lunedì 31 agosto 2015

Un errore moderno: ritenere le liturgie orientali più antiche e più “pure” del rito romano

    
[fonte: Fides et Forma]
[fonte: Fides et Forma]
 




di Isacco Tacconi

Nell’attuale dibattito sulle forme della celebrazione della Santa Messa, non di rado l’accento viene posto sulla “riformabilità” o su un “armonico adattamento” dei riti liturgici in forza di una convinzione erronea secondo la quale, con il Concilio di Trento, sarebbe stata creata una “Nuova Messa” lontana dalle celebrazioni dei primi secoli. In tale prospettiva si vorrebbe legittimare un’ulteriore e indefinita riformabilità della Messa. Si è diffusa cioè la credenza erronea che la Messa cosiddetta “Tridentina” sia appunto un’invenzione figlia del suo tempo, senza radici, lontana dalle quasi mitologiche liturgie dei padri della Chiesa e ancor più da quelle dei cristiani dei primi secoli. Ma, contemporaneamente a questa tendenza verso la “riforma”, si affianca paradossalmente una tendenza alla cementificazione statuaria della Liturgia che si vorrebbe giustificare guardando alla fissità dei riti liturgici delle Chiese orientali. Queste due tendenze, ossia l’una rivolta alla riforma e l’altra rivolta al fissismo, molto spesso oggi vengono, con evidente contraddizione, simultaneamente affermate. Non fa mistero che dopo il Concilio Vaticano II la tendenza alla sovversione della liturgia e l’apertura a qualsiasi forma d’innovazione bislacca vada a braccetto con un senso di inferiorità e di ammirazione per i cristiani (autodefinitosi) ortodossi. Si crede e si insegna, infatti, che i greci o gli armeni o gli slavi o i copti hanno conservato molto meglio di noi romani/latini la “purezza originaria” della liturgia apostolica.

Non ci si avvede però, che imboccando la via del fascino e dell’attrazione per una forma di mistica archeologica, si giunge inavvertitamente e lentamente a professare l’eresia secondo cui gli orientali avrebbero conservato non solo la liturgia autentica, ma anche la fede autentica o, peggio ancora, la Tradizione autentica, il che significa la Divina Rivelazione autentica. Non starò qui a cercare di dimostrare la gravità di tali affermazioni perché, come dice Aristotele, è da stolti chiedere il perché delle cose evidenti.

Quel che è più importante, piuttosto, è dissipare alcune false credenze storico-liturgiche che rischiano di portare, in questo momento di grave crisi della Chiesa, altre pecore fuori dall’unico ovile di Cristo ma questa volta non per la via del liberalismo bensì per la via del purismo anomico.
Apriamo qui una breve digressione sul significato della parola “anomia” dal greco a-nomos = assenza di legge. Il dizionario di filosofia e delle scienze umane così la definisce: “lo stato di frustrazione e di assenza di punti di riferimento e valori in cui si possono trovare individui o gruppi in una società in cui, a causa delle rapide trasformazioni che ne sconvolgono gli assetti tradizionali, il vincolo tra individuo e valori della collettività va perduto […]. Di fronte all’anomia l’individuo può reagire in vari modi, descritti e classificati da Merton: dal conformismo alla rinuncia, al tentativo di innovazione, alla ribellione”.
Non possiamo negare che la società contemporanea abbia attraversato e stia tutt’ora attraversando uno sconvolgimento radicale, una sorta di cataclisma spirituale da cui non va esente nemmeno la «società dei veri cristiani» ovvero la Chiesa Cattolica (Cat. San Pio X n.105).
Questa crisi generale e capillare, come abbiamo detto, può indurre a guardare e a cercare la quiete del cuore al di fuori della Chiesa Romana, per esempio nelle chiese scismatiche ed eretiche orientali.

Vien dunque doveroso chiedersi: è giustificata la credenza secondo cui gli “ortodossi” hanno conservato la liturgia e la Fede meglio di noi cattolici romani? Cerchiamo di rispondere.

Esiste – dice Michael Davies – ciò che il padre Fortescue descrive come una sorta di «pregiudizio secondo il quale tutto ciò che appartiene alle Chiese orientali è necessariamente antico». Opinione erronea: non esiste attualmente nella liturgia orientale chi possiede un uso ininterrotto così antico come la Messa romana[1]. Questo è particolarmente vero per il canone romano. Dom Cabrol, monaco benedettino, il «padre» del movimento liturgico moderno, sottolinea che il «canone del nostro rito romano, che fu, per l’essenziale, redatto nel IV secolo, è l’esempio più antico e più venerabile di tutte le preghiere eucaristiche in uso oggi»”[2].
Le testimonianze a tal riguardo non mancano. “È dalla tradizione apostolica (ex apostolica traditione)dice il papa Vigilio nella sua lettera a Profuturo – che noi abbiamo ricevuto il testo della preghiera del Canone”.
Ancor più chiaramente il beato Ildefonso Schuster dichiara che il Liber Pontificalis ci attesta l’origine apostolica della liturgia romana e che “ripetendo oggi dopo tanti secoli nella Messa la prece consacratoria, noi possiamo esser sicuri di pregare, non solo già colla fede di Damaso, d’Innocenzo, di Leone Magno, ma colle stesse parole che prima di noi essi ripetettero all’altare e che anzi santificarono la primigenia età dei Dottori, dei Confessori e dei Martiri[3].

Dunque il primato dell’antichità delle forme liturgiche in uso ancora oggi, non risiederebbe nelle Chiese orientali bensì in quella Cattolica Romana. Le dispute sul primato petrino e sull’obbedienza alla Prima Sedes, risalgono agli albori della Chiesa e in più occasioni le sedi episcopali elleniche attentarono all’autorità dei Pontefici Romani. Era chiaro, infatti, che si dovesse obbedienza totale alla sede che poteva fondare la propria autorità sulla Fede integralmente professata e ininterrottamente trasmessa (quod semper ubique et ab omnibus creditur). È una questione che sant’Ireneo vescovo di Lione, primo vero teologo della Chiesa, dovette affrontare già nel II secolo. “La Chiesa disseminata attraverso il mondo, fino alle estremità della terra – dice Ireneo –, professa la fede che ha ricevuto dagli apostoli che a loro volta l’hanno ricevuta dal Figlio di Dio. Questa Chiesa ha il suo centro a Roma con cui tutta la Chiesa deve accordarsi a causa del suo supremo primato, perché, con la successione dei Pontefici romani, la Tradizione apostolica della Chiesa è pervenuta fino a noi[4].

D’altra parte, in seguito alla consumazione dello Scisma d’Oriente, la concezione che della fede e della liturgia hanno osservato fino ad oggi gli ortodossi, è congelata ad un’epoca storica specifica: l’arco che va dal 787 d.C., data dell’ultimo Concilio Ecumenico da loro riconosciuto, fino al 1054 data ufficiale del Grande scisma, non oltre.

Questi rimanendo bloccati, in larga parte, ad una teologia apofatica e pseudo-mistica e a forme liturgiche dell’XI secolo, rifiutano ogni tipo di approfondimento e di studio teologico razionale che conduca ad una chiarificazione della Rivelazione Divina e quindi ad ogni definizione dogmatica ulteriore. La filosofia aristotelica, il pensiero di Sant’Agostino e di San Tommaso d’Aquino e di tutta la scolastica medievale, il culto mariano, l’ascesi e la mistica della controriforma, la multiforme devozione ai Sacri Cuori di Gesù e di Maria sono ricchezze della Grazia sconosciute alle “Chiese” orientali “ortodosse”, le quali le rifiutano come aberrazioni ed eresie.

Questa povertà teologica degli ortodossi, emerge ancor più chiaramente se accostiamo la vita e la storia della Chiesa cattolica romana rispetto a quella greco-ortodossa. I numerosi dogmi, la folta schiera di santi dottori che hanno arricchito la Fede con la loro sapienza, la miriade di ordini e congregazioni religiose che sono fiorite nei secoli santificando generazioni di cristiani; gli indiscutibili frutti di penitenza prodotti dall’albero degli ordini mendicanti di San Domenico e San Francesco; l’innato slancio missionario che ha condotto un San Francesco Saverio fino alla remota isola di Cipango (Giappone), o che ha condotto un padre Guglielmo Massaia a predicare la luce del Vangelo nell’Africa nera, o ancora l’anelito al martirio di un San Nicola Tavelic e i suoi confratelli francescani che li ha portati ad offrirsi in sacrificio per la conversione dei maomettani predicando la Divinità di Cristo nel mezzo del mercato di Gerusalemme. Per non parlare della protezione tutta speciale dell’Immacolata Vergine Maria sulla Santa Chiesa Cattolica Romana che la ha arricchita di grazie, apparizioni e rivelazioni per la salvezza delle nazioni, di popoli e di città. Tutto ciò è del tutto assente nelle Chiese orientali, le quali sono sempre state caratterizzate da un intrinseca contrazione etnico-linguistica, ripiegate su se stesse in una fede esclusiva e non inclusiva, dunque, non cattolica.

L’unica forma di vita religiosa consacrata che si conosce in Oriente è una forma spuria di monachesimo, a volte malamente ricondotta a San Basilio Magno ma che nella maggior parte dei casi fa capo a tradizioni eterodosse caratterizzate da una mistica fideista e iconolatrica. Inoltre, da un punto di vista meramente storico, il vero erede della regola monastica cenobitica di San Basilio fu proprio San Benedetto da Norcia, il padre del monachesimo occidentale e della civiltà cristiana europea.

