giovedì 31 luglio 2014

IL LITURGISTA CHE VUOLE VIVERE UN VERO «BANCHETTO EUCARISTICO»: CON TAVOLA IMBANDITA E POSATE

Il liturgista che vuole vivere un vero «banchetto eucaristico»: con tavola imbandita e posate























Guido Fuchs è docente di liturgia allafacoltà di teologia cattolica dell’Università di Würzburg, in Germania. Studioso in particolare del rapporto fra liturgia e vita quotidiana, intervistato martedì scorso dalla rivista online dell’Università ha illustrato la necessità di una maggior integrazione fra momenti di convivialità a tavola e momenti liturgici o di preghiera. Anche o soprattutto per quanto riguarda la Messa, che se per i protestanti resta la Cena del Signore, più correttamente secondo Fuchs, per i cattolici è diventata un rito in cui l’aspetto sacrificale ha preso ingiustamente il sopravvento su quello conviviale, del banchetto. Con restrizioni che andrebbero eliminate, ovvero quelle riassunte in un passaggio dell’istruzione Redemptionis sacramentumdella Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti:

«In nessun modo si combini la celebrazione della santa Messa con il contesto di una comune cena, né la si metta in rapporto con analogo tipo di convivio. Salvo che in casi di grave necessità, non si celebri la Messa su di un tavolo da pranzo o in un refettorio o luogo utilizzato per tale finalità conviviale, né in qualunque aula in cui sia presente del ciboné coloro che partecipano alla Messa siedano a mensa nel corso stesso della celebrazione. Se per grave necessità si dovesse celebrare la Messa nello stesso luogo in cui dopo si deve cenare, si interponga un chiaro spazio di tempo tra la conclusione della Messa e l’inizio della cena e non si esibisca ai fedeli nel corso della Messa del cibo ordinario».
IL TIMONE



mercoledì 30 luglio 2014

MEDICO CONTRO CAPPELLANO DELL’OSPEDALE: ‘FASCISTA QUEL VOLANTINO’









Un volantino contrario alla legge sull’omofobia (ancora non approvata in parlamento) -edito da Manif Pour Tous Italia-, affisso sulla bacheca della Cappella dell’Ospedale di Pantalla ha provocato la dura reazione di un medico chirurgo che si è ribellato al “messaggio” con tanto di nuovo volantino con accuse pesanti rivolte sia verso i fedeli che contro i religiosi. Il fatto è avvenuto lo scorso 7 luglio ma soltanto ora sta emergendo dopo il tam-tam mediatico di alcune testate giornalistiche. 

Durante la celebrazione della messa – hanno riportato alcuni testimoni di parte religiosa al quotidiano telematico – intorno alle 18, un medico del reparto Chirurgia si sarebbe recato verso la bacheca posta appena fuori dalla cappella, dove era affisso il manifesto intitolato “Con la legge sull’omofobia siamo tutti a rischio!” firmato dal Comitato Direttivo della Manif pour Tous di Siena. Il professionista ha messo accanto un foglio che ha scritto di suo pugno (vedi foto qui a fianco), in contrapposizione al messaggio dell’associazione religiosa. “Finita la celebrazione, i fedeli, incuriositi dall’accaduto, vanno a leggere il messaggio lasciato dal medico, e restano basiti. Questo il testo scritto su un foglio che porta il logo della “Azienda Unità Sanitaria Locale Umbria 1”, in riferimento al citato manifesto della Manif pour Tous: “Questo manifesto è razzista e edito da un’organizzazione fascista. Vergogna ai religiosi che lo espongono!!. Il caso è grave e meriterebbe di essere segnalato alle forze di polizia, perché l’offesa gratuita ed infondata di “razzista”, integra un reato penale”.

Lo scontro ideologico rischia di finire sia in un’aula di tribunale oltre che sulla scrivania dell’amministratore dell’azienda ospedaliera. Non sono mancate le repliche alla presa di posizione del medico, il quale parla di razzismo, ma poi e lui che finisce per esssere razzista nei confronti di chi non la pensa secondo il politicamente corretto: “Questo ennesimo episodio rivela la pericolosa deriva di intolleranza che rischia di abbattersi su coloro che osano opporsi alla follia ideologica dell’omosessualismo. Non riusciamo nemmeno ad immaginare cosa potrà accadere quando alla lobby gay verrà fornito pure il supporto della repressione penale”. Davvero, come giustamente denuncia il manifesto della Manif pour Tous, con «la legge contro l’omofobia siamo tutti a rischio!!. E allora si vedrà davvero chi sono i fascisti”.


http://www.daportasantanna.it/blog/2014/07/medico-contro-cappellano-dellospedale-fascista-quel-volantino/

“Chi sono io per giudicare?” Approfondimenti sul tema del “giudizio” secondo la fede cattolica.






di Silvio Brachetta*

Sembra quasi che, sulla questione del giudizio, dalla Sacra Scrittura provengano due richieste di Dio all’uomo, opposte tra loro. Nel Discorso della montagna, Gesù Cristo dissuade dall’appropriasi di un giudizio che appartiene solo a lui: «Non giudicate per non essere giudicati» (Mt 7, 1). E spiega anche il perché: poiché voi uomini – dice il Signore – «col giudizio con cui giudicate sarete giudicati, e con la misura con la quale misurate sarete misurati» (Mt 7, 2). Che il giudizio espresso nel Discorso della montagna appartenga solo a Dio, lo dice ancora Gesù, come riporta l’Evangelista San Giovanni: «Io sono venuto in questo mondo per un giudizio, perché coloro che non vedono vedano e quelli che vedono diventino ciechi» (Gv 9, 39). Anche San Paolo, nella lettera ai Romani (2, 1), ripete il medesimo concetto che Gesù espresse sulla montagna: «Perciò chiunque tu sia, o uomo che giudichi, non hai alcun motivo di scusa perché, mentre giudichi l’altro, condanni te stesso; tu che giudichi, infatti, fai le medesime cose».

Altrove, però, la Scrittura esorta l’uomo al giudizio. È il Signore stesso a richiederlo: «Non giudicate secondo le apparenze; giudicate con giusto giudizio!» (Gv 7, 24). Non solo, ma rimproverando i farisei, domanda loro: «Come mai questo tempo non sapete giudicarlo? E perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?» (Lc 12, 56-57). Pure San Paolo, rivolto ai cristiani di Corinto, li ammonisce: «Non sapete voi che giudicheremo gli angeli? Quanto più possiamo giudicare delle cose di questa vita!» (1 Corinzi 6, 3). Come allora interpretare ciò che sembra un paradosso?

Se giudicare sia lecito all’uomo

San Tommaso d’Aquino affronta il tema del giudizio, in generale, nella seconda sezione della seconda parte della Summa Theologiae (quaestio n. 60). Il santo Dottore ricorda che il termine «giudice» deriva dal latino «ius dicens», intendendo colui che «dichiara il diritto». E da «giudice» derivò «giudizio». Però il giudizio – precisa San Tommaso – non si restringe all’ambito forense, ma investe ogni categoria morale, così che esso diviene la «determinazione retta di qualsiasi cosa, sia nell’ordine speculativo che nell’ordine pratico». Giudice è quindi il magistrato, ma anche ogni persona che giudica qualcosa o qualcuno. Molto importante, inoltre, è la disposizione di chi giudica, poiché il giudizio è giusto nella misura in cui una persona ha la virtù della carità e i doni soprannaturali della sapienza e della prudenza.

Il problema non è dunque il giudizio in sé stesso, ma se esso sia «un atto di giustizia» o non piuttosto un’ingiustizia. Per questo motivo, affinché il giudizio sia vera giustizia, si richiedono all’uomo tre cose: che il giudizio «derivi dall’abito della giustizia, che derivi dall’autorità di uno che comanda e che sia emanato secondo la retta norma della prudenza». San Tommaso, pertanto, ammette che sia lecito giudicare, ma lega la validità del giudizio a queste tre condizioni, che solo di rado sono rispettate. Quando, infatti, un peccatore giudica un altro peccatore, non lo fa come qualcuno che ha un’autorità sul peccato. Egli non è un giusto tra i peccatori, ma è un peccatore tra molti. In tal modo annulla la seconda condizione e il suo non è più un atto di giustizia, bensì è un «giudizio usurpato». Usurpato a Dio.

Quando invece abbiamo autorità in un certo ambito e siamo animati dalle virtù e dai doni dello Spirito Santo, non solo è lecito, ma è doveroso giudicare. È il caso dei genitori nei confronti dei figli, dell’esperto nei confronti dell’inesperto, del religioso nei confronti del laico, del principe nei confronti del popolo, del soggetto nei confronti della realtà oggettiva conosciuta, della creatura spirituale nei confronti delle creature temporali. Così l’uomo (e in particolare il cristiano) è chiamato a scrutare i segni dei tempi, ad ammonire i peccatori circa il peccato e a valutare ogni situazione della vita propria e altrui.

I cinque significati del giudizio

Sono dunque rintracciabili, in San Tommaso, cinque significati del giudizio. Primariamente c’è il giudizio che proviene dall’odio, ad esempio del peccatore che si reputa giusto, «come quando uno giudica di cose dubbie od occulte basandosi su delle semplici supposizioni». In questo caso il giudizio è «sospettoso» o «temerario», poiché l’uomo non può leggere nel cuore di un’altra persona, né darsi una ragione completa dei moventi dietro le azioni altrui. È importante non giudicare, a questo proposito, specialmente quando si tratta di un peccato pubblico, «poiché ne nascerebbe uno scandalo nella mente altrui». Il secondo senso del giudizio, simile al primo, è quello usurpativo, che l’uomo esercita su cose di cui non ha competenza: è di colui che si sostituisce a Dio o di chi giudica prima di avere un quadro completo delle circostanze. Perciò San Paolo afferma: «Non giudicate prima del tempo» (1 Cor 4, 5), ovvero prima di avere esaminato ogni aspetto della situazione.

C’è un terzo senso del giudizio, su cui l’uomo non si può e non si deve esprimere. Potremmo chiamarlo giudizio d’incompetenza ed è tipico di chi non ha l’autorità nei confronti del superiore. Sbaglia dunque il ragazzo che si ribella ai genitori, o l’imputato che disprezza il giudice, o l’ignorante che mette a tacere il sapiente, o il penitente che mortifica il confessore, o il popolo che rovescia un potere costituito. Ma il giudizio è invece legittimo in ordine a due significati ulteriori, già accennati in precedenza: nel caso il giudicante abbia l’autorità necessaria – ma anche legale e consentita – sugli uomini (quarto senso) e l’abbia sulla realtà oggettiva (quinto senso).

