venerdì 29 giugno 2012

La Regola pastorale, un classico per sacerdoti

 

La Regula pastoralis, scritta con intento programmatico da san Gregorio Magno all’inizio del suo pontificato (590-604), è l’opera più famosa del grande pontefice e, in assoluto, uno dei capolavori patristici più letti e meditati nella storia della Chiesa. La sua eccellenza non risiede nella bellezza o ricercatezza dello stile, quanto nella praticità e utilità dell’insegnamento: san Gregorio si propone con questo scritto di fornire i tratti ideali del pastore di anime (in primo luogo del vescovo, ma per estensione anche del sacerdote), prodigandosi in preziosi consigli sulla prassi che il “buon pastore” deve adottare trattando con le più diverse categorie di persone.


La Regola è divisa in quattro parti di diseguale ampiezza. Sono inoltre presenti un incipit, in cui vengono elencati i titoli dei sessantacinque capitoli dell’opera, e una breve dedica indirizzata al “reverendissimo e santissimo confratello” Giovanni, probabilmente da identificare con il vescovo di Ravenna del tempo. Gregorio ricorda il rimprovero ricevuto da Giovanni, di aver voluto inizialmente sottrarsi all’onere dell’episcopato; e, quasi a giustificarsi della sua passata debolezza, dichiara di voler esporre tutte le sue convinzioni circa la gravità delle responsabilità del ministero pastorale, “perché chi ne è libero non vi aspiri in modo incauto, e chi le ha assunte in modo sconsiderato provi timore per il passo compiuto”. L’auspicio formulato da Gregorio, all’opposto, è che “il timore moderi il desiderio [che alcuni hanno di diventare pastori]; la condotta, poi, renda onore al magistero, assunto senza averlo cercato”.

Le quattro grandi suddivisioni dello scritto sono così introdotte dall’autore nella dedica: “Ognuno rifletta seriamente su come è giunto ai vertici delle responsabilità pastorali [qualiter veniat, prima parte]; se in modo legittimo, esamini la propria condotta [qualiter vivat, seconda parte]; se essa è irreprensibile, esamini la qualità dell’insegnamento [qualiter doceat, terza parte]; se la dottrina è retta, con un veritiero esame prenda atto ogni giorno della propria debolezza [infirmitatem suam conosca, quarta parte]”. Tale quadruplice autoverifica del pastore di anime ha lo scopo di fare in modo che, rispettivamente, “l’eccesso di umiltà non lo allontani dagli impegni, la condotta non contrasti con la dignità ottenuta, l’insegnamento non sia nocivo alla prassi, l’orgoglio non abbia il sopravvento sulla dottrina”.

1. La prima parte della Regola si compone di undici capitoli ed è intitolata “A quali condizioni si possono assumere i più alti impegni pastorali”. Innanzitutto san Gregorio chiarisce che il governo delle anime altrui è la suprema fra le arti, ars est artium regimen animarum: chi non sa, infatti, che “le ferite dello spirito sono ben più segrete di quelle dei visceri?”. E tuttavia, scrive il grande pontefice, “spesso chi è all’oscuro delle leggi dello spirito non teme di spacciarsi per medico delle anime, mentre chi non conosce le virtù delle medicine arrossirebbe ad essere considerato medico dei corpi”. Inoltre, molti ambiscono a ricevere onori in virtù della carica ecclesiastica che occupano, giungendo così “ad un magistero di umiltà spinti solo dall’orgoglio” e incorrendo nella condanna di Dio. Vi sono poi coloro che, pur zelanti nell’apprendimento degli spiritalia praecepta, contraddicono con la vita le verità assorbite nella meditazione e danno un pessimo esempio al gregge loro affidato. San Gregorio esorta: nessuno, che vi sia impari, osi assumere temerariamente i compiti del ministero pastorale, diventando “guida alla perdizione” per le anime che gli sono affidate. D’altra parte, un rischio ulteriore del ministero pastorale è quello di insidiare la stabilità dello spirito a causa dei molteplici impegni, compromettendo la necessaria vigilanza interiore: per questo Gregorio invita gli imperfecti a scansare incarichi che li porrebbero in un serio pericolo spirituale.

Terminata questa serie di ammonizioni, san Gregorio passa a considerare il caso opposto, quello cioè di uomini che posseggano tutti i requisiti per svolgere in modo adeguato il compito di pastore, ma che rifuggano da esso perché amanti della propria quiete personale o della solitudine o della meditazione, o per eccessiva umiltà. Costoro, dice Gregorio, “attenti ai propri vantaggi e non a quelli del prossimo, si privano essi stessi di doni di cui vorrebbero esclusivamente fruire”, cioè dei beni spirituali di cui il Signore li ha dotati “non solo per sé ma anche per gli altri”. Poiché l’impegno pastorale è la prova dell’amore (dilectionis est testimonium cura pastoris), chi rifiuta di pascere il gregge di Dio “mostra di non amare il pastore supremo”. I renitenti di questo genere si rendono colpevoli “nei confronti di coloro a cui avrebbero potuto fare del bene operando nel mondo”: con quale animo, infatti, “chi potrebbe splendere nel giovare al prossimo può preferire la propria quiete al bene altrui, se l’Unigenito stesso del Sommo Padre venne dal seno dell’Eterno in mezzo all’umanità per l’universale salvezza?”.

Di queste ed altre simili considerazioni è composta la prima parte della Regola pastorale, parte che si può utilmente sintetizzare con questa sentenza tratta dal capitolo VII: “Nessuno… osi assumere i sacri ministeri senza essere prima purificato, e chi è stato scelto dalla grazia divina non opponga un orgoglioso rifiuto, col pretesto dell’umiltà”.

2. La seconda parte dello scritto gregoriano, costituita come la prima da undici capitoli, è intitolata “La vita del pastore” e delinea i tratti morali che devono essere presenti in un bravo pastore di anime. La condotta del presule “deve superare in qualità la vita del popolo esattamente di quanto la vita del pastore sovrasta quella del gregge”; condurre una vita retta è per il pastore un grave obbligo, dato che “proprio in riferimento alla sua persona il popolo viene definito gregge”. Il pastore “deve quindi essere illibato nel pensiero, esemplare nella condotta, riservato per il silenzio, utile attraverso la parola, vicino a tutti con solidarietà, dedito più di ogni altro alla contemplazione, legato con vincoli di umiltà a quanti compiono il bene, avversario dell’iniquità dei malvagi per zelo di giustizia, intento a non indebolire la vita interiore per le cure temporali e a non sottrarsi agli impegni di questo mondo per la sollecitudine nei doveri spirituali”. Tutta la seconda parte della Regola non è che una trattazione ampliata di ognuna delle caratteristiche elencate nel brano introduttivo appena citato.

Come nel resto dell’opera, anche in questa seconda parte san Gregorio si avvale con pertinenza di un gran numero di riferimenti alla Sacra Scrittura per comprovare le proprie affermazioni, spesso sovrapponendo alla lettera del testo biblico interpretazioni allegoriche più o meno audaci. In certi passaggi, poi, l’animo del santo si effonde con tenerezza, come quando così esorta i fedeli: “…quando affrontano come bimbi i flutti delle tentazioni ricorrano al cuore del pastore come al seno materno…”. Altre volte, invece, la carità suggerisce a Gregorio una certa durezza, come quando stigmatizza il comportamento di certi “pastori non impegnati e in preda a paura di perdere il favore popolare”, i quali “non osano proclamare liberamente la verità” e si nascondono nel loro silenzio; costoro, “per timore di correggere i vizi, blandiscono invano i peccatori con promesse di sicurezza e non pongono mai l’accento sull’iniquità dei colpevoli, scegliendo il silenzio anziché il rimprovero”: il sacerdote, così facendo, “suscita contro di sé l’ira di colui che giudica nel segreto”. Poco più avanti san Gregorio scrive addirittura che “è necessario che i prelati si facciano temere dai sudditi, quando si rendono conto che questi non hanno alcun timore di Dio, affinché desistano dal peccare almeno per paura degli uomini coloro che non temono i giudizi divini”; è tuttavia degno di nota l’invito di san Gregorio a non approfittare del potere di cui, come pastori, si ha diritto: “Quanti sono insigniti di autorità… siano lieti non di dominare sugli uomini ma di far loro del bene”; “i vertici del potere sono ben gestiti quando chi li ha raggiunti domina sui vizi più che sui fratelli”. È sempre presente a Gregorio il pericolo più tipico di chi è innalzato sugli altri per grado di autorità, cioè l’orgoglio, vizio che il pastore deve fuggire più di ogni altro per non diventare simile “all’angelo apostata”. In tal modo, tutta la trattazione mira a puntualizzare le caratteristiche di un’azione pastorale equilibrata e lontana dagli opposti eccessi: “Bisogna fare in modo che la pietà faccia apparire ai sudditi il prelato come una madre e la disciplina lo mostri come un padre, avendo inoltre gran cura perché la correzione non sia eccessiva e la pietà non degeneri in debolezza”.

