ideologia di carattere religioso, non è un progetto di carattere moralistico, ma è l’incontro con Cristo che permane e si svolge nella vita della Chiesa e nella vita di ogni cristiano. La liturgia rende il fatto di Cristo presente nel flusso e nel riflusso delle generazioni: “Fate questo in memoria di me”. Io credo che anche la difesa di una coscienza esatta del dogma dipenda dalla verità con cui viene vissuta la liturgia. In questo senso da sempre la Chiesa ha affermato che “lex orandi, lex credendi”: è la legge del pregare che fa nascere la legge del credere, ma soprattutto che la vigila in maniera adeguata e positiva.»

Due aspetti mi sembrano centrali nel libro di Ratzinger “Teologia della liturgia”: la prevalenza purtroppo verificatasi, di un senso della messa come assemblea, “evento di un determinato gruppo o Chiesa locale”, cena, quindi la partecipazione intesa come l’agire di varie persone che secondo l’autore si trasforma talvolta in parodia. E poi la celebrazione verso il popolo che per una serie di equivoci e fraintendimenti “appare oggi come il frutto del rinnovamento liturgico voluto dal Concilio”, scrive il Papa: conseguenze, la comunità come cerchio chiuso in se stesso, e una clericalizzazione mai vista prima dove tutto converge verso il celebrante.

«Io sono d’accordo che il Papa dovrà continuare una “riforma della riforma” liturgica del Concilio, usando un’espressione di don Nicola Bux. Ma deve essere detto con estrema chiarezza che il Papa sta facendo fatica a fare questa “riforma della riforma”. Esistono delle tendenze negative di resistenza, neanche tanto passiva. La riforma liturgica venuta dopo il Concilio, il più delle volte si è sostanziata di pseudo-interpretazioni, o ha fatto valere casi eccezionali come norma - basti per tutti il problema della lingua, o quello della distribuzione della comunione sulla mano. Ci sono stati veri e propri colpi di mano delle Conferenze episcopali nei confronti di Roma. C’è stata certamente una debolezza della reazione vaticana, dovuta probabilmente a tensioni e contro-tensioni anche all’interno delle strutture che dovevano regolare l’interpretazione esatta e l’attuazione del Concilio. Ora, pur tenendo presente questi dati condizionanti con cui un governo della Chiesa deve fare realisticamente i conti, l’alternativa è fra una sociologizzazione della liturgia - come dire, un funzionamento adeguato delle leggi e dei comportamenti della comunità cristiana radunata per celebrare l’eucaristia, che diventa il soggetto della celebrazione eucaristica, anziché l’interlocutore privilegiato - e il riportare al centro il vero soggetto della celebrazione eucaristica, che è Gesù Cristo in persona. La struttura della tradizione liturgica così come anche la Chiesa del Concilio l’ha ricevuta, salva i diritti di Cristo e la presenza di Cristo. Allora tutto ciò che viene fatto per estenuare o ridurre la coscienza della presenza di Cristo a tutto vantaggio della modalità con cui la comunità è presente, è una perdita del valore ultimo della liturgia, del valore ontologico, direbbe don Giussani, e quindi metodologico e educativo. Nel tempo in cui andava in vigore per la prima volta la riforma del Concilio Vaticano II, una altissima personalità vaticana - non posso dirle quale, ma è vero perché l’ho letto coi miei occhi - scrisse che così finalmente la celebrazione della messa ritornava ad essere “una sana palestra di socialità cattolica”. Anziché la memoria della presenza di Cristo che muore e risorge, che crea il popolo nuovo, che sostiene e lancia il popolo nuovo nella missione, “una sana palestra di socialità cattolica”.»

Mi può dire almeno se era un gradino più in su di monsignor Bugnini?

«Molti gradini più in su di monsignor Bugnini.»