Giudizio della coscienza e giudizio magisteriale

Il Catechismo della Chiesa Cattolica afferma che, sebbene il Padre abbia «rimesso ogni giudizio al Figlio», questi «non è venuto per giudicare, ma per salvare» il mondo (n. 679). Così vi sarà un giudizio, per i vivi e per i morti, dove però sarà compiuta anche la misericordia verso il peccatore penitente. Quanto all’uomo, ogni sua azione morale deriva da un proprio «giudizio di coscienza», che può essere buono o cattivo. Questo è un giudizio legittimo, che precede ogni atto umano consapevole e che dipende dall’oggetto dell’azione, dall’intenzione soggettiva e dalle circostanze esterne (nn. 1749, 1750). È dunque chiaro che l’uomo esercita il giudizio senza interruzione, per tutto il corso della propria vita, relativamente alle azioni da compiere e alle scelte da effettuare. Vi è addirittura una salutare «sentenza del giudizio di coscienza» (n. 1781), mediante la quale possiamo individuare il nostro peccato, pentirci e salvarci. Certamente il giudizio umano può essere «retto», se in accordo alla ragione e alla legge divina, o «erroneo», se ostinato nella colpa. In ogni caso è un giudizio effettivo, personale.

Anche la Chiesa, sulla base del Magistero, contempla l’esercizio del giudizio: «È compito della Chiesa annunziare sempre e dovunque i principi morali anche circa l’ordine sociale, e così pure pronunciare il giudizio su qualsiasi realtà umana, in quanto lo esigano i diritti fondamentali della persona umana o la salvezza delle anime» (Codice di Diritto canonico, can. 747).



*Articolo pubblicato su: Osservatorio Internazionale Cardinale Van Thuan, 30  7 14



È il numero uno della nuova curia, ma dice messa all’antica


pellcm
Si svolgerà dal 23 al 25 ottobre prossimi il terzo pellegrinaggio a Roma organizzato dal “Coetus internationalis Summorum Pontificum“, la rete mondiale di associazioni, enti e realtà ecclesiali che nel proprio territorio sono impegnate nell’applicazione del motu proprio “Summorum Pontificum” con cui Benedetto XVI nel 2007 ha concesso piena cittadinanza al messale preconciliare promulgato da san Giovanni XXIII nel 1962.
Il programma provvisorio dell’evento prevede la partecipazione di due vescovi e di tre cardinali.
I vescovi sono il francese François Bacque, nunzio a riposo, e l’italiano Guido Pozzo, segretario della commissione vaticana “Ecclesia Dei” che segue le comunità legate a quella che è stata definita la forma “extraordinaria” del rito romano.
Quanto ai cardinali, è scontata la partecipazione di due porporati notoriamente vicini al mondo tradizionalista come l’americano Raymond L. Burke (che sabato 25 ottobre presiederà il pontificale in San Pietro) e il tedesco Walter Brandmüller (che domenica 26 celebrerà nella comunità benedettina di Norcia la solennità di Cristo Re).
Meno scontata ma non sorprendente sarà invece la partecipazione del terzo cardinale, l’australiano George Pell, che la sera di venerdì 24 presiederà il pontificale nella chiesa romana della SS. Trinità dei Pellegrini. Il cardinale Pell, infatti, è anche lui uno dei porporati storicamente più legati al mondo tradizionalista.
Durante il pontificato di Benedetto XVI Pell è stato in predicato due volte per un posto di altissimo rilievo nella curia romana.
Nel 2005 entrò nella terna dei candidati a prefetto della congregazione per la dottrina della fede (terzo dopo William J. Levada che in effetti venne nominato e Tarcisio Bertone che sarebbe invece diventato segretario di Stato).
E nel 2010 la sua nomina a prefetto della congregazione per i vescovi era praticamente fatta, ma il timore che potesse essere coinvolto in qualche storia di copertura di abusi sessuali compiuti da sacerdoti della sua diocesi di Sydney portò alla scelta del canadese Marc Ouellet.
Ma a promuovere per davvero a Roma il conservatore Pell ci ha pensato papa Francesco, certamente non sospettabile di simpatie tradizionaliste. A modo suo: affidandogli incarichi di grande importanza, ma dove Pell può esercitare più le sue capacità organizzative e il suo stile di comando diretto e sbrigativo piuttosto che le proprie sensibilità dottrinali o liturgiche.
Francesco lo ha scelto infatti tra i nove cardinali consiglieri per la riforma della curia e lo ha fatto diventare anche “zar” dell’apparato economico-finanziario vaticano, promuovendolo alla guida della neonata, potente segreteria per l’economia.
Pell comunque arrivando a Roma per il suo nuovo incarico vaticano non ha lasciato a casa le sue sensibilità liturgiche. Così ha pensato bene di scegliersi come segretario particolare un sacerdote australiano, don Mark Withoos di Melbourne, che lavorava nella commissione “Ecclesia Dei”.
E ha dato appunto la sua disponibilità a celebrare messa secondo l’antico rito nel prossimo pellegrinaggio promosso dal “Coetus Internationalis Summorum Pontificum”.
Pellegrinaggio che ha come delegato generale il magistrato Giuseppe Capoccia, sostituto procuratore a Lecce e promotore del Coordinamento “Summorum Pontificum” in Puglia, Campania e Basilicata. Mentre ne è cappellano il sacerdote francese Claude Barthe e segretario generale il laico francese Guillaume Ferluc.








SETTIMO CIELO. 30 luglio 2014



La tentazione




“Gesù fu condotto nel deserto dallo Spirito Santo, per essere tentato” (Mt 4,1)




Santo Curato d'Ars


[...] Dopo che questo tenero Salvatore ha voluto essere tentato, noi, per essere vittoriosi nelle tentazioni dobbiamo solo volerlo. Ecco, allora, i grandi vantaggi che ci derivano dalla tentazione del Figlio di Dio.

Qual è la mia intenzione, fratelli miei? Eccola: è quella di mostrarvi che la tentazione è per noi molto necessaria, per poter conoscere chi siamo veramente. Inoltre voglio mostrarvi che dobbiamo temere molto la tentazione, perché il demonio è molto raffinato e molto furbo, e una sola tentazione ci può gettare nell’inferno, se abbiamo la disgrazia di soccombere ad essa. Infine vi mostrerò che dobbiamo combattere vigorosamente sino alla fine, poiché solo a questa condizione ci sarà donato il Cielo.

Non è necessario, fratelli miei, dimostrarvi che esistono i demoni per tentarci; altrimenti dovrei supporre di parlare a degli idolatri o a dei pagani, oppure a dei cristiani avvolti nell’ignoranza più rozza e più miserabile; dovrei pensare che non avete mai studiato il catechismo. [...] Voi sapete che fu il demonio che tentò i nostri progenitori nel paradiso terrestre, dove riportò la sua prima vittoria: e ciò lo rese così fiero e orgoglioso. Fu il demonio che tentò Caino, e lo portò a uccidere il suo fratello Abele. Leggiamo nell’Antico Testamento (Gb 1,7), che il Signore disse a Satana: “Da dove vieni?” – “Ho fatto un giro per il mondo, gli risponde il diavolo”. È una prova evidente, fratelli miei, che il demonio gira attraverso la terra per tentarci. Leggiamo nel Vangelo, che la Maddalena, avendo riconosciuto i suoi peccati davanti a Gesù Cristo, fu liberata da sette demoni. Leggiamo ancora, in un altro passo del Vangelo, che lo spirito impuro, essendo uscito dal corpo di una persona disse: “Ci ritornerò con altri demoni più cattivi di me”. Tutto ciò, fratelli miei, non è per voi la cosa più importante da sapere; nessuno, infatti, ha il minimo dubbio su ciò. Ma quello che è più vantaggioso per voi, è farvi comprendere la maniera in cui il demonio può tentarvi. […]

Ma, mi domanderete forse, che significa essere tentati? Amico mio, ascolta bene, e vedrai e capirai, che tutte le volte che il demonio ti tenta, è per farti fare una cosa che il buon Dio ti proibisce, oppure per non farti fare ciò che egli ti ordina e ti comanda. […] Se, nonostante il demonio vi tenti per fare ciò che il buon Dio vi proibisce, voi non lo fate, allora non soccombete alla tentazione. Ma se vi accingete a farlo, allora soccombete. E se volete comprendere meglio ciò, prima di acconsentire a quello che il demonio vi suggerisce di fare, pensate se, nell’ora della morte, sareste contenti di averlo fatto, e vi accorgerete che la vostra coscienza vi sgriderà.

Sapete voi, fratelli miei, perché il demonio si infuria tanto per attirarci al male? E’ perché non potendo disprezzare Dio da sé, lo fa disprezzare dalle sue creature. Ma, beati noi, fratelli miei, perché abbiamo la fortuna di avere un Dio come nostro modello! Siamo poveri? Abbiamo un Dio che nasce in una stalla ed è deposto su un pugno di paglia. Siamo disprezzati? Abbiamo un Dio che ci ha preceduti, che è stato coronato di spine, rivestito di un vile mantello scarlatto, e trattato come un pazzo! Siamo immersi nelle sofferenze? Abbiamo davanti agli occhi un Dio tutto coperto di piaghe, che muore nella maniera più dolorosa, cosa che non riusciremo mai a comprendere. Siamo perseguitati? Ebbene, fratelli miei, come potremo osare compiangerci, dal momento che abbiamo un Dio che muore sotto i suoi aguzzini? Siamo tentati dal demonio? Abbiamo il nostro amabile Redentore che è stato tentato dal demonio, trascinato due volte da questo spirito infernale!

Perciò, fratelli miei, quale che sia lo stato di sofferenza, di pena o di tentazione nel quale ci troviamo, abbiamo sempre e dovunque il nostro Dio che cammina davanti a noi, assicurandoci la vittoria tutte le volte che lo desideriamo. Ecco allora, fratelli miei, ciò che deve grandemente consolare un cristiano: pensare che ogni volta che è tentato, se farà ricorso a Dio, avrà la certezza di non soccombere alla tentazione.