Rifiutandosi di servire al Papa, i patriarchi di Costantinopoli preferirono asservirsi all’Imperatore prima e ai Turchi poi, mentre in Russia la Chiesa non fu altro che uno instrumentum regni nelle mani degli assolutisti zar i quali se ne servirono a proprio vantaggio.

Altro elemento caratteristico dell’eresia greco-ortodossa è la radicale impossibilità di uno sviluppo artistico e culturale. Non esiste cioè nelle Chiese orientali alcuno studio o forma di produzione frutto della pietà o dell’ingegno dei fedeli. Coerentemente con la teologia negativa, cioè apofatica, di cui l’ortodossia è impregnata, l’unica forma d’arte ammessa è l’iconografia di origine bizantina. Non esistono altre forme di arte pittorica o scultorea poiché l’immagine di Dio viene inscritta e, appunto, “fissata” in una serie di archetipi inviolabili che quasi “contengono” la divinità.

Allo stesso modo la musica non è mai stata sviluppata in alcun modo come invece è avvenuto con risultati davvero prodigiosi nella polifonia sacra e profana in ambito cattolico. La lista dei compositori sarebbe veramente troppo lunga ma pensiamo soltanto alle opere di chierici e laici come Pergolesi, Gastoldi, Landi, Frescobaldi, Vivaldi, De Victoria, Palestrina, Byrd, Dowland, Zipoli, Cavalieri, san Filippo Neri, sant’Alfonso de Liguori ecc.

Tutto ciò spiega anche l’arretratezza culturale, scientifica e socio-economica dei paesi slavi fino all’avvento della rivoluzione bolscevica. Non si è mai sviluppata, infatti, in ambito ortodosso la scienza sperimentale in senso moderno e questo perché non esistevano, e non potevano esistere, le università e le scholae come avvenne nell’Europa del Sacro Romano Impero.

Da uno studio approfondito si comprende che quella ortodossa è una tradizione morta, archeologica, immobile come il Discobolo di Mirone o il Partenone, ossia un “monumento dell’antichità”. Ciò vale anche per la liturgia la quale, se così intesa, diviene una mera opera museale.

Eppure i libri liturgici, quelli romani come quelli greco-orientali, non sono caduti dal cielo come il Corano maomettano, né si potrà credere che l’Apostolo San Giacomo celebrasse i Sacri Misteri esattamente come li celebrava San Giovanni Damasceno, o l’evangelista san Marco allo stesso modo degli odierni Copti.

La liturgia, o meglio, le “liturgie” approvate hanno tutte in maniera più o meno diretta radici apostoliche ma sono anche andate gradualmente formandosi nel tempo. Ad esempio “il messale [romano] si è formato progressivamente nel corso dei secoli, sempre protetto con cura dalla Chiesa per timore che vi si infiltrasse qualche errore. È il riassunto dell’insegnamento autentico della Chiesa; rivela il vero significato del mistero che si compie nella messa e il senso delle preghiere di cui si serve la Chiesa[5]. Uno sviluppo santo certamente, discreto, naturale e organico come è la crescita di un albero santo. La Divina Liturgia, l’Opus Dei come la chiama San Benedetto, è infatti il vero Albero della Vita dal quale si coglie il frutto della Grazia per il nutrimento e la santificazione delle anime.

Quello che però erroneamente si crede, è che tra i riti liturgici ancora in uso oggi i riti greco-orientali sarebbero i più antichi e che il rito romano non sia antecedente al medioevo. Ma a tal proposito il padre Fortescue scrive: «Il messale di San Pio V è, per l’essenziale, il sacramentario gregoriano, che si è formato a partire dal sacramentario gelasiano, che proviene esso stesso dalla raccolta (collectio) leonina. Troviamo le preghiere del nostro canone nel De Sacramentis, e vi sono degli elementi del IV secolo. La nostra messa risale, dunque, senza modifiche essenziali, all’epoca in cui essa ha incominciato a svilupparsi a partire dalla più antica liturgia. Essa emana ancora il profumo di questa liturgia; dai tempi in cui Cesare dominava il mondo e pensava di poter schiacciare la fede cristiana; da quei giorni in cui i nostri padri si riunivano prima dell’alba e “cantavano un inno a Cristo come a un Dio”[6]. La conclusione della nostra inchiesta è che, malgrado che qualche punto resta non risolto, e a dispetto di cambiamenti intervenuti in seguito, non c’è nella cristianità un rito così venerabile come il nostro»[7].

Inoltre, la necessità di rafforzare, di sottolineare e di rendere più espliciti alcuni elementi del rito, non solo è legittimo, ma nel corso della storia della Chiesa si è reso indispensabile per combattere le eresie, e mai per il gusto della novità o del rinnovamento fine a se stesso. Quando si parla di “sviluppo organico della liturgia” non si intende rivoluzionare, distruggere o abolire, al contrario si tratta di conservare e perfezionare, e ciò può avvenire mutando anche gli spazi liturgici ossia l’architettura interna/esterna della chiesa, oppure aggiungendo gesti o preghiere come l’Introito, il Confiteor e l’Ultimo Vangelo, o inserendo l’elevazione del Corpo e del Sangue di Cristo per mostrarli al popolo adorante eccitando così la fede nella Presenza Reale.

“Tutte le preghiere che fecero la loro comparsa nella messa romana dopo l’epoca di Gregorio Magno furono quelle che i riformatori [protestanti] rigettarono per prime. Nulla di sorprendente per questo: una delle ragioni che aveva senza dubbio spinto la Chiesa, guidata dallo Spirito Santo, ad accettare queste preghiere, era l’eccezionale chiarezza del loro contenuto dottrinale. Che un rito tenda così ad esprimere sempre più chiaramente ciò che contiene, s’accorda perfettamente con il principio lex orandi, lex credendi”[8].

Di fatto, tutti i riti, i gesti, le parole, i paramenti e i suppellettili che sono stati via via aggiunti nella celebrazione del rito romano, sono funzionali alla tutela dell’integralità ed ortodossia della fede. “«Nessuna delle parti del Messale romano – dice il Catechismo del Concilio di Trento – può essere considerata inutile o superflua»: tutte, fin la più piccola parola, hanno il loro senso e la loro portata”[9]. Non solo, tale arricchimento formale ha come suo fine ultimo circondare di onore e di amore ciò che di più prezioso esiste sulla terra: i Sacramenti. Un caso emblematico è rappresentato da San Francesco d’Assisi il quale, dicono le fonti, amasse molto le cerimonie liturgiche che si svolgevano in Francia a causa del culto eucaristico che colà si andava sviluppando e diffondendo e attraverso il quale si circondava di pietà e di onore il Santissimo Sacramento. Altro esempio di sviluppo (santo) della liturgia è l’uso invalso di inginocchiarsi alla lettura delle parole “et Verbum caro factum est” entrate nella liturgia grazie a San Luigi IX re di Francia il quale per la sua pietà nel contemplare il Mistero dell’Incarnazione volle che tutta la corte e il sacerdote celebrante al pronunciare tali parole si prostrasse. Ecco come cresce la liturgia, con la pietà e la santità.
In realtà questo principio dello sviluppo organico della liturgia è il medesimo che si realizza nello sviluppo teologico-dogmatico e che, come abbiamo visto, è del tutto o quasi assente nelle chiese orientali al pari di quello liturgico. A fissità e sterilità liturgica corrisponde fissità e sterilità teologica e viceversa.

A testimonianza della necessità logica dello sviluppo teologico-dottrinale sta la formulazione del Credo Niceno-costantinopolitano, che lo pone ad un livello di maggior completezza e perfezione rispetto al Credo Apostolico. Il Simbolo di Nicea e Costantinopoli, appunto, è la formula della fede, forgiata dalla pietà e dalla sapienza dei santi, la sua cattolicità è completa e indiscutibile, perciò è così necessario che sia professato fedelmente al pari se non più di quello Apostolico. Questo perché è meno attaccabile dalle eresie e dai travisamenti a causa della forma specifica dei singoli articoli. Non a caso la sapienza e la pedagogia della Chiesa lo ha inserito nell’ordinario della Messa a preferenza dell’altro anche se più antico.

Ma oggi si vorrebbe minimizzare la questione del Filioque come se fosse una futile disputa capziosa, ma dietro a questa unica parola si cela una serie di articoli di fede strettamente tra loro concatenati e interdipendenti che vanno da una retta comprensione della natura della Santissima Trinità e delle relazioni che sussistono fra le Tre Divine “Personae”, e non “Hypostaseis” come le intendono i greci, fino al ruolo espiatorio del Figlio di Dio nel mondo. Ben più complessa, dunque, di una semplice bega partitica tra latini e greci. I termini, infatti, descrivono l’essenza delle cose e, come ricorda J. H. Newman, “il retto uso delle parole è implicito nel retto uso del pensiero[10]. Se gli ortodossi si esprimono male riguardo alla Santissima Trinità, va da sé che hanno una concezione erronea, anzi eretica, della Santissima Trinità.

In ultima analisi, al fine di non cadere in quell’anomia di cui sopra, risulta necessario riconoscere l’antichità del rito e al contempo il suo sviluppo organico, il che significa, come disse il domenicano padre Roger Calmel, attenersi al rito romano così come ce lo trasmette il messale di San Pio V. “Il fatto che [il rito romano] sia rimasto lo stesso durante tredici secoli è la testimonianza più eloquente della venerazione di cui non smise mai di essere circondato, e degli scrupoli che si sono sempre provati nel mettere le mani su un’eredità così sacra che ci viene dalla notte dei tempi”[11].