“In Italia, salvo poche lodevoli eccezioni, i vescovi e i superiori degli Ordini religiosi si sono opposti all’applicazione del motu proprio”: lo ha dichiarato pubblicamente il vicepresidente della Pontificia Commissione Ecclesia Dei a un anno di distanza dalla “Summorum Pontificum” con cui Benedetto XVI ha “liberalizzato” la liturgia tradizionale tridentina. Una denuncia molto forte di disobbedienza dell’episcopato italiano. A che punto siamo nell’applicazione del motu proprio? Nella sua diocesi, sono presenti celebrazioni della liturgia nella forma straordinaria del Messale Romano del 1962?

«Io ho cercato di attuare, oltre che di recepire e di spiegare al mio clero il senso profondo di questo motu proprio, che per me è una possibilità data a chi vuole nella Chiesa di valorizzare una ricchezza più ampia e articolata di quello che è a disposizione di tutti. E’ come se il Papa avesse riaperto la possibilità di una celebrazione liturgica che il singolo e il gruppo sente più corrispondente al suo desiderio di crescita e ai suoi princìpi.
Devo dire però che sono mancate fino ad ora le norme applicative, che noi stiamo aspettando da anni.
Sostanzialmente per quello che si può fare oggi, là dove il vescovo ha obbedito, come nel mio caso, si celebrano non molte, ma tutte quelle messe che sono state chieste, secondo la modalità precisamente identificata dal motu proprio. Quando precedentemente ho detto che il Papa fa fatica a far passare la “riforma della riforma” avevo esattamente in mente un motu proprio che manca, a più di tre anni dalla sua promulgazione, delle dimensioni applicative. Ma mi pare che il rifiuto, la resistenza siano stati non tanto sul motu proprio, bensì sul fatto che la riforma liturgica del Vaticano II, così come i testi vengono interpretati e come la liturgia si è andata determinando, sembra non possa più essere messa in discussione. La resistenza è sulla possibilità stessa, che invece il Papa ha aperto, di avere altre forme di attuazione della vita liturgico-sacramentale: è questo in questione, non le applicazioni. Mentre il Papa ha detto: c’è una ricchezza liturgico-sacramentale a cui tutta la Chiesa, se vuole, può accedere senza che tutto sia ricondotto a una sola forma; secondo me, c’è un largo strato della ecclesiasticità che ritiene che invece la riforma del Concilio Vaticano II azzeri tutto ciò che vien prima. E’ quella ermeneutica della discontinuità su cui il Papa è intervenuto con molta chiarezza e decisione.»

Per un sondaggio della Doxa il 71% dei cattolici troverebbe normale che nella propria parrocchia convivessero le due forme del rito romano, tradizionale e nuovo. Il 40% di chi va a messa tutte le domeniche, se la trovasse in parrocchia, preferirebbe andare tutte le settimane alla messa di san Pio V. Come commenta questi dati, da prendere con le molle come ogni sondaggio?

«Rimango dell’avviso che, a parte questi dati, oggi la Chiesa deve essere molto disponibile a offrire forme e modi di partecipazione alla vita di Cristo, che corrispondano nella loro diversità alla diversità inevitabile che esiste fra gli uomini e fra i giovani. Io credo che ci debba animare un sincero entusiasmo missionario. Nel momento in cui le chiese si svuotano e ci sono tante difficoltà a una percezione adeguata del mistero di Cristo e della Chiesa, tutto ciò che può facilitare questo va utilizzato, ma non per affermare le proprie opzioni ideologiche! Lo scontro tradizionalismo-progressismo non ha più ragion d’essere, e di questo superamento siamo veramente debitori a Benedetto XVI. Sono contrapposizioni ideologiche che ipostatizzano punti di vista, sensibilità, forme, anziché chiedersi che cosa serve di più la missione della Chiesa e quindi il suo compito educativo.»