3. La terza parte della Regola pastorale, costituita da quaranta capitoli preceduti da un prologo, è intitolata “Come il pastore di vita retta deve istruire ed esortare i sudditi” ed è la sezione più lunga e interessante dell’opera, quantunque meno facilmente riassumibile delle altre a causa della sua peculiare struttura. L’autore parte dalla constatazione che “non a tutti si adatta un’unica e medesima forma di esortazione, perché non è uguale in tutti la qualità dei comportamenti. Spesso infatti nuocciono ad alcuni cose che, invece, giovano agli altri”. È per questo che “ogni maestro, per edificare tutti nell’unica virtù di carità, deve toccare il cuore degli ascoltatori sulla base della stessa dottrina ma non con un unico e identico sistema di esortazione”.

Il metodo espositivo scelto qui da Gregorio è quello di instaurare una nutrita serie di coppie oppositive, come ad esempio: uomini/donne, giovani/vecchi, gioviali/melanconici, arroganti/pusillanimi, umili/superbi, penitenti per peccati di opere/penitenti per peccati di pensiero, chi commette colpe leggere ma spesso/chi pecca raramente ma in modo grave, eccetera. Per ognuna di queste antitesi, Gregorio specifica con grande acume psicologico quale sia il modo più efficace con cui il pastore debba trattare l’una e l’altra categoria di persone.

Perché un solo esempio basti a chiarire il procedimento adottato dell’autore, è interessante la distinzione operata nel capitolo VII: “Come esortare in modo diverso gli impudenti e i timidi”. Gli impudentes, sostiene Gregorio, devono essere affrontati con un duro e aspro rimprovero; devono essere disapprovati da più persone; le loro colpe devono essere rese palesi. Al contrario, ai verecundi dovrà essere somministrata una moderata esortazione, che quasi sempre sarà sufficiente ad indurli al meglio; il maestro di spirito dovrà ricordare loro con dolcezza le mancanze compiute, in privato e senza ricorrere ad altri testimoni; ciò che in essi si disapprova va evocato quasi solo per cenni, quasi ex latere tangatur, in modo che un discorrere dolce ponga un velo sulla negligenza compiuta. San Gregorio completa la trattazione fornendo, per entrambe le modalità di rimprovero descritte, alcune chiare testimonianze tratte dalla Sacra Scrittura.

4. La quarta ed ultima parte della Regola, non divisa in ulteriori capitoli, è brevissima e porta il seguente titolo: “Il predicatore, dopo aver atteso a tutto nel modo dovuto, rientri in se stesso, perché né la vita né il ministero lo inducano all’orgoglio”. San Gregorio mostra di voler tornare su uno dei punti che gli stanno più a cuore, quello della necessaria umiltà del pastore d’anime. Una tentazione particolarmente insidiosa, per un virtuoso e forte uomo di Dio come un pastore di anime ha il dovere di essere, è quella di compiacersi nelle proprie virtù e nei propri meriti apostolici, dimenticando la propria fragilità e considerandosi superiore agli altri. “È dunque necessario – scrive Gregorio – che, quando l’insieme delle virtù si fa motivo di lusinga, lo sguardo dello spirito si rivolga alle proprie debolezze e faccia nascere in sé una salutare umiltà, dando risalto non al bene compiuto ma a quello che si è trascurato di compiere, in modo che il cuore, nella contrizione al ricordo della propria debolezza, si renda più saldo nella virtù al cospetto dell’autore dell’umiltà. Spesso, infatti, il Signore onnipotente, benché conduca ad un alto grado di perfezione gli spiriti dei pastori d’anime, li lascia, tuttavia, nell’imperfezione quanto ad alcuni, non essenziali aspetti, affinché, pur risplendendo per virtù mirabili, provino tristezza per la propria imperfezione e non insuperbiscano per i grandi risultati raggiunti, dato che devono ancora lottare contro dei piccoli difetti”.

L’ultimo cenno dell’opera è ancora rivolto a Giovanni, il confratello nell’episcopato a cui è dedicata laRegola pastorale. San Gregorio protesta di aver delineato i tratti del pastore ideale “pur essendo, personalmente, un artista di poco conto”, e di trovarsi “a guidare altri ai lidi della perfezione, pur essendo ancora in preda ai flutti dei peccati”. Così implora: “Mi sostenga tuttavia, ti prego, nel naufragio di questa vita la tavola di salvezza della tua preghiera, e poiché ciò che pesa in me mi sommerge, la tua mano ricca di meriti mi sollevi”. È dunque innanzitutto lo stesso Gregorio che, sentendo di dover affrontare da bimbo i flutti delle tentazioni, dimostra di voler ricorrere teneramente al cuore del pastore come al seno materno.

 

(Le citazioni dell’opera sono tratte dall’edizione bilingue curata da Giuseppe Cremascoli,
Opere di Gregorio Magno, vol. VII, Città Nuova Editrice, Roma 2008).


 

Libertà e Persona

 

Il Papa: “Il potere distruttivo del male non prevarrà sulla Chiesa”

 








Benedetto XVI

BENEDETTO XVI

Il pontefice lo ha detto durante la messa per la festa di San Pietro e Paolo davanti ai nuovi arcivescovi metropoliti appena nominati


ROMA

Il Papa, nella festa di San Pietro e Paolo, ha celebrato nella basilica di San Pietro la messa per la consegna e imposizione dei "pallii" a 44 arcivescovi metropoliti nominati nel corso dell'anno.

 

“Nel Vangelo di oggi emerge con forza - ha detto il pontefice nell'omelia - la chiara promessa di Gesù: le porte degli inferi', cioè le forze del male, non potranno avere il sopravvento, 'non prevalebunt'. Viene alla mente - ha aggiunto - il racconto della vocazione del profeta Geremia, al quale il Signore, affidando la missione, disse 'Ecco, oggi io faccio di te come una città fortificata'", "'Ti faranno guerra, ma non ti vinceranno, perche' io sono con te per salvarti".


“In realtà, - ha spiegato il Papa davanti a 44 arcivescovi metropoliti nominati quest'anno - la promessa che Gesù fa a Pietro è ancora più grande di quelle fatte agli antichi profeti: questi, infatti, erano minacciati solo dai nemici umani, mentre Pietro dovrà essere difeso dalle 'porte degli inferi', dal potere distruttivo del male. Geremia - ha commentato - riceve una promessa che riguarda lui come persona e il suo ministero profetico; Pietro viene rassicurato riguardo al futuro della Chiesa, della nuova comunità fondata da Gesù Cristo e che si estende a tutti i tempi, al di là dell'esistenza personale di Pietro stesso.

 

Tra le immagini del papato, ricorda Benedetto XVI ricorrendo al profeta Isaia e al Vangelo di Matteo, ci sono le chiavi, che rappresentano "l'autorità sulla casa di Davide", cioé di "aprire la porte del Regno dei Cieli", "quale fedele amministratore del messaggio di Cristo". E c'é l'immagine "di legare e di sciogliere", espressione evangelica che "fa parte del linguaggio rabbinico e allude da una parte alle decisioni dottrinali, dall'altro al potere disciplinare, cioè alla facoltà di infliggere e togliere la scomunica". "Le decisioni di Pietro nell'esercizio di questa sua funzione - ha spiegato papa Ratzinger - hanno valore anche davanti a Dio".