Abbiamo detto che la tentazione ci è necessaria, per farci comprendere che non siamo nulla da noi stessi. S. Agostino dice che noi dobbiamo allo stesso modo ringraziare il buon Dio per i peccati dai quali ci ha preservati, come per quelli che ha avuto la carità di perdonarci. Se abbiamo la disgrazia di cadere tanto spesso nei trabocchetti del demonio, è perché facciamo troppo affidamento sulle nostre decisioni e sulle nostre promesse, e non abbastanza sul buon Dio. Questa è una grande verità! Allorché nulla ci addolora e tutto sembra andare secondo i nostri desideri, osiamo convincerci che niente ci potrà far cadere, ci vantiamo del nostro nulla e della nostra povera debolezza, diciamo apertamente che siamo pronti a morire piuttosto che lasciarci vincere. Abbiamo un esempio di ciò nello stesso S.Pietro, che diceva al buon Dio: “Quand’anche tutti gli altri ti rinnegassero, io non ti rinnegherò mai”.

Ahimè! Il buon Dio, per mostrargli che ogni uomo, lasciato a se stesso è ben poca cosa, non lo intimorì con i re o con i principi o con le armi, ma fu sufficiente la voce di una serva, che per giunta gli parlava senza alcuna minaccia. Poco prima era pronto a morire per lui ed ora assicura di non conoscerlo affatto, di non sapere di chi si sta parlando! Anzi per assicurarla che non lo conosceva, inizia a spergiurare! Dio mio, di cosa siamo capaci, abbandonati a noi stessi! […]

Ma cosa fa il buon Dio per insegnarci a conoscere noi stessi, o meglio, per dimostrarci che non siamo niente? Ecco cosa fa: permette al demonio di avvicinarsi un po’ di più a noi. E allora ecco che questo cristiano, che poco prima invidiava gli eremiti che vivono solo di radici e di erbe, che decideva di trattare duramente il suo corpo, ahimè! ecco che un piccolo mal di testa, una puntura di spillo, lo fa piangere. Grande e grosso com’è, si tormenta e urla! Un momento prima era disposto a fare tutte le penitenze degli anacoreti, e ora un nonnulla lo porta alla disperazione.

Guardate quest’altro che sembra disposto a donare tutta la sua vita al buon Dio e che assicura che nessun tormento lo fermerà. Poi, però, una piccola maldicenza, una calunnia, o anche l’indifferenza degli altri, una minuscola ingiustizia che gli venga fatta o una mancanza di gratitudine per un bene da lui fatto, sono sufficienti a far nascere nel suo animo, sentimenti di odio, di vendetta, di antipatia, fino al punto di non voler più neanche vedere il suo prossimo. Oppure si mostra freddo, assume un umore che manifesta molto bene all’esterno, quello che gli passa nel cuore. E quante volte, svegliandosi al mattino, è quello il suo primo pensiero, anzi arriva al punto di non chiudere occhio per questo! Ahimè!, fratelli miei, quanto poco valiamo e quanto poco dobbiamo contare sui nostri bei propositi!

Vedete, dunque, fratelli miei, che niente è più necessario della tentazione per renderci convinti del nostro nulla e per impedirci di lasciarci dominare dall’orgoglio. Ascoltate cosa dice san Filippo Neri, il quale considerando quanto siamo deboli e in pericolo di perderci a ogni istante, diceva al buon Dio, versando molte lacrime ”Dio mio, trattienimi, tu sai che sono un traditore,tu conosci quanto sono malvagio; se mi abbandoni anche per un istante temo che ti tradirò”.

Ma forse vi domanderete: chi sono dunque coloro che subiscono di più la tentazione? Sono senza dubbio gli ubriachi, i mormoratori o gli spudorati che si gettano alla cieca nelle lordure, o l’avaro, che pensa solo ad arricchirsi in ogni modo, direte voi. No, non sono affatto costoro; al contrario, il demonio li disprezza, o meglio, li protegge perché possano fare il male per il maggior tempo possibile, dal momento che più a lungo essi vivranno, più i loro cattivi esempi trascineranno le anime all’inferno. Infatti, se il demonio avesse incalzato troppo fortemente questo vecchio impudico, egli, per i suoi vizi, avrebbe accorciato i suoi giorni di quindici o vent’anni e quindi avrebbe avuto meno tempo per indurre a peccare questa vergine, della quale ha violato il fiore della verginità; o questa giovane che ha gettato nel più infame pantano dei peccati contro la purezza. Non avrebbe avuto il tempo di iniziare al male quel giovane, che forse vi resterà avviluppato fino alla morte. Se il demonio avesse indotto quel ladro a rubare in modo sfrenato, già da tempo sarebbe incorso nel patibolo, e non avrebbe avuto l’opportunità di trascinare qualche altro nel suo vizio. Se il demonio avesse sollecitato quest’ubriaco a riempirsi di vino fino all’orlo, già da tempo sarebbe morto nella crapula; invece, prolungando i suoi giorni, riuscirà a trascinare molti altri col suo cattivo esempio. Se il demonio avesse tolto la vita a questo musicista o a questo maestro di ballo o a questo cabarettista, quanta gente in loro assenza avrebbe scampato il pericolo, mentre se quelli restano in vita, si dannerà per loro. Sant’Agostino ci insegna che il demonio non tormenta troppo queste persone, ma, al contrario, li disprezza e sputa loro addosso.

Ma, mi dirai, chi sono dunque quelli che il demonio preferisce tentare? Ascolta attentamente, amico mio. Sono proprio coloro che si mostrano più pronti, con l’aiuto di Dio, a sacrificare ogni cosa per la salvezza della loro povera anima; che sanno rinunciare a tutto ciò che, sulla terra, gli altri ricercano con ansia e con ardore. E non è solo un demonio che li tenta, ma sono milioni quelli che gli piombano addosso, per farli cadere nei loro lacci. […]

Come mai, fratelli miei, quando una persona non pensa affatto alla sua salvezza, ma vive nel peccato, non è per nulla tentata, mentre contro colui che decide di cambiare vita e di donarsi completamente al buon Dio, tutto l’inferno si scaglia contro? Ascoltate quello che S. Agostino ci dice: “Ecco, egli dice, come il demonio si comporta verso il peccatore: fa come un carceriere che custodisce nella sua prigione molti carcerati, ma, avendo nelle sue tasche le chiavi, li lascia tranquilli, sapendo che non possono uscire. E’ questo, dunque, il suo modo di agire, verso un peccatore che non intende lasciare il suo peccato: non si scomoda affatto per tentarlo, sarebbe tempo perso, dal momento che il peccatore, non solo non abbandona il peccato, ma ogni giorno che passa, rafforza le sue catene. Perciò, sarebbe inutile tentarlo, e allora lo lascia vivere in pace, ammesso che stando in peccato si possa godere la pace. Gli nasconde il suo stato fino alla morte, quando si ripromette di mostrargli il quadro più orribile della sua vita, e così sprofondarlo nella disperazione. Ben altro discorso merita colui che ha deciso di cambiare vita e di donarsi tutto al buon Dio”. Lo stesso Agostino, finché visse una vita disordinata, non percepì minimamente alcuna tentazione. Credeva di essere in pace, come egli stesso racconta. Ma allorché decise di voltare le spalle al demonio, dovette affrontare una così dura lotta, da non avere nemmeno il tempo di respirare. E questo per ben cinque anni, versando le lacrime più amare e facendo le penitenze più austere. “Lottavo contro di lui ( il diavolo), egli dice, stando nelle mie catene. Un giorno mi ritenevo vittorioso, ma il giorno dopo mi ritrovavo per terra. Questa battaglia crudele e ostinata, durò cinque anni, ma, finalmente, il buon Dio, mi fece la grazia di riuscire vittorioso sul mio nemico”. […]

Ecco, fratelli miei, le battaglie, alle quali il buon Dio permette che i suoi grandi santi siano esposti. Ahimè! fratelli miei, quanto siamo da compiangere, se non siamo fortemente combattuti dal demonio! Sicuramente, ciò significa che siamo suoi amici: egli ci lascia vivere in una falsa pace, tranquillizzandoci col pretesto che abbiamo fatto le nostre belle preghiere, qualche elemosina, che siamo meno cattivi di altri. […]

Ecco, dunque, fratelli miei che la tentazione più temibile consiste proprio nel non essere tentati! E’ questa la situazione di coloro che il demonio conserva per l’inferno. Oserei dire, che egli si guarda bene dal tentarli e dal tormentarli sui peccati della loro vita passata, per paura di far loro aprire gli occhi. Affermo dunque, fratelli miei, che la più grande disgrazia per un cristiano, è quella di non essere tentati, perché, in tal caso, avrebbe motivo di credere che il demonio lo considera ormai suo possesso, e aspetta solo la morte per portarselo all’inferno. Non c’è niente di più facile da capire. Considerate, ad esempio un cristiano, che cerchi, sia pure un po’, la salvezza della sua anima: tutto ciò che lo circonda lo tenta al male; spesso, non può nemmeno alzare gli occhi, senza essere tentato, nonostante tutte le sue preghiere e le sue penitenze. Al contrario, un peccatore incallito, che, forse, da vent’anni si rotola e si trascina nelle sue sporcizie, dirà che non è affatto tentato. Tanto peggio, amico mio, tanto peggio! E’ proprio questo che ti deve far tremare, il fatto di non sapere cosa sia la tentazione! Dire che non c’è tentazione, sarebbe come dire che il demonio non esiste più, oppure, che egli ha cessato la sua rabbia contro i cristiani. [...] Sant’Agostino ci dice che la più grande tentazione, è di non avere nessuna tentazione, poiché ciò significa essere una persona scartata, abbandonata dal buon Dio e lasciata in preda alle proprie passioni.

In secondo luogo, abbiamo detto, che la tentazione ci è assolutamente necessaria, per tenerci nell’umiltà e nella diffidenza verso noi stessi, obbligandoci a fare ricorso al buon Dio. [...]