Il sigillo. Cristo fonte dell'identità del prete

Da L'Osservatore romano - 15 dicembre 2010
Una recensione del libro del cardinale Mauro Piacenza prefetto della Congregazione per il clero


Il sigillo del prete

di Fabrizio Contessa
La nuova evangelizzazione è destinata a rimanere un semplice slogan privo di reale efficacia missionaria se non avrà alla base un rinnovamento spirituale dei sacerdoti. È questa la convinzione sottesa al recente speciale Anno sacerdotale (19 giugno 2009 - 11 giugno 2010) voluto da Benedetto XVI. Ed è anche, a ben vedere, il motivo ispiratore del libro del cardinale Mauro Piacenza Il sigillo. Cristo fonte dell'identità del prete (Siena, Edizioni Cantagalli, 2010, pagine 158, euro 13,50).

L'autore, ordinato sacerdote a Genova dal cardinale Siri, come noto, ha ricevuto la porpora nel concistoro del 20 novembre scorso e dal precedente 7 ottobre guida la Congregazione per il Clero di cui era segretario sin dal 2007. Nel libro, che già nel titolo fa esplicito riferimento al «sigillo» sacramentale dell'ordine, ha raccolto interventi, meditazioni, omelie pronunciati a ragione del suo ufficio. Un osservatorio unico e privilegiato sulla condizione e la missione del clero nel mondo e sulle sue prospettive.

In primo piano il tentativo di ridefinire l'identikit del prete nella società post-moderna. Chiarendo il significato della vocazione, sottolineando l'importanza della formazione — anche quella puramente umana — ma soprattutto della fedeltà al ministero. E avendo ben in mente che il «sigillo» in questione non è un «sigillo che chiude» i tesori della grazia, «di cui i sacerdoti sono vitali canali e non autonomi fonti», bensì un sigillo che «apre», anzi che «spalanca a una Realtà più grande» e che indica «l'appartenenza di ciascun sacerdote a Dio» e la «conseguente indisponibilità» a «ogni altra identità e azione profana o mondana».

Il cardinale, d'altronde, non manca d'indicare, con molta franchezza, i punti critici e i travagli che, negli ultimi decenni, hanno messo come sotto scacco la figura del prete. Facendola ritenere quasi sorpassata — almeno per come essa era giunta sino ai giorni nostri — o riducendola, da alter Christus, a mero esercizio di un ufficio ecclesiale al pari di altri. Di qui, non solo la conseguente crisi delle vocazioni, ma anche l'insorgere, tra numerosi membri del clero, di una certa rilassatezza dottrinale, che, sull'onda della mentalità secolare, diviene pure morale e culturale. Per non dire di scandali e abusi. Con riflessi enormi e inevitabilmente negativi sull'efficacia dell'azione missionaria. E confusioni dall'esito paradossale: «La secolarizzazione del clero e la clericalizzazione del laicato». Anche in questo senso, perciò, occorre leggere le parole di apprezzamento che il porporato dedica ai movimenti e alle nuove comunità, poiché «in un contesto di fede vivace ed esistenzialmente rilevante», la «vocazione sacerdotale è più facilmente intuita, più liberamente accolta e più fedelmente seguita».

Non mancano alcune stoccate che colgono nel segno di fenomeni definiti «imbarazzanti» — e che rinviano, accenna l'autore, anche a una riflessione ulteriore sulla responsabilità di sorveglianza dei vescovi — come l'inflazione, soprattutto nel piccolo schermo, di «preti-star», che troppo spesso si discostano palesemente dalla dottrina e che nel migliore dei casi determinano «disorientamento» tra i fedeli. E c'è poi, soffermandosi sulla formazione dei presbiteri, l'indice puntato contro quel «razionalismo scettico», scambiato per «maturità della fede», che «purtroppo ha inondato tante Facoltà teologiche, tentate continuamente da una lettura “molto critica” e “poco storica”, e quindi poco equilibrata e nemmeno realmente “storico-critica”, soprattutto dei dati neotestamentari».

