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by Aldo Maria Valli
di Vincenzo Rizza
Caro Aldo Maria,
c’è un errore ricorrente, tanto nella teologia quanto nell’economia: credere che la storia sia la misura di ogni cosa. È l’errore dello storicismo.
Di recente il professor Roberto de Mattei, in un articolo sul Concilio di Nicea e il Vaticano II, ha osservato che «Il Concilio Vaticano II, a differenza di Nicea, di Trento e del Vaticano I, si presentò come un concilio pastorale, ma non ci può essere un concilio pastorale che non sia anche dogmatico. Il Vaticano II rinunziò a definire nuovi dogmi, ma dogmatizzò la pastorale, facendo propria la filosofia contemporanea, secondo la quale è nell’azione che si verifica la verità del pensiero. La teologia dogmatica tradizionale fu accantonata e sostituita da una “filosofia dell’azione”, che porta necessariamente con sé il soggettivismo e il relativismo… La teologia pastorale del Vaticano II rappresenta una rottura con la teologia dogmatica del Concilio di Nicea, proprio per la sua pretesa di adattarsi all’immanentismo della filosofia moderna. Per entrare in consonanza con il mondo, la Chiesa deve accantonare la sua dottrina e affidare alla storia il criterio di verifica della sua verità. Ma sono stati i risultati della nuova teologia pastorale che ne hanno dimostrato il fallimento».
Padre Serafino Lanzetta, a sua volta, nel suo libro «Il Vaticano II, un Concilio pastorale», ha sottolineato «la superiorità del mistero rispetto alla storia e la necessità di accostarvisi gradualmente mediante una conoscenza sempre più profonda: ciò che la Tradizione viva offre alla fede della Chiesa. La Sacra Scrittura è la regola della fede in quanto divinamente ispirata, la Tradizione, invece, divinamente assistita, non solo permette alle Scritture di essere sempre contemporanee all’uomo e di non diventare una Parola pronunciata nel passato, ma altresì, concede alla fede di poter avere in esse un solido basamento per quelle verità che porta in sé embrionalmente e che maturano nel cammino di fede della Chiesa”. Il Concilio Vaticano II non è l’unico concilio della Chiesa e i documenti conciliari vanno letti alla luce non solo delle Scritture ma anche della Tradizione: la loro autorità dipende dalla coerenza con la Rivelazione, non dal fatto di essere stati scritti negli anni Sessanta».
Personalmente vedo in queste affermazioni un parallelismo con un dibattito che, a un primo sguardo, sembra del tutto inconferente: la disputa che ha visto contrapposto Carl Menger, fondatore della Scuola austriaca di economia, a Gustav Schmoller, fondatore della Giovane scuola storica tedesca.
Gli storicisti, infatti, tendevano a negare l’esistenza di leggi economiche universali riducendo tutto alla storia: esistono solo fatti storici specifici con l’effetto che ogni popolo e ogni epoca hanno la loro economia e che le rappresentazioni storiche sono, di fatto, l’unico legittimo compito della ricerca nel campo dell’economia.
Menger si oppose duramente a tale teoria, rispondendo a Schmoller con il saggio, del 1884 «Gli errori dello storicismo»: se l’economia si riduce a cronaca, di fatto non è più scienza economica. In particolare, «la storia dell’economia non è affatto una parte dell’economia politica, bensì di questa è una scienza ausiliaria, un’utile, indispensabile scienza ausiliaria, ma pur sempre scienza ausiliaria». Gli storici dell’economia «invece di ricercare le “leggi dell’economia” e “i principi per l’agire efficace nel campo dell’economia politica”, raccolgono materiale per stabilire quelle verità scientifiche… Si occupano solo di una delle scienze ausiliarie dell’economia politica, e per di più di una che può fornirci solo una parte del necessario materiale empirico utile a stabilire le verità dell’economia politica, mentre s’illudono di elaborare l’economia politica stessa. Tale veduta è paragonabile a quella del carrettiere che voleva valere come architetto per aver portato alcune carrettate di sabbia e di pietre al cantiere».
Mutatis mutandis, lo stesso vale in campo ecclesiale. Se il Concilio Vaticano II diventa un mero «evento storico» che segna un prima e un dopo, come se la Chiesa fosse un organismo che si reinventa a seconda dell’epoca, allora la fede, e con essa la verità, è dissolta nello storicismo: scompare il dogma in favore della cronaca; scompare la Tradizione in favore dell’adeguamento allo zeitgeist. I teologi che pretendono di cercare la verità con il metodo storico diventano, così, come il «carrettiere che voleva valere come architetto».
Menger, da una parte, e de Mattei e Lanzetta, dall’altra, pur in ambiti diversi, sembrano combattere la stessa battaglia: contro l’illusione che la storia sia il criterio ultimo della verità. La storia conta, ma viene dopo la verità. È la verità che precede la storia (e la giudica), non il contrario.
Con buona pace, allora, degli storicisti di ieri e dei modernisti di oggi, non sono le Scritture e i testi conciliari a doversi piegare allo “spirito del tempo”, ma il tempo a doversi piegare alla verità. Se il relativismo storico prende il sopravvento, rimane solo la cronaca. La cronaca, tuttavia, senza verità non serve e non salva. E questo vale sia per l’economia che, soprattutto, per la Chiesa.
by Aldo Maria Valli
di Vincenzo Rizza
Caro Aldo Maria,
c’è un errore ricorrente, tanto nella teologia quanto nell’economia: credere che la storia sia la misura di ogni cosa. È l’errore dello storicismo.