Perciò, fratelli miei, possiamo affermare che, sebbene sia molto umiliante essere tentati, è proprio questo il segno più sicuro che siamo in cammino verso il cielo. Ci resta da fare solo una cosa: combattere con coraggio, poiché la tentazione è il tempo della mietitura: eccovi un bell’esempio. Leggiamo nella storia, che una santa donna era da lungo tempo talmente tentata dal demonio, che si riteneva ormai dannata. Il buon Dio le apparve per consolarla, e le disse che aveva guadagnato di più durante questa prova, che in tutto il resto della sua vita. Sant’Agostino ci dice che, senza le tentazioni, tutto ciò che facciamo è di poco valore. Ben lontani dal tormentarci quando siamo tentati, dobbiamo, al contrario, ringraziare il buon Dio e combattere con coraggio, poiché siamo certi di uscirne sempre vittoriosi, e che mai il buon Dio permetterà al demonio di tentarci al di sopra delle nostre forze. E’ certo, fratelli miei, che solo quando saremo morti, saremo sicuri di non essere più tentati. Il demonio, che è uno spirito, non si stanca mai, neppure se ci avesse tentati per centomila anni, anzi è così forte e infuriato, come se fosse la prima volta.

Non possiamo affatto credere che potremo vincere il demonio o fuggirlo, così da non essere più tentati. Il grande Origene, ci dice che i demoni sono tanto numerosi, da sorpassare gli atomi che sono nell’aria, o le gocce d’acqua che compongono il mare, per indicare che ce n’è un numero infinito. S. Pietro ci dice: “Vegliate senza tregua, poiché il demonio si aggira intorno a voi come un leone ruggente, cercando chi divorare”. Lo stesso Gesù Cristo ci dice: “Pregare incessantemente, per non cadere in tentazione”; come a dire che il demonio ci aspetta dovunque. Perciò, ci tocca essere tentati, quale che sia il luogo o lo stato in cui ci troviamo. […]

In terzo luogo, abbiamo detto che il demonio si scatena contro coloro che hanno veramente a cuore la loro salvezza, e li perseguita continuamente, con vigore, sempre nella speranza di vincerli.

Eccovi un esempio molto istruttivo. Si racconta che un giovane eremita, ormai da molti anni, aveva lasciato il mondo per pensare solo alla salvezza della sua anima. Il demonio era talmente infuriato, che sembrava che tutto l’inferno fosse addosso a questo povero giovane. Cassiano, che riporta questo episodio, ci dice che questo giovane era tormentato da tentazioni contro la purezza. Dopo molte lacrime e penitenze, pensò di andare a trovare un anziano solitario perché lo consolasse, sperando che questi gli avrebbe fornito i rimedi giusti per meglio vincere il nemico, e soprattutto, per raccomandarsi alle sue preghiere. Ma le cose andarono in modo molto diverso. L’anziano eremita, che aveva trascorso tutta la sua vita quasi senza combattere, invece di consolare il giovane, si mostrò alquanto sorpreso per il racconto delle sue tentazioni, lo rimproverò aspramente, gli rivolse parole dure, chiamandolo infame, disgraziato, e dicendogli che non era degno di portare il nome di eremita, dal momento che gli succedevano tali cose. Il povero giovane se ne andò così abbattuto, che si credeva ormai perduto e dannato, lasciandosi andare alla disperazione. Diceva tra sé: “Siccome ormai sono dannato, è inutile resistere alla tentazione o combattere; meglio che mi abbandoni a tutto ciò che il demonio vuole. Tuttavia, Dio sa che ho abbandonato il mondo per amor suo e per salvare l’anima mia. Perché, diceva in preda alla disperazione, non mi hai dato maggiore forza? Tu sai che ti voglio amare, e ho tanta paura e dolore per averti offeso; però Tu non mi dai forza e mi lasci cadere! Dal momento che ormai per me tutto è perduto, e non ho nessuna possibilità di salvarmi, me ne ritorno nel mondo”. Ma, mentre, nella sua disperazione, stava già per lasciare la sua solitudine, c’era nel medesimo deserto un santo abate di nome Apollonio, che godeva fama di grande santità, a cui il buon Dio aveva fatto conoscere lo stato della sua anima. Questi gli andò incontro, e vedendolo così turbato, avvicinatosi, gli chiese con molta dolcezza che cosa avesse e quale fosse il motivo del suo smarrimento e della tristezza che appariva sul suo volto. Ma questo povero giovane, era così profondamente immerso nei suoi pensieri, che non gli rispose nulla. Il santo abate, che percepiva il trambusto della sua anima, continuò a spingerlo a dirgli che cosa lo agitasse in quel modo, da dove venisse e perché stesse abbandonando la solitudine, e dove si stesse dirigendo. Il giovane, accortosi che lo stato della sua anima era ben noto agli occhi del santo abate, nonostante egli cercasse in ogni modo di nasconderlo, gli rispose, versando lacrime in abbondanza e singhiozzando con estrema commozione: “Ritorno nel mondo, perché ormai sono perduto; non ho più speranza di potermi salvare. Sono andato a trovare un anziano che è rimasto molto scandalizzato della mia vita. Poiché sono così miserabile da non poter piacere a Dio, ho deciso di lasciare la solitudine, di ritornare nel mondo, dove mi lascerò andare a tutto ciò che il demonio vorrà. Tuttavia ho versato molte lacrime, io non vorrei offendere il buon Dio; mi vorrei salvare, ho gran voglia di fare penitenza, ma non possiedo forze sufficienti e non riesco a fare un passo avanti”. Il santo abate, sentendolo parlare e vedendolo piangere, gli disse, mescolando le sue lacrime con quelle di lui: “Ah! amico mio, non vedi che non solo non hai offeso il buon Dio, ma al contrario, proprio perché gli sei molto gradito, sei tentato in tal modo? Consolati, mio caro amico, e riprendi coraggio; il demonio ti riteneva vinto, ma, al contrario, sei tu che lo vincerai. Ritorna nella tua cella, almeno fino a domani. Non perderti di coraggio, amico mio, anch’io sono tentato ogni giorno nello stesso modo di te. Non è sulle nostre forze che dobbiamo contare, ma sulla misericordia del buon Dio. Ti aiuterò a vincere, pregando per te. Amico mio! Dio è troppo buono per abbandonarci in preda al furore dei nostri nemici, senza darci la forza per vincerli. E’ stato Lui, mio caro amico, che mi ha mandato per consolarti e per dirti di non perderti d’animo: sarai presto liberato”. Il povero giovane, ormai pieno di consolazione, ritornò nella solitudine, e gettandosi nelle braccia della misericordia di Dio, diceva: “Credevo che Tu ti fossi per sempre allontanato da me”. Intanto, Apollonio, si reca presso la cella dell’anziano che aveva accolto così male quel giovane e, prostrandosi con la faccia a terra, diceva: “Signore, Dio mio, tu conosci la nostra debolezza, libera, per favore, quel giovane da quelle tentazioni che lo scoraggiano; Tu hai visto quante lacrime ha versato per la pena di averti offeso! Trasmetti la stessa tentazione a quest’anziano, affinché impari ad avere pietà di coloro che tu permetti che siano tentati”. Appena ebbe terminato la preghiera, vide il demonio nella forma di un piccolo negro orrendo, che lanciava la freccia infuocata della fornicazione, verso la cella dell’anziano. Questi, non ne aveva ancora sentito il tocco, che già era caduto in preda ad una agitazione spaventosa, che non gli dava tregua. Si alza, esce, entra. Dopo aver fatto per molto tempo la stessa cosa, infine, convinto di non farcela a lottare contro la tentazione, fa come il giovane solitario, e prende la decisione di tornarsene nel mondo, non potendo più resistere al demonio. Dà l’addio alla sua cella e parte. Il santo abate che osservava tutto, senza che l’altro se ne accorgesse (il buon Dio gli aveva fatto conoscere che la tentazione del giovane si era trasmessa all’anziano), avvicinandosi, gli chiede dove vada e come mai abbia dimenticato la gravità dell’incedere, propria dell’età; sembrava così agitato, che, senza dubbio aveva qualche inquietudine sulla salvezza della sua anima. L’anziano, si accorse bene che il buon Dio faceva conoscere all’altro ciò che accadeva all’interno della sua anima. “Ritorna, amico mio, gli disse il santo, e sappi che questa tentazione che ti è piombata addosso nella tua vecchiaia, vuole insegnarti ad essere compassionevole verso le infermità dei fratelli, e a consolarli nella loro debolezza. Tu avevi scoraggiato questo povero giovane che era venuto a condividere le sue pene; così, invece di consolarlo, lo hai gettato nella disperazione; senza una grazia straordinaria, si sarebbe perduto. Lo sai, padre mio, perché il demonio aveva suscitato una guerra così tenace e così crudele contro questo povero giovane? Proprio perché percepiva in lui grandi disposizioni per la virtù, e ciò lo riempiva di un vivo sentimento di gelosia e di invidia. Inoltre, una virtù così solida, poteva essere vinta solo con una tentazione troppo forte e troppo violenta. Impara, quindi, ad avere compassione degli altri, a tendere loro la mano per non lasciarli cadere. Se il demonio ti ha lasciato tranquillo, in tanti anni di vita solitaria, è perché vedeva in te ben poco di buono: perciò, invece di tentarti, ti disprezzava”.

Dall’esempio suddetto, dobbiamo dedurre che, ben lontani dallo scoraggiarci, quando siamo tentati, al contrario, dobbiamo consolarci o, addirittura, gioire, poiché il demonio tenta proprio quelle persone che egli prevede che, per il loro modo di vivere, si guadagneranno il cielo. D’altronde, fratelli miei, dobbiamo essere ben convinti che è impossibile voler piacere a Dio e salvare la propria anima, senza essere tentati. Vedete lo stesso Gesù Cristo: dopo aver digiunato per quaranta giorni e quaranta notti, fu molto tentato e trascinato per due volte dal demonio, Lui che era la santità in persona. Non so però, fratelli miei, se voi capite appieno che cos’è una tentazione. Non è soltanto un cattivo pensiero d’impurità, di odio, o di vendetta, che occorre respingere, ma sono tutti i guai che ci succedono: come una malattia, nella quale siamo portati a piangerci addosso, una calunnia che lanciano contro di noi, una ingiustizia che ci viene fatta, la perdita dei beni, la perdita del padre, della madre, o di un figlio. Se non ci sottomettiamo volentieri alla volontà di Dio, allora soccombiamo alla tentazione, dal momento che il buon Dio, vuole che noi soffriamo tutto ciò per amor suo. D’altro canto, il demonio fa tutto ciò che può per farci mormorare contro il buon Dio.

