mercoledì 31 agosto 2016

Il cardinale Burke: 'molto discutibile' affermare che l'Islam adora lo stesso nostro Dio ed è una religione di pace. Nostra Aetate non è documento dogmatico




Ecco le recenti dichiarazioni del Cardinal Burke, su LifeSiteNews, che lo presenta come ex Prefetto della Segnatura Apostolica, il più alto Dicastero Vaticano ed ora patronus del Sovrano Ordine Militare di Malta. I passaggi sotto indicati, tratti dall'articolo, sono nella traduzione a cura di chiesaepostconcilio.blogspot.it




L'occasione delle dichiarazioni è stata la presentazione ai media di Speranza per il mondo: riunificare tutte le cose in Cristo, un libro-intervista recentemente pubblicato in collaborazione col giornalista francese Guillaume d'Alançon in cui il cardinale pondera su una miriade di argomenti controversi come la contraccezione e il suo rapporto con l'aborto, i bagni transgender, la Santa Comunione ai divorziati risposati, e i problemi all'interno della Chiesa cattolica.

Ci conforta che anche in questa occasione il nostro Cardinale ci confermi. Ciò riguarda il fatto che egli mette chiaramente in discussione la validità dell'affermazione che Cattolici e Musulmani preghino lo stesso Dio e che l’Islam sia una religione di pace.

Infatti e in aggiunta, rispondendo alla precisa domanda sull'affermazione che cattolici e musulmani adorano lo stesso Dio e se i cattolici siano tenuti a credere alla definizione dell'Islam del Vaticano II, ci conferma anche col dire che la Dichiarazione “Nostra Aetate” sul rapporto con le altre religioni non è dogmatica.

Essa afferma che “Cattolici e Islamici adorano l’unico Dio di Abramo; pur non riconoscendo Gesù come Dio, lo venerano come profeta, onorando anche sua madre Maria”. Inoltre “hanno in stima la vita morale, e rendono culto a Dio soprattutto con la preghiera l’elemosina e il digiuno”. Il documento invita quindi a superare i dissensi ed inimicizie del passato, e a cercare una mutua comprensione e una promozione comune di giustizia sociale, valori morali, pace e libertà.

L'intervistatrice replica che se Nostra Aetate non è dogmatica può portare il gruppo tradizionalista della Fraternità San Pio X - attualmente in status canonico irregolare - alla piena comunione con Roma. Molti cattolici considerano il controverso documento del Vaticano II in quanto poco chiaro o addirittura in contrasto con l'insegnamento della Chiesa sul cattolicesimo come l'unica vera fede.

Il fatto che i cattolici debbano abbracciare l'Islam come una religione di pace o essere considerati dissidenti è stato recentemente argomento di dibattito tra Robert Spencer di JihadWatch.org e monsignor Stuart Swetland del Donnelly College. Il primo sostiene che la posizione di Spencer che l'Islam è intrinsecamente violento è in contrasto con gli insegnamenti magisteriali degli ultimi papi. I sostenitori di Spencer sottolineano che i papi hanno avuto opinioni diverse sull'Islam nel corso degli anni e che affermare una certa natura dell'Islam non è legata alla fede e alla morale cattolica e, pertanto, non è vincolante per i cattolici. Si dice anche che i cattolici dovrebbero conoscere l'Islam stesso per determinarne la natura.

Il card. Burke dichiara che gran parte dell'atteggiamento odierno nei confronti dell'Islam è di stampo relativista e non ritiene sia vero che "tutti adoriamo lo stesso Dio” e che “tutti crediamo nell'amore”.
Se “Dio è amore”, come può essere “lo stesso Dio che comanda ai musulmani di macellare gli infedeli per stabilire il proprio dominio con la violenza?”, chiede Burke.

Egli afferma: “Non credo sia vero che tutti adoriamo lo stesso Dio”. “Dire che tutti crediamo nell'amore semplicemente non è corretto”.

“Tutto ciò che ho detto circa l'Islam, tra cui in particolare quello che c'è nel libro, si basa sui miei studi dei testi dell'Islam e anche di quelli dei loro commentatori”, ha detto il cardinale. Il relativismo religioso che mette sullo stesso piano l'insegnamento cattolico e musulmano sulla natura di Dio non “rispetta la verità” su ciò che ogni religione insegna, ha detto. “Questo non aiuta [i fedeli]”.
Burke esorta ad “Esaminare attentamente ciò che l'Islam è, e ciò che la nostra fede cristiana ci insegna”, perché non sono la stessa cosa.

A detta del Cardinale, nulla è cambiato nell'agenda islamica dai secoli passati, cioè dal tempo in cui i Cristiani furono chiamati alla difesa della sacra Verità, vedendo che essa era attaccata dall'Islam.










In occasione del terremoto Enzo Bianchi rispolvera una vecchia eresia

 

   
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Un terremoto si può considerare un castigo di Dio? Non certamente come castigo dei peccati commessi dalle vittime, ma come conseguenza del peccato originale, come è la sofferenza; e a queste conseguenze nessuno sfugge : persino Cristo e la Madonna, infatti,  benché esenti dal peccato originale e dalle sue conseguenze, furono soggetti alla sofferenza.
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Dio castiga e usa misericordia [Tb 23,2]
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In Avvenire del 27 agosto scorso [vedere QUI] Enzo Bianchi ha pubblicato alcune sue riflessioni sul recente terremoto, e pensando di consolare gli afflitti e di dare una risposta illuminante al perchè Dio ha permesso una tale sciagura, rispolvera la ben nota eresia, secondo la quale «Dio non castiga», falsità contraria alla sana ragione, alla Sacra Scrittura, al Magistero della Chiesa e all’insegnamento di tutti i Santi; ma, secondo lui, Dio è sempre e solo «misericordioso» con tutti e porta tutti, credenti e non credenti, in paradiso. Un’asserzione dolciastra del genere, gravissima sulle labbra di chi dovrebbe essere un uomo di Dio, toglie agli sventurati quell’impareggiabile conforto che viene dalla nostra fede, aggiunge amarezza ad amarezza, lasciandoli nell’angoscia, e spinge a bestemmiare un Dio che sarebbe «buono» nel mandare i terremoti.
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Cerchiamo di rimediare alla “droga tagliata male” [1] spacciata da Bianchi proponendo il vero insegnamento evangelico, e supponendo nel lettore la disponibilità all’ascolto della Parola di Dio. Il mistero cristiano non esclude la ragione, ed è meglio una medicina amara che una bevanda dolce ma avvelenata. Diciamo allora innanzitutto che Bianchi si dimentica che la misericordia solleva dalla sofferenza o la impedisce ; si dimentica altresì che, in linea di principio, la sofferenza è la pena del peccato. E quindi la sofferenza non dipende dalla misericordia, ma dalla giustizia. Sicché, chiamare «misericordioso» uno che mi maltratta, è una presa in giro. Dunque, quando Dio permette le sciagure, non dimostra immediatamente la sua misericordia, ma la sua giustizia. È assurdo e derisorio tentare di spiegare la sofferenza con la sola misericordia trascurando la giustizia. Questo non vuol dire che quando mi capita una disgrazia, ciò sia sempre la punizione divina per un peccato che ho commesso. Ciò può essere in certi casi; ma non è detto che sia sempre così. Infatti, in realtà, in questa vita accade che ci siano dei malfattori di professione che la fanno franca e degli innocenti senza colpa alcuna che sono colpiti da sventure.
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Come risulta infatti dalla rivelazione cristiana, tutte le pene della vita presente, infatti, sia che colpiscano i giusti, sia che colpiscano i peccatori, sono tutte nella loro lontana origine protologica, castigo di Dio, conseguenze del peccato originale e in tal senso giuste pene, anche se di fatto c’è chi è colpito poco e c’è chi è colpito molto. Ma anche questo disordine è conseguenza del peccato originale. A parte le sofferenze causate dai peccati o dalla negligenza o dalla ignoranza degli uomini. Del resto, bisogna fare attenzione a che cosa intende dire la Sacra Scrittura, quando parla di “castigo di Dio”. Essa usa un linguaggio metaforico, come del resto è il caso della parola “ira”, tratto dai rapporti umani, ma che va opportunamente adattato nel caso di Dio, per non rendere ripugnante l’idea di un “castigo divino”.
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L’espressione “castigo divino”, infatti, materialmente presa, fa pensare all’atto di un giudice che irroga una pena convenzionale ad un malfattore. Invece la pena del peccato non è un male causato da Dio nel peccatore. Dio non fa male a nessuno. La pena del peccato non è altro che il male o il danno che il peccatore stesso, col suo peccato, si tira addosso. Sarebbe come dire che chi beve troppo vino è “punito” con la cirrosi epatica.