Anche queste immagini, ha spiegato il Papa durante la messa per la festa di San Pietro e Paolo, "ci aiutano a comprendere la promessa fatta da Cristo a Pietro", cioè a capire cosa sia il papato.

 



 

“La Chiesa non è una comunità di perfetti, ma di peccatori, che si debbono riconoscere bisognosi dell'amore di Dio e di essere purificati”. Ma il potere di rimettere i peccati" è una "grazia che toglie energia alle forze del caos e del male" ed é una grazia che "é nel cuore della Chiesa". Lo ha ribadito il Papa, ricordando che il "potere di Dio è l'amore che irradia la sua luce dal Calvario". E per questo nel Vangelo alla confessione della fede di Pietro fa subito seguito l'annuncio della passione".

 



La Chiesa cattolica si fonda su due apostoli, Pietro e Paolo, sempre raffigurati l'uno con le chiavi e l'altro con la spada. Lo ricorda il Papa, spiegando che questa coppia di apostoli "benché assai differenti umanamente l'uno dall'altro e malgrado nel loro rapporto non siano mancati conflitti, hanno realizzato un modo nuovo di essere fratelli". Benedetto XVI, nella messa solenne, li indica ad esempio di "ricerca di piena comunione"

 



Il "papato costituisce il fondamento della Chiesa pellegrina nel tempo" anche se "lungo i secoli emerge anche la debolezza degli uomini, che solo l'apertura all'azione di Dio può trasformare". Ratzinger ha sottolineato come Pietro sia la "roccia" su cui Cristo costruisce la Chiesa, ma la sua "identità" come roccia non derivi "dalle sue capacità umane, ma da una particolare rivelazione di Dio Padre"

 

 

Gli arcivescovi sono costituiti nella Chiesa e per la Chiesa, un edificio spirituale che nella storia si fonda sulla roccia di Pietro. Animati da ciò, ammonisce il Papa, "sentiamoci tutti insieme cooperatori della verità, che è 'sinfonica' e richiede da ciascuno di noi e dalle nostre comunità l'impegno costante della conversione".

 

 

 

fonte: http://vaticaninsider.lastampa.it/homepage/vaticano/dettaglio-articolo/articolo/benedetto-xvi-benedict-xvi-benedicto-xvi-16410/

giovedì 28 giugno 2012

Il Messaggero di Sant'Antonio per la diffusione delle Messe in Latino

 
 
 

Una novità editoriale, un "unicum" nel suo genere, è il sussidio da poco uscito per i tipi delle Edizioni Messaggero Padova - passato quasi inosservato anche nei blog specializzati -. Si tratta del libretto dal titolo Eucharisticum Mysterium, che contiene (per la prima volta insieme), uno vicino all'altro, l'ordo missae del 1970 e del 1962, ovvero il testo (in latino con italiano a fronte) della Messa di Paolo VI e della Messa del Beato Giovanni XXIII, con tutte le rubriche tradotte e belle introduzioni.

Il tutto ha compilatori di assoluto primo piano: il prof. Manlio Sodi, direttore di Rivista Liturgica (edita anche questa dal Messaggero di Padova) e per anni preside della Facoltà di Teologia dei Salesiani di Roma, curatore dei Monumenta Liturgica Concilii Tridentini, uno dei massimi esperti dei testi della liturgia romana lungo la storia. Le traduzioni e revisioni sono affidate nientemeno che al Pontificium Institutum Altioris Latinitatis, la scuola per latinisti alle dirette dipendenze del Papa.

Infine, la presentazione dell'opera è affidata addirittura a Mons. Guido Marini, Maestro delle celebrazioni liturgiche pontificie.

Cosa viene a dire una pubblicazione di questo genere, a cui collaborano tanti esperti, e che viene diffusa da una delle case editrici cattoliche più popolari? Il significato è abbastanza ovvio: bisogna superare steccati e barriere ideologiche contro il latino nella Messa. Sia la messa "nuova" che la messa "antica" sono da conoscere nella loro lingua originale, e - con l'aiuto di sussidi come questo - si possono anche celebrare. Non in concorrenza, ma nello spirito di mutua valorizzazione, accettazione e complementarietà che esse esprimono, mettendo in luce, in modi diversi ma non avversi, le ricchezze della Parola di Dio e dei tesori dell'eucologia della Chiesa Romana.

Esortandovi a sostenere queste interessanti e lodevoli iniziative editoriali, diffondendole e facendole conoscere, vi posto come bonus le parole prefatorie di Mons. Marini.

Il 2010 è stato l’anno di due importanti anniversari: il 40° della promulgazione del Messale di Paolo VI (1970) e 1440° di quella del Messale di san Pio V(1570). Come è noto, con il «motu proprio» Summorum Pontificum del 7 luglio 2007, Benedetto XVI ha stabilito che nel Rito Romano sussistono, a particolari condizioni, due modalità celebrative dell’Eucaristia: la «forma ordinaria» (Paolo VI) e la «forma straordinaria» (san Pio V, nell’edizione del suo Messale promulgata nel 1962 dal beato Giovanni XXIII).

Il 2012 è l’anno di due grandi eventi ecclesiali: il Sinodo dei Vescovi, sul tema «La nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana», e l’inizio dell’Anno della fede, indetto da Benedetto XVI nel cinquantesimo anniversario dell’apertura del Concilio Vaticano II e a vent’anni dalla pubblicazione del Catechismo della Chiesa Cattolica.

È dunque con gratitudine che, in questo contesto della vita della Chiesa, il presente volume è da accogliere. Non è compito di questa presentazione entrare nel dettaglio di quanto vi si afferma in generale e per questioni più particolari. Vi si troverà, comunque, uno strumento molto utile perché ogni «Anno della fede» - l’anno liturgico - possa essere «un’occasione propizia anche per intensificare la celebrazione della fede nella liturgia, e in particolare nell’Eucaristia» («motu proprio» Porta fidei, n. 9).

Leggere con attenzione il sussidio potrà significare per molti una riscoperta o un approfondimento della bellezza della Celebrazione eucaristica nel suo svilupparsi armonico attraverso la storia. Infatti, come afferma Benedetto XVI in Sacramentum caritatis: «Guardando alla storia bimillenaria della Chiesa di Dio, guidata dalla sapiente azione dello Spirito Santo, ammiriamo, pieni di gratitudine, lo sviluppo, ordinato nel tempo, delle forme rituali in cui facciamo memoria dell’evento della nostra salvezza. Dalle molteplici forme dei primi secoli, che ancora splendono nei riti delle antiche Chiese d’Oriente, fino alla diffusione del rito romano; dalle chiare indicazioni del Concilio di Trento e del Messale di san Pio V fino al rinnovamento liturgico voluto dal Concilio Vaticano II: in ogni tappa della storia della Chiesa la Celebrazione eucaristica, quale fonte e culmine della sua vita e missione, risplende nel rito liturgico in tutta la sua multiforme ricchezza» (n. 3).

Allo stesso tempo, questa pubblicazione sarà di aiuto a procedere nella direzione tanto auspicata di una cordiale accoglienza della liturgia della Chiesa, nel suo Rito ordinario, da promuovere con rinnovata fedeltà al Concilio Vaticano II, e nel suo Rito straordinario, che tanti tesori ha ancora oggi da donare a tutti noi. «Non c’è nessuna contraddizione tra l’una e l’altra edizione del Missale Romanum — afferma Benedetto XVI nella lettera inviata ai Vescovi di tutto il mondo per presentare il citato «motu proprio» —. Nella storia della Liturgia c’è crescita e progresso, ma nessuna rottura. Ciò che per le generazioni anteriori era sacro, anche per noi resta sacro e grande, e non può essere improvvisamente del tutto proibito o, addirittura, giudicato dannoso. Fa bene a tutti conservare le ricchezze che sono cresciute nella fede e nella preghiera della Chiesa, e dare loro il giusto posto» (7 luglio 2007).