In conclusione, possiamo riposare nella tranquilla certezza che l’antichità del rito romano gode della storicità dei documenti, della testimonianza dei padri, nonché della sentenza della volontà Divina che lo canonizza come il rito proprio della Prima Sedes, cioè di Roma.
Roma, il luogo dove la Divina Provvidenza dispose che il Principe e Capo degli Apostoli, e San Paolo l’Apostolo dei gentili, dovessero dare la vita per Cristo. Non andiamo perciò in cerca di esperienze spirituali “nuove” o “diverse” quando il Cielo stesso ci è venuto incontro nella larghezza della Misericordia Divina offrendosi a noi attraverso l’ulivo della Romanitas divenuta Cristianitas. La prima grazia insondabile è l’aver ricevuto il Santo Battesimo ma a questo si aggiunge l’essere nati Cattolici Romani, una grazia particolare di cui forse ci renderemo veramente conto, se ne saremo degni, soltanto nel Paradiso. C’è forse una testimonianza più forte del sangue di Cefa e di San Paolo, le colonne della Chiesa Cattolica, che ci impedisca di abbracciare con filiale e riconoscente devozione ed amore il venerabilissimo rito romano giunto a noi quasi di mano in mano per la Gloria di Dio e la salvezza delle anime nostre?
La liturgia romana, dice padre Faber, “è ciò che vi è di più bello in questo mondo. Essa è il prodotto del genio della Chiesa; ci trasporta fuori di noi stessi, ci eleva lontano da questa terra e, avvolgendoci in una nube di dolcezza mistica, ci trasporta nel mondo sublime di una liturgia che sorpassa quella degli angeli; purificandoci malgrado noi stessi, ci tiene sotto il fascino di un incanto celeste, così bene che i nostri stessi sensi sembrano vedere, intendere, sentire, gustare, toccare al di là di ciò che la terra è in grado di darci”[12].
 


[1] FORTESCUE, The Mass, a Study of the Roman Liturgy, 1917, p. 208 e 213.
[2] Introduzione al Missel romain quotidien et vespéral, par Dom Fernand Cabrol, Mame 1949.
[3] SCHUSTER, Liber Sacramentorum, vol II, Torino-Roma, 1929, pp.106-107.
[4] Adversus Haereses, 1, 1, ch. VI e X, I, III, ch. III n.2.
[5] MICHAEL DAVIES, La Riforma liturgica anglicana, Ed. Ichthys, 2015, p. 128.
[6] Cfr. Lettera di Plinio all’Imperatore Traiano.
[7] FORTESCUE, op. cit., p. 213.
[8] La Riforma liturgica anglicana, p. 121.
[9] La Riforma liturgica anglicana, Ed. Ichthys, 2015, p. 130.
[10] NEWMAN J. H., Lettera al Duca di Norfolk. Coscienza e Libertà (1874), a cura di V. Gambi, Paoline, Milano 1999, p. 388.
[11] GASQUET-H BISHOP, Edward VI and the Book of Common Prayer, Londra 1890, p. 197.
[12] Citato in N. Gihr, The Holy Sacrifice of the Mass, Saint Louis, 1908, p. 337, nota 27.







fonte: Radio Spada, 31-08-2015



LA MESSA DELL’ASSEMBLEA CULLA L’AGNOSTICISMO








Editoriale “Radicati nella fede”
Anno VIII n. 8 - Settembre 2015


Ciò che non c’è più nella Messa, scompare inevitabilmente anche dalla vita cristiana. È solo questione di tempo, e nemmeno molto.
Così è stato con l’ultima riforma liturgica: i “vuoti” del rito sono diventati “vuoti” del nuovo cristianesimo.

Ne vorremmo sottolineare uno tra tutti: la scomparsa del submissa voce per il prete, che corrisponde all’assenza del silenzio per i fedeli. Ci sembra questo uno dei punti che più evidentemente indicano un cambiamento radicale nel rito cattolico. D’altronde è questo che soprattutto appare come scandaloso, per i fedeli che oggi si imbattono nella Messa tradizionale: le lunghe parti in cui il sacerdote, specialmente nel canone, pronunciando le parole sottovoce, non fa sentire alcunché ai fedeli, obbligandoli al silenzio.

Più volte abbiamo constatato che è questo a far problema, più dell’uso del latino.
Eppure questo è un aspetto determinante, che se eliminato, cambia tutto non solo nella messa, ma nel cristianesimo stesso.

Il submissa voce, il sottovoce per il prete e il corrispondente lungo silenzio per i fedeli, “incastra” prete e fedeli alla fede, senza appoggi umani. Il sacerdote all’altare deve stare di fronte a Dio, ripetendo sottovoce le parole di Nostro Signore, rinnovando il Sacrificio del Calvario. È un rapporto diretto, personale, intimo con Dio; certo mediato dalla consegna della Chiesa, che custodisce e trasmette le parole che costituiscono la forma del sacramento, ma che in quell’istante non si posa sull’umano della Chiesa, ma sul miracolo della grazia. Così facendo il prete, nel rito tradizionale, immediatamente insegna ai fedeli che ciò che conta è Dio stesso, la sua azione, la sua salvezza, e che queste ci raggiungono personalmente.

La nuova messa non è così, è tutta comunitaria. Il prete in essa, oltre ad essere tutto rivolto ai fedeli, opera come colui che narra ai fedeli ciò che il Signore ha fatto nell’ultima cena: racconta ai fedeli le parole e i gesti del Signore, così che l’azione sacramentale che ne scaturisce appare tutta mediata dall’attenzione che questi ultimi vi devono mettere. Scompare così per il prete il rapporto personalissimo con Dio nel cuore della messa cattolica, il canone, sostituito da questo estenuante rapporto con chi è di fronte all’altare. La nuova forma della messa comunitaria ha così trasformato il sacerdote, gettato in pasto all’attivismo più sfiancante, che è quello di farsi mediare la fede e il rapporto con Dio sempre dai fedeli. La nuova messa ha prodotto un nuovo clero non più aiutato a stare con Dio, non più ancorato all’atto di fede.

Il continuo dialogo nella messa, tra sacerdote e assemblea, ha anche modificato la concezione di Chiesa: oggi pensiamo la Chiesa come nascente dal basso, dal battesimo e quindi dal popolo cristiano; non la pensiamo più come realmente è, nascente dall’alto, da Dio, dal sacramento dell’Ordine. Chi pensa che la Chiesa sorga dal battesimo, non sopporta più quel prete all’altare, che sottovoce pronuncia le parole che costituiscono il miracolo del sacramento.

Anche i fedeli sono direttamente rovinati dal nuovo rito perché, continuamente intrattenuti dal parlare del prete, hanno disimparato anch’essi a stare di fronte a Dio. Così Dio stesso si trova sostituito dall’assemblea celebrante, che diventa ingombrante ostacolo nell’educazione al personale atto di fede.

In questi ultimi tempi si è tentato nella messa moderna di correre ai ripari, cercando invano di reintrodurvi un po’ di silenzio, collocato dopo la lettura del Vangelo, ma anche questo espediente rivela la gravità della nuova posizione. Questo silenzio reintrodotto, solitamente brevissimo, è un silenzio di riposo umano, di meditazione: esso è di tutt’altra natura rispetto a quello prodotto dal submissa voce. Il submissa voce produce un silenzio che avvolge il rapporto intimo del sacerdote con Dio, che dà la sua persona affinché accada l’azione divina che salva. Il silenzio del submissa voce è incentrato sull’azione di Dio e non sulla meditazione dell’uomo, ed è uno dei più grandi richiami al primato della vita soprannaturale, al primato della grazia.

Non c’è nulla da fare, occorre tornare alla Messa di sempre, per tornare alla centralità dell’atto di fede, personale risposta all’azione di Dio.

Sacerdoti e fedeli non possono resistere di fronte al mondo, se non sono costituiti in forza da questo rapporto personalissimo, che nessuna assemblea può sostituire.

L’alternativa? Un agnosticismo pratico, un dubbio di fede pratico, un sospeso dell’anima, riempito dalle parole di un’assemblea che intrattiene per non far pensare.

Osiamo dirlo: la nuova messa, tutta ad alta voce, tutta narrazione e predica, ha cullato i vari agnosticismi, dei preti e dei fedeli, non fermando il dramma dell’apostasia, cioè dell’abbandono pratico della vita cristiana. Ha illuso, dando, nel migliore dei casi, un po’ di calore umano a buon mercato, diseducando a una posizione di fede vera, assolutamente necessaria per attraversare la battaglia di questa vita.

Torniamo alla Messa tradizionale, prima palestra del cristianesimo, quello vero.








Fonte: Radicati nella fede, 30.8.2015




domenica 30 agosto 2015

Se al Sinodo, invece di voler benedire l'adulterio, si occupassero del perché tante coppie cattoliche si separano. A partire da un motivo terra terra

 
 
 
 
 
 
Delle numerose coppie cattoliche che a Washington sono passate per l’ufficio di padre T.G. Morrow, consulente familiare, due lo hanno colpito particolarmente. Si trattava di coppie modello da diversi punti di vista: erano aperte alla vita, educavano i figli alla fede e ricevevano frequentemente i sacramenti. Però entrambi i matrimoni si sono sgretolati. La colpa? Molto semplice: la rabbia.