Dio non “manda” nessuno all’inferno come farebbe un giudice che manda il reo in prigione, ma all’inferno ci vanno solo quegli stolti, la cui superbia è tale che preferiscono penare lontano da Dio che esser beati con Lui in paradiso. Se il nostro bene è l’essere uniti a Dio, è logico che il nostro male sia il rifiuto di unirci a questo Bene. Tuttavia, la fede ci insegna a vedere all’opera la misericordia di Dio anche nel momento della sofferenza, in quanto per noi cristiani questo momento ci richiama il castigo del peccato originale, e forse anche al castigo dei nostri peccati. Ma il cristiano non si ferma qui. Accetta serenamente quanto gli accade, perché sa approfittare di questa sofferenza per unirsi con amore, fiducia e speranza a Cristo crocifisso, che espia per noi, ci ottiene la misericordia e il perdono del Padre per i nostri peccati, per cui, con atto di grande generosità, ma anche nel suo interesse, può giungere ad espiare in Cristo anche per i peccati degli altri.
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La bontà divina non si manifesta solo nelle consolazioni, ma anche con la correzione. Anche questa è misericordia. E se soffriamo da innocenti, non turbiamoci, pensiamo a Cristo, che, innocente, ha sofferto ed ha espiato per la nostra salvezza e uniamo la nostra sofferenza alla sua per fare la nostra parte per la salvezza del mondo. Cristo col suo sangue ha pagato per noi il debito del peccato ― satisfecit pro nobis, come dice il Concilio di Trento ― , ma questo non ci impedisce di dare il nostro contributo. Quindi, in questa luce di fede, quella che è l’esperienza del castigo divino si trasforma nell’esperienza della sua misericordia. Infatti è per misericordia che il Padre ci ha donato Gesù, nel Quale e grazie al Quale noi possiamo espiare per i  nostri peccati. E non solo possiamo essere salvi dal peccato (gratia sanans), ma anche diventare «figli di Dio» [I Gv 3,1, gratia elevans], partecipi nel Figlio della vita del Figlio.
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Tuttavia bisogna tener presente che, benchè Cristo offra a tutti la possibilità di salvarsi mediante la croce, non tutti di fatto accettano questa offerta, per cui non tutti si salvano. Il che vuol dire che Dio offre a tutti la sua misericordia salvifica, a patto che, pentiti dei loro peccati, ne facciano penitenza. Per cui, come osserva la Lettera agli Ebrei [Eb 10, 26-31], se già merita castigo la disobbedienza alla legge naturale, che qui essa chiama «Legge di Mosè», ben più grave castigo meriterà il rifiuto della misericordia divina a causa della ribellione alla legge di Cristo. Cristo è chiarissimo nell’insegnarci che alcuni accoglieranno questa misericordia e si salveranno, mentre altri, per la loro disobbedienza, la rifiuteranno e si danneranno[2].

Il Papa dovrebbe ricordare queste cose, altrimenti la sua predicazione della misericordia rischia di essere fraintesa e che ne approfittino i furbi, che i buoni vengano sconcertati, che il sistema giudiziario venga paralizzato, e che agli oppressi non venga resa giustizia, mentre vengono ostacolati la riforma e il miglioramento dei costumi e vengono favoriti il lassismo morale e la corruzione. Inoltre, dato che i terroristi dell’ISIS, secondo la visione rahneriana, sono «cristiani anonimi», oggetto della divina misericordia, possiamo accogliere la loro proposta di sostituire il Corano al Vangelo, tanto più che, stando alla teologia di Rahner, Vangelo e Corano si pongono sul piano «categoriale», dove un concetto vale l’altro, mentre tutti possediamo l’ «esperienza trascendentale di Dio», che è la cosa che conta e che garantisce a tutti la salvezza.
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Restar sordi agli avvertimenti del Signore per una falsa idea della misericordia, cancellare dalla Bibbia i versetti che parlano di castigo, come purtroppo oggi molti fanno, col credere che tutti si salvano, li illude di poter regolare la propria condotta a proprio piacimento, a sciogliere ogni freno morale e a peccare liberamente, con la convinzione dell’impunità e che comunque nell’inferno non c’è nessuno. Ma siccome queste idee ignorano l’avvertimento del Signore, questa loro vana fiducia, come già avvertì il Concilio di Trento per i luterani, non serve a nulla, per cui, se non si pentiranno in tempo, finiranno effettivamente nell’inferno. L’amore per la virtù non basta rendere virtuosi, se non si pensa alle conseguenze della pratica del vizio.
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Il momento della sventura ricorda al cristiano le conseguenze del peccato originale e la possibilità di redenzione che gli è data da Cristo, per cui, se avesse qualche colpa da scontare, può cogliere l’occasione per regolare i conti col Signore. E se fosse innocente può prender occasione per offrire la sua croce per la salvezza dei peccatori.

Noi dobbiamo certamente operare il bene per amore del bene e in vista del premio celeste che è la visione beatifica di Dio. L’esercizio della virtù è certamente già di per se stesso sorgente di gioia; ma la virtù non è, come credevano gli stoici e Kant, fine o premio a se stessa; l’esercizio della virtù non è ancora il contenuto della felicità, ma solo il mezzo per il suo conseguimento, che sta nel raggiungimento del fine ultimo e sommo bene, che consiste nell’unione con Dio.
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La felicità dell’uomo non è immanente all’uomo, ossia non consiste in un atto dell’uomo, per quanto sublime e perfetto, ma nel fatto che l’uomo, per libera scelta, si unisce per sempre ed intimamente a un bene esterno, personale, trascendente ed infinito, che è Dio. Ma appunto questo atto sarà perfetto in quanto è atto col quale l’uomo si congiunge pienamente ed eternamente con Dio nella carità.