Oggi più che mai la liturgia della Chiesa ha bisogno di essere avvicinata, approfondita e vissuta in cordiale sintonia con le indicazioni del magistero pontificio e in un clima di serenità e saggezza.

La presente pubblicazione, curata dal Pontificium Institutum Altioris Latinitatis, va in questa direzione. È auspicabile che essa continui a essere percorsa e condivisa da molti, da tutti.

Mons. Guido Marini

Maestro delle Celebrazioni Liturgiche Pontificie

Città del Vaticano, 19 marzo 2012 Solennità di san Giuseppe


...Passo passo verso la riconciliazione liturgica e l'uso delle due forme dell'unico rito romano....

Testo preso da: Il Messaggero di Sant'Antonio per la diffusione delle Messe in Latino http://www.cantualeantonianum.com/2012/06/il-messaggero-di-santantonio-per-la.html#ixzz1z57w4ngU

http://www.cantualeantonianum.com

 

mercoledì 27 giugno 2012

DOVE CELEBRARE? (CCC 1179-1186)

 

Rubrica di teologia liturgica a cura di Don Mauro Gagliardi





di Uwe Michael Lang*




ROMA, mercoledì, 27 giugno 2012 (ZENIT.org).- Con l’odierno articolo, si conclude la quarta annata della rubrica “Spirito della Liturgia”, che quest’anno abbiamo dedicato all’insegnamento liturgico delCatechismo della Chiesa Cattolica, in preparazione all’Anno della Fede. Nel congedarci dai nostri lettori, diamo loro appuntamento al prossimo mese di ottobre (Don Mauro Gagliardi).

***

Nel suo esistere, l’uomo è individuato da due coordinate fondamentali: lo spazio e il tempo, due realtà che non si costruisce, ma che gli sono date. L’uomo è legato allo spazio e al tempo, e lo è anche la sua preghiera a Dio. Mentre la preghiera in quanto semplice atto religioso si può fare dappertutto, la liturgia, invece, in quanto atto di culto pubblico e ordinato, richiede un luogo, di norma un edificio, dove si può realizzare come rito sacro.

L’edificio di culto cristiano non è il corrispettivo del tempio pagano, dove la cella con l’effigie della divinità era anche considerata in qualche modo l’abitazione di quest’ultima. Come dice San Paolo agli ateniesi, “Dio non abita in templi costruiti dall’uomo” (Atti degli Apostoli 17,24).

C’è invece un rapporto più stretto con la Tenda del convegno, eretta nel deserto secondo le istruzioni di Dio stesso, dove la gloria del Signore (shekinah) si rendeva manifesta (Esodo 25,22; 40,34). Tuttavia, Salomone, dopo aver costruito il Tempio di Gerusalemme, edificio che prese il posto della Tenda del convegno, esclama, “Ma è proprio vero che Dio abita sulla terra? Ecco i cieli, e i cieli dei cieli non possono contenerti, tanto meno questa casa che io ho costruita!” (1 Re 8,27). Nella storia del popolo d’Israele avviene una spiritualizzazione, che porta al famoso passo dal libro del profeta Isaia: “Tutta la terra è piena della sua gloria” (Isaia 6,3; cf. Geremia 23,24; Salmi139,1-18; Sapienza 1,7), testo poi passato nel Sanctus della Liturgia Eucaristica. “Tutta la terra è santa e affidata ai figli degli uomini” (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1179).

Una tappa ulteriore è presente nel Vangelo secondo Giovanni, quando Cristo dichiara, durante il suo incontro con la donna samaritana, che “è giunto il momento, ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità” (Giovanni 4,23). Ciò non significa che, alla luce del Vangelo, non ci dovrebbe essere alcun culto pubblico o edificio sacro. Il Signore non dice che non ci dovrebbero essere luoghi per il culto nella Nuova Alleanza; allo stesso modo, nella profezia sulla distruzione del Tempio, Egli non afferma che non ci debba essere più alcun edificio costruito in onore di Dio, ma piuttosto che non ci debba essere un solo luogo esclusivo.

Cristo stesso, il suo corpo vivo, risorto e glorificato, è il nuovo tempio dove Dio dimora e dove si svolge il suo culto universale “in spirito e verità” (cf. J. Ratzinger, Introduzione allo spirito della liturgia, San Paolo, Cinisello Balsamo 2001, pp. 39-40). Come scrive San Paolo: “È in Cristo che abita corporalmente tutta la pienezza della divinità e voi avete in lui parte alla sua pienezza” (Colossesi 2,9-10). Per partecipazione, in forza del Battesimo, anche il corpo del cristiano diventa tempio di Dio (1 Corinzi 3,16-17; 6,19; Efesini 2,22). Utilizzando una frase molto cara a Sant’Agostino, Christus totus, il Cristo interoè il vero luogo di culto cristiano, cioè Cristo in quanto Capo e i cristiani in quanto membra del suo Corpo Mistico. I fedeli che si riuniscono in uno stesso luogo per il culto divino costituiscono le “pietre vive”, messe insieme “per la costruzione di un edificio spirituale” (1 Pietro 2,4-5). Infatti, è significativo che la parola che prima indicava l’azione del riunirsi dei cristiani, cioè ekklesia – Chiesa –, sia passata a indicare il luogo stesso in cui la riunione si realizza. Il Catechismo della Chiesa Cattolica insiste sul fatto che le chiese (come edifici) “nonsono semplici luoghi di riunione, ma significano e manifestano la Chiesa che vive in quel luogo, dimora di Dio con gli uomini riconciliati e uniti in Cristo” (n. 1180).

In epoca paleocristiana, forma tipica dell’edificio chiesa è diventata la basilica con grande navata centrale rettangolare, che termina in un’abside semicircolare. Tale tipo di edificio corrispondeva alle esigenze della liturgia cristiana e, allo stesso tempo, lasciava grande libertà ai costruttori, per la scelta dei singoli elementi architettonici ed artistici. La basilica esprime anche un orientamento assiale, che apre l’assemblea alle dimensioni trascendente ed escatologica dell’azione liturgica. Nella tradizione latina, la disposizione dello spazio liturgico con l’orientamento assiale è rimasta normativa e si ritiene che anche oggi sia la più adatta, perché esprime il dinamismo di una comunità in cammino verso il Signore.

Come afferma Benedetto XVI, “la natura del tempio cristiano è definita dall’azione liturgica stessa” (Sacramentum Caritatis, n. 41). Per questo, anche la progettazione degli arredi sacri (altare, tabernacolo, sede, ambone, battistero, luogo della penitenza) non può seguire soltanto criteri funzionali. L’architettura e l’arte non sono elementi estrinseci alla liturgia e neppure hanno una funzione puramente decorativa. Perciò, l’impegno di costruire o adeguare le chiese deve essere permeato dallo spirito e dalle norme dalla liturgia della Chiesa, ossia da quella lex orandi che esprime la lex credendi, e da questo risulta la grande responsabilità sia dei progettisti che dei committenti.

* Padre Uwe Michael Lang, C.O., è Officiale della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti e Consultore dell’Ufficio delle Celebrazioni Liturgiche del Sommo Pontefice.




Fonte: Zenit.org




 

martedì 26 giugno 2012

La Liturgia, itinerario dell'anima verso Dio

 

"Dobbiamo custodire in forma chiara e nitida la realtà della presenza e dell’opera di Cristo all’interno del Rito, facendo in modo che tutto concorra a mettere in risalto il primato del mistero della salvezza che viene celebrato"




di mons. Guido Marini *

* Maestro delle Celebrazioni Liturgiche Pontificie

 

 

Un’azione sacra per la santificazione dell’uomo

L’originalità tipica del Cristianesimo, che ne fa un “unicum” nella storia, è quella di non essere, propriamente parlando, una religione, bensì una fede. Che cosa si vuol dire con questo? Che il dinamismo dell’evento cristiano non procede dall’uomo per approdare a Dio, come culmine della ricerca, ma procede da Dio che si pone alla ricerca dell’uomo, lo viene a visitare, rivelandogli il mistero della sua vita intima.