Ma ora vi dirò quali sono le tentazioni che più di tutte dobbiamo temere, e che fanno perdere più anime di quanto si immagini. Sono quei piccoli pensieri che nascono dall’amor proprio, quei pensieri di stima eccessiva di se stessi, quei piccoli applausi che ci facciamo da soli per ogni cosa che facciamo, o per il bene che si dice di noi: ci ripassiamo tutto ciò nella testa, cerchiamo di incontrare coloro ai quali abbiamo fatto qualche bene, perché non se lo dimentichino, e conservino una buona opinione di noi. Ci compiaciamo quando gli altri si raccomandano alle nostre preghiere, e poi non vediamo l’ora di sapere se essi hanno ottenuto quello che noi abbiamo chiesto al buon Dio, per loro. Sì, fratelli miei, sono queste le più temibili tentazioni del demonio; contro queste dobbiamo grandemente vegliare su noi stessi, perché in esse il demonio è più abile. E’ questo che ci deve portare a domandare tutte le mattine, al buon Dio, la grazia di discernere tutte le volte che il demonio verrà a tentarci. Perché troppo spesso, prima facciamo ciò che è male, e solo dopo ci facciamo caso? E’ proprio perché non abbiamo chiesto questa grazia al buon Dio tutte le mattine, o l’abbiamo chiesta male.

Infine, fratelli miei, voglio invitarvi a combattere con grande determinazione, e non come di solito facciamo: diciamo di no al demonio, ma poi gli tendiamo la mano! […]

Cosa dobbiamo concludere da tutto ciò, fratelli miei? In primo luogo, non dobbiamo illuderci di essere esenti dalle tentazioni, in un modo o nell’altro, finché vivremo. Perciò dobbiamo essere risoluti a combattere, fino alla morte. In secondo luogo, appena ci sentiamo tentati, immediatamente facciamo ricorso al buon Dio, per tutto il tempo che la tentazione persiste, perché, se il demonio insiste a tentarci, lo fa sempre nella speranza di farci cadere. In terzo luogo, dobbiamo fuggire tutto ciò che ci può indurre in tentazione, almeno per quanto dipende da noi, ricordandoci sempre che gli angeli cattivi furono tentati una volta sola, ma questa fu sufficiente a mandarli all’inferno. Occorre nutrire una grande umiltà, non pensare mai che potremo salvarci con le nostre forze, ma soltanto se la grazia del buon Dio ci aiuterà a non cadere. Felice colui, fratelli miei, che, nell’ora della morte, potrà dire con san Paolo: “Ho combattuto la buona battaglia, ma, con l’aiuto del buon Dio ho vinto. Perciò attendo la corona di gloria che il buon Dio darà a colui che è stato fedele fino alla morte”. E’ la felicità…

L’Eucaristia, dono d’amore che satana vuole offuscare





di Sergio Russo

L’articolo che state per leggere vuole rispondere ad una ben precisa domanda:

Quell’ormai tristemente noto “fumo di satana entrato nel tempio di Dio” (Paolo VI, 29 giugno 1972), che cosa è riuscito ad offuscare o a stravolgere nella Chiesa del Signore, ora che finalmente stanno cominciando a diradarsi le nebbie “sessantottine”? E cosa è riuscito a degradare, adesso che va pure scemando quella penosa ubriacatura “post-conciliare”, essendo ormai trascorsi cinquant’anni dall’apertura del Concilio ecumenico Vaticano secondo ?

Per me personalmente è stata come un’ illuminazione venire a conoscenza di una frase scritta da Joseph Ratzinger (oggi Benedetto XVI), che mi ha fatto molto riflettere:

«Nel rapporto con la Liturgia si decide il destino della Fede e della Chiesa» 1


Un giorno, entrato nella chiesa del mio paese, mi capitò di osservare con uno sguardo diverso, diventato in quel momento più acuto e assai più penetrante, tutto ciò che mi circondava. Cose che d’altronde avevo visto mille volte prima, però sempre sovrappensiero e senza mai farvi caso; adesso invece, quelle stesse cose mi si rivelavano in una luce diversa: oggetti e mura ora mi parlavano, quasi volessero rendermi manifesto un loro non so che di “disagio”!

Mentre stavo dunque osservando le mura interne di questo nobile edificio, mi venne in mente come tutte le chiese cattoliche possano essere ragionevolmente considerate a guisa di enormi Tabernacoli, poiché destinate a custodire al loro interno il Sacramento dei sacramenti: Gesù Cristo, presente nell’ostia col Suo Corpo, il Suo Sangue, la Sua Anima e la Sua Divinità. E per un cattolico, che sia veramente tale, non vi è nulla al mondo di più caro del suo Maestro e Signore, il quale si fa cibo per ognuno di noi.

Proprio mentre stavo guardando come la nebbia, o forse il fumo, stessero pian piano cominciando a diradarsi, lasciando così intravedere qualcosa, la mia attenzione prontamente si diresse verso l’abside della chiesa, in prossimità dell’altare e fu lì che mi accorsi, con grande meraviglia, stupefatto, che non c’era più il tabernacolo: sparito!

«… Nelle nostre chiese, i Cristiani cercheranno invano la lampada rossa dove Dio li aspetta. Come Maria Maddalena, in lacrime dinanzi alla tomba vuota, si chiederanno:“Dove lo hanno portato?”» 2

Mi sovvenne allora… uno “strano” decreto della Conferenza Episcopale Italiana che, nel 1996, aveva deciso di relegare il «Signore dei signori e Dominatore dei dominanti» in una cappella laterale: “Ma… perché?” mi domandai.

«…I pericoli che stanno minacciando la Chiesa sono un avvertimento divino contro il suicidio di alterare la Fede, nella sua Liturgia, nella sua Teologia e nella sua Anima [...] Sento tutto intorno a me questi innovatori che desiderano smantellare la Sacra Cappella, distruggere la fiamma universale della Chiesa, rigettare i suoi ornamenti e farla sentire in colpa per il suo passato storico.» 3

Stavo ancora pensando a queste cose quando, stranamente, mi accorsi di essere comunque in chiesa, perché vedevo ora la gente cominciare ad affluire: stava per iniziare la Santa Messa. Sempre sovrappensiero, mi ritrovai così, alla distribuzione della Santissima Eucarestia ai fedeli e, con mia enorme meraviglia, notavo come le persone non si inginocchiassero più, anzi, incredibilmente, osassero prendere la sacra particola direttamente con le loro mani. Il sacerdote però li lasciava fare, senza dire nulla. Ecco, egli non era più il Ministro di Dio, ma era diventato il Presidente dell’Assemblea!

«Vidi che molti Pastori si erano fatti coinvolgere in idee che erano pericolose per la Chiesa. Stavano costruendo una Chiesa grande, strana, e stravagante. Tutti dovevano essere ammessi in essa per essere uniti ed avere uguali diritti: evangelici, cattolici e sette di ogni denominazione. Così doveva essere la nuova Chiesa… Ma Dio aveva altri progetti.» 4

Immediatamente feci il punto della situazione: se io dunque, essendo cattolico ed usando coerentemente la mia ragione, seguendo inoltre quel buon sensum fidei, provvidenziale dono che hanno tutti i fedeli cattolici, proprio adesso cominciassi a prendere seriamente in considerazione l’ipotesi di ricevere la comunione sulla lingua, anziché sulla mano, ed ancora, decidessi di accostarmi al Santissimo Sacramento con un gesto degno di tale incomparabile dono, cioè in ginocchio, realisticamente troverei, su questo mio nuovo cammino intrapreso, il solito “cattolico adulto” che, ligio ai decreti delle varie commissioni liturgiche, mi farebbe notare come il giusto modo di accostarmi alla comunione debba essere invece il seguente:

«Il fedele che desidera ricevere la comunione sulla mano presenta al ministro entrambi le mani, una sull’altra (la sinistra sopra la destra) e mentre riceve con rispetto e devozione il corpo di Cristo risponde “Amen” facendo un leggero inchino. Quindi, davanti al ministro, o appena spostato di lato per consentire a colui che segue di avanzare, porta alla bocca l’ostia consacrata prendendola con le dita dal palmo della mano. Ciascuno faccia attenzione di non lasciare cadere nessun frammento.» 5

A questo punto però, ancora lo stesso “zelante” cattolico adulto – il quale è sempre pronto a concedere una benevola tolleranza verso altre “creative” trovate di “aggiornati Sacerdoti” (da notare: quest’ultime fatte in barba a quei medesimi decreti, da loro stessi precedentemente esibiti) – si guarderà comunque poi bene dall’aggiungere che, sempre in quella medesima Delibera (per esattezza: l’ivi allegata “Istruzione sulla Comunione eucaristica”) vi è anche riportato quanto segue:

La Chiesa, ben conoscendo il tesoro che le è stato affidato, istruita dallo Spirito Santo, sente al tempo stesso l’urgenza di inculcare l’amore più profondo a questo “Sacramento mirabile” e il dovere di difenderne e di garantirne il rispetto, secondo le parole dell’Apostolo: «chi mangia e beve senza riconoscere il corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna».(1 Cor 11, 29) [n. 6];

La Chiesa ha sempre riservato grande attenzione e riverenza all’Eucaristia, anche nel modo di avvicinarsi alla mensa e ricevere la Comunione. [n. 14];

Il modo consueto di ricevere la Comunione deponendo la particola sulla lingua rimane del tutto conveniente… [Indicazioni particolari per la comunionesulla mano, n. 2];

«Santifica dunque accuratamente i tuoi occhi mediante il contatto con il corpo santo, poi prendilo e fai attenzione a non perderne nulla. Ciò che tu dovessi perdere, infatti, è come se perdessi una delle tue membra. Se ti dessero delle pagliuzze d’oro, non le prenderesti con la massima cura, facendo attenzione a non perderne nulla e a non danneggiarle? Non farai dunque assai più attenzione per qualcosa che è ben più prezioso dell’oro e delle pietre preziose, in modo da non perderne neppure una briciola?» (san Cirillo di Gerusalemme).[Indicazioni ..., n. 3];

«Dimmi, andresti con mani non lavate all’Eucaristia? Penso di no. Preferiresti piuttosto di non andarci, anziché andare con mani sporche.»(san Giovanni Crisostomo). [Indicazioni ..., n. 3]. 6

Voglio ora dire a te – gentile Lettore e gentile Lettrice di questo mio articolo – che è nel tuo pieno diritto ricevere la comunione in ginocchio, e non esistono al mondo né Commissioni Episcopali né Sacerdoti che te lo possano impedire; anzi, ai nostri giorni è proprio la Santa Chiesa Cattolica (quella Universale): è il Papa stesso, a raccomandarti di farlo!