«La rabbia è un veleno» dice padre Morrow, teologo morale e autore di Overcoming sinful anger (Superare la rabbia peccaminosa, Sophia Press, 2014). «Se marito e moglie si arrabbiano con frequenza, questo distrugge la loro relazione. La rende tanto dolorosa che alla fine desiderano terminarla».

Quella di arrabbiarsi è una esperienza universale. È una naturale, incontrollabile risposta al comportamento altrui. A volte arrabbiarsi è giusto, ricorda padre Morrow, san Tommaso d'Aquino diceva che se l’ira si unisce alla ragione è degna di lode, però la maggior parte delle volte l’ira scivola verso il peccato, è motivata dalla volontà di rivalsa. E l’ira come peccato ha effetti devastanti sui rapporti.

«È molto importante che la gente capisca che l’arrabbiarsi in famiglia è una questione molto seria, soprattutto quando certe “esplosioni” feriscono l’altro» continua padre Morrow. Essa è così deleteria che molti esperti di matrimonio consigliano alle coppie di avere almeno cinque interazioni positive per una negativa.«La rabbia, quando esce allo scoperto malamente, è appunto un veleno e gli sposi devono essere particolarmente attenti e lavorare su questo aspetto».

Poiché il sentimento dell'ira è naturale e impossibile da evitare, padre Morrow sottolinea l’importanza di saperlo manifestare in un modo efficace e positivo. Il primo passo è: capire se vale la pena arrabbiarsi.

«La gente si arrabbia per cose piccole, insignificanti. Bisogna chiedersi: vale la pena? Se non è così, bisogna lasciar perdere, semplicemente dimenticarsene».

Se l’irritazione è giustificata e il confronto può portare qualcosa di positivo per l'altro, bisogna usare umorismo e diplomazia. Se il confronto non porta un bene per l’altro, allora, consiglia il sacerdote, può essere una buon idea offrire il fastidio al Signore come sacrificio per i propri peccati e i peccati del mondo.

«La rabbia non se ne va automaticamente con la prima buona intenzione» dice, «bisogna continuare a offrirla a Dio come sacrificio».

Questa atteggiamento non vuol dire diventare degli zerbini, incapaci di esprimere all’altro la propria insoddisfazione per le sue azioni.

Padre Morrow fa l'esempio di santa Monica, la madre di sant'Agostino. Molti degli uomini di Tagaste a quell'epoca avevano temperamenti violenti e il marito di santa Monica non faceva eccezione. Quando tornava a casa e le urlava contro, lei rimaneva calma. Fatta sbollire la rabbia del marito, gli si avvicinava e con tranquillità lo affrontava, dicendogli cosa ne pensava del suo comportamento e delle sue lamentele.

«Era quanto di più lontano ci fosse da uno “zerbino”» commenta padre Morrow, «aveva un obiettivo chiaro, voleva diventare santa e convertire suo figlio. Perseguì i suoi fini con ardore e come risultato converti sia Agostino che il suo violento marito».
 
 
 
 
 
da «Catholic News Agency» (in inglese), tramite IL TIMONE, 30-08-2015
 
 
 
 
 

sabato 29 agosto 2015

L'invarianza dogmatico-liturgica nel rito della santa Messa

 

 

di padre Gabriel Díaz Patri



Oggi si sente spesso parlare, sulla scia delle parole del Santo Padre, di una "ermeneutica della continuità" che sarebbe in contrasto con quell' "ermeneutica della rottura" così frequente negli ultimi anni. È propriamente nell'ambito liturgico che questa mentalità di rottura si è fatta strada nel quotidiano, in una maniera eminentemente palpabile per il popolo cristiano. La gravità di tutto questo si rende palese se la consideriamo alla luce del principio dei rapporti fra la Lex orandi e la Lex credendi.

Perciò un'analisi della continuità sia dogmatica sia liturgica presente nei riti della Messa attraverso non soltanto la sua storia, ma anche, in modo trasversale, attraverso i diversi riti che la Chiesa ha utilizzato e ancora utilizza per il suo culto pubblico può aiutare per una valutazione più accurata delle posizioni di coloro che ritengono sia normale una periodica riforma di adattamento "ai tempi".

L'allora Cardinale Ratzinger aveva insistito, e da molto tempo, sulla necessità di evitare la concezione secondo la quale la Chiesa avanzerebbe attraverso la sua storia con "salti" discontinui. Secondo questa concezione bisognerebbe ogni tanto "partire da zero". Una tale interpretazione dei cambiamenti nella storia della Chiesa egli chiama "Ermeneutica della rottura" e ciò è proprio il contrario di quello che ha fatto e che deve fare la Chiesa.

La posizione contraria è rappresentata dall' "Ermeneutica della continuità". Secondo questa concezione, c'è uno sviluppo della liturgia attraverso i secoli, ma esso avviene in modo "organico". L'intervento dell'autorità è, secondo un'immagine che lo stesso autore propone, simile più al lavoro del giardiniere che cura una pianta, l'irriga, la raddrizza, la pota, per aiutarla a crescere, svilupparsi e mantenersi rigogliosa, piuttosto che al lavoro di un tecnico che costruisce una macchina nuova e butta la precedente.

Nel caso della liturgia questa continuità è doppia, da un lato essa è una continuità che si dà nel tempo: attraverso i secoli un rito conserva la sua identità fondamentale pur tra cambiamenti di dettaglio. Per utilizzare una terminologia alla moda, noi possiamo designarla come continuità "diacronica". C'è, però, allo stesso tempo, un'altra continuità; una continuità che, senza perdere completamente la dimensione temporale, è piuttosto "spaziale". In effetti, in uno stesso periodo storico ci sono parecchie tradizioni che coesistono e che, nonostante le differenze (talvolta molto notevoli), hanno una profonda identità dottrinale. Quest'ultima la chiameremo continuità "sincronica."

È nostra intenzione esaminare, da una parte, lo sviluppo del Messale Romano attraverso il tempo, illustrando così la prima continuità, e, dall'altra, considerare certi punti notevoli delle diverse tradizioni liturgiche, tanto in Oriente come in Occidente, che illustrano la continuità "sincronica".

Per ragioni di brevità limiteremo la nostra attenzione unicamente alle cerimonie della Messa e, principalmente, all'ordinario di questa.

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Cominciamo col dire qualcosa sulla continuità diacronica.

Nessuno può mettere in dubbio il fatto che, attraverso i secoli, il rito della Santa Messa ha avuto un'evoluzione e che modifiche sono state introdotte dall'autorità della Chiesa. Nonostante ciò, l'idea lungamente divulgata negli ultimi anni secondo la quale queste modifiche sarebbero un "adattamento" alle necessità di ogni epoca che la Chiesa fece regolarmente, sembra priva di fondamento.

Tralasciando le tappe più antiche, possiamo dire che l'ordo del "Missale Curiae", si era già pienamente costituito nel tredicesimo secolo e le modifiche che il Messale del 1570 presenta rispetto a questo sono minime. Il principio che ha guidato la redazione del testo liturgico promulgato da papa Pio V non è stato quello dell' "adattamento" ai bisogni pastorali del suo tempo, nemmeno alle dottrine che il Concilio di Trento aveva difeso, ma quello di stabilire i testi e i riti della più pura tradizione, correggendo soprattutto gli errori del copista o definendo alcune varianti che erano state introdotte qua e là in quel periodo.

Non sono molte le novità rispetto all'editio princeps (cioè, la prima ad essere stata stampata) del 1474, ma ce ne sono ancor meno se prendiamo in considerazione le diverse edizioni stampate durante il secolo che separa entrambe le edizioni. Sotto questo profilo, dovremmo dire che quello che è proprio dell'Ordo Missae tridentino, cioè quello che non c'era prima e che non è stato modificato dopo, è in realtà molto poco.

Alcuni esempi:

In primo luogo, quelle caratteristiche del Messale di san Pio V, che avevano antecedenti negli anteriori Messali e rimasero fino a noi:

1º In quasi nessuno dei Messali anteriori a Trento si menziona il segno di croce accompagnato dalle parole: "In nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti" all'inizio della Messa. Solo nel Missale stampato dal Varisco nel 1566 si legge "dicat faciendo sibi signum crucis: In nomine Patris...". Tuttavia l'Ordo Missae Burckardi edito nel 1502 già diceva "producens manu dextra a fronte ad pectus signum crucis: dicit intelligibili voce: In nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti. Amen". Possiamo pensare che così si facesse d'abitudine o almeno con una certa frequenza, benché non fosse indicato espressamente nel Messale. Qualcosa di simile succede col

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Confiteor: la maggior parte dei Messali dice semplicemente "Facit confessionem", senza dare il testo di questa, o, a volte, con un testo che presenta alcune varianti in rapporto al nostro; ma l'edizione del 1566 ha la versione che è arrivata fino a noi.

2º Si elimina il Gloria in excelsis con "tropi", cioè con interpolazioni letterarie, per le Messe della Vergine che si trovava frequentemente nei Messali anteriori: "Sic dicitur Gloria in excelsis, etiam in missis Beatae Mariae" dice la rubrica del 1570.

3º Nelle Messe dei defunti si omette la benedizione dell'acqua all'Offertorio (che era già omessa nel Burkardo).

4º Nei Messali anteriori si trovano con molta frequenza altri cinque Prefazii: in onore di S. Giovanni Battista, di S. Agostino, di S. Girolamo, di S. Rocco, di S. Francesco, che, sebbene non fossero considerati parte del Rito Romano, erano comunque autorizzati. Così, in un Messale del 1559 si dice: Suprascriptae decem prefationes ab Ecclesia approbatae sunt, reliquae vero quae sequuntur speciali quodam privilegio post decem illas addite fuere. Nel 1570 spariscono tutti questi, comunque furono sempre autorizzati certi usi locali come Prefazii proprii.