In questo senso l’evento dell’Incarnazione è del tutto chiarificatore di quanto appena affermato. Gesù Cristo è il Figlio di Dio incarnato per noi, dono di salvezza per un’umanità altrimenti incapace, non solo di raggiungere con le proprie forze l’autentico Volto del divino, ma anche di scoprire in pienezza il senso della propria esistenza.

E’ per questo che quando si parla della vita cristiana se ne deve parlare sempre come di una chiamata dall’Alto che precede e rende possibile la risposta, di una grazia che fonda una responsabilità, di un dono inatteso che suscita corrispondenza. Insomma, nel cristianesimo il primato è sempre di Dio. Ed è a questo primato che è necessario rifarsi anche quando si entra nel grande tema della preghiera, del cammino spirituale dell’uomo, della vita liturgica della Chiesa.

Anche questi, ambiti, infatti, portano chiaro il segno della precedenza del Signore su qualsivoglia attività umana. Non esiste preghiera cristiana che non sia anzitutto suscitata dallo Spirito di Cristo nel cuore dell’uomo. Non si dà cammino spirituale che non proceda dalla grazia santificante. Non è pensabile una vita liturgica che non abbia come primo protagonista il Signore Gesù nell’esercizio della sua funzione sacerdotale.

“Giustamente perciò la liturgia è considerata come l’esercizio della funzione sacerdotale di Gesù Cristo. In essa, la santificazione dell’uomo è significata per mezzo di segni sensibili e realizzata in modo proprio a ciascuno di essi; in essa il culto pubblico integrale è esercitato dal corpo mistico di Gesù Cristo, cioè dal capo e dalle sue membra. Perciò ogni celebrazione liturgica, in quanto opera di Cristo sacerdote e del suo corpo, che è la Chiesa, è azione sacra per eccellenza, e nessun’altra azione della Chiesa ne eguaglia l’efficacia allo stesso titolo e allo stesso grado” (Concilio Vaticano II, Costituzione Apostolica, Sacrosanctum Concilium, 7).

In questo testo conciliare, ai fini della presente relazione, è necessario sottolineare due espressioni fondamentali, ovvero: “santificazione dell’uomo” e “azione sacra per eccellenza”. La relazione esistente tra questi due elementi della liturgia offre la ragione della scelta del passo citato, quale porta d’accesso al tema da trattare.

L’anima umana, ossia l’uomo, è chiamata a compiere l’itinerario verso Dio, a realizzare, pertanto, la propria santificazione. Questa è l’opera prima e decisiva della sua vita, il suo dovere primario (cfr. Pio XII, Lettera Enciclica Mediator Dei, 11). Ma un tale compito è realizzabile a partire da quell’azione sacra per eccellenza che è la liturgia: sacra perché azione di Cristo e del suo corpo che è la Chiesa; sacra perché esercizio della funzione sacerdotale di Gesù Cristo; sacra perché resa tale dalla potenza amorevole dello Spirito Santo.

Come afferma il beato Giovanni Paolo II, “la liturgia è il luogo privilegiato per questo incontro con Dio e con colui che ha inviato Gesu Cristo” (Lettera Apostolica Vicesimus quintus annus, 7). Infatti “le parole e i riti della liturgia sono… espressione fedele maturata nei secoli dei sentimenti di Cristo e ci insegnano a sentire come lui: conformando a quelle parole e gesti la nostra mente, eleviamo al Signore i nostri cuori” (Congregazione per il Culto divino e la Disciplina dei Sacramenti, Istruzione Redemptionis sacramentum, 5).

In tal modo siamo invitati a ricordare che esiste un legame essenziale tra la liturgia e la vita perfetta nella carità, il mistero di Cristo e l’itinerario dell’uomo verso Dio, tra il sacro e il santo nell’esperienza della fede. Se nessun’altra azione della Chiesa eguaglia l’efficacia della liturgia, vuol dire proprio che la possibilità di parlare adeguatamente di un itinerario spirituale verso Dio esiste anzitutto a partire da quell’azione sacra per eccellenza che è la celebrazione liturgica.

Sostiamo per un momento sul termine “sacro”. La liturgia costituisce il “sacro”, ne è il luogo privilegiato, ne determina e sviluppa il significato. Ma che cosa è propriamente questo “sacro”? La domanda, in verità, non è ben formulata. Correttamente deve essere riformulata così: “chi è il sacro”? In effetti il sacro è Gesù Cristo, secondo le parole sempre attuali di San Tommaso: “Sacrum absolute, ipse Christus” (Summa Theologiae III, 73, 1, 3m). Un tale “sacro” viene espresso, nella liturgia, con segni efficaci ed educativi, per l’opera dello Spirito Santo. Essi dicono all’uomo che è salvato e non si autosalva; che la salvezza, di conseguenza, è grazia e dono dall’Alto perché nessuno la trova originariamente e autonomamente in sé; che, in altre parole, è nel mistero di Cristo accolto e partecipato l’opera della nostra redenzione.

La liturgia “è essenzialmente actio Dei che ci coinvolge in Gesù per mezzo dello Spirito” (Benedetto XVI, Esortazione Apostolica Postsinodale Sacramentum caritatis, 37). Come ricordava l’allora Card. Ratzinger a Fontgombault, nel 2001, “Dio agisce nella liturgia attraverso Cristo e noi possiamo agire soltanto attraverso Lui e con Lui” (Opera omnia, Teologia della liturgia, p. 747).

La liturgia, quindi, possiede una sua sacralità o santità oggettiva alla quale ciascuno deve attingere per poter procedere nel cammino della propria santità, della santità personale e soggettiva. In questo legame con il “sacro” e, dunque, con una realtà oggettiva di grazia che ci precede, troviamo la specificità dell’itinerario dell’anima verso Dio a partire dalla liturgia.

Forse ora è più chiaro perché è del tutto appropriato il richiamo iniziale al testo citato della Sacrosanctum Concilium. Lì, infatti, vi troviamo l’autorevole fondazione dell’itinerario dell’anima verso Dio in quanto radicato nella liturgia. Soltanto là dove Gesù Cristo, risorto da morte, si rende presente per l’azione dello Spirito Santo e l’uomo si lascia afferrare, trasformare e condurre nella fede si invera l’itinerario di un’anima verso Dio.

 


Lo sviluppo dell’itinerario verso Dio

Chiarito il punto di partenza, dobbiamo ora delineare, almeno in parte, lo sviluppo dell’itinerario dell’anima verso Dio a cominciare dall’esperienza del sacro liturgico, ovvero dalla presenza operante di Gesù Cristo incontrata nell’azione liturgica.

La sacra Scrittura

Cristo stesso “è presente nella sua parola, giacché è Lui che parla quando nella Chiesa si legge la sacra Scrittura” (Sacrosanctum Concilium, 7). Non si può che partire da qui per illustrare quanta parte abbia la Parola di Dio, ascoltata nella liturgia, nell’itinerario dell’anima verso Dio. Al riguardo desidero richiamare tre importanti implicazioni.

1. Vi sono certamente altri luoghi e momenti per l’ascolto personale e fruttuoso delle Scritture sante. Tuttavia, come sappiamo, la Parola del Signore, ascoltata nel contesto della celebrazione liturgica, si accompagna in modo del tutto particolare all’azione dello Spirito Santo, che la rende operante nel cuore dei fedeli. La Scrittura, proclamata dalla Chiesa nel culto liturgico, è la Parola viva e attuale di Dio, così che si rende possibile un rapporto personale tra Dio e l’uomo nella successione del tempo.