Nel prossimo articolo scopriremo assieme che le cose stanno proprio in questo modo.



NOTE:

1. Quarta di copertina dell’Opera Omnia di J. Ratzinger – Benedetto XVI – vol. IX: Teologia della Liturgia, Libreria Editrice Vaticana 2010.

2. Pio XII, in “Mons. George Roche, Pie XII devant l’histoire – Paris, Editions Robert Laffont, 1972”, pp. 52-53.

3. Pio XII, in “Roche”, cit., pp. 52-53.

4. Beata Anna Caterina Emmerich, 22 aprile 1823, in “Carl E. Schmoeger, The life of Anne Catherine Emmerich, Tan Books, 1976”.

5. Delibera n. 56, del 19 luglio 1989, Conferenza Episcopale Italiana.

6. Il neretto è mio.


Annalisa Colzi.it. 27 luglio 2014





martedì 29 luglio 2014

" L’indifferenza che uccide " ( La persecuzione dei cristiani )







di Ernesto Galli della Loggia



Diciamo la verità: a quanti qui in Europa e in Occidente importerà davvero qualcosa dell’ennesima uccisione di cristiani, saltati in aria ieri, a Kano, in Nigeria, per lo scoppio di una bomba in una chiesa?
E del resto a quanti glien’è importato davvero qualcosa dei cristiani obbligati la settimana scorsa ad abbandonare Mosul nel giro di 24 ore, pena la vita o la conversione forzata all’Islam?
A nessuno.
Così come nessuno ha mai alzato un dito per tutti i cristiani fuggiti a centinaia di migliaia in tutti questi anni dall’Iraq, dalla Siria, da tutto il mondo arabo.
Quante risoluzioni i Paesi occidentali hanno presentato all’Onu riguardanti la loro sorte?
Quanti milioni di dollari hanno chiesto alle agenzie delle Nazioni Unite di stanziare a loro favore?
Sono ormai anni che la strage continua, quasi quotidiana: a decine e decine i cristiani vengono bruciati vivi o ammazzati nelle chiese dell’India, del Pakistan, dell’Egitto, della Nigeria.
E sempre nel silenzio o comunque nell’inazione generali: che cosa, ad esempio, si è fatto realmente di concreto per le 276 ragazze cristiane rapite qualche settimana fa, sempre in Nigeria, dalla banda jihadista di Boko Haram perché colpevoli - niente di meno! - di voler andare a scuola, e quindi avviate a un destino che è facile immaginare?


I due principali motivi di questa vasta indifferenza sono ovvi.
Il primo è che sempre di più stentiamo a sentirci, e ancor di più a dirci, cristiani. Non si tratta solo della semplice perdita della fede, che pure naturalmente conta. È questione di quanto ci sta dietro.
Un paio di secoli di pensiero critico laico, soprattutto la sua gigantesca volgarizzazione/banalizzazione resa possibile dallo sviluppo dei mass media, hanno sottratto al Cristianesimo, agli occhi dei più, la dignità socio-culturale di una volta.
Da tempo essere e dirsi cristiani non solo non è più intellettualmente apprezzato, ma in molti ambienti è quasi giudicato non più accettabile.
Il Cristianesimo non è per nulla «elegante», e spesso comporta a danno di chi lo pratica una sorta di tacita ma sostanziale messa al bando.
L’atmosfera culturale dominante nelle società occidentali giudica come qualcosa di primitivo, al massimo un «placebo» per spiriti deboli, come qualcosa intimamente predisposto all’intolleranza e alla violenza, la religione in genere. In special modo le religioni monoteistiche.
In teoria tutte, ma poi, in pratica, nel discorso pubblico diffuso, quasi soltanto il Cristianesimo e massimamente il Cattolicesimo, ad esclusione cioè del Giudaismo e dell’Islam: il primo per ovvie ragioni storico-morali legate (ma ancora per quanto tempo?) alla Shoah, il secondo semplicemente per paura.
Sì, bisogna dirlo: per paura.


L’Europa ha paura, ed è questo il secondo motivo dell’indifferenza di cui dicevo prima.
Ha paura dell’Islam arabo, del suo potere di ricatto economico non più legato soltanto al petrolio ma ormai anche ad una straordinaria liquidità finanziaria.
Al tempo stesso, e soprattutto, ha paura del terrorismo spietato, delle tante guerriglie che all’Islam dicono di ispirarsi, della loro feroce barbarie, così come dei movimenti di rivolta che periodicamente agitano nel profondo le masse di quel mondo, sempre pervase di una suscettibilità facilissima ad accendersi e a trascendere in un’accanita xenofobia.
Ma non solo.
L’Islam ci fa paura anche perché la sua sola presenza - come del resto quella di altre grandi entità non benevole che popolano oggi il pianeta, come la Cina - indirettamente ci obbliga a fare i conti con una grande mutazione in corso nella nostra cultura e dunque nella nostra civiltà: l’impossibilità psicologica di avere un «nemico», di sostenere una situazione di conflittualità non componibile.
Un’impossibilità che unita al rifiuto/rimozione della morte - morte che il tramonto della religione rende ormai impossibile accettare e dunque in qualche modo esorcizzare - sta a sua volta producendo in Occidente una gigantesca svolta storica: la virtuale impossibilità per noi di pensare e di fare la guerra.
Almeno quella guerra non combattuta da macchine impersonali e sofisticate, ma la guerra vera, quella in cui si muore.


Ma che ne sanno di tutto questo i cristiani delle antichissime comunità di Mosul o di Aleppo, tutti gli altri sparsi dall’Africa all’India?
Che cosa possono saperne?
A questo punto, immagino, essi hanno solo capito la verità che per loro conta: e cioè di avere ben poche speranze se sperano in un aiuto che venga da qui.
Dei cristiani e della loro religione all’Europa attuale importa sempre di meno.
Si può essere certi che ogni intervento a loro favore sarebbe subito giudicato inammissibile, indebitamente discriminatorio, colpevolmente lesivo di qualche diritto all’eguaglianza di tutti rispetto a tutto.
E sia.
Ma Dio non voglia che questo non sia che un inizio: l’inizio di qualcosa di cui proprio in questi giorni non mancano i segni premonitori.
In un’Europa pervasa dalla secolarizzazione, in un’Europa le cui fonti spirituali si vanno rapidamente inaridendo per il disprezzo dovunque decretato a ogni umanesimo, non può che stabilirsi un rapporto fatalmente necessario, infatti, tra l’indifferenza verso il Cristianesimo e l’antisemitismo.
È la medesima indifferenza per ciò che non può essere espresso dai numeri, per ciò che viene dalla profondità dei tempi e dei cuori e che si agita nel buio delle anime: osando guardare in alto, più in alto di dove arriva lo sguardo umano.


Fonte : «Corriere della sera» del 28 luglio 2014




Douthat, columnist del Nyt, fa a pezzi la dottrina Kasper sul divorzio





“Per ragioni teologiche, sociologiche e semplicemente logiche, ammettere i risposati alla comunione ha la potenzialità di trasformare non solo l’insegnamento cattolico e la vita cattolica, ma il modo stesso in cui viene percepita la chiesa. Questa è la vera posta in palio; questi sono i termini sui quali è necessario dibattere”. A parlare non è un tradizionalista della lefebvriana Econe, bensì è il columnist del liberal New York Times, il cattolico Ross Douthat. Lascia da parte, Douthat, le dotte argomentazioni storiche e teologiche – per questo, dice, basta e avanza quanto ha scritto “il gruppo dei domenicani americani” sulla rivista Nova et Vetera (cfr. il Foglio 24/7), e si sofferma sulle frasi contenute nell’intervista concessa lo scorso maggio dal cardinale Walter Kasper a Commonweal. In quella circostanza, il porporato tedesco insisteva sulla necessità di trovare una via tra il “rigorismo e il lassismo” che concedesse una seconda possibilità ai divorziati risposati desiderosi di accedere all’eucaristia.



“Se un divorziato risposato è realmente dispiaciuto per il fallimento del proprio matrimonio”, notava Kasper, “possiamo noi rifiutare il sacramento della confessione e della comunione, dopo un periodo di penitenza?”. Di mezzo ci sono i bambini, che non crescerebbero come buoni cristiani se non vedessero i propri genitori andare a messa e comunicarsi come si dovrebbe. Pazienza se Müller e altri eminentissimi teologi hanno ricordato che non sta scritto da nessuna parte che ricevere la comunione è un obbligo. Se a ricevere l’ostia non ci vanno mamma e papà, non ci andranno neppure i figli, è la tesi. Per Douthat, si tratta di considerazioni dove “la posta teologica in palio e il potenziale conflitto con il tradizionale insegnamento della chiesa sono minimizzati e/o spazzati via”. Kasper parte dal presupposto che si sta parlando di una eccezione che in alcun modo minaccerebbe la regola fondata sul Vangelo. Andando a scavare dietro le frasi, però, il quadro che emerge è un altro: “Ciò che Kasper propone differisce dallo scenario in cui un sacerdote, a titolo personale, può decidere di propria iniziativa di dare la comunione a un risposato. Questa possibilità esiste già”, dice Douthat, sottolineando che ben altra cosa è ciò che raccomanda Kasper: non si tratta di concedere “un certo grado di tolleranza per chi ha deviato dalla regola, bensì di dare il permesso formale di abbandonare tale regola”. Il tutto garantito “da un organo ufficiale della chiesa, con un imprimatur papale”, cui (tutti) i sacerdoti sarebbero costretti ad adeguarsi.