5º Nelle preghiere di purificazione dopo la comunione si restaura la forma "hoc sacrosanctum corpus" che si trova nei manoscritti medievali e che era stata sostituita con "sacrum corpus" o talvolta con "sanctum corpus" (1497), e anche "sacrificium (sic) corpus" (1474).

Caratteristiche con antecedenti, ma che non rimasero:

a. Dopo la consacrazione del sanguis il celebrante dice le parole "Haec quotiescumque feceritis, in mei memoriam facietis" ma non nel momento di fare la genuflessione di adorazione, come è indicato dal Burkardo e come capita sempre a partire da Clemente VIII, bensì quando eleva il Calice per l'adorazione dei fedeli, che sembra l'uso diffuso nel Cinquecento.

b. Per la benedizione finale si prevede nell'Ordo Missae la tripla benedizione che appare in alcuni Messali anteriori ed è anche descritta dal Burkardo: "Pa+ter et Fi+lius et Spiritus+Sanctus" benedicendo, a sinistra, nel centro ed a destra, benché questo fosse solo se il popolo era distribuito di quel modo, ma se stava solo nel centro della Chiesa, si faceva una sola benedizione (pertanto, anche nella Messa privata). Tuttavia nel "Ritus servandus" dello stesso Messale si menziona soltanto una croce.

Elementi caratteristici del Messale di san Pio V senza antecedenti nei Messali anteriori.

Questi sono i più importanti, perché specificano il Messale di san Pio V in rapporto alle altre versioni anteriori e posteriori.

C'è soltanto un elemento che è stato aggiunto nel 1570 e non è rimasto dopo Clemente VIII: nella incensazione prima dell'Introito, il celebrante recita anche il salmo "Dirigatur Domino oratio mea" che si prescriveva anteriormente soltanto durante la seconda incensazione, quella dopo l'Offertorio; non sembra che ci siano precedenti di questo uso duplicato che sarà definitivamente eliminato nel Messale di Clemente VIII.

Le altre novità rimasero fino a noi:

1º Il Salmo 42 viene omesso nelle Messe dei defunti e del tempo di Passione. Nei Messali anteriori non si trovano riferimenti a questa omissione.

2º La recita dell'Introito viene prescritta al solo sacerdote, come previsto anche attualmente. Nei Messali anteriori l'Introito era recitato anche dai ministri, (diacono e suddiacono), insieme al celebrante.

3º All'inizio del Gloria e del Credo, si dà l'indicazione di elevare le mani. Burkardo dice soltanto di separarle e unirle. Le rubriche dei Messali antichi non dicono alcunché.

4º Nel Gloria si aggiunge l'inclinazione all' "adoramus Te", che non veniva menzionata anteriormente.

5º Si prescrive l'omissione del Gloria Patri alla fine del salmo del lavaggio delle mani nelle Messe dei defunti e del tempo di Passione, che anteriormente non si trova menzionata.

6º Si indica che l'introduzione alla preghiera del Signore "Praeceptis salutari bus moniti", sia detta con le mani giunte e il capo inchinato. I Messali anteriori non dicono niente della posizione da tenere in questo momento, ma il Burkardo ha la seguente descrizione: "manibus more solito extensis: hinc et inde super altare positis: dicit intelligibili voce. Per omnia saecula saeculorum. R. Amen. Oremus. Praeceptis salutaribus moniti (...). Elevat et iungit manus ante pectus: et oculis ad sacramentum in altari positum intentus: capite inclinato: dicit eadem voce. Pater noster. Extensis manibus ante pectus ut prius continuat: qui es in caelis."

7º Si altera l'ordine della preghiera detta nel momento dell'immissione, che prima era "Fiat commixtio, et consecratio corporis et sanguinis Domini nostri Iesu Christi, accipientibus nobis. In vitam aeternam amen". E lo cambia con l'ordine attuale: "Haec commixtio et consecratio ... fiat accipientibus nobis, etc.". Probabilmente per una maggiore chiarezza dottrinale.

8º La stessa cosa succede colla preghiera della pace che era fino ad allora: "Domini Iesu Christe, qui dixisti apostolis tuis: pacem meam do vobis pacem relinquo vobis" invece di "pacem relinquo vobis, pacem meam do vobis" come è dopo il 1570.

9º La formula che appariva abitualmente nei Messali anteriori: "In unitate Sancti Spiritus benedicat vos Pater et Filius" è definitivamente soppressa. Come anche la formula della benedizione per la Messa dei defunti: "Deus vita vivorum et resurrectio mortuorum benedicat vos in saecula saeculorum R. Amen."

Ci sono, infine, alcuni elementi nuovi, ma che non si trovano in tutte le edizioni del Messale di San Pio V:

Nei Messali stampati nello stesso 1570 si trova, nell' "embolismo", la forma "et intercedente beata et gloriosa semper Virgine Dei genitrice Maria, et sanctis apostolis tuis Petro et Paulo" che non si troverà mai né prima né dopo. Ma nei Messali stampati fra il 1570 e il 1604 questa parola si alterna con la tradizionale "beatis" che dopo Clemente VIII rimarrà fissa.

Nella stessa preghiera, alcuni esemplari del Messale stampati fra il 1570 e il 1604 dicono "et fac me tuis inhaerere mandatis" sopprimendo il "semper" che appariva nelle edizioni anteriori e che sarà restaurato da Clemente VIII. È possibile peraltro che sia un errore.

Anche nella preghiera seguente alcuni esemplari del Messale stampati fra il 1570 e il 1604 aggiungono "Perceptio corporis et sanguinis tui, Domine Iesu Christe" che non si troverà mai né prima né dopo.

Questi tre elementi non si trovano in tutti i Messali dopo il 1570, perciò non si può dire che siano propri del Messale di san Pio V. Bisogna accennare al fatto che non possiamo parlare di un "Messale di san Pio V" in una forma univoca: Anche nei diversi esemplari stampati nel 1570 che si conservano, troviamo alcune piccole varianti; varianti che troviamo anche nei Messali stampati negli anni successivi. Soltanto con la edizione di Clemente VIII del 1604 si arriverà ad una vera unificazione, anche nei dettagli.

Non bisogna comunque credere che man mano che si avanza nel tempo, ci

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si avvicini sempre più al Messale di san Pio V; non bisogna pensare, cioè, che questo sia stato il frutto di un'evoluzione o sviluppo, rappresentando lo stadio più "maturo" di un processo. Al contrario quella di san Pio V è stata una restaurazione, un ritorno alle fonti. Ci sono, infatti, varie coincidenze con altri Messali della seconda metà del Cinquecento; questo avviene perché la tendenza restauratrice era già diffusa. Ma la sua applicazione dipendeva soltanto dai criteri degli editori. Per fare un esempio, il colofone di un Messale stampato nel 1559 per gli eredi di Luca Antonio Giunta dice così: "Explicit Missale Romanum, optime recognitum, et ad antiquorum Missalium ordinem redactum".

Perciò la novità di san Pio V consiste soprattutto sia nella descrizione più dettagliata di alcune rubriche, che generalmente sono state selezionate tra quelle già esistenti in una o altra delle diverse edizioni previe, oppure nuovamente redatte, sia nella pubblicazione, all'inizio del Messale, del "Ritus servandus" con un testo unificato ed ufficiale.

Ma soprattutto quello che è veramente proprio e innovatore da parte del Concilio tridentino e di san Pio V è l'estensione a tutta la Chiesa latina "per difetto" del Messale della Curia e, più ancora, l'intervento diretto dell'autorità romana per l'insieme della Chiesa latina in materia liturgica, che fino ad allora era nelle mani delle autorità locali (Vescovi e Capitoli).

Negli interventi successivi dei Papi si vede applicato lo stesso criterio: ritornare alle fonti e fare una descrizione più precisa e didattica dei riti, ma sempre nel rispetto del "traditum". L'unica modifica che è stata una vera e profonda innovazione, avendo "riformato" in un certo senso le abitudini dei cattolici, è quella di Gregorio XIII, che con la Bolla "Inter gravissimas" del 24 Febbraio 1582 rifece il calendario. Questo cambiamento del calcolo del tempo ha avuto enorme importanza, e tardò anni ad imporsi civilmente in tutta l'Europa. Per quanto riguarda l'Ordo Missae e il Messale in se stesso, niente è mutato bensì solo la data della Pasqua e di alcune feste verso la fine dell'anno liturgico di quel 1582. Ciò, però, non si vede riflesso che nel calendario sistemato all'inizio del Messale.

Per quel che riguarda l'Ordo Missae, la modifica più importante dopo san Pio V, e fino al ventesimo secolo, è stata la soppressione, fatta da Clemente VIII nel 1604, della tripla benedizione nella Messa con presenza del popolo, che come abbiamo detto era prevista nel Messale del 1570 anche quando era celebrata da un semplice sacerdote e che sarà ormai riservata al Vescovo.

Nei secoli seguenti l'Ordo Missae è rimasto immutato: i soli cambiamenti rilevanti nell'insieme del Messale furono: la incorporazione dello "Stabat Mater" come Sequenza per la festa della Madonna addolorata (Benedetto XIII, 1727) e la utilizzazione del Prefazio della Santissima Trinità per le domeniche (decreto di Clemente XIII, del 3 gennaio 1759, prima nel Messale Romano era utilizzato quello comune).