Commentando un passo della Genesi, così si esprime sant’Ambrogio: “Che significa che Dio passeggiava nel paradiso, dal momento che egli è sempre in ogni luogo? Penso voglia dire questo: Dio passeggia attraverso i vari testi delle divine Scritture nelle quali è sempre presente” (De Paradiso, 14, 18). E’ proprio questa l’esperienza sempre nuova che si dischiude davanti all’anima che ascolta la Parola del Signore, nella Chiesa riunita in preghiera.

Sia che la si ascolti, sia che la si legga o proclami, sia che la si annunci, la Scrittura santa chiede di essere avvicinata e accolta con lo stupore grato della fede; quella fede che sa riconoscere qui e ora la voce del suo Signore che parla al suo popolo, che si rivolge a ciascuno in modo personale e unico. E’ proprio Cristo che parla alla comunità radunata, come quel giorno nella sinagoga di Nazaret, quando tutti gli occhi rimasero puntati su di lui. La voce umana che risuona nel luogo sacro è solo un segno che rimanda alla voce stessa di Cristo che risuona oggi, nel tempo della nostra vita.

Così, per il tramite della liturgia, l’anima apprende per esperienza diretta che cosa significa ascoltare e accogliere la Parola di Dio, non come parola di uomini, ma quale è veramente: Parola di Dio che mette a giudizio ogni altra parola che proviene dal mondo.


2. Inoltre, l’atto liturgico ha la capacità di sottrarre la pagina della Scrittura al gusto soggettivo e transitorio, donandola all’anima umana quale voce di Dio da accogliere, al presente, nella propria vita. In tal modo, il primato non è dato alla disposizione interiore individuale, ma a ciò che nell’oggi dell’atto liturgico il Signore desidera dire al suo popolo, educandolo alla vita evangelica.

Un esempio, forse, potrà esserci di aiuto per una migliore comprensione di quanto si va affermando. Quando partecipiamo a una celebrazione liturgica, noi vi entriamo con un particolare stato d’animo e accompagnati dalle molteplici esperienze di vita che hanno caratterizzato una singola giornata o un particolare periodo. E’ quasi naturale, in quel contesto, avvertire l’esigenza di una Parola che venga a illuminare ciò che stiamo vivendo. E, fosse per noi, probabilmente andremmo alla ricerca di un passo della Scrittura il più possibile confacente, in quel momento, alle nostre aspettative spirituali.

Con la liturgia, invece, questo non avviene. In qualunque situazione personale ci veniamo a trovare, la Parola del Signore ci è donata in qualche modo a prescindere da noi stessi. Anzi, siamo invitati a uscire dai noi stessi e dal nostro piccolo mondo per entrare nei più ampi spazi della volontà di Dio che, in quella Parola ascoltata nella Chiesa, raggiunge l’uomo come dono inatteso e norma di vita.

Ecco la grazia della Parola sacra accolta nell’atto liturgico! La grazia di rimanere coinvolti in un disegno più grande di noi. La grazia di imparare l’ascolto vero, capace di mettere da parte le personali priorità rendendosi disponibili alle priorità di Dio. La grazia di essere educati a fare della propria vita un atto di obbedienza, nella fede, alla volontà di Dio. Si tratta, in altre parole, di aprirsi alla potenza benefica della Verità, che non è soggetta a ciò che è transitorio, emotivo, opinabile.

Perché una tale grazia possa essere accolta abbiamo bisogno dell’intima azione dello Spirito Santo che rende operante nel nostro cuore la Parola di Dio (cfr. Benedetto XVI, Esortazione Apostolica Postsinodale Verbum Domini, 52). Anche per questo l’Ordinamento Generale del Messale Romano ci ricorda che “la Liturgia della Parola deve essere celebrata in modo da favorire la meditazione; quindi si deve assolutamente evitare ogni forma di fretta che impedisca il raccoglimento. In essa sono opportuni anche brevi momenti di silenzio, adatti all’assemblea radunata, per mezzo dei quali, con l’aiuto dello Spirito Santo, la parola di Dio venga accolta nel cuore e si prepari la risposta con la preghiera” (n. 56).

Solo così l’anima diverrà capace di prolungare l’ascolto autentico di Dio che le parla anche al di là dell’esperienza liturgica: nella relazione personale con il testo sacro, a contatto con i diversi accadimenti della vita e della storia, ricercando il senso dei movimenti del cuore e nell’impegno ad autenticare le ispirazioni interiori.


3. Infine è bene anche aggiungere che, nella celebrazione liturgica, non è l’uomo a piegare a sé il Signore, ma è il Signore a condurre l’uomo nella propria intimità. La Chiesa, quale soggetto vivente, nella sua liturgia ascolta e interpreta la Parola che Dio le rivolge. E ciascuno è chiamato a entrare nello stesso ascolto e nella stessa interpretazione, rinunciando a una manipolazione che condurrebbe non all’ascolto di Dio, ma di se stessi.

Una tentazione ricorrente nell’esperienza della fede è quella di ridurre la Parola del Signore alla propria misura, oltreché di alterare la voce di Dio, fino a scambiare l’una per l’altra. Così può capitare che quella fede, scaturita da un ascolto viziato in radice, assuma una forma non vera, non autenticamente ecclesiale, non in sintonia con il progetto di Dio.

La liturgia della Chiesa, invece, garantisce la Parola di Dio da riduzioni arbitrarie, da interpretazioni erronee, porgendola nella sua integralità e verità, così che tutto il mistero di Cristo lì contenuto possa essere ascoltato e divenire principio di un nuovo modo di pensare e di vivere.

Solo così l’anima cristiana acquista progressivamente il pensiero stesso di Cristo, rivive i suoi sentimenti, diviene capace di uno sguardo su di sé e sul mondo che è proprio lo sguardo della fede della Chiesa. E’ proprio questo sguardo della fede comune che la liturgia è capace di custodire con cura.

A Fontgombault, nel già citato intervento del 2001, il Card. Ratzinger ricordava che “le configurazione liturgiche possono, a seconda del luogo e del tempo, essere molteplici, come sono molteplici i riti. Essenziale è il legame con la Chiesa, che a sua volta, mediante la fede è legata al Signore. L’obbedienza della fede garantisce l’unità della liturgia al di là del confine di luoghi e tempi e rende così sperimentabile l’unità della Chiesa, Chiesa come patria del cuore” (Opera omnia, Teologia della liturgia, p. 749).

 


Il sacrificio eucaristico

Cristo “è presente nel sacrificio della Messa, sia nella persona del ministro, essendo egli stesso che, «offertosi una volta sulla croce, offre ancora se stesso tramite il ministero dei sacerdoti», sia soprattutto sotto le specie eucaristiche” (Sacrosanctum Concilium, 7).

Una tale presenza del Signore – nella sua offerta sacrificale e, soprattutto, sotto le specie eucaristiche – ci conduce al cuore dell’influsso di grazia che il sacro liturgico ha sull’itinerario dell’anima verso Dio. Desidero, in questo caso, delineare due prospettive di riflessione.

1. Mettiamoci, per un istante, in ascolto di San Paolo: “Vi esorto, dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale (Rm 12, 1). “Sono stato crocifisso con Cristo, e non vivo più io, ma Cristo vive in me. E questa vita che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me (Gal 2, 20).

Per l’Apostolo tutta la vita del cristiano è un sacrificio, che non ha soltanto un riferimento necessario e continuo al mistero di Cristo, ma ne è la stessa presenza. Il cristiano non è un semplice imitatore di Gesù, quasi fosse chiamato a ricopiare dall’esterno un modello di vita, ma è partecipe dello stesso mistero, fatto presente nell’atto liturgico dell’offerta sacrificale. In virtù dell’opera dello Spirito Santo diventa reale la contemporaneità tra il mistero della salvezza e il tempo dell’uomo.