L’agire per il timore del castigo è cosa saggia e logicamente connessa all’agire disinteressato, per puro amore della perfezione e di Dio. Infatti non si può scindere l’amore per il bene dalla fuga o dall’odio del male. Il pensiero che se faccio la tal cosa, Dio mi punisce o ne avrò un danno, mi spinge a fare il bene.
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La confidenza in Dio e nella sua misericordia dà slancio alla nostra azione, ci rende «semplici come colombe», ferventi nella carità, tenaci nelle convinzioni, coraggiosi nelle imprese, mentre il pensiero che alcuni sono dannati e che io potrei dannarmi, presente in tutti i Santi, è un pensiero salutare, che ci spinge al bene, ci rende «prudenti come i serpenti» [cf. Mt 16,18], modesti nelle opinioni, consci della nostra debolezza, vigili nell’agire, cauti ed avveduti nei pericoli, avvertiti delle insidie, umili, pronti a correggerci, penitenti, forti nelle tentazioni e nelle prove, circospetti e diffidenti nelle situazioni infide, facendoci evitare la precipitazione, l’ingenuità, la dabbenaggine, l’eccessivo ottimismo, la presunzione, la troppa sicurezza, la millanteria e l’arroganza.
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È tuttavia l’amore del bene che fa odiare il male. Per questo, il motivo principale dell’azione buona è l’amore di Dio e non il timore del castigo. Ma d’altra parte, occorre anche evitare quella falsa sicurezza che tutti si salvano. Il timore è un motivo solo sussidiario, e tuttavia necessario, appunto per evitare quella falsa sicurezza. Timore che non è paura, ma amore e rispetto.

Un terremoto si può considerare un castigo di Dio? Non certamente come castigo dei peccati commessi dalle vittime, ma come conseguenza del peccato originale, come è la sofferenza; e a queste conseguenze nessuno sfugge: persino Cristo e la Madonna, infatti,  benchè esenti dal peccato originale e dalle sue conseguenze , furono soggetti alla sofferenza.
Abbiamo bensì esempi biblici di città castigate per i peccati dei loro abitanti. Ma qui abbiamo a che fare con concezioni primitive del castigo, per le quali buoni e cattivi erano coinvolti in un unico disastro. La Scrittura preciserà ad un certo punto che ognuno viene castigato per le proprie colpe [Ger 31, 29ss] e non per quelle di altri.

Un evento così grave come un terremoto, nel momento in cui mette alla prova la nostra solidarietà e misericordia per i bisognosi e stimola la ricerca di rimedi o di difese da tante disgrazie, si può e si deve considerare come una croce che Dio ci manda per la nostra purificazione e per la conversione dei peccatori. Si può pertanto vedere in esso un segno della sua misericordia, in quanto cogliamo occasione da esso per unirci a Gesù crocifisso per la salvezza del mondo.
Molti fenomeni di una natura creata perfetta da Dio ma resa imperfetta dall’uomo e quindi matrigna, ci procurano sventure, che stanno tra le dolorose conseguenze del peccato originale, benchè il Creatore abbia voluto porre in essi delle regole e delle leggi, alle quali essi obbediscono infallibilmente. Ma nella futura resurrezione godremo di una natura madre, che avrà ritrovato l’armonia con l’uomo e il significato originario,voluto da Dio, della sua esistenza.
Varazze, 29 agosto 2016
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NOTE
[1] Nel contesto, la parola “droga” è usata come sinonimo di eresia, altrettanto lo spaccio inteso come “spaccio di eresie”
[2] Cf il mio libro L’inferno esiste. La verità negata, Edizioni Fede&Cultura, Verona 2010.








 

Quella sinistra rabbia che si sente ad Amatrice

Suort Mariana
 

“No, non è il momento di parlare  loro di Dio…”  così più  o meno  (cito a memoria)  ho sentito per radio preti, frati e  un vescovo   che “davano conforto” a terremotati, a  quelli che ad Amatrice  hanno perso i familiari, o anche solo la casa, la roba e l’auto.  Il tono, fra timoroso e depresso, faceva capire perché:  i sopravvissuti gli si erano rivoltati contro.  I bravi religiosi avevano steso una mano e  quelli glie l’avevano morsicata,  rabbiosi; pieni di rabbia contro Dio, ovvio.

Ahimé, la cosa è  comprensibile. Da cinquant’anni la Chiesa proclama un Dio ottimista  e tutto bontà; un Dio  che non castiga mai, al punto che anche l’inferno è vuoto, e guai se provate a dire che malattie, guerre, sciagure possono essere “punizioni e avvertimenti”; un Dio progressista e benefico;  la Messa non è più “sacrificio della croce”  ma “cena  pasquale”, non  evoca la morte giudiziaria  nel supplizio, ma la resurrezione.  Dal Concilio, la Chiesa ha assicurato   che non è l’uomo nato per servire Dio, ma il contrario:  Dio è al servizio dell’uomo : “La sola creatura che Dio ha amato per sé stessa”, canta la Gaudium et Spes:  “tutti i beni della terra debbono ordinarsi in funzione dell’uomo, centro e vertice di tutti questi”, che “è stato costituito  signore della intera creazione visibile per governarla e usarla glorificando Dio”.
 
Poi arriva il terremoto, muoiono trecento familiari ed  amici, bambini e nonnette, e tu scopri, povero frate o prete, che i sopravvissuti non vogliono “le  consolazioni della fede”  (quali poi?), ma una cosa precisa: sapere perché Dio, tutto misericordia e onnipotenza,  non ha salvato gli amici e i parenti, o la Fiat Punto schiacciata dal pietrisco, o le persone morte sotto le solette di cemento armato usate come tetti.   Altrimenti vada al d–, lui e il suo Dio, questa non gliela perdoniamo! Ma quali preghiere!

Spero si siano resi conto, frati e suore e qualche bravo vescovo che hanno avuto la mano addentata da questi (chiamiamoli) fedeli, della triste realtà:  che quello  che provano a predicare dal Concilio in poi, il Dio al servizio dell’uomo “centro cima, creatore e governante della creazione” è un falso Dio. Che può  funzionare più o meno nelle giornate della gioventù,  nei raduni festosi e  le domeniche in piazza san Pietro (più o meno), ma non ha nulla da dire  a chi ha perso  le figlie sotto le macerie; non ha la parola giusta per “spiegare”   quel che è successo  e succede da migliaia di anni all’uomo, il mistero della sofferenza inflitto da quella natura di cui sarebbe “il coronamento” e il signore. Il Signore è un altro, e  si vede qui.

“perché soffrire, se è inutile?”

Terribile  la condizione di una Chiesa ammutolita, morsicata dai ‘fedeli’. Terribile la condizione dei fedeli, degli uomini d’oggi davanti alla tragedia: subire una irrimediabile sofferenza senza motivo, di cui non ci  si sa dar ragione, che si rigetta invece di accettarla, che non porta alcuna espiazione, è già un condizione  molto simile all’inferno; se ci aggiungi le imprecazioni, la rabbia e le bestemmie,  la somiglianza con la dannazione eterna  diventa quasi identità.
 
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Lo dico dopo aver letto il blog di Costanza Miriano, grande persona credente. Essa aveva lanciato una campagna  di preghiere, fra gli amici credenti, perché raccomandassero al Padre le anime di coloro che, essendo morti nel sonno e senza il tempo di raccomandare le anime a Dio, avevano bisogno di questo aiuto.
 
Ebbene: il blog è stato investito da migliaia di “bestemmie” e “insulti surreali”; gente che “schiumando di rabbia e vomitando offese”  le lanciava accuse  più che irrazionali, deliranti psichiatriche.  Per lo più sul tono del politicamente corretto: pregare per i morti “violava la privacy” dei  morti medesimi;   offendeva  la loro autonomia  e libertà  (“come ti permetti, se  loro non credevano?”), senza riflettere un attimo che un cadavere non ha più autonomia né libertà  alcuna.  Alcuni hanno minacciato di denunciarla,  supponendo (non del tutto a torto)   che qualche procuratore  avrebbe aperto una pratica su questo  intollerabile sopruso, consistente nel raccomandare a Gesù le anime di estranei, approfittando del fatto che “Non possono rifiutare” né difendersi (da che? Dalla salvezza  eterna…).  La Costanza segnala “tra i più arrabbiati diversi sedicenti cattolici”.  Quelli suppongo che hanno “accolto in pieno la novità del Concilio”; ossia che l’uomo da Dio non deve aspettarsi che la gioia; perché infatti soffrire, se è inutile?
E’ la domanda che risuona nell’inferno.
 