Particolare attenzione è riservata alla «dimensione orante» e soprattutto a quell'«atto che con maggiore frequenza ciascun sacerdote è chiamato a compiere», ossia la celebrazione della messa, che «deve essere, o deve tornare a essere, il vertice della giornata sacerdotale». In questa prospettiva, si auspica il recupero — ritenuto «necessario e urgente» — della pastorale sacramentale che per troppi decenni è stata «negativamente interpretata» e presentata in una «visione incompleta e ridotta». Così, sulla scorta del magistero di Benedetto XVI, anche il cardinale Piacenza si domanda se sia mai possibile esercitare autenticamente il ministero sacerdotale «superando» la pastorale sacramentale. Con l'invito a riflettere se in certi casi proprio «l'aver sottovalutato l'esercizio fedele del munus sanctificandi, non abbia forse rappresentato un indebolimento della stessa fede nell'efficacia salvifica dei sacramenti e, in definitiva, nell'operare attuale di Cristo e del suo Spirito, attraverso la Chiesa, nel mondo».

Significativo — nell'ottica della «nuova evangelizzazione» — è il fatto che l'apertura del volume sia dedicata a un'ampia meditazione svolta dal prelato nel 2009 con i seminaristi olandesi e in cui è messo a tema, sin dalla radice, il significato della vocazione sacerdotale come evento soprannaturale di grazia. Con le necessarie implicazioni di «radicalità» e «totalità» che investono la sfera dell'affettività — «la forma più grande di testimonianza che si possa dare a Cristo è la perfetta continenza per il Regno dei Cieli» — e quella della disciplina ecclesiale. «Solo la radicalità della fede può reggere “l'urto” del mondo contemporaneo il quale, continuamente e sistematicamente, insidia, in tutti, anche in noi, il dubbio, l'incertezza, la tentazione che non ci sia nulla di assoluto, nulla di fermo, nulla di oggettivo, la tentazione che “tutto sia nulla”». I sacerdoti, in sostanza, debbono guardarsi dalle malie del nichilismo e del relativismo. E con l'importante sottolineatura che, laddove la vocazione è autentica e si basa su una solida formazione, essa si accompagna a una straordinaria «fioritura dell'umano» che «non sarebbe mai accaduta nelle nostre esistenze, se non avessimo ricevuto e accolto la chiamata». Mentre, al contrario, quando «permangono gravi deficit umani», anche «a fronte di notevoli sforzi formativi negli altri ambiti, “l'edificio” e la “struttura” della personalità non sono mai al riparo da improvvisi “crolli” e sconvolgenti “terremoti”».


La riforma del clero, così importante anche in chiave missionaria, è dunque «innanzitutto il rinnovamento spirituale di ciascun sacerdote» e richiede — sottolinea il porporato — il ricorso a quel «dialogo della verità» capace di «riconoscere umilmente limiti e errori» e «individuare soluzioni e prospettive». Rifuggendo dalla «tentazione del funzionalismo» e dalla «deriva utilitaristica della cultura dominante». Nella consapevolezza che il «sigillo sacramentale» porta con sé la tendenziale «coincidenza» tra identità personale e ministero sacerdotale.

martedì 14 dicembre 2010

La tradizione della chiesa tra identità e sviluppo


Tratto da approfondimenti di "Fides Catholica"



Nel contesto di un ritiro d’Avvento del Coordinamento toscano "Benedetto XVI" per l’applicazione del Motu proprio “Summorum pontificum”, tenuto presso la chiesa di Ognissanti di Firenze, dei Francescani dell’Immacolata, p. Serafino M, Lanzetta, ha tenuto una conferenza/meditazione sul tema della Tradizione, oggi così discussa – a volte chiacchierata –, ma senza sapere spesso di cosa si tratti. L’intervento del Padre Lanzetta si snoda in tre punti:


1) La Tradizione: cos’è? Si spiega che Tradizione, come già dice il lemma, indica l’atto del tradere, del trasmettere. Ma il trasmettere non sarebbe vero senza aver anzitutto ricevuto la verità trasmessa; verità che, d’altronde, non è un concetto, ma l’unità di ortodossia e ortoprassi; verità che è una Persona, Gesù Cristo e quello che Lui ha insegnato. Tradizione richiede il ricevere e il consegnare. Molto chiaro, a tal proposito, è il testo di S. Paolo ai Corinzi (1Cor 15,3-5): «Vi ho trasmesso quello cha a mia volto ho ricevuto…». Questo implica che il tramandare richiede il ricevere da Cristo, dagli Apostoli, e poi dai loro successori, in una continuità ininterrotta che costituisce propriamente la Tradizione della Chiesa. Dunque, la Tradizione, si riceve solo nella Chiesa e al contempo costituisce la Chiesa come luogo del suo deposito e della sua fedele trasmissione. Nessuno è autorizzato a dare quello che non ha ricevuto; nessuno può ricevere quello che prima non ha riconosciuto come dono.