Per questo l’anima cristiana è chiamata a divenire un sacrificio vivente, una liturgia vivente. In lei dovrà rivivere l’atto supremo con il quale Cristo consegna se stesso al Padre per la salvezza del mondo. “La santità dell’uomo esige la presenza di quest’Atto, e la presenza dell’Atto è il Sacrificio: non più solo di Cristo, ma della Chiesa intera. Tutta la santità della Chiesa, tutta la sua vita è l’Eucaristia, in cui l’Atto del Cristo si fa presente nell’atto stesso del sacerdote ministro della Chiesa; si fa presente nella e per la comunità di tutti quanti i fedeli, che non assistono passivamente ma partecipano attivamente al Sacrificio come all’Atto che fonda e consuma tutta la loro esperienza cristiana” (Divo Barsotti, Il mistero della Chiesa nella liturgia, p. 172).

Qui, dunque, troviamo la radice di ogni possibile itinerario dell’anima verso Dio. Ancora di più: qui la liturgia si propone pienamente come fonte e culmine della vita cristiana. Non vi può essere, infatti, vita cristiana che non parta dal quel sacrificio come sua fonte, come non vi può essere vita cristiana che non tenda a quel sacrificio come suo culmine.


2. Se ora ci addentriamo un po’ di più nell’atto sacrificale del Signore, ne scopriamo tre diversi risvolti.

- Anzitutto il sacrifico di Cristo è un sacrificio di adorazione. Nel dono radicale della propria vita il Signore pronuncia il suo sì al disegno del Padre e alla sua volontà. In Lui la vita dell’uomo non è più dissonante rispetto al progetto di Dio. E’ ristabilita l’adesione piena e definitiva tra il Creatore e la sua creatura. La morte e la risurrezione del Signore sono il suggello di una umanità rinnovata, perché salvata dal dramma della separazione da Dio, nel tempo e nell’eternità.

L’Eucaristia “è l'incontro e l'unificazione di persone; la persona, però, che ci viene incontro e desidera unirsi a noi è il Figlio di Dio. Una tale unificazione può soltanto realizzarsi secondo le modalità dell'adorazione. Ricevere l'Eucaristia significa adorare Colui che riceviamo. Proprio così e soltanto così diventiamo una cosa sola con Lui” (Benedetto XVI, Discorso alla Curia Romana, 22.XII.2005).

Nella partecipazione liturgica al sacrificio di Cristo, l’anima cristiana diviene tempio della vita nuova dei figli di Dio, perché le è donata la capacità di adorare il disegno del Padre e di uniformarsi alla sua volontà. L’anima diventa davvero cristiana, perché l’adesione radicale a Dio da parte di Gesù le è partecipata, diventando in lei principio di nuova umanità.

- Il sacrificio di Cristo, in secondo luogo, è un sacrificio di propiziazione. Nella sua immolazione cruenta, infatti, il sacrificio del Signore è anche propiziazione per i peccati del mondo. Il dono sacrificale della croce suppone il peccato e lo sconfigge una volta per tutte e a vantaggio di tutti.

Nella partecipazione liturgica al sacrificio di Cristo, l’anima cristiana riceve in dono la capacità di alterità radicale rispetto al male in ogni sua forma. E, tuttavia, è proprio qui che ha inizio il suo itinerario verso Dio. Quella capacità ricevuta in dono dovrà essere confermata progressivamente nel corso dell’esistenza; dovrà riproporsi anche come pentimento sincero a fronte di ogni piccolo e grande compromesso con il peccato; dovrà, poi, divenire accettazione della sofferenza nella propria vita, come forma di collaborazione con il Salvatore, nell’opera di riscatto a favore dei fratelli, accomunati dallo stesso destino di colpa.

Si comprende così l’importanza delle preghiere e dei gesti che, nel corso della Santa Messa, favoriscono l’atteggiamento penitenziale e di conversione.

- Il sacrificio di Cristo, inoltre, è un sacrificio di lode e di rendimento di grazie. In Cristo sacrificato sulla croce, in effetti, l’umanità intera innalza il suo inno di lode e di grazie al Padre per la salvezza donata. E in quella natura umana che il Signore porta in sé, è presente anche l’intera creazione che torna a orientarsi verso il suo Creatore. Insomma, in quell’atto sacrificale che si rinnova nella liturgia della Chiesa è l’intero cosmo che finalmente si rivolge a Dio, nel canto della lode e del ringraziamento.

In tal modo l’anima cristiana diventa partecipe di un movimento cosmico di ritorno al Padre. Anzi, proprio lei si fa portavoce di un tale ri-orientamento che comprende tutto e tutti, così che nel suo canto è il canto dell’intero creato già in qualche modo trasfigurato, anche se non ancora del tutto trasformato nei cieli nuovi e nella terra nuova dell’eternità.

Tutto questo diviene realtà nell’ascolto partecipe, riverente e silenzioso della Preghiera eucaristica. In questa, che è la grande preghiera di azione di grazie e di santificazione, “il sacerdote invita il popolo a innalzare il cuore verso il Signore nella preghiera e nell’azione di grazie, e lo associa a sé nella solenne preghiera, che egli, a nome di tutta la comunità, rivolge a Dio Padre per mezzo di Gesù Cristo nello Spirito Santo. Il significato di questa Preghiera è che tutta l’assemblea dei fedeli si unisca insieme con Cristo nel magnificare le grandi opere di Dio e nell’offrire il sacrificio” (Ordinamento Generale del Messale Romano, 78).

 


La Chiesa in preghiera

Cristo “è presente infine quando la Chiesa prega e loda, lui che ha promesso: «Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, là sono io, in mezzo a loro» (Mt 18, 20)” (Sacrosanctum Concilium, 7).

La citata affermazione conciliare ci porta a considerare l’itinerario dell’anima verso Dio, in quanto inserita nel mistero della Chiesa. E qui è mia intenzione richiamare tre distinti aspetti della questione.


1. “Il mistero della Chiesa che la liturgia fa presente non è l’assemblea visibile: attraverso di essa e per essa è tutta la Chiesa che si fa presente… Con Cristo si fanno presenti i Santi che sono un solo Corpo con Lui. E’ presente Dio che si comunica, ma Cristo non è realmente presente se non è presente con Lui un’umanità, cui Egli si è veramente comunicato. La Chiesa si fa presente non tanto nell’assemblea, quanto per mezzo dell’assemblea visibile: l’assemblea è la condizione e il segno della presenza di una Chiesa che è peregrinante negli uomini quaggiù ed è già trionfante nella presenza dei Santi…” (Divo Barsotti, Il mistero della Chiesa nella liturgia, p. 100-101).

In tal modo l’anima cristiana, mediante l’atto liturgico, rinnova e approfondisce l’esperienza della Chiesa, che è comunione intima di Cielo e terra. Davvero, nella liturgia, il Cielo di Dio si rende presente sulla terra dell’uomo. E l’uomo, da questo Cielo, rimane “impressionato”, nel senso che la grandezza e la bellezza del Cristo totale si imprimono nel suo cuore, rendendolo capace di annuncio e di speranza.

Capace di annuncio, perché l’impronta di Cielo che porta in sé diventa essa stessa voce eloquente davanti al mondo, richiamo suadente alla verità e alla gioia della salvezza.

Capace di speranza, perché ciò che i suoi occhi hanno veduto apre il tempo all’eternità di Dio ed è promessa di un “per sempre” che attende al di là della fine dei giorni terreni.

D’altra parte, la celebrazione liturgica, nel suo rendere presente il mistero della Chiesa, consente all’anima cristiana di prendere parte a quel cammino spirituale che Romano Guardini definiva “il risveglio della Chiesa nelle anime”. Lì, infatti, si avverte la vitalità della Chiesa; lì si entra in relazione con quel soggetto vivente che abbraccia il tempo e lo spazio riconducendoli a Dio; lì si percepisce di essere parte di una comunione di amore che discende dal Capo, che è Cristo, e fonde in un corpo solo noi, sue membra. E l’anima cristiana, essa stessa, diviene Chiesa perché in lei si rende in qualche modo presente il mistero dell’unità tra Cielo e terra.


2. Con il Signore, nella Chiesa che prega, si fanno presenti i santi. La liturgia è anche la presenza dei santi, di coloro che definitivamente vivono in Cristo, qui tra di noi.