Ma questa rabbia mi è ben nota: non posso affrontare il tema della religione e della sua necessità, senza suscitare (non nel mio sito, ma in altri che mi riprendono) la stessa canea di rabbiosi  scherni, di derisioni, di odio – tutto in misura eccessiva, palesemente immotivata.
Sono interventi che mi dispiace non aver raccolto, per mostrare la loro demenzialità sbavante; sono esorcismi di povere anime perse, che  con l’insulto e la derisione esorcizzano la paura che le anima: e se fosse vero? Se dovessi cambiar vita? Anime che non vogliono esser salvate, che non vogliono che si preghi per loro – un altro ingrediente dell’inferno.
 
Il punto è che questo ribollire di rabbia, odio e terrore, questo  pandemonium di cui frati e preti  hanno fatto esperienza andando  tra “la gente comune” colpita da una sciagura, ci metterà poco a coagularsi in azione. Azione collettiva,  di piazza, o legislativa. Tra quei miei lettori sbavanti c’è  chi si è stupito: come mai al mio paese la chiesa è più grande  del municipio (perché c’era da secoli prima…ma lui, ignorante come scarpa scalcagnata, sente questo come un sopruso – un sopruso contro la  laicità secolarizzata, la modernità in cui vive  come un insetto nel formaggio). Un altro, a proposito degli attentati-strage islamici, approfitta per ululare: “Bisogna vietare tutte le religioni!
 
Sono la causa dell’intolleranza e delle guerre! Milioni di vittime dell’Inquisizione!”.
Prima o poi, più  prima che poi, questo ululare e strillare   diverrà atto legislativo; il parlamento lo approverà;  magari sotto la  pressione ‘popolare’ che avrà cominciato ad ammazzare suore e preti e a distruggere chiese.
 
Non voglio evocare qui il terzo segreto di Fatima, o le visioni  di Cornacchiola. Mi par d’aver capito che quei preti ad Amatrice e dintorni abbiano sentito un pericolo sconosciuto, estremo.
“Voi siete il sale della terra; ma, se il sale diventa insipido, con che lo si salerà? Non è più buono a nulla, se non ad essere gettato via e calpestato dagli uomini”. 
M’ero sempre domandato   perché il sale insipido non bastava che fosse gettato via, ma sarebbe stato “calpestato dagli uomini”. Temo di averlo più chiaro.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
http://www.maurizioblondet.it
 
 
 
 

martedì 30 agosto 2016

Non c’è Europa senza Cristo


 
   
L’anima cristiana del continente nel disegno dei padri fondatori. La profezia di Romano Guardini: “Se perde questa sua essenza, non avrà più nulla da significare”

di Matteo Matzuzzi
 
L’Europa, in fin dei conti, ha iniziato a crollare definitivamente nei primi anni Duemila, quando il presidente della Convenzione europea, l’organismo incaricato di studiare una Costituzione per l’Unione, Valéry Giscard d’Estaing, rifiutò di aprire una lettera che Giovanni Paolo II gli aveva fatto recapitare. Un messaggio in cui il vecchio Papa polacco implorava quantomeno di considerare l’inserimento d’un riferimento alle radici giudaico-cristiane del continente nel testo poi abortito. “E’ bene che la tenga in tasca e non me la consegni”, avrebbe detto Giscard al latore della missiva secondo quando ebbe a dire monsignor Rino Fisichella, citando fonti fidate. Quel gesto dell’ex capo dello stato francese non era un semplice barcamenarsi tra gli opposti interessi e il mantra laicista tanto in voga a Bruxelles, che si cullava nella convinzione che il multiculturalismo e l’applicazione di ricette tutte concordi nel ricacciare la religione a fatto privato – quasi fosse l’iscrizione a un club di caccia – avrebbero portato in terra il regno della pace perpetua. Rifiutare quella lettera significava rimuovere le fondamenta stesse del progetto comunitario, che aveva nel fatto cristiano il suo pilastro fondamentale. Questa, almeno, era l’Europa immaginata da Robert Schuman, uno dei suoi padri fondatori il cui nome tanto campeggia sulle facciate dei palazzi e cui tante vie e piazze sono dedicate nel cuore politico dell’Unione. L’Europa che “o sarà cristiana o non sarà”, frase poi ripresa decenni più tardi proprio da Giovanni Paolo II.
 
Schuman aveva pensato un’Europa fondata non tanto e solo sul collante economico, bensì sul comune terreno culturale, che a suo giudizio non poteva fare a meno del portato valoriale incarnato dal cristianesimo. “Tutti i paesi europei sono permeati dalla civiltà cristiana. Essa è l’anima dell’Europa che occorre ridarle”, disse, quando ancora le chiese erano popolate e a nessuno veniva in mente di proporre la rimozione della croce dallo stendardo di Tolosa perché offensiva nei confronti dei fedeli di altre religioni (o culti, come più sobriamente si dice oltralpe). L’Europa delle cattedrali (definizione sempre di Schuman) come emblema caratterizzante di quel che avrebbe dovuto essere, insomma. Ma la visione dello statista francese – al pari di quella di Konrad Adenauer e Alcide De Gasperi – era laica: niente a che vedere con rivendicazioni confessionali o con intenzioni più o meno manifeste di imporre il cristianesimo quale religione comunitaria. Nessuno spirito di revanche crociata né desiderio di brandire vessilli identitari a definire un fortino da purificare e preservare da attacchi e infiltrazioni esterne.
 
Una visione che sarebbe stata condivisa dal teologo Romano Guardini, che nelle sue dense ma al contempo brevi riflessioni sull’Europa (raccolte qualche anno fa dalla casa editrice Morcelliana) delineava le basi per una costruzione comune che potesse avere successo e respiro. “Se quindi l’Europa deve esistere ancora in avvenire, se il mondo deve ancora aver bisogno dell’Europa”, scriveva Guardini, “essa dovrà rimanere quella entità storica determinata dalla figura di Cristo, anzi, deve diventare, con una nuova serietà, ciò che essa è secondo la propria essenza. Se abbandona questo nucleo, ciò che ancora di esse rimane, non ha molto più da significare”. Silvano Zucal, grande esperto della materia e che di quella raccolta scrisse la premessa, osservò che le meditazioni di Guardini, “frutto di una riflessività e d’una originalità straordinarie, dicono che solo l’Europa poteva diventare non solo un ‘destino’ di ricomposizione per la sua personale identità duale, ma anche un compito etico da consegnare al futuro dei popoli europei fuoriusciti dall’epoca tragica segnata dalle guerre, dai totalitarismi e dalla macchia indelebile della Shoah”.
 
Già nel 1980, in un’omelia tenuta a Cracovia, l’allora cardinale Joseph Ratzinger (a Guardini assai legato, tanto da citarlo perfino nel suo ultimo discorso prima di lasciare per sempre il Palazzo apostolico, nel 2013) diceva che “ogni popolo europeo può e deve riconoscere che la fede ha creato la propria patria e che perderemmo noi stessi sbarazzandoci della nostra fede”. Si trattava di ribadire il concetto che l’Europa com’è oggi, sopravvissuta a secoli di guerre e disfacimenti di piccoli e grandi principati, è opera della fede cristiana insieme alla filosofia greca e al pensiero romano.
 