Si constata così lungo questi secoli uno sviluppo ed un adattamento, certamente, ma più che di uno "sviluppo" o di un "adattamento" del rito in sé, si tratta di uno sviluppo e di un adattamento della forma di descrivere il rito, in modo che questa descrizione sia sempre più precisa, assicurando così la sua trasmissione esatta, riflesso di un cambiamento di criterio importante che va da un Messale che era solo un aiuto della memoria (quasi un promemoria) di qualcosa che si era imparato per osservazione, imitazione e pratica, ad un altro nel quale si trovava una descrizione didattica, nelle rubriche e soprattutto nel "ritus servandus", che avrebbe potuto servire per imparare a celebrare anche a colui che non lo aveva visto mai celebrare. Ma il rito in sé, tranne qualche dettaglio, è rimasto lo stesso.

Agli inizi del XX secolo le rubriche hanno dovuto adattarsi alle riforme introdotte per "Divino afflatu" (1911) secondo le indicazioni del Motu proprio "Abhinc duos annos" del 1913. Invece, però, di tornare a redigerle, fondendo le modificazioni col testo precedente, si optò per conservare questo intatto e le modifiche si aggiunsero come "appendice" nella edizione del 1920. Per questa ragione, per sapere quale ufficio si doveva fare in un determinato giorno, bisognava tenere in conto i due testi che erano stampati uno dietro l'altro e che contenevano indicazioni contraddittorie. Questo fatto rendeva la consultazione molto faticosa. Anche le rubriche dei Prefazii assunsero speciale complessità tanto che nell'edizione di un paio di anni più tardi furono nuovamente redatte per renderle più "utilizzabili."

Potremmo dire che troviamo qui per la prima volta durante tutti questi anni, una modificazione importante. Fino a questo momento si era cercato soprattutto di "consacrare" gli usi e le tradizioni, e le modificazioni erano introdotte per "armonizzare" quelli. Questo si vede chiaramente nella descrizione degli interventi dei diversi Papi attraverso questi secoli fatta all'inizio del Messale del 1920: "Missale Romanum ex decreto sacrosancti Concilii Tridentini restitutum S. Pii V Pontificis maximi jussu Editum, aliorum Pontificum cura recognitum, a Pio X reformatum, Ssmi. D. N. Benedicti XV auctoritate vulgatum". A parte le rubriche, furono introdotti i Prefazii di san Giuseppe e dei defunti approvati con il decreto del 9 aprile del 1919.

Se si eccettua l'introduzione di Pio XI dei testi liturgici per la festa di Cristo Re, con tanto di Prefazio (1925), del Prefazio del Sacro Cuore (1929), e della la festa di qualche santo, non c'è stato nessun cambiamento importante nel Messale fino agli anni '50, allorquando è stata rifatta la Settimana Santa, sono state semplificate le rubriche e riformato il calendario (1955), e soprattutto, nel 1960 sono state promulgate nuove rubriche e nel 1962 il nuovo Messale, nel quale furono apportate soppressioni ed aggiunte anche di elementi rituali, frutto tutto questo di decisioni positive dell'autorità.

Si dà così una situazione assolutamente nuova: per la prima volta, la soluzione delle difficoltà che possono presentarsi nel momento in cui ci si prepara a una celebrazione non si basa sul "savoir faire", frutto dell'esperienza acquisita lungo anni di pratica, ma deve cercarsi nella legislazione positiva, nella conoscenza delle rubriche pubblicate. È così che nel 1962 un seminarista diligente che aveva studiato bene i corsi di liturgia, poteva diventare, da un giorno all'altro, più competente di un cerimoniere con parecchi decenni d'esperienza.

Comunque, non dobbiamo farci neanche l'immagine di un Messale che sia rimasto completamente "intatto" a partire dalla sua pubblicazione nel 1570.

In definitiva le Edizioni referenziali più o meno stabili hanno avuto le seguenti durate:

1º 12 anni, da san Pio V fino all'introduzione del calendario gregoriano (benché ci siano stati in realtà alcuni accomodamenti di dettaglio nelle edizioni intermedie).

2º 22 anni fino a Clemente VIII 1604, o 34 se consideriamo solo quello che riguarda il rito della Messa e lasciamo da parte l'anteriore punto del Calendario,

3º 31 anni fino ad Urbano VIII 1634.

4º Il Messale raggiunge dopo il suo periodo di maggiore stabilità: 249 anni, fino all'Editio typica di Leone XIII del

1884.

5º 16 anni fino alla Edizione tipica

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del 1900, anche di Leone XIII, che non porta cambiamenti per quel che riguarda l'Ordo Missae.

6º 20 anni fino all'edizione adattata alle norme del "Divino afflatu".

7º un anno soltanto per la nuova redazione delle rubriche dei Prefazii.

8º 34 anni fino alla riforma della Settimana santa e semplificazione delle rubriche del 23 marzo 1955.

9º 5 anni fino all' entrata in vigore del Codice delle rubriche di Giovanni XXIII (1 Gennaio 1961).

10º Un anno e mezzo fino alla Editio typica del Messale (23 giugno 1962).

11º Questo, infine, è durato soltanto 2 anni e mezzo giacché è stato modificato profondamente nel 1965.

Dal confronto fra loro appare chiaro che la differenza dell'Ordo Missae tra il Messale di san Pio V e gli anteriori è minore di quella fra il Messale di san Pio X e l'anteriore ed è minore ancora di quella che troviamo tra il Messale di Giovanni XXIII e tutti i precedenti.

Vorrei mettere in rilievo, prima di finire questa prima parte, che ogni volta che si sono prodotte queste modificazioni nella liturgia, la forma modificata è stata imposta dappertutto, per lo più, però, come questione disciplinare. Infatti a nessuno sarebbe mai venuto in mente di farlo per evitare qualche "retromarcia" che si sarebbe potuta produrre non adottando l'ultima versione approvata.

Vediamo ora alcuni aspetti della continuità sincronica.

Quando parliamo di "liturgia", in senso largo, ci riferiamo all'insieme regolato di preghiere, di canti, di gesti, di riti, di oggetti e, in generale, di simboli di cui la Chiesa si avvale per dare pubblicamente culto a Dio, esprimendo così la virtù della religione. Queste preghiere, questi canti, questi gesti, ecc., provenienti da tradizioni differenti, prendono in ogni caso una fisionomia propria, e, debitamente regolamentati, costituiscono un rito. La liturgia della Chiesa cattolica si trova concretizzata così in diversi riti che seguono le differenti tradizioni ricevute e che, in alcuni casi, risalgono all'età apostolica.

Nel senso pieno del termine, però, un rito non è soltanto un rituale liturgico, ma una tradizione cattolica completa, il modo singolare per il quale una comunità particolare di fedeli riceve, percepisce, esprime e vive la sua vita cattolica nel seno dell'unico corpo mistico di Cristo. Questo ingloba tutti gli aspetti della cultura cattolica: scuole teologiche coi loro Padri e Dottori, disciplina canonica, scuole di spiritualità, devozioni, tradizioni monastiche, arte, architettura, inni, musica, eccetera. In questo stesso senso, Pio XII, nella sua enciclica "Orientalis ecclesia", include nel rito "tutto ciò che riguarda la liturgia sacra e gli ordini gerarchici, così come gli altri stati della vita cristiana... ".

Certamente questa definizione non si dà in modo univoco; infatti non si verifica totalmente che nei riti orientali. In Occidente le differenze tra i riti si limitano piuttosto alla Messa e all'Ufficio e, soltanto in certi casi, ai sacramenti.

Uno studio comparato dei differenti riti della liturgia cattolica realizzato in profondità dovrebbe, dunque, includere tutti gli aspetti che essi comportano o che, in qualsiasi modo, sono in rapporto con essi. Questo vuol dire considerare, non solo le cerimonie della Messa, ma anche l'Ufficio e il calendario che stabilisce il ciclo annuo con la ripetizione degli stessi riti un anno dopo l'altro. In alcuni casi, vanno considerate anche la traduzione delle Scritture secondo una tradizione propria al rito, la celebrazione dei sacramenti ed un'appropriata spiritualità. Anche a questo proposito ci limiteremo alla Messa.

Secondo l'assioma classico legem credendi lex statuat supplicandi, la liturgia può essere utilizzata come un locus theologicus che manifesta la fede della Chiesa trasmessa da una tradizione determinata. Perciò ogni rito manifesta la fede di una Chiesa particolare che, evidentemente, non può essere differente da quella della Chiesa universale ma la esprime in maniera singolare. La liturgia comparata ci permette, dunque, da una parte, di confermare il rapporto fra fede e preghiera e, d'altra, ci permette di determinare quali sono questi punti comuni e fondamentali.

Sottolineiamo che, a differenza delle altre religioni che in generale sono costrette ad una sola forma rituale, la Chiesa cattolica (che vuol dire "universale") non è una religione con un rito unico; al contrario, accetta tutte le tradizioni liturgiche legittime, raccogliendo così tutta l'eredità della tradizione nel suo insieme, di maniera che non c'è attualmente nessuna forma vivente della tradizione cristiana che non sia rappresentata, anche se minimamente, nel seno della Chiesa cattolica.