Nella liturgia cristiana i santi sono sempre associati al canto, al ringraziamento, alla lode, alla preghiera di coloro che vivono ancora l’esperienza del pellegrinaggio terreno. I santi, pertanto, non sono solo intercessori cui rivolgersi per chiedere grazie e aiuto; neppure sono soltanto esempi da imitare per meglio seguire il Signore nel cammino del discepolato. I santi, nella liturgia della Chiesa, sono presenti, parte di una famiglia grande che vive nel tempo e al di fuori del tempo.

In tal modo l’uomo viatore supera la sua solitudine e vive la gioia di un’appartenenza comune che sostiene il suo itinerario per le strade del mondo. Il Canone romano invita a ricordare prima i cori degli Angeli e poi gli Apostoli, i Martiri, i Confessori, le Vergini. Infine parla degli uomini che vivono quaggiù, di noi peccatori. Nel ritrovarci compagni di viaggio di quanti hanno già raggiunto la meta, avvertiamo il rinnovato coraggio di intraprendere anche noi il loro stesso itinerario di santità. Così la loro presenza diventa stimolo a non tergiversare, ad abbandonare il compromesso con la mondanità, a interrompere ogni legame con il peccato, a rivolgere con decisione la mente e il cuore al vero Bene.


3. Nel mistero della Chiesa, che la liturgia rende presente, riconosciamo anche la figura della SS. Vergine.

In lei tutta la Chiesa si identifica, perché a lei Dio si è donato totalmente. In lei si rivela la redenzione compiuta. La liturgia contempla Dio che si comunica al mondo in Cristo, ma contempla anche un mondo tutto pervaso dalla gloria di Dio. E questo mondo è la Vergine Santa.

Tutta la creazione non riceverà mai Dio più di come l’ha ricevuto Maria, mistero della presenza di Dio sulla terra. La Vergine non dice altro che “Dio”. Lei, che è puro cristallo, non ferma a sé ma rimanda a Dio. Questa è la Vergine, questa è anche la Chiesa, la Sposa che si abbandona totalmente all’Amore per riceverlo tutto.

L’anima cristiana, dalla contemplazione liturgica della Vergine Sposa, apprende quale sia la sua chiamata. L’inveramento in lei del mistero della Chiesa coincide con il suo essere sposa, termine dell’amore del Signore al quale abbandonarsi con totale generosità. Quando sant’Ambrogio guarda alla Madonna e si rivolge all’anima cristiana con l’invito accorato: “Sia in ciascuno l’anima di Maria a magnificare il Signore, sia in ciascuno lo spirito di Maria a esultare in Dio” (Esposizione del Vangelo secondo Luca, II, 26), non dice altro che questo. Nel lasciare che il proprio cuore si renda accogliente dell’anima e dello spirito di Maria, l’uomo si apre alla dimensione della sponsalità, divenendo partecipe del mistero grande che lega Cristo alla sua Chiesa.

 


Due ultime osservazioni:


La custodia del sacro liturgico

Se si è partiti dal richiamo alla sacralità liturgica per fondare il discorso dell’itinerario dell’anima verso Dio e se, a più riprese, si è cercato di indicare in quale modo una tale sacralità fonda e accompagna il percorso spirituale dell’uomo, vale la pena, forse, ricordare quanto sia importante che la celebrazione liturgica, ogni celebrazione liturgica sappia custodire il “sacro liturgico”.

Custodire il “sacro liturgico” significa custodire in forma chiara e nitida la realtà della presenza e dell’opera di Cristo all’interno del Rito, facendo in modo che tutto concorra a mettere in risalto il primato del mistero della salvezza che viene celebrato. Come ricorda il Santo Padre Benedetto XVI: “Se nella liturgia non emergesse la figura di Cristo, che è il suo principio ed è realmente presente per renderla valida, non avremmo più la liturgia cristiana, completamente dipendente dal Signore e sostenuta dalla sua presenza creatrice” (Discorso ai Vescovi della Conferenza Episcopale del Brasile – Regione Norte 2- in Visita “ad limina apostolorum”, 15 aprile 2010).

Non è questo il luogo per scendere nel dettaglio. Sia, tuttavia, sufficiente il richiamo alla bellezza, quale elemento integrante e non accessorio della liturgia della Chiesa. Solo ciò che è veramente bello è anche comunicativo del bene e del vero e, pertanto, è capace di custodire il sacro, ovvero lo stesso Signore Gesù, volto definitivo dell’amore di Dio.

In questo senso la custodia attenta e premurosa del sacro è un servizio prezioso all’anima cristiana e al suo itinerario verso Dio. L’ormai celebre adagio “la bellezza salverà il mondo” è quanto mai appropriato in questo contesto. Solo la bellezza, ovvero solo Gesù Cristo può salvare il mondo. Solo la sua bellezza, custodita dalla sacralità della liturgia, potrà attirare l’anima cristiana nel mondo nuovo della santità, dove la stessa bellezza di Dio è comunicata all’uomo e diventa concretamente attingibile da tutti.

 

L’elogio dell’ otium

Il richiamo alla dimensione del sacro, insito nella liturgia, per illustrare l’itinerario dell’anima verso Dio ha inteso privilegiare la dimensione oggettiva della vita spirituale rispetto al percorso soggettivo. Il che, in altri termini, significa anche affermare il primato della via dell’accoglienza del dono rispetto a quella della confusa e affannata ricerca. In fondo, si tratta dello specifico della fede cristiana applicato all’itinerario spirituale dell’uomo.

Il celebre filosofo tedesco J. Pieper afferma: “L’otium non è l’atteggiamento di chi assale, invade, ma di chi s’apre accogliente; non sta nel comportamento di chi stringe afferrando, ma di chi allenta, di chi si distende, abbandonandosi, quasi come s’abbandona il dormiente…” (“Otium” e culto, p. 61).

In questo senso l’ “otium” è ciò che accade nel cuore dell’uomo quando egli si trova in armonia con la verità di sé, è la condizione spirituale che nasce dall’adesione al dono di Dio, simile al colloquio degli amanti che si nutre di intimo accordo.

Il Santo Padre Benedetto XVI, in un suo discorso, accenna all’oscuramento del significato cristiano del mistero, declinando il possibile pericolo così: “…come avviene quando nella Santa Messa non appare più preminente e operante Gesù, ma una comunità indaffarata in molte cose, invece di essere raccolta e di lasciarsi attrarre verso l'Unico necessario: il suo Signore. Ora l'atteggiamento principale e fondamentale del fedele cristiano che partecipa alla celebrazione liturgica non è fare, ma ascoltare, aprirsi, ricevere” (Discorso ai Vescovi della Conferenza Episcopale del Brasile – Regione Norte 2- in Visita “ad limina apostolorum” 15 aprile 2010).

E’, dunque, quanto mai importante custodire con cura la dimensione contemplativa della liturgia, quella particolare forma di “otium” che è lo spazio spirituale dell’apertura e della partecipazione al Mistero celebrato. Anche una tale custodia è un servizio prezioso all’anima cristiana e al suo itinerario verso Dio.

L’anima cristiana ha di fronte a sé una duplice via: quella dell’ “otium” e quella della “acedia”, intesa come mancanza di armonia con il proprio essere e, in ultima analisi, con Dio. L’azione sacra della Chiesa che è la liturgia si propone all’anima cristiana come scuola alta di “otium”, ovvero di quella contemplazione attiva che apre alla partecipazione della salvezza donata da Dio. Di questo “otium” si è inteso fare qui l’elogio. Perché è proprio in virtù di questo “otium” che l’anima cristiana può compiere felicemente il proprio itinerario verso Dio.

 

Conferenza tenuta da mons. Guido Marini al 43° Congresso Internazionale dell’Associazione “Sanctus Benedictus Patronus Europae”, Roma, 25 novembre 2011.

fonte: http://www.vatican.va/news_services/liturgy/2011/documents/ns_lit_doc_20111125_itinerario-anima_it.html