2) Identità e sviluppo della Tradizione. In questo deposito e trasmissione/dono che costituisce la Tradizione ontologicamente, è necessario distinguere due aspetti che definiscono la Tradizione, spiegando così da un lato la sua verità immutabile, dall’altro il progresso dottrinale. Si tratta di due attributi che definiscono la Tradizione: identità e sviluppo. Identità, manifesta l’ancoraggio della Tradizione alla Rivelazione, dunque al dato di fede immutabile in sé. Sviluppo, delinea il progresso della fede nel solco dell’approfondimento di essa maturato dalla Tradizione; sviluppo omogeneo del dogma, nel senso di una sua maggiore comprensione e applicazione nell’analogia fidei, in cui convengono armonicamente tutte le verità della fede. Bisogna evitare nella Tradizione sia un fissismo congelante, ovvero un radicamento intransigente ad un tipo di Chiesa, ad un determinato Pontefice ecc., sia un progressismo cieco che rifiuta il passato e ha come modello solo un futuro che però non c’è ancora e che si vuole plasmare con mani umane. Questo porta al fatto che per alcuni noi siamo la Chiesa, “Wir sind die Kirche”.



3) La Chiesa canone della Tradizione. Da tutto ciò segue che solo la Chiesa ha ricevuto la Tradizione e solo la Chiesa la può trasmettere nella verità. La Chiesa è sempre una, santa, cattolica ed apostolica, ma purtroppo non è in sé unita. Uno dei problemi della disunità dei discepoli cattolici è proprio il concetto di Tradizione, sul quale si esige una visione teologica univoca per portare finalmente luce all’operato di tanti fautori e promotori della Tradizione e di una visione tradizionale della vita cristiana. Non dovrebbero sussistere conflitti all’interno della Tradizione, eppure siamo divisi, spesso, all’interno di un unico movimento che si ispira alla Tradizione. Perché? La Tradizione non è qualcosa, non è solo la S. Messa tridentina o una pratica di pietà particolare, anche questo – si crede per pregare e si prega quello che si crede –, ma anzitutto la Chiesa nel suo vivere: la sua vita, la sua identità dinamica sempre antica e sempre nuova.

lunedì 13 dicembre 2010

Guareschi e la Messa di sempre


Tratto da "Il settimanale di Padre Pio"
5 Dicembre 2010 - n.48

di Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro
Lettere ad un amico ateo
Don Camillo… tenga duro!



Dalle pagine di Guareschi emerge la lucida consapevolezza - già al suo tempo! - del problema dell'''aggiornamento'' nella Chiesa. L'Autore, attraverso i personaggi, conduce la sua battaglia in difesa di quella Liturgia che «ci arriva dalla profondità dei millenni... dall'eternità.».

Caro amico ateo, prima o poi, dovresti deciderti e accompagnarci in quel giro nella Bassa guareschiana di cui ti parliamo da tempo. Bisogna entrare in una di quelle piccole chiese tirate su con amore ruvido e persino un po' riottoso lungo la riva del Grande Fiume, poi genuflettersi, fare il segno di croce e guardare il Tabernacolo: dopo pochi istanti, lo splendore del vecchio altare, quello rivolto al Signore, conquista lo sguardo e l'anima. II "tavolino da mensa" che gli è stato posto davanti scompare come un lumicino nel mezzo di un incendio.
«lntroibo ad altare Dei», le parole del Sacrificio tornano a riempire l'aria, si rincorrono tra le volte minute, i banchi malfermi, i paramenti lisi e impolverati, poi divengono luce. Giovannino Guareschi è sicuramente lì vicino, in qualche angolo, a godersi quel miracoloso spettacolo frutto della Comunione dei Santi. La chiesetta si popola di fedeli che hanno amato, che amano e che ameranno la Messa di sempre, quella che negli ultimi decenni troppi uomini di Chiesa hanno tentato di mandare in soffitta. Ma inutilmente: e questo è un altro miracolo.