Di recente il professor Roberto de Mattei, in un articolo sul Concilio di Nicea e il Vaticano II, ha osservato che «Il Concilio Vaticano II, a differenza di Nicea, di Trento e del Vaticano I, si presentò come un concilio pastorale, ma non ci può essere un concilio pastorale che non sia anche dogmatico. Il Vaticano II rinunziò a definire nuovi dogmi, ma dogmatizzò la pastorale, facendo propria la filosofia contemporanea, secondo la quale è nell’azione che si verifica la verità del pensiero. La teologia dogmatica tradizionale fu accantonata e sostituita da una “filosofia dell’azione”, che porta necessariamente con sé il soggettivismo e il relativismo… La teologia pastorale del Vaticano II rappresenta una rottura con la teologia dogmatica del Concilio di Nicea, proprio per la sua pretesa di adattarsi all’immanentismo della filosofia moderna. Per entrare in consonanza con il mondo, la Chiesa deve accantonare la sua dottrina e affidare alla storia il criterio di verifica della sua verità. Ma sono stati i risultati della nuova teologia pastorale che ne hanno dimostrato il fallimento».
Padre Serafino Lanzetta, a sua volta, nel suo libro «Il Vaticano II, un Concilio pastorale», ha sottolineato «la superiorità del mistero rispetto alla storia e la necessità di accostarvisi gradualmente mediante una conoscenza sempre più profonda: ciò che la Tradizione viva offre alla fede della Chiesa. La Sacra Scrittura è la regola della fede in quanto divinamente ispirata, la Tradizione, invece, divinamente assistita, non solo permette alle Scritture di essere sempre contemporanee all’uomo e di non diventare una Parola pronunciata nel passato, ma altresì, concede alla fede di poter avere in esse un solido basamento per quelle verità che porta in sé embrionalmente e che maturano nel cammino di fede della Chiesa”. Il Concilio Vaticano II non è l’unico concilio della Chiesa e i documenti conciliari vanno letti alla luce non solo delle Scritture ma anche della Tradizione: la loro autorità dipende dalla coerenza con la Rivelazione, non dal fatto di essere stati scritti negli anni Sessanta».
Personalmente vedo in queste affermazioni un parallelismo con un dibattito che, a un primo sguardo, sembra del tutto inconferente: la disputa che ha visto contrapposto Carl Menger, fondatore della Scuola austriaca di economia, a Gustav Schmoller, fondatore della Giovane scuola storica tedesca.
Gli storicisti, infatti, tendevano a negare l’esistenza di leggi economiche universali riducendo tutto alla storia: esistono solo fatti storici specifici con l’effetto che ogni popolo e ogni epoca hanno la loro economia e che le rappresentazioni storiche sono, di fatto, l’unico legittimo compito della ricerca nel campo dell’economia.
Menger si oppose duramente a tale teoria, rispondendo a Schmoller con il saggio, del 1884 «Gli errori dello storicismo»: se l’economia si riduce a cronaca, di fatto non è più scienza economica. In particolare, «la storia dell’economia non è affatto una parte dell’economia politica, bensì di questa è una scienza ausiliaria, un’utile, indispensabile scienza ausiliaria, ma pur sempre scienza ausiliaria». Gli storici dell’economia «invece di ricercare le “leggi dell’economia” e “i principi per l’agire efficace nel campo dell’economia politica”, raccolgono materiale per stabilire quelle verità scientifiche… Si occupano solo di una delle scienze ausiliarie dell’economia politica, e per di più di una che può fornirci solo una parte del necessario materiale empirico utile a stabilire le verità dell’economia politica, mentre s’illudono di elaborare l’economia politica stessa. Tale veduta è paragonabile a quella del carrettiere che voleva valere come architetto per aver portato alcune carrettate di sabbia e di pietre al cantiere».
Mutatis mutandis, lo stesso vale in campo ecclesiale. Se il Concilio Vaticano II diventa un mero «evento storico» che segna un prima e un dopo, come se la Chiesa fosse un organismo che si reinventa a seconda dell’epoca, allora la fede, e con essa la verità, è dissolta nello storicismo: scompare il dogma in favore della cronaca; scompare la Tradizione in favore dell’adeguamento allo zeitgeist. I teologi che pretendono di cercare la verità con il metodo storico diventano, così, come il «carrettiere che voleva valere come architetto».
Menger, da una parte, e de Mattei e Lanzetta, dall’altra, pur in ambiti diversi, sembrano combattere la stessa battaglia: contro l’illusione che la storia sia il criterio ultimo della verità. La storia conta, ma viene dopo la verità. È la verità che precede la storia (e la giudica), non il contrario.
Con buona pace, allora, degli storicisti di ieri e dei modernisti di oggi, non sono le Scritture e i testi conciliari a doversi piegare allo “spirito del tempo”, ma il tempo a doversi piegare alla verità. Se il relativismo storico prende il sopravvento, rimane solo la cronaca. La cronaca, tuttavia, senza verità non serve e non salva. E questo vale sia per l’economia che, soprattutto, per la Chiesa.
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