Il problema, mai come ora così attuale e decisivo, è capire cosa è l’Europa. Parlando a Berlino nel 2000, in pieno dibattito sulla necessità (o meno) di riconoscere l’impronta giudaico-cristiana nella Costituzione europea, Ratzinger spiegò che l’Europa è in primo luogo un concetto culturale e storico, e solo in un secondo tempo indica una realtà geografica. Guardini l’aveva anticipato di quasi mezzo secolo. Già settantenne, il teologo e filosofo italo-tedesco, parlando all’Università di Monaco, chiariva che “l’Europa non è un complesso puramente geografico, né soltanto un gruppo di popoli, ma un’entelechia vivente, una figura spirituale operante”.
 
Un qualcosa in movimento, dunque, che si è sviluppato una storia “che passa per quattromila anni e a cui non si può finora paragonare nessun’altra ricchezza di personalità come di forze, in audacia d’azioni come in profondi movimenti di destini sperimentati, in ricchezza di opere prodotte come in pienezza di significato immessa in ordini di vita creati”. Certo, avvertiva Guardini, “nessuna forma di vita è eterna”. Tuttavia, “la struttura essenziale europea c’è; la vediamo anzi in ogni gesto, la percepiamo in ogni parola, la sentiamo con intensità nuova, dolorosa in noi stessi. Così siamo fiduciosi che continuerà e sarà soggetto di storia”. A patto che esamini “se stessa con la più decisa serietà” e rifletta “sul suo proprio essere”. Si tratta semmai di ridestarla, di considerare le tante cattedrali che pullulano le città non solo come vecchi musei, ma come simbolo di una grande storia comune. Utile sarebbe, forse, “farla finita con la neutralizzazione di ogni religione e di ogni etica sostantiva”, come diceva a questo giornale il cardinale Angelo Scola il 4 agosto. Le religioni, aggiungeva l’arcivescovo di Milano, “non vanno pensate come soggetti che cercano tutele, ma come realtà vitali capaci di sviluppare una soggettività pubblica, liberamente assunta e il più possibile cordialmente dialogata. In quest’età post secolare in cui, con la modernità, è stato abbandonato il riferimento a Cristo come senso di un cammino, bisogna riconoscere che tutti i tentativi fatti per sostituirlo sono falliti. Basti rifarsi al discorso del crollo delle grandi narrazioni”.
 
Manca, scriveva Guardini nel lontano 1955, “ciò che è più intimamente decisivo: la figura di Cristo. E non nel senso che un determinato gruppo di popoli l’avrebbe accolto come maestro religioso, il loro carattere peculiare però sarebbe stato determinato anche senza questo; ma diventò ciò che è, perché il suo spirito per quasi due millenni fu attivo fin nella loro più intima profondità e nella loro più delicata finezza”. L’essere di Cristo, continuava il teologo, “ha liberato il cuore all’uomo europeo. La sua personalità gli ha dato la capacità straordinaria di vivere la storia e di esperire il destino. La sua serietà, che lo volesse o no, ha sostenuto l’opera dello spirito europeo”. Affermazioni nette che paiono stridere con lo stato dell’Europa odierna, mostro burocratico più che casa dei popoli, incapace di rispondere alle sfide essenziali che le si pongono dinanzi e che giorno dopo giorno è minacciata da venti ostili che ne preconizzano lo sgretolamento finale.
 
Non è un caso che alla questione sia dedicato l’annuale incontro degli allievi del professor Ratzinger, che si stanno incontrando proprio in questi giorni a Castel Gandolfo per discutere proprio di Europa. Alla fine, come sempre, il tema è stato scelto da Benedetto XVI, benché “con una certa esitazione”, ha rivelato padre Stephan Horn, coordinatore dello Schülerkreis, in un’intervista concessa ad Acistampa. “Quando lo ha scelto, ha posto la domanda: ‘E’ ancora viva l’Europa? C’è ancora una Europa? Esiste veramente l’Europa?’”. Affermazioni che rievocano quelle di Papa Francesco, pronunciate all’atto di ricevere il prestigioso premio Carlo Magno, lo scorso maggio: “Che cosa ti è successo, Europa umanistica, paladina dei diritti dell’uomo, della democrazia e della libertà? Che cosa ti è successo, Europa terra di poeti, filosofi, artisti, musicisti, letterati? Che cosa ti è successo, Europa madre di popoli e nazioni, madre di grandi uomini e donne che hanno saputo difendere e dare la vita per la dignità dei loro fratelli?”.
 
Non è banale pessimismo, quello di Bergoglio e Ratzinger, bensì la necessità di comprendere fino a che punto il concetto “post europeo” e “anti europeo” di ragione autonoma abbia finito per compromettere non solo le fondamenta dell’ideale comunitario ma anche i pilastri su cui s’erge ogni società umana. Nel celebre discorso tenuto da Ratzinger a Norcia il 1° aprile del 2005, l’allora prefetto della congregazione per la Dottrina della fede tornò sul dibattito circa la menzione delle radici cristiane nel preambolo della Costituzione europea. “L’affermazione che la menzione delle radici cristiane dell’Europa ferisce i sentimenti dei molti non cristiani che ci sono in Europa, è poco convincente, visto che si tratta prima di tutto di un fatto storico che nessuno può seriamente negare”.
 
Naturalmente, proseguiva Ratzinger, “questo cenno storico contiene anche un riferimento al presente, dal momento che, con la menzione delle radici, si indicano le fonti residue di orientamento morale, e cioè un fattore d’identità di questa formazione che è l’Europa”. Ma la domanda è: “Chi verrebbe offeso? L’identità di chi viene minacciata? I musulmani, che a tale riguardo spesso e volentieri vengono tirati in ballo, non si sentono minacciati dalle nostre basi morali cristiane, ma dal cinismo di una cultura secolarizzata che nega le proprie basi. E anche i nostri concittadini ebrei non vengono offesi dal riferimento alle radici cristiane dell’Europa, in quanto queste radici risalgono fino al monte Sinai: portano l’impronta della voce che si fece sentire sul monte di Dio e ci uniscono nei grandi orientamenti fondamentali che il decalogo ha donato all’umanità. Lo stesso vale per il riferimento a Dio: non è la menzione di Dio che offende gli appartenenti ad altre religioni, ma piuttosto il tentativo di costruire la comunità umana assolutamente senza Dio”. Le motivazioni erano ben altre, “più profonde”, sottolineava: “Presuppongono l’idea che soltanto la cultura illuminista radicale, la quale ha raggiunto il suo pieno sviluppo nel nostro tempo, potrebbe essere costitutiva per l’identità europea”. Una cultura in cui “possono coesistere differenti culture religiose con i loro rispettivi diritti, a condizione che e nella misura in cui rispettino i criteri della cultura illuminista e si subordino a essa”.
 
Una cultura che “è definita dai diritti di libertà”, che “parte dalla libertà come un valore fondamentale che misura tutto”, compresa la libertà della scelta religiosa”. Il divieto di discriminazione, sempre incluso in quella cultura, “può trasformarsi sempre di più in una limitazione della libertà di opinione e della libertà religiosa”. Ma, aggiungeva infine Ratzinger, “la concezione mal definita o non definita affatto di libertà, che sta alla base di questa cultura, inevitabilmente comporta contraddizioni; ed è evidente che proprio per via del suo uso (un uso che sembra radicale) comporta limitazioni della libertà che una generazione fa non riuscivamo neanche a immaginarci. Una confusa ideologia della libertà conduce a un dogmatismo che si sta rivelando sempre più ostile verso la libertà”.