A metà degli anni Sessanta, proprio nel periodo in cui anche Padre Pio si inquietava per ciò che sarebbe accaduto dopo la Riforma liturgica, Guareschi provava le stesse sensazioni e mostrava gli stessi timori del Santo di Pietrelcina. L'11 marzo 1965, dalle pagine del Borghese, lo Scrittore indirizzò un'eloquente Lettera a don Camillo. II parroco di Mondo piccolo, causa intemperanze anticonciliari, era stato relegato in un paesino di montagna e lui gli dava dell'imprudente:

«Non aveva visto, insomma, come tutto, nella Casa di Dio, deve essere umile e povero in modo da far risaltare al massimo il carattere comunitario dell'Assemblea Liturgica di cui il Sacerdote è soltanto un concelebrante con funzione di presidente? [...].
È la Chiesa che, fino a ieri semplicemente Cattolica e Apostolica, diventa Chiesa di Dio. E lei, don Camillo, è rimasto indietro di qualche secolo, lei è ancora fermo all'ultimo papa medioevale, a quel Pio XII che oggi viene pubblicamente svillaneggiato dai palcoscenici con l'approvazione - vedi la rappresentazione del Vicario a Firenze - degli studenti universitari cattolici, e che, quando il produttore avrà ottenuto la sovvenzione statale, verrà svillaneggiato anche dagli schermi e dai teleschermi».

Sappiamo bene, caro amico, che tu, abituato a trattare con cattolici e sedicenti cattolici che non sono in grado neppure di capire il presente, ti stupisci al cospetto di un vero Cattolico capace di anticipare il futuro. Converrai con noi che questa Lettera, scritta nel 1965, dimostra una lucidità di analisi che avrebbe fatto comodo in molti uomini di Chiesa. Guareschi aveva intuito che anche quella rivoluzione, alla stregua di tutte le altre, era opera di una minoranza capace di presentarsi come interprete dei voleri del popolo. Trascurando il dettaglio che il popolo, come è sempre accaduto nella storia, non ha mai voluto sentir parlare di rivoluzioni.
Per questo, ti invitiamo a scorrere quella lettera fino in fondo, là dove lo Scrittore emiliano dà voce a coloro che furono costretti a subire quei cambiamenti rivoluzionari. Don Camillo, nel suo esilio, tenta contro la propria volontà di applicare la Riforma liturgica e di spiegarla ai suoi fedeli. Con poca convinzione, il povero pretone è costretto a dire ai vecchi, smarriti davanti alle incomprensibili novità, che il latino non è più di moda: non si usa più perché con quella lingua vecchia e morta non si capiva nulla, ora i cristiani devono partecipare al Sacro Rito col sacerdote.

«"Che mondo - ha ridacchiato Antonio - i preti non ce la fanno più a dire la Messa da soli e vogliono farsi aiutare da noi! Ma noi dobbiamo pregare, durante la Messa!".
"Appunto, così pregate tutti assieme, col prete", ha tentato di spiegare lei. Ma il vecchio Antonio ha scosso il capo:
"Reverendo, ognuno prega per conto suo. Non si può pregare Dio in comuniorum. Ognuno ha i suoi fatti personali da confidare a Dio. E si viene in chiesa apposta perché Cristo è presente nell'Ostia consacrata e, quindi, lo si sente più vicino. Lei faccia il suo mestiere, Reverendo, che noi facciamo il nostro. Altrimenti, se lei è uguale a noi, a che cosa serve più il prete? Per presiedere un'assemblea sono capaci tutti.
Io non sono forse il presidente della cooperativa dei boscaioli?"».