Questa diversità comporta frequentemente profonde differenze di struttura, di forma e di "stile" tra i riti; così, abbiamo, da una parte, la liturgia armena che conta attualmente un solo formulario, invariabile, senza distinzione tra rito festivo, domenicale o feriale (salvo alcuni inni che si alternano lungo l'anno liturgico); ed all'estremo opposto, la liturgia mozarabica, dove anche la preghiera eucaristica è composta da parti che variano ad ogni Messa. Tuttavia, dietro queste concezioni formalmente così differenti e questi mezzi di espressione così varii, c'è un fondamento di fede unico e permanente. Ciò si verifica perché, da un lato, c'è un nocciolo comune precedente alle divisioni multisecolari e, dell'altro, perché ci sono aspetti che, anche se incorporati posteriormente da diversi riti in modo parallelo ed indipendente, sono diventati, comunque, comuni a tutti. Il fatto che in certi casi ci siano più di 1500 anni di assenza di comunicazione, manifesta la presenza di tradizioni molto antiche comuni a tutta la Chiesa.

Vediamo rapidamente quali sono i riti che esistono attualmente nella Chiesa:

Tra i riti occidentali incontriamo, innanzitutto, il Rito Romano, con alcuni usi particolari come il Rito della Messa papale della Basilica di San Pietro che fu utilizzato fino all'inizio degli anni Sessanta per avvenimenti di notevole solennità effettuati nella stessa Basilica (per esempio: canonizzazioni, proclamazione di dogmi, ecc.). Questo uso aveva particolarità che lo distinguevano dalla forma abituale del Rito Romano.

Anche la Messa patriarcale di Lisbona aveva le sue particolarità (nella sua celebrazione il Patriarca aveva alcuni privilegi paragonabili a quelli del Papa). Possiamo ricordare, inoltre, forme rituali proprie di alcuni luoghi o di alcuni Ordini religiosi.

Poi ci sono i Riti propri di certe Diocesi che li hanno conservati lungo i secoli, come l'Ambrosiano, il Mozarabico, il Lionese e quello della Chiesa di Braga in Portogallo, "ritus bracarensis". Ci sono, inoltre, alcuni Messali di Ordini religiosi che si sono conservati fino alla riforma liturgica posteriore al Concilio: il Certosino, il Dominicano, il Carmelitano dei "calzati" e il Premonstratense.

Tra i riti orientali, il più diffuso è il Rito Bizantino nel quale troviamo diversi usi. Poi ci sono cinque Riti diversi di tradizione Siro-Antiochena, cioè: Siri, Caldei, Malabaresi, Malancaresi (questi due sviluppati nell'India a partire dai primi due) e i Maroniti del Libano. Indipendenti, ma con elementi bizantini e siri, sono gli Armeni. Alla fine, troviamo

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i due riti Alessandrini: il Copto e l'Etiopico.

Questa diversità di Riti può provocare una certa perplessità a chi è abituato a considerare il Rito Romano come il Rito proprio della Chiesa cattolica. Per questo alcuni temono che la molteplicità possa dividere in qualche modo l'unità della Chiesa. Si chiedono, dunque, se questa varietà di Riti costituisce in se stessa una cosa positiva o se è dovuta soltanto ad un atto di tolleranza dell'autorità per non mettere ostacoli ai fedeli che sono ad essi legati, affinché restino nell'unità cattolica.

La risposta chiara della tradizione della Chiesa può essere trovata già in questa vera "Summa liturgiae" del tredicesimo secolo che è il Rationale di Durando de Mende: "Dobbiamo prendere accuratamente in considerazione la varietà dei riti adoperati nel servizio divino. Ogni Chiesa, per così dire, ha le sue proprie osservanze alle quali dà un senso particolare. Nessuno dovrebbe rimproverare questa diversità nel modo di lodare Dio, di cantare salmi e cantici, di praticare le differenti cerimonie, poiché la Chiesa trionfante essa stessa, secondo le parole del profeta, 'manifesta una misteriosa diversità ed ella ammette, fino nell'amministrazione stessa dei sacramenti, una grande varietà di formule' ". (Dobbiamo ricordare d'altra parte che mai si è verificato in Occidente il caso di un Rito che abbia costituito una Chiesa dissidente intorno a sé).

In tempi più recenti molte espressioni dei sovrani pontefici vanno nello stesso senso. Uno dei più eloquenti è Pio IX: "Lontano dall'indebolire l'unità della Chiesa, la varietà di questi riti sacri e legittimi serve piuttosto ad aumentare la sua augusta maestà ed il suo magnifico splendore" (Certo, è evidente che bisogna distinguere accuratamente questa pluralità liturgica, costituita da Riti che provengono dalle differenti tradizioni liturgiche venerabili, dalla "pluralità" di riti dei Protestanti che sono conseguenza della libera creazione di nuove forme liturgiche o dell'adattamento ingegnoso di quelle già esistenti). Più recentemente, Pio XII dichiarò, in modo ancora più categorico: "Tanto i riti orientali che i latini devono essere tenuti in uguale stima e simile lustro perché incoronano con una regale varietà la Chiesa, Madre comune. Non solo per ciò, ma perché questa diversità di riti e di istituzioni, pur conservando intatto ed intero ciò che rappresenta per ciascuna delle confessioni la sua specificità più antica e più preziosa, non si oppone all'unità vera e sostanziale".

È dunque in questo senso che deve essere letta la Dichiarazione SC n. 4. "il sacro Concilio, obbedendo fedelmente alla tradizione, dichiara che la santa madre Chiesa considera come uguali in diritto e in dignità tutti i riti legittimamente riconosciuti".

Ci tratterremo adesso su alcuni aspetti della continuità "sincronica". A questo scopo, andiamo a rivedere alcuni aspetti emergenti dei differenti Riti liturgici. Dobbiamo segnalare che molte delle differenze che possono sconcertare l'uomo di oggi non sono dovute tanto a un'opposizione Oriente-Occidente, quanto a una concezione che è stata comune a tutti e due e che si oppone alla visione moderna, generata dopo il Rinascimento.

Dovremo limitare, necessariamente, la nostra analisi ad alcuni punti e lo faremo, in particolare, con riferimento a quelli che oggi sono oggetto di controversia.

In primo luogo, possiamo prendere atto di una forte coincidenza nel modo con il quale i differenti Riti si sono costituiti storicamente, tanto in Occidente quanto in Oriente: gli uni e gli altri sono stati il frutto di una lunga tradizione selettiva. Il fatto che certi Padri della Chiesa siano considerati come autori di liturgie (san Giovanni Crisostomo, san Basilio, san Gregorio) non significa, ove ci sia un fondamento storico per una tale attribuzione, che ci sia una creazione "ex novo"; c'è, piuttosto, una redazione a partire da un deposito proveniente dalla tradizione. Il vero autore di ogni Rito è stata la Chiesa stessa. Essa ha agito con diverse mani anonime, in uno sviluppo quasi impercettibile, su parecchie generazioni che comprendevano, e quasi indovinavano, il "piano" contenuto virtualmente in ciò che ricevevano e che dovevano trasmettere, con fedeltà, ma allo stesso tempo in modo arricchito. L'autorità ecclesiastica si è limitata, in generale, a confermare o, se necessario, a correggere ciò che queste tradizioni immemorabili avevano formato col passare degli anni. Gli interventi "non spontanei" sono comunque esistiti, sia in Oriente sia in Occidente, e più di quanto si pensi, ma non è stato questo il modo normale, e non è stato privo di conseguenze traumatiche.

Una seconda coincidenza di un'enorme importanza è data dal fine principale dell'azione liturgica: un'analisi di tutti gli elementi eucologici, rituali, gestuali, musicali, ornamentali, ecc., delle diverse tradizioni rituali mostrano che tutti questi elementi sono ordinati chiaramente ad un fine principale: la gloria di Dio. La portata di questo si fonda sul fatto che le azioni umane sono specificate dal loro fine. Il fine è la chiave di comprensione della liturgia e dell'azione liturgica stessa, ciò che è secondo il fine può essere considerato "liturgico", invece ciò che se ne allontana è, nella misura di questo allontanamento, "antiliturgico". L'identità al livello del fine indica dunque l'identità profonda dei differenti Riti al di là delle varie forme nelle quali possono concretizzarsi.

Un altro elemento: La distinzione tra il sacro e il profano. L'atteggiamento richiesto dalla liturgia è "sacro". L'inno cantato durante la Grande entrata dei Riti bizantino ed armeno lo manifesta con chiarezza: "Noi che rappresentiamo misticamente i Cherubini… abbandoniamo in questo momento ogni sollecitudine terrestre… ". Più particolarmente, il sentimento che scaturisce naturalmente di fronte alla sacralità dei misteri è il timore: così, nel "supplices" del Canone Romano (nella versione che si trova nel rito Ambrosiano) si dice "ante conspectum tremendae maiestatis tuae" e nella "litania di supplica" bizantina si prega "per questo santo tempio, e per coloro che vi accedono con fede, pietà e timore di Dio", nella stessa liturgia termini simili sono impiegati nell'invito alla comunione e nella litania di azione di grazie; infatti, la liturgia di san Giovanni Crisostomo che, comparata ad altre liturgie dell'Oriente, è piuttosto moderata a questo riguardo, usa circa quattordici volte espressioni legate alla parola "fobos" (timore).

Dal punto di vista della struttura delle cerimonie, è importante notare la concezione tradizionale del Rito liturgico come una totalità unificata, non una semplice successione di Riti, di canti, ecc., come se si trattasse di una specie di "suite" o "potpourri".

Bisogna segnalare anche l'importanza dei gesti e di una certa "mise en scène " o " regie" armoniosa e degna.