Il teologo tedesco assicura che si tratterebbe d’un percorso stretto, riservato a “piccoli settori di divorziati risposati interessati ai sacramenti”. Non di certo alle “grandi masse”, né si potrebbe parlare di una “soluzione generale”. E chi lo dice che sarà così?, si domanda Douthat; quali strumenti ha, Kasper, per dire che il percorso sarà limitato, a numero chiuso? Semmai, scrive il columnist del New York Times, è più logico aspettarsi che la soluzione sia “estesa alle grandi masse in tempi abbastanza rapidi”, con tutto quello che ne consegue.



Basti ricordare che la chiesa ha già una procedura che regolamenta tali situazioni, il processo di nullità matrimoniale, “limitato alle persone che hanno un forte interesse nel ricevere i sacramenti dopo aver divorziato ed essersi risposati”. Si supponga – prosegue – che accanto a questa procedura se ne istituisca un’altra, più rapida. Senza scartoffie e tribunali di mezzo. La conseguenza, inevitabile, è che molti smetterebbero di seguire la via canonica, preferendo la soluzione più facile: “Con la proposta di Kasper, è vero che i secondi matrimoni non sarebbero benedetti dalla chiesa, ma ci sarebbero molte persone che direbbero ‘bene, ora no, ma forse un giorno, chi lo sa’. Io farei così”, ammette Douthat. E alla fine, la stragrande maggioranza dei divorziati risposati interessati a ricevere i sacramenti, busserebbe alle porte delle chiese per farsi dare la comunione. Certo, “i sacerdoti potrebbero studiare attentamente ogni caso, potrebbero limitare il numero di persone da ammettere a questo percorso”. Ma è più probabile, nota ancora nel suo blog sul New York Times, che si assisterebbe a una “rapida normalizzazione del nuovo approccio. Naturalmente non in ogni parrocchia o diocesi, ma in un numero abbastanza rilevante da stabilire un nuovo modello, una norma diffusa e generalmente accettata”. E il risultato sarebbe solo uno: “Quasi tutti i divorziati risposati potrebbero ragionevolmente aspettarsi di avere la possibilità di risposarsi e riaccostarsi all’eucaristia con la formale benedizione della chiesa”. Questo rafforzerebbe, come dice Kasper, l’attaccamento alla chiesa di molti cattolici. I bambini vedrebbero i loro genitori confessarsi e comunicarsi. Ma – scrive Douthat – “penserebbero che la loro chiesa, alla fine, non ritiene indissolubile il matrimonio, o che le parole di Gesù sulla questione non sono vincolanti, come il cattolicesimo ha fino a oggi creduto e insegnato”.



E poi, per quale motivo si pensa a regolare il secondo matrimonio e non “i matrimoni poligami, dove i bambini sono ugualmente coinvolti?”. Certo, prosegue il columnist, la poligamia non è tra le questioni più impellenti nella Germania di Kasper. Ma lo è in Africa, il principale campo d’azione missionaria della chiesa e dove la definizione stessa di matrimonio “è violentemente contestata, non tra cristianesimo e liberalismo, ma tra cristianesimo e islam”. C’è qualcosa, nella proposta di Kasper, “che implicherebbe la necessità di una soluzione simile nelle unioni poligame? Se la chiesa non chiede l’eroismo dei cattolici risposati nei paesi ricchi, come può prendere una dura posizione contro la poligamia?”. Douthat non si fa illusioni, sa “che nella visione di molti, la chiesa cattolica necessita disperatamente di evolversi lungo la linea della modernità sessuale”. Una cosa, però, è altrettanto certa: “La proposta-Kasper non è una piccola modifica alla disciplina cattolica: è un cambiamento profondo, un’alterazione da cui deriverebbero conseguenze ancora più vaste”.



© FOGLIO QUOTIDIANO  29 luglio 2014



Massime di San Gregorio Magno






"Ci sono alcuni che quando compiono una piccola cosa, hanno di sé un grande concetto, per cui elevano l'animo in alto e pensano di precedere gli altri con i meriti delle virtù. In se stessi, interiormente, abbandonano il letamaio dell'umiltà e salgono levette dell'orgoglio; imitando così colui che per primo innalzò sé in stesso, ma innalzandosi sprofondò a terra...Chi dunque interiormente si gonfia di superbia, si pone in alto presso di sé. Ma tanto più rovinosamente precipita in basso quanto più disdegna di avere un basso e sincero concetto di sé (Sed eo se gravius in infimis deprimit quo de se infirma veraciter sentire contemnit). Ci sono alcuni che non si impegnano in nessun atto di virtù, e tuttavia quando vedono gli altri peccare, al loro confronto si considerano giusti".



"La colpa che trafigge il cuore non è unica e uguale per tutti. Uno infatti cade nel laccio della superbia, un altro è gettato in terra dall'ira, un altro è tormentato dall'avarizia, un altro ancora è infiammato dalla lussuria. E per lo più accade che chi è oppresso dalla superbia, guarda in che modo l'ira accende un altro; e siccome l'ira non lo coglie subito, si ritiene migliore dell'iracondo fino ad illudersi di essere quasi un giusto, perché trascura di considerare la gravità del suo vizio dominante. E così anche chi è malato d'avarizia, guarda chi è sprofondato nel baratro della lussuria e, ritenendosi immune da ogni contaminazione carnale, non si accorge delle macchie interiori che contaminano il suo spirito e, mentre osserva il male che si trova in un altro, e che lui non ha, trascura di considerare il proprio e così succede che, mentre l'anima è portata a giudicare i vizi altrui, si priva della luce per scoprire e giudicare i propri. E si accampa superbo contro i vizi degli altri in modo tanto più grave quanto maggiore è la negligenza con cui ignora i propri (et eo durius contra aliena superbiat quo sua neglegentius ignorat) ".




Comento morale a Giobbe, I, III, 60. Città Nuova Editrice/I, Roma 1992, p.295



lunedì 28 luglio 2014

Il selfie di Dio








di Mattia Ferraresi

New York. E’ ironico che siano riusciti ad assegnare una sigla anche al gruppo più eterogeneo e nebuloso d’America, gli Sbnr, “spiritual but not religious”, quelli che non rinunciano a una relazione con le cose ultramondane, le quali appagano la parte nobile dell’anima, ma non pensano che queste si manifestino attraverso riti, sermoni, preghiere, invocazioni, liturgie, comunità, inginocchiatoi, templi, sacerdoti, sacramenti o qualunque altra vestigia residuale della religione organizzata. Lo spirito, a rigore, soffia dove vuole e quando gli pare, uno lo percepisce nel frinire dei grilli sul far della sera, l’altro nello scodinzolare del cane, un altro ancora nella star-spangled banner che garrisce al vento o nello yoga a Central Park. Per altri la connessione spirituale è materia cangiante, un fatto di serendipità e umore, oggi c’è domani chissà, e chi siamo noi per giudicare? Gli Sbnr sono uniti spiritualmente in questa magica disunione.



Nel tempo in cui l’unico male assoluto socialmente riconosciuto consiste nell’insinuare che esistano assoluti, lo “spiritual but not religious” funziona a meraviglia. Conferisce un senso di profondità umana, di autenticità, argina la banalità del materialismo consumista, non costringe ad avventurarsi in affermazioni apodittiche o distinzioni teologiche, evita il ricorso all’ateismo esplicito, che in Europa si porta alla grande in società, in America già un po’ meno. E’ una posizione sostenibile ma non argomentabile, non ammette obiezioni o distinzioni razionali, è per definizione negoziabile e relativa, s’addice alle conversazioni a tavola e a quelle a bordo piscina, diventa virale sui social.



Avere un’anima spirituale da portare a spasso per le strade del mondo cinico e senza coscienza è un valore aggiunto, basta aver visto una trasmissione di Oprah per afferrare il concetto. Il sondaggio Pew sulle tendenze religiose degli americani dice che gli spirituali ma non religiosi sono il 7 per cento della popolazione, tribù che ha superato quella degli atei. In America ci sono più Sbnr che ebrei, musulmani ed episcopaliani, e il trend continua a crescere, in netto contrasto con chiese e denominazioni protestanti, che mostrano una declinante tendenza all’atomizzazione. In un certo senso è come se il corpaccione della religione americana si fosse frammentato in così tante particelle da lasciare ciascun individuo con il proprio credo tagliato su misura.



Harold Bloom aveva spiegato tutto questo già all’inizio degli anni Novanta, descrivendo l’emergere della “nazione post cristiana” nel suo “The American Religion”. La pulsione fondamentale della religiosità americana, sosteneva Bloom, non è cristiana ma gnostica, prevede la liberazione dell’io dai condizionamenti del mondo esterno attraverso la conoscenza o l’illuminazione spirituale, fenomeno intimo e solitario, che non si lascia imprigionare in una ritualità codificata. La religione afroamericana, “mistica ed emotivamente immediata”, ha dato un’impronta decisiva alla nascita della sensibilità spirituale ma non religiosa. Quello che Bloom non poteva prevedere era l’affinità profonda fra questa tendenza e il sentire della generazione contraddittoria e centripeta dei millennial, “che nell’esperienza religiosa si aspetta lo stesso livello di customizzazione che ha quando fa shopping online”, come ha detto di recente l’intellettuale Leon Wieseltier. I millennial sono culturalmente orientati ad abbracciare qualunque forma di spiritualità on demand, purché non contenga pretese universali o prescrizioni sociali – Time scrive che in fatto di matrimonio i millennial vogliono prima “testare la versione beta”, come in tutto il resto – meglio ancora se il credo rimane chiuso nel perimetro del proprio io autodeterminato. La tensione verso l’alterità non compare fra le categorie culturalmente accettabili, ma nemmeno si scorgono professioni di ateismo radicale à la Feuerbach, secondo cui l’uomo non è creato a immagine di Dio, ma viceversa. La pulsione religiosa americana è viva e multiforme e non si annoia appoggiata a uno specchio. L’icona postmoderna da venerare è il selfie.



Thomas Moore, uno dei più noti divulgatori Sbnr che mischia la psicanalisi alla sensibilità monastica cattolica, ha intitolato il suo ultimo libro “Religion of One’s Own”, la religione fai da te, perché “che tu sia religioso, ateo, agnostico, membro di una chiesa o alla ricerca puoi sempre creare la tua religione”. Non necessariamente una religione “self-centred”, il revival dell’orientalismo si è già visto negli anni Sessanta e Settanta, ma un impianto spirituale creato “attraverso i tuoi valori e gusti”. E l’altro? Non è più necessario? Le comunità non servono più? “Il mondo intero è la comunità”, somma di esseri accomunati dall’isolata ricerca del proprio io spirituale, ma non religioso.