 
 

 
 
 
 
 
 

lunedì 29 agosto 2016

Le dieci bugie anticattoliche che non fanno onore agli storici. Intervista a Rodney Stark





agosto 29, 2016 Pietro Piccinini

Intervista all’autore di “Bearing False Witness”, un atto d’accusa contro gli «illustri bigotti» che spacciano per storia certe menzogne sulla Chiesa



                                                                                                                   
Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola

Paradossalmente quello che è forse il più efficace apologeta vivente del ruolo della Chiesa di Roma nella storia dell’Occidente non è neanche cattolico. Anzi, come spiega lui stesso nel suo ultimo libro, è «cresciuto nei fasti della Riforma» e «come tutti i luterani» ogni domenica alla funzione veniva «illuminato sulla perversione dei cattolici». Se Rodney Stark ha deciso di scrivere Bearing False Witness: Debunking Centuries of Anti-Catholic History (“Falsa testimonianza. Sfatare secoli di storia anticattolica”), non è dunque per un impulso partigiano a difendere una bandiera che non è mai stata sua. Piuttosto «ho scritto questo libro per difendere la storia».

Sociologo della religione e professore alla Baylor University, ateneo cristiano battista del Texas dove dirige l’Istituto di studi sulla religione, Stark è autore di decine di titoli di successo in molti paesi del mondo (apprezzati in Italia La vittoria della ragione e La vittoria dell’Occidente, dedicati alla «negletta storia» di come sia stato proprio il disprezzato cristianesimo a produrre la libertà, il progresso e la ricchezza della nostra civiltà). In Bearing False Witness ha raccolto i dieci «miti anticattolici» in cui si è imbattuto più spesso nel corso dei suoi innumerevoli studi. Dieci menzogne e false accuse che secondo Stark hanno avuto e hanno nel pensiero comune «conseguenze troppo pervasive per essere lasciate a confutazioni sparse».

L’antisemitismo motivato teologicamente dall’accusa di deicidio; l’esistenza di vangeli “illuminati” insabbiati da un clero ottuso; lo sterminio dei pagani seguìto alla “conquista” cristiana di Roma; i “secoli bui” del Medioevo interrotti finalmente dalla rivoluzione razionale dei Lumi; le crociate come primo sanguinoso atto di colonialismo europeo; i crimini dell’Inquisizione spagnola e la caccia alle streghe; il caso Galileo, prova della fobia della Chiesa verso la scienza; la giustificazione della schiavitù; il sostegno alle dittature contro la democrazia; la superiorità sociale e civile della Riforma protestante. Facendo nomi e cognomi e decine di citazioni, Stark massacra nel libro quelli che lui chiama «illustri bigotti», i colleghi studiosi che invece di comportarsi come tali «hanno abbracciato avidamente» le bufale anticattoliche, essendo «così convinti della depravazione e della stupidità della Chiesa cattolica romana da non aver bisogno di cercare conferme ulteriori», sebbene qualcuno di loro dovesse essersi accorto che tante di quelle storie erano «saltate fuori dal nulla». Vedi per esempio la leggenda che vuole che Cristoforo Colombo abbia scoperto l’America nel tentativo di dimostrare con la navigazione che la Terra è tonda e non piatta, come invece ancora credevano i cardinali spagnoli avversari della sua impresa. Una panzana pura e semplice inventata di sana pianta nel 1828 da uno scrittore, Washington Irving, noto più che altro per avere creato il cavaliere senza testa di Sleepy Hollow, eppure rimasta «nei libri di testo e nella cultura popolare per decenni anche dopo che gli studiosi erano risaliti alle sue origini fraudolente» (in Austria e Germania nel 2009 si insegnava ancora nelle scuole).

Un Papa non cattolico

L’ostilità degli “illustri bigotti” alla Chiesa, spiega Stark a Tempi, viene da lontano. «La Riforma e le successive guerre di religione generarono aspri odii e false accuse» che «hanno resistito» nei secoli. «Troppo ancora ne rimane nella cultura popolare delle nazioni protestanti», aggiunge. «Invece non so quanti miti malevoli antiprotestanti permangano nelle nazioni cattoliche». E se nell’antica Roma, secondo la tesi di E. Mary Smallwood ripresa nel libro, era «l’esclusività» degli ebrei e dei cristiani a generare impopolarità e persecuzione, negli ultimi secoli «l’antagonismo del politeismo rispetto al monoteismo che motivava l’antisemitismo e l’anticristianesimo è stato sostituito dall’antagonismo laicista verso tutte le religioni che comprendano insegnamenti tradizionali e pretese di verità». Di qui anche «la richiesta che il Papa, a tutti gli effetti, smetta di essere cattolico».

Secondo Stark «furono Voltaire e i suoi colleghi a inventare i secoli bui, e lo fecero allo scopo di poter proclamare che stavano liberando la civiltà dall’arretratezza religiosa». Mentre nella realtà un Medioevo oscurantista non è mai esistito. Al contrario, «la chiave più importante per l’ascesa della civiltà occidentale – si legge nel libro – è stata la dedizione di tante menti brillanti alla ricerca della conoscenza. Non di un’illuminazione. Non dell’illuminismo. Non della saggezza. Della conoscenza!». E per Stark è assolutamente sensato il fatto che molte di queste “menti brillanti” fossero cristiani medievali, perché, ci spiega, «il cristianesimo è una religione teologica (basata sul ragionamento intorno a Dio) che non solo è coerente con gli sforzi scientifici di spiegare il mondo, ma che ha dato vita alla scienza: la scienza non è accaduta altrove, poiché le religioni che guardavano l’universo come un mistero impenetrabile rendevano assurdo ogni sforzo scientifico». Ma nel tempo le opinioni di Voltaire e degli illuministi «furono accreditate da alcuni intellettuali che si opponevano a tutte le religioni e da molti altri che credevano erroneamente che quei filosofi stessero solo rivelando i peccati del cattolicesimo», continua lo studioso.

Comodi pregiudizi

C’è un motivo se «oggi ormai perfino le enciclopedie popolari riconoscono che i secoli bui erano un mito». Significa che almeno su questa leggenda lo studio della storia ha prevalso sull’ideologia. Succede continuamente, solo che nessuno se ne accorge. Per smontare le dieci bufale storiche anticattoliche Stark stesso si appoggia sulle «opinioni prevalenti fra gli esperti qualificati», peccato che, da una parte, questi ultimi «scrivono sempre l’uno per l’altro e non si impegnano a condividere il loro sapere con il pubblico di lettori generale»; mentre, dall’altra, gli “illustri bigotti” continuano a godere di una credibilità sorprendente, almeno a livello mediatico. Anche quando le loro tesi disoneste sono state già smentite e loro stessi hanno ammesso la propria ostilità alla Chiesa. È il caso – ricostruito nel libro – di John Cornwell, celebre autore de Il Papa di Hitler, pietra miliare della propaganda anti-Pio XII, screditato abbondantemente e ripetutamente eppure ogni volta rilanciato dalla stampa o riciclato in altri testi, errori compresi. Il fatto è che, commenta amaramente Stark, «alla stampa piacciono sempre gli scandali e le notizie negative». E poi «i media sono davvero prevenuti nei confronti della religione».

Se è vero che gli “illustri bigotti” alimentano «molto anticattolicesimo “informato”», godendo di un’immeritata copertura mediatica, come può prevalere la verità nella battaglia delle idee? Stark non ha dubbi: «Perché fidarsi dei “miei” esperti piuttosto che di quelli che hanno opinioni anticattoliche? Perché le mie opinioni si basano sul consenso di storici autorevoli e qualificati, che io cito attentamente, mentre le sciocchezze anticattoliche non hanno sostenitori qualificati». E come sono considerati, nell’ambiente accademico e dal pubblico, gli studi di Stark? «I miei libri hanno raccolto buone recensioni da parte degli studiosi. Non che mi importi davvero. Quanto al pubblico, dia un’occhiata su Amazon alle recenti recensioni di Bearing False Witness scritte dai lettori: sono sorprendentemente positive».