Quanto dolore e quanto buon senso spirituale nelle parole del vecchio Antonio. Quanto strazio metterle sulla pagina. Eppure, lo Scrittore della Bassa non abbandonò mai il gusto della battaglia e la certezza di stare dalla parte giusta:
«Don Camillo, io sono certo che quando lei fra poco tornerà (e la faranno tornare presto perché, adesso, in chiesa ci vanno, per far dispetto a lei, soltanto Peppone, lo Smilzo, il Brusco e il Bigio), lei troverà tutte le sue care cianfrusaglie perfettamente sistemate nella chiesetta del notaio.
E potrà celebrare una Messa clandestina per i pochi suoi amici fidati. Messa in latino, si capisce, e con tanti oremus e kyrieleison.
Una Messa all'antica, per consolare tutti i nostri morti che, pure non conoscendo il latino, si sentivano, durante la Messa, vicini a Dio e non si vergognavano se, udendo levarsi gli antichissimi canti, i loro occhi si riempivano di lacrime [ ... ].
Don Camillo, tenga duro: quando i generali tradiscono, abbiamo più che mai bisogno della fedeltà dei soldati…».

A Guareschi fu chiaro da subito che oggi, caro amico, è più evidente a un osservatore esterno come te che a tanti cattolici presi dall'ideologia modernizzatrice: che anche la Liturgia, come la Dottrina, non deve cedere alle lusinghe di un mondo che non la capisce. Molte pagine di Don Camillo e don Chichì, uscito inizialmente a puntate nel 1966 su Oggi, furono scritte alla luce di questa consapevolezza. I dialoghi tra il vecchio parroco fedele alla Chiesa di sempre e il curatino progressista ne sono la dimostrazione più evidente. E, se non bastasse il pretino rivoluzionario, in questo Libro viene a galla anche il saccente segretario del vescovo. Nel capitolo I vecchi parroci hanno le ossa dure, per esempio, don Camillo deve fare i conti con il giovane burocrate di curia perché non vuol cedere una parte del sagrato al Comune per la costruzione di un parcheggio. Così, il segretario sbotta:
«"[...] Non capisce che, oltre al resto, è un vantaggio anche per lei? Non si rende conto che molta gente non va alla Messa perché le chiese non hanno spazio per posteggiare le macchine?".
"Sì, lo so, purtroppo - rispose calmo don Camillo -. Però non ritengo che la missione di un pastore d'anime possa essere quella di organizzare dei parcheggi o delle Messe yé-yé per offrire ai fedeli una religione fornita di tutti i comfort moderni. La religione di Cristo non è, e non può essere, né comoda né divertente".
Era un banale ragionamento da prete e il segretario esplose:
"Reverendo, lei dimostra di non aver capito che la Chiesa deve aggiornarsi e deve aiutare il progresso, non ostacolarlo!"».