© FOGLIO QUOTIDIANO. 27 luglio 2014



Se tutto è santo niente è male?






Un lettore domanda:


Qui [nel blog Traditio Liturgica] parliamo di "sacro", un termine e un concetto che vengono condannati e disprezzati come paganesimo da preti e da teologi. Sono ignorante e non saprei dove informarmi, quindi le chiedo: perchè questo odio verso il sacro? Perchè ritenuto un concetto non-cristiano? Che differenza tra sacro e santo, questo sì accettato? Grazie.

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Gentile signore,
le rispondo con questo post.



1) Sacro-profano e santo


Le “balle” che la Chiesa ha introdotto concetti pagani, introducendo i concetti di “sacro-profano”, le sentivo già alcuni decenni fa' e provengono, in buona sostanza, da alcune menti balzane cattoliche degli anni '70. A loro volta, queste strane idee provengono da un certo mondo protestante liberale.


Ora, ad esaminare la questione in modo un poco attento, si nota che i fautori di queste “balle” contestano l'uso di "sacro-profano" in quanto terminologie “non bibliche”. Ci si dovrebbe dunque attenere a concetti unicamente biblici, per essere autentici cristiani!


Strano modo di argomentare, dal momento che il Cristianesimo, passando nella storia, ha assunto – spesso felicemente, raramente in modo meno felice – termini dalla cultura circostante. Nel passato sono stati utilizzati dei termini pagani per la dogmatica cristiana (“persona”, “sostanza”, ecc.), termini rigorosamente non biblici. Questo fatto continua ancora oggi ed è inevitabile! Vogliamo fossilizzare, dunque, il Cristianesimo ad una mitica età dell'oro?


Ecco come i fautori del "progresso" si contraddicono palesemente: dove non vogliono invocano la purezza biblica per combattere termini divenuti tradizionali, dove vogliono invocano l'inculturazione per introdurre termini non biblici criticabili.


Tornando al nostro argomento, nei primi secoli il Cristianesimo ha utilizzato il vocabolario della filosofia pagana ma purificandolo dal paganesimo. Gli stessi concetti di “sacro-profano”, per quanto provenienti dal mondo pagano, in ambito cristiano non possono che avere un significato differente.


Il termine biblico “santo” si riferisce a Dio, a quanto egli compie; chi è toccato da Lui si definisce “l'uomo santo”; un Suo inviato si definisce “angelo santo”.


Il concetto non biblico di “sacro-profano”, se letto correttamente, fa diretto riferimento all'azione del male introdotto nel mondo da chi volta le spalle a Dio.


È “sacro”, infatti, quanto l'uomo con il suo comportamento dedica a Dio e pone sotto la sua luce. È “profano” quanto l'uomo protegge o scherma dalla luce di Dio. Infatti non è solo l'individuo a sottrarsi a Dio ma può sottrarre a Dio, in un certo senso, ogni realtà che lo circonda. L'espansione dell'odio e la sofferenza che ne nasce a causa degli uomini toccano tutto il cosmo, esattamente come l'espansione della filantropia divina da un cuore umano santificato.



Chi vive in una casa con le finestre ben tappate e la porta chiusa può ben dire che il sole va ovunque e che la luce penetra in ogni dove. Lo può dire come semplice asserzione ma la realtà dei fatti è ben differente: egli vive in una casa al buio e tutte le sue cose sono al buio con lui!

Questo esempio chiarifica il significato di "sacro" e "profano" in senso cristiano.

Riassumendo:
il termine "santo" è senz'altro un termine biblico.
"Sacro-profano" non è una terminologia biblica ma è stata utilizzata dalla Chiesa per indicare che nel mondo l'uomo ha la capacità di porre alcune cose nell'influsso divino con il suo comportamento (vedasi l'edificio ecclesiastico) e di porre altre cose più o meno distanti da Dio, sempre attraverso il suo comportamento, proiettando su di esse gli effetti negativi del suo peccato (ecco il significato di "profano").

Se si inizia a dire "questi non sono termini biblici quindi non usiamoli" facciamo come chi butta a mare l'esperienza positiva della Chiesa perché si ritiene più "furbo". Allora dovremo buttare a mare tutti i termini non biblici della dogmatica cristiana come "Persona" e "sostanza"... E infatti ci sono teologi che stanno pensando pure a questo!! Coerentemente, d'altronde!

Il Dio santo può illuminare ovunque e sostenere il cosmo con la sua azione e provvidenza ma l'uomo con il suo comportamento può gettare un cono d'ombra attorno a sé. Questo è chiaro!

La chiesa, come edificio ecclesiastico, iconizza questa divisione in modo evidente e netto perché la chiesa-edificio tradizionale insegna al fedele che ci sono ambiti della vita in cui l'uomo si allontana da Dio (divenendo “profano”) e ambiti della vita in cui l'uomo vive vicino a Dio (divenendo “sacro”).

La chiesa medioevale aveva chiare queste cose: infatti l'edificio era adibito alla preghiera e al culto, non ad attività che potessero portare lontano dall'attenzione a Dio, come divertirsi mondanamente o danzare, cose che viceversa oggi si fanno pure in chiesa.

La danza può essere occasione per godere della vita in senso mondano (profano) per cui non ha senso farla nella chiesa, edificio “icona” in cui lo sguardo interiore umano deve essere sempre fisso "ad superna" (sacro).

Perciò l'edificio ecclesiastico un tempo era consacrato ossia reso sacro, cioè adibito ad un uso unicamente per Dio. Perciò era detto “casa di Dio”, poiché l'uomo stesso era invitato a divenire come quell'edificio, casa di Dio.

2) E veniamo all'altra questione: perché un certo clero e certi teologi odiano i termini "sacro-profano"?

Conosco oramai da qualche decennio il clero a cui lei fa riferimento e so cosa dico: costoro che tanto si sollazzano e deridono con senso di superiorità il termine "sacro" tendono a non essere più... clero!



Essi nell'anima si riducono a semplici laici che dicono la messa. Anzi, per un certo verso, sono peggio dei laici poiché questi ultimi normalmente non danno lezioni strampalate se non altro per non parere ridicoli!

Questo clero dice: "Dio è santo e tutto quello che viene da Dio è santo. Non ci sono dunque esclusioni nel mondo e non possiamo accettare la divisione dicotomica tra un sacro (ambito decretato dagli uomini) e un profano (ambito decretato pure dagli uomini). Tutto è santo perché esce dalle mani sante di Dio".


Costoro non capiscono una cosa elementare: nel mondo è entrato il peccato, ossia un cono d'ombra con cui Dio viene allontanato dagli uomini e tale cono è sempre efficace anche se non avrà l'ultima parola.
Costoro dimenticano che negli stessi vangeli esiste un'altra "divisione dicotomica": mondo-Dio. In san Paolo ne esiste un'altra ancora: carne-spirito. Queste divisioni, a loro modo, ci ricordano quella di "sacro-profano".
Come la mettiamo?

Perché questo tipo di clero tende a non accettare questo insegnamento tradizionale? Temo che ci sia una sola semplice risposta: perché per costoro “di fatto” non esiste il peccato inteso in senso tradizionale. La prova ce la offre il fenomeno molto accentuato (rispetto ad un tempo) di un clero che tende a godersi il mondo invece di starsene in ginocchio, come poteva fare un curato d'Ars...

Dimenticando la distinzione pratica tra peccato e grazia, non si può che deridere la distinzione profano-sacro. Allora ci si scusa, ci si autocanonizza e si canonizza chiunque, come se Dio fosse un pagliaccio che tutto accetta e tutto accoglie.

Si contrappone al "sacro-profano" la coppia "santo-peccato" e si da al termine "peccato" un contorno sempre meno definito fino a farlo divenire "la scelta di chi non ama" che vuol dire tutto e niente al contempo.
Di fatto, però, il termine peccato, in senso tradizionale, non è più accolto e questo pure da molto clero. Di qui l'odio istintivo per chi lo ricorda anche indirettamente!

Mi spiace di sembrare duro, ma queste sono autentiche eresie. Qui non è una questione di dettagli: dietro al rifiuto di una terminologia (adducendo speciose motivazioni "bibliche") pare sottendersi di fatto il rifiuto dell'impatto pratico del peccato finendo ad ammettere l'inesistenza del peccato in senso tradizionale (se tutto è santo niente è male!). Ne consegue che l'uomo com'è, qualsiasi cosa fa', va bene, basta che obbedisca alla sua coscienza (come diceva Bergoglio nel suo famoso colloquio con Scalfari). Ed ecco che tutto si spiega!

Poi è sovranamente buffo che dei sacerdoti (la radice di questo termine viene da sacro) siano contro il sacro! È proprio come essere contro se stessi!
Solo dei "sacerdoti-non-sacerdoti" possono fare questo, dal momento che un sacerdote autentico non lo farebbe mai!

D'altronde, nel mondo cattolico fino a 50 anni fa', si pensava al sacerdote come all'uomo dell'altare, quindi del sacro, del "dedicato a Dio", del "sottratto alle cose mondane".

Oggi, guarda caso!, non è più così e infatti i "preti-non-preti" deridono la distinzione "sacro-profano", deridendo in tal modo tutto il passato plurisecolare della Chiesa che la utilizzava e deridendo le stesse Chiese ortodosse di oggi che usano la medesima terminologia!

L'altare, segno di Cristo, del sacro al quale si riferisce il sacerdote, è sostituito da una tavola che spesso non ha neppure la pietra consacratacon le reliquie dei martiri, il sacerdote non si "attacca" più a questo simbolo ma si rivolge sempre più al "popolo" antistante. Non è più il sacerdos sull'altare ma il presidente dell'assemblea!
Questa realtà tende ad essere una nuova religione e, in quanto tale, non può che coerentemente odiare il proprio padre e la propria madre che parlavano in termini di "sacro e profano".

Questo tipo di teologi e di clero fanno come coloro che pensano di arrivare alla cipolla autentica sfogliando tutti gli strati di una cipolla: non rimarrà loro nulla in mano!

Concludendo, mi permetto di darle un consiglio, se lo accetta: li eviti e frequenti gente più seria!





Traditio Liturgica