Di sicuro, per sostenere le tesi di Bearing False Witness ci vuole del coraggio. Nel primo capitolo, per intenderci, l’autore si esercita nello smontare l’idea che «per secoli la persecuzione degli ebrei è stata giustificata [dalla Chiesa] nel nome di Dio». Un pregiudizio talmente radicato nell’immaginario collettivo che metterlo in dubbio risulterebbe quasi improponibile perfino ai cattolici stessi. Invece il professore della Baylor University, sulla base dei documenti storici e non certo di posizioni “papiste” precostituite, dice a Tempi di aver scoperto già molto tempo fa che, in realtà, «i cristiani che incolpavano gli ebrei per la Crocifissione tendevano anche ad accettare forme laiche di antisemitismo», e che quindi l’odio verso gli ebrei non è affatto una “invenzione” cattolica. Al contrario, continua, «quello che ho appreso in seguito è la larga misura con cui la Chiesa aveva protetto gli ebrei dalla violenza».

Come la vede Obama

Anche quando si arriva a lambire l’attualità, Stark non si fa molti problemi a rovesciare le visioni mainstream. Nel volume scrive che le prime offensive della civiltà cristiana (non della Chiesa) contro le altre religioni e le eresie avvennero nel secolo XI, quando cioè la supremazia cristiana si vide minacciata dall’espansione dell’islam. Ma è sbagliato teorizzare che oggi in Occidente stia accadendo qualcosa di analogo. Lo “scontro di civiltà” non è un frutto marcio della nostra islamofobia. Dice Stark a Tempi: «Non credo che l’Occidente cristiano stia diventando intollerante. Credo che l’Occidente non-cristiano stia diventando intollerante: in alcuni paesi europei ci sono leggi contro il cosiddetto hate speech che vietano la lettura in pubblico di alcuni passaggi della Bibbia».

Nel libro c’è poi un accenno polemico a Barack Obama, che l’anno scorso ha contribuito a diffondere la lettura anticattolica delle crociate (autentico cavallo di battaglia per Stark) dichiarando che non tutta la violenza religiosa nella storia è venuta dall’islam, e che anche i cristiani «hanno compiuto azioni terribili nel nome di Cristo». Il commento di Stark è asciutto: «Se il terrorismo proseguirà, e lo farà – ci dice – le visioni come quella di Obama saranno screditate: io sono convinto che assisteremo a una rinascita del sostegno nei confronti dell’impegno giudeo-cristiano».

E Stark, non cattolico, non battista e non più luterano, in cosa crede? «Ho perso la fede luterana quando ero un ventenne e sono rimasto senza fede (ateo mai) fino alla sessantina, quando anni passati a scrivere sulla religione mi hanno portato a concludere che il cristianesimo offre la spiegazione della vita più plausibile».





 Intervista a Rodney Stark: le bugie anticattoliche | Tempi.it




I tre mezzi supremi della dissoluzione in corso



 

«Mentire è un vizio che conduce al male, ma è davvero una gran virtù quando è rivolta al bene. Perciò sii più virtuoso che mai. Si deve mentire come il diavolo, non timidamente, non di tanto in tanto, ma audacemente e sempre». (Voltaire, lettera a Thiriot)
 

 
di Massimo Viglione
 
Le ragioni per le quali il nostro mondo sta andando verso la dissoluzione e il nichilismo assoluto sono molteplici, ma ve ne sono tre fondamentali, su cui si basano tutte le altre.

1. Perché i dissolutori sanno che possono dire qualsiasi folle o ridicola menzogna (che i bambini di un anno hanno bisogno di sesso e quindi la pedofilia pacifica va accettata, o che è giusto cantare a ballare “Gelato al cioccolato” durante la Messa, o che l’Islam è una religione di pace, o che l’Italia è un paese proiettato verso il futuro, o che gli insetti sono buoni, e così via), che prima o poi, a furia di essere detta e ridetta, sarà da alcuni accettata, da molti difesa, da quasi tutti infine inverata;
 
2. perché i dissolutori sanno che qualsiasi cosa ci facciano (modificarci antropologicamente insegnando l’omosessualismo e il gender perfino nelle scuole ai nostri bambini, ridurci in miseria, toglierci il posto fisso e la pensione, mandare in galera gli innocenti che si difendono e liberare i violenti che assalgono gli innocenti, dare le case degli italiani agli immigrati, distruggere la nostra civiltà e dissolvere il nostro popolo mediante un’invasione generale delle nostre terre, profanare mostruosamente le cose più sacre della nostra religione, e così via)… noi non reagiamo. Basta una partita di calcio, un cellulare, un divertimento, e dimentichiamo tutto. Compresi migliaia di morti ammazzati nelle nostre strade senza difesa alcuna.
Loro sanno che noi non reagiamo. Ci hanno anche messo Facebook come sfogatoio generale… Tanto sanno che facciamo poco o nulla di concreto. Tutte cose per loro perfettamente gestibili.
 
3. Poi c’è l’adesione – conscia o inconscia che sia – alle mode e al “mainstream”: meglio non apparire scomodi, diversi, ma apparire come ci vogliono. Meglio non pensare e pensare solo a noi stessi.
 
Ecco le tre armi invincibili della dissoluzione, perché annullano ogni possibile reazione: menzogna, abitudine, moda.
 
Ci hanno tolto le armi per difenderci, ogni genere di armi. E, ora, di conseguenza, siamo indifesi.
In più, coloro che dovrebbero essere le nostre guide e i nostri difensori, i nostri maestri e punti di riferimento, sono passati nella quasi totalità con i dissolutori e sostengono il loro gioco in ogni modo possibile, ma anzitutto, ancora una volta, con la menzogna eretta a sistema di indottrinamento psicologico “delle masse”. Perché ci hanno trasformato da persone in “massa”.
 
E chi non si adegua, è intollerante, esagerato, pericoloso, ridicolo, oppure razzista, omofobo, ecc. ecc. E deve essere isolato, licenziato, emarginato, perché non accetta la menzogna, l’abitudine, la moda.
Ecco spiegato in poche righe il meccanismo operativo della dissoluzione.
Poi c’è il meccanismo ideologico a monte. Ma quello è molto più complicato.
 
Volete sapere qual è la verità? La verità è che oggi mentono tutti, o quasi tutti. Come nessun altra società della storia passata, la nostra è la società della menzogna eretta a sistema di vita pubblica.
 
Non per niente, come loro stessi dicono, siamo tutti figli di Voltaire.
E i risultati sono dinanzi ai nostri occhi.
Forse, sarebbe giunto il momento non solo di dirci la verità tutta e fino in fondo, ma – cosa enormemente più difficile a farsi – accettarla come essa è. Ammettere di aver sbagliato, magari per anni, magari per una vita intera. Ammettere che i “nostri eroi” mentono, e che sono diventati “eroi”, ovvero hanno raggiunto quella posizione di potere, proprio perché mentono. Dovremmo ammettere a noi stessi che non è difficile capire quando un potente, chiunque sia, mente: è sufficiente utilizzare il proprio cervello ed essere onesti fino in fondo. Costi quello che costi.
È l’unica via di salvezza che abbiamo. Altrimenti, il ghigno sulfureo di colui che è l’incarnazione stessa dell’illuminismo e della modernità ci sommergerà tutti per sempre.
Ricordiamoci di 500.000 cristiani che hanno dato la vita in Francia per non aver ceduto a quel ghigno tra il 1792 e il 1794.
Ecco uno spunto di meditazione in chiusura di questa estate del 2016.