Era un banale ragionamento da prete. Ma era pur sempre buono se, anni dopo, lo avrebbe ripetuto il cardinale Joseph Ratzinger nel libro Il sale della terra:
«Nella nostra riforma liturgica c'è la tendenza, a parer mio sbagliata, ad adattare completamente la Liturgia al mondo moderno. Essa dovrebbe quindi diventare ancora più breve e da essa dovrebbe essere allontanato tutto ciò che si ritiene incomprensibile; alla fin fine, essa dovrebbe essere tradotta in una lingua ancora più semplice, più "piatta". In questo senso, però, l'essenza della Liturgia e la stessa Celebrazione liturgica vengono completamente fraintese. Perché essa non si comprende solo in modo razionale, così come si capisce una conferenza, bensì in modo complesso, partecipando con tutti i sensi e lasciandosi compenetrare da una celebrazione che non è inventata da una qualsiasi commissione di esperti, ma che ci arriva dalla profondità dei millenni e, in definitiva, dall'eternità».
Don Camillo e i suoi vecchi fedeli hanno compreso molto meglio di tanti intellettuali le esigenze del mistero che, attraverso la Liturgia, giunge agli uomini dall'eternità. L'amore di quel sacerdote per la vecchia Messa nasce su un suolo che non è più umano, poiché riservato al Signore, e si alimenta di carità. Trabocca affetto offerto ai poveri vecchi che i nuovi preti gettano dalle finestre delle loro chiese demistificate. II prete di Mondo piccolo, come i ruderi della vecchia guardia, porta inciso nel profondo dell'essere ciò che i pretini progressisti come don Cichì si ostinano a negare: che la Messa è l'azione dove Gesù si fa nuovamente presente perché si compia, attraverso le mani del sacerdote, il Sacrificio.
«"La sua campagna contro la guerra - dice don Camillo al curatino - per esempio, è giusta: ma non si può trattare da criminali coloro che l'hanno combattuta e, magari, ci hanno rimesso la salute o la vita".
"Chi uccide è un assassino - gridò don Chichì -. Non esistono né guerre giuste né guerre sante: ogni guerra è ingiusta o diabolica! La legge di Dio dice: non uccidere, amerai il tuo nemico. Reverendo: questa è l’ora della verità e bisogna dire pane al pane e vino al vino!”.
"Pericoloso dire pane al pane e vino al vino là dove il pane e il vino sono il Corpo e il Sangue di Gesù!", borbottò don Camillo testardo».

Una crisi di fede: c'è questo, dunque, alla radice del cataclisma. La povertà e la sciatteria del rito, insegna lo Scrittore della Bassa, sono il sintomo dell'allontanamento da Gesù Cristo e dal suo insegnamento.
Ma anche nel pieno della tempesta, Guareschi non si fece sopraffare dalla disperazione. La lucidità dell'analisi ebbe sempre come contraltare la speranza. Anzi era essa stessa alimentata dalla speranza. Non ci fu mai una nota d'odio nei suoi scritti. Neppure in quelli più violenti e polemici. Neppure laddove, ipotizzando l'istituzione dell'Organizzazione delle Religioni Unite, la sua sagacia di cattolico ordinario lo portò a capire con orrore dove sarebbe arrivato lo zelo di un ecumenismo straccione e disfattista: all'autodissolvimento del Cristianesimo in una melassa conformista e politicamente corretta. Lo Scrittore lasciò tracce ovunque di questa sua fede, della certezza che Cristo non avrebbe mai lasciato sola la sua Chiesa. Una delle più commoventi è il finale di un capitolo di Don Camillo e don Chichì.
Nonostante le interferenze del pretino progressista e del segretario del vescovo, don Camillo, riesce a riportare sull'altare maggiore il grande Crocifisso epurato dallo zelo innovatore. II giorno in cui il Cristo torna al suo posto è una vera festa di popolo, quanto di più cattolico si possa immaginare. E non manca nessuno, neanche i "senzadio" di Peppone.
«Uscì dal cancello la banda e la voce degli ottoni riempì i campi dorati. Dietro la banda, un miliardo di bambini, dietro i bambini, don Camillo che reggeva il grande Cristo crocifisso e avanzava con passo lento e sicuro. Dietro, il gonfalone del comune e poi Peppone col sottopancia tricolore, seguito da tutta l'amministrazione comunale.
Via via che il corteo avanzava, la gente ai lati della strada si accodava.
II grande Crocifisso di legno era pesante e la cinghia della tasca di cuoio che reggeva il piede della croce segava le spalle a don Camillo. E la strada era lunga.
"Signore - sussurrò don Camillo a un certo punto - prima che mi si spacchi il cuore vorrei arrivare in chiesa e rivederVi là, sull'altare".
"Ci arriveremo, don Camillo, ci arriveremo", rispose il Cristo che ora pareva a tutti più bello.
E arrivarono.
I vecchi parroci, anche quelli col cuore tenero, hanno le ossa dure e per questo la Chiesa di Cristo che grava principalmente sulle loro spalle resiste a tutte le bufere».
Deo gratias.