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

venerdì 26 agosto 2016

Amoris Laetitia. "Ma il papa non ha scritto queste cinque semplici parole" Ecco quali

 



da Settimo Cielo

di Sandro Magister 

"Il papa nella 'Amoris laetitia' ha scritto oltre 56 mila 600 parole, ma non ha scritto queste cinque semplici parole: 'È possibile dare la comunione ai divorziati risposati'. Se lui non le ha scritte, ritengo che nessuno le debba inserire, e nessuno deve fare ciò che lui non ha detto".
 
Questo dice il gesuita Domenico Marafioti in una limpida presentazione dell'esortazione postsinodale "Amoris laetitia" pubblicata sul numero di Ferragosto di "Ascolta", periodico dell'associazione ex alunni e amici della Badia di Cava.
 
Padre Marafioti è persona di grande autorevolezza. È preside presso la Facoltà teologica dell'Italia Meridionale di Napoli e insegna teologia dei sacramenti, in particolare del matrimonio, dell'ordine e della penitenza.
 
Appartiene alla Compagnia di Gesù, come papa Francesco. E infatti scrive di voler dare dell'esortazione "una lettura ignaziana e cattolica". Ignaziana nel senso "che bisogna cercare sempre di interpretare bene quello che l’altro dice (Esercizi, n. 22)". E cattolica nel senso che bisogna "leggere questo testo secondo la normale fede cattolica".
 
Ma lasciamo a lui la parola, nella parte dell'articolo che egli dedica all'ottavo capitolo di "Amoris laetitia", quello su cui "molti discutono".
 
 
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"LUI NON HA DATO QUESTA AUTORIZZAZIONE"

 
 
di Domenico Marafioti S.J.
 
Il punto più difficile da interpretare è il n. 305 di "Amoris laetitia" che dice: “A causa dei condizionamenti o dei fattori attenuanti, è possibile che, entro una situazione oggettiva di peccato si possa vivere in grazia di Dio, ricevendo a tale scopo l’aiuto della Chiesa”. Non ci fermiamo a considerare in che senso uno può essere in grazia di Dio stando in una situazione oggettiva di peccato. Certamente è giusto che tutti, in qualsiasi situazione, ricevano “l’aiuto della Chiesa”. A questo punto il documento rinvia alla nota n. 351: "In certi casi, potrebbe essere anche l’aiuto dei sacramenti". E intende la confessione e la comunione, e precisa che l’eucaristia "non è un premio per i perfetti, ma un generoso rimedio e un alimento per i deboli”.
 
Come interpretare il testo e questa spiegazione in nota? Ci sono due alternative, una “secondo l’insegnamento della Chiesa”, come il papa stesso dice al n. 300; e un'altra che finirebbe per introdurre il divorzio nella Chiesa cattolica.
 
La prima è questa. Il papa dice “in certi casi”. Infatti ci sono due casi in cui è possibile dare la comunione ai divorziati risposati: quando vi è la certezza morale che il primo matrimonio era nullo, ma non ci sono le prove per dimostrarlo in sede giudiziaria (e pertanto non si può ottenere l’annullamento canonico); e poi quando i due divorziati risposati accettano di astenersi dagli atti propri dei coniugi, e quindi non vivono più come marito e moglie. In questi due casi si può dare la comunione, con l’attenzione a evitare il pericolo di scandalo.
 
Ma si noti che il papa usa il condizionale “potrebbe essere”: vuol dire che neppure lui è completamente certo che sia la cosa più opportuna. Questa osservazione vale soprattutto per la seconda alternativa. Infatti qualcuno potrebbe interpretare queste parole come se il papa autorizzasse a dare la comunione anche ai divorziati risposati, il cui primo matrimonio era vero e giusto, e nella seconda unione vivono come marito e moglie. Ma lui non ha dato questa autorizzazione.
Bisogna infatti dire con semplicità che il papa nella "Amoris laetitia" ha scritto oltre 56.600 parole, ma non ha scritto queste cinque semplici parole: “È possibile dare la comunione ai divorziati risposati”. Perché non le ha scritte? Qualche motivo c’è. Se lui non le ha scritte, ritengo che nessuno le debba inserire, e nessuno deve fare ciò che lui non ha detto.
 
Papa Francesco infatti non vuole andare contro il magistero dei papi precedenti. Ecco tre loro affermazioni precise, in particolare di San Giovanni Paolo II che in "Familiaris consortio", n. 84, dice: “La Chiesa ribadisce la sua prassi, fondata sulla Sacra Scrittura, di non ammettere alla comunione eucaristica i divorziati risposati”. In "Reconciliatio et paenitentia", n. 34, ancora Giovanni Paolo II dice che la Chiesa invita i suoi figli che si trovano in queste dolorose condizioni, e cioè sono divorziati risposati, “ad avvicinarsi alla misericordia divina per altre vie, non però per quella dei sacramenti della penitenza e dell’eucaristia”. E Benedetto XVI, in "Sacramentum caritatis", n. 29, ribadisce: “Il sinodo dei vescovi [sull’eucaristia, del 2005] ha confermato la prassi della Chiesa di non ammettere ai sacramenti i divorziati risposati”.
 
Il contesto precisa il valore di queste chiare affermazioni. Leggendo i documenti della Chiesa non si può mettere in conflitto un sinodo con l’altro, e un papa con l’altro. Per l’ermeneutica della continuità, non si può attribuire a papa Francesco l’intenzione di cambiare questo insegnamento del magistero. Chi fa diversamente non fa un buon servizio al papa e alla Chiesa.
Per il resto siamo tutti d’accordo che l’eucaristia è un “rimedio” per i malati, ma ci sono certi malati che sono allergici a certi farmaci, per esempio agli antibiotici: se li prendono, non guariscono, ma peggiorano. Ed è vero che è un “alimento per i deboli”, ma ora sappiamo che vi sono le intolleranze alimentari, per esempio al glutine, e la cosa più buona, come il pane, si rivela dannoso per chi lo mangia.
 
Sono solo esempi e altri se ne potrebbero portare, per dire la stessa cosa: l’eucaristia che è per la vita può diventare motivo di morte. Così diceva già san Tommaso d’Aquino: “Sumunt boni sumunt mali, sorte tamen inaequali, vitae vel interitus”; mangiano i buoni, mangiano i cattivi, con sorte differente, di vita o di morte.
 
L’eucaristia è necessaria per la vita cristiana e per il cammino spirituale. Se però è ricevuta senza le disposizioni dovute, si rivela controproducente, come dicono chiaramente i testi di Matteo 22,1 1-14, e 1 Corinti 11, 27-30. Siamo in un momento delicato in cui bisogna accogliere l’invito di papa Francesco a favorire l’integrazione dei divorziati risposati nella comunità ecclesiale, ma non bisogna compromettere la verità della prassi sacramentale della Chiesa. La prudenza e il discernimento aiuteranno a trovare la via giusta.
 
 
 
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In un'altro passaggio del suo articolo, padre Marafioti fa un curioso raffronto tra "Amoris laetitia" e la precedente esortazione di papa Francesco "Evangelii gaudium", riguardo all'indissolubilità del matrimonio:
Scrive:
"In 'Amoris laetitia' c’è un progresso rispetto a 'Evangelii gaudium': in questo primo testo (n. 66) il papa non aveva parlato di indissolubilità; adesso per ben otto volte presenta il matrimonio come 'esclusivo e indissolubile' (nn. 52.53.86.123.124.134.218)".