La liturgia diventa così l'opera d'arte per eccellenza; che prova a riunire in se stessa il più perfetto della cultura umana messo al servizio del culto. Vero "Gesamtkunstwerk", dove si combinano la filosofia, la teologia, la letteratura, la musica, le arti plastiche e l'architettura.

La cultura moderna, anche apprezzandoli, tende ad atomizzare ed isolare questi diversi elementi che rimangono, senza dubbio, ammirabili, ma irrimediabilmente carenti di vita; disseminati in musei, (le stesse Cattedrali sono ridotte,

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in un certo senso, a magnifici musei), sale per concerti, dischi o biblioteche.

In una concezione "olistica" del culto e della cultura questi diversi elementi prendevano vita integrandosi alla realtà vivente della liturgia.

Vediamo adesso alcuni aspetti più concreti: Un elemento che appare in modo costante in tutte le famiglie liturgiche è l'atteggiamento del sacerdote che, pure riconoscendosi indegno di presentarsi davanti all'altare di Dio a causa dei suoi peccati, osa tuttavia avvicinarsene, sostenuto dalla fiducia nella misericordia divina, per celebrare i misteri sacri, offrendo il sacrificio in espiazione dei peccati del popolo. Per questo si annienta e chiede a Dio che lo renda degno di questo ministero; frequentemente chiede la mediazione della Vergine e di tutti i santi.

In Occidente, ciò è rappresentato in modo speciale dalle cosiddette "apologie" che hanno cominciato ad essere adoperate intorno all'VIII secolo, e hanno raggiunto un'enorme diffusione nei secoli X e XI, essendo diminuite più tardi nel rito romano dove restano solamente alcuni esempi. Frequentemente sono disprezzate dai liturgisti attuali perché le considerano di "introduzione tardiva", tuttavia bisogna notare che le preghiere di questo tipo sono presenti in tutte le tradizioni liturgiche, sia dell'Oriente sia dell'Occidente.

Questo tipo di preghiera si incontra soprattutto nei momenti culminanti della liturgia quando il celebrante si prepara a presentarsi in un modo speciale davanti alla Divinità; in concreto: all'inizio della Messa, per un atto penitenziale effettuato in certi riti all'infuori del santuario ed in altri, semplicemente ai piedi dell'altare. Legato strettamente a questo, c'è un rito di entrata al santuario, presente, sia pure diversamente, nei diversi Riti. Alla lettura del Vangelo, all'Offertorio, alla Comunione si trovano anche preghiere di questa natura e, in parecchi casi, anche nel momento del saluto dall'altare alla fine della Messa.

Nelle liturgie occidentali tutti i Riti prevedono, prima di salire all'altare, un "Confiteor" con la risposta corrispondente. Ci sono molteplici forme di "Confiteor", di estensione variabile: dalla forma più lunga impiegata nel Missale Romanum, fino alla molto breve del Rito Certosino, ma tutti presentano gli stessi elementi: riconoscimento della condizione di peccatore davanti a Dio, alla Vergine, ai Santi ed ai "fratelli"; riconoscimento delle differenti classi di peccati commessi; domanda di intercessione di tutti gli invocati dinanzi a Dio.

Nei Riti orientali, preghiere di questo tipo sono frequenti nel corso della liturgia. Possono essere estese ed elaborate come quelle che si trovano presso i Caldei o molto brevi, come la seguente, ripetuta a più riprese dal celebrante nella liturgia bizantina mentre si segna e si inclina profondamente: "Oh Dio, abbi pietà di me, peccatore".

In tutti i riti orientali troviamo abbondanti esempi di queste preghiere. Il Rito Caldeo ne comporta il maggior numero: una ventina di volte nel corso della liturgia della Messa, e non solo all'inizio delle parti principali, ma costantemente, talvolta interrompendo lo sviluppo delle cerimonie al punto da tagliare a più riprese l'anafora stessa.

Notiamo che questi atti di umiltà e di riconoscimento dei peccati sottolineano da parte del sacerdote la sua indegnità. Questi atti sono presenti in tutti i Riti, ma l'attitudine non è identica a quella dei semplici fedeli. Questi ultimi, beninteso, sono indegni, anche essi, di assistere ai divini uffici, ma è specificamente a causa della sua funzione sacerdotale di mediatore che il celebrante riconosce la sua indegnità. Per questo non è con la assemblea, neanche nella qualità di "presidente" di questa, che riconosce i suoi peccati, ma in quanto indegno del ministero sublime grazie al quale offre la Vittima divina in favore dei peccati del popolo.

La recita a voce bassa rende inammissibili queste preghiere in una concezione di tipo protestante secondo la quale deve essere l'insieme dell'assemblea a chiedere congiuntamente perdono a Dio e gli uni agli altri. Queste preghiere possono avere un senso solamente quando c'è un sacerdote che offre per il popolo.

Nel nuovo Messale Romano, si è optato invece per un atto penitenziale comunitario. In un articolo pubblicato nella rivista "Notitiae", organo ufficiale della Congregazione del Culto Divino, questo viene spiegato così: "Tra i periti del 'Consilium', alcuni avrebbero voluto sopprimere un rito estraneo alla tradizione romana (cioè l'atto penitenziale), nella quale la preghiera penitenziale accompagna di fatto tutto lo svolgersi della celebrazione. Altri invece, appoggiandosi all'esperienza delle Chiese riformate, proponevano di farne una preghiera di tutto il popolo all'inizio della celebrazione, quasi eco alla parola di Gesù: 'Vade prius reconciliare fratri tuo' (Mt ,24). È prevalso questo ultimo punto di vista".

Un secondo punto, che è stato anche oggetto di controversie e comporta l'esempio più estremo e più criticato di "apologia", è il rito d'Offertorio:

Il modo di preparare i doni nei differenti Riti è molto vario; se si eccettua il Rito Romano nella sua forma attuale, questa preparazione è fatta sempre all'inizio della liturgia, rinforzando così l'unità delle due parti di questa intorno all'idea di sacrificio. I Siri fanno la preparazione senza ornamenti, i Nestoriani impastano il pane e lo cuociono prima della liturgia in una dipendenza annessa alla chiesa, mentre recitano salmi e preghiere appropriate. In certi riti, l'Offertorio segue immediatamente a questa preparazione; in altri, è riportato all'inizio della liturgia dei fedeli.

Quando si analizzano le preghiere dell'Offertorio del Rito Romano, ciò che colpisce innanzitutto è ciò che i liturgisti chiamano "prolessi", cioè "anticipo", che consiste nel trattare il pane ed il vino mentre sono offerti come se fossero già il corpo ed il sangue di Cristo, ed offerti per i vivi e per i defunti. Ciò sembra inadeguato a molti e costituisce l'oggetto di alcune delle principali critiche fatte dai Protestanti e, in generale, dai liturgisti più o meno razionalistici, all'Ordo Missae Romano tradizionale. Tuttavia, questo fenomeno non è proprio né esclusivo del Messale "di san Pio V": se ne trovano molti altri esempi in Occidente come in Oriente.

Nei Riti orientali troviamo anche frequenti "anticipi" della presenza reale che, seguendo lo stile proprio di queste tradizioni liturgiche, non si limitano alle parole, ma si manifestano tanto frequentemente nei gesti e nei riti.

Nel Rito Bizantino, la preparazione dei doni e dell'Offertorio sono posti fin dall'inizio in un contesto nettamente sacrificale: prima di cominciare questa preparazione, chiamata "proskomidia", il sacerdote recita l'antifona del Venerdì Santo: "Ci hai riscattati dalla maledizione della legge per il tuo Sangue prezioso. Inchiodato sulla Croce e traforato dalla lancia, fai sgorgare una sorgente di immortalità per gli uomini. O nostro Salvatore, gloria a te". Il senso sacrificale è immediatamente rinforzato in modo molto forte, quando nella complessa preparazione del pane (chiamato in modo molto evocatore: "l'agnello") sono adoperate le parole del profeta che predice il sacrificio del Servo sofferente: Come una pecora, è stato condotto all'immolazione. E come un agnello senza macchia, muto davanti a quello che lo tosa, non ha aperto la bocca. Nell'umiltà, il suo giudizio è stato esaltato. Chi racconterà la sua generazione?

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Perché la sua vita è stata alzata dalla terra" (Is 53, 7-8). Questo stesso testo è utilizzato anche nell'Offertorio dagli Armeni, dai Siri e dai Maroniti, ma a differenza di questi, il sacerdote Bizantino, mentre lo recita, taglia l'agnello con la "lancia" (cioè un coltello liturgico a forma di lancia), aggiungendo poi: "È immolato, l'agnello di Dio che toglie i peccati del mondo, per la vita e la salute del mondo" (cf. Gv 1, 29). Perfora, allora, con la lancia il lato sinistro dell'agnello e recita questa formula: "Uno dei soldati gli perforò il lato con la sua lancia, e subito ne uscì sangue e acqua. Chi ha visto ne rende testimonianza e la sua testimonianza è veritiera (Gv 19, 34). Senza dubbio, in questo contesto, queste parole acquistano un carattere evidente di "prolessi" o anticipazione. Questi stessi termini sono utilizzati nello stesso contesto (sebbene non accompagnati dalla cerimonia che li drammatizza) anche nei Riti Sirio, Caldeo, Malabare ed Armeno e, in Occidente, per i Riti Lionese, Certosino, Mozarabico, Ambrosiano e Bracarese.

I Siri e i Malabari cattolici, così come i Caldei e i Nestoriani, preparano il calice, servendosi di un'espressione ancora più forte che sottolinea questa prolessi: "il sangue prezioso è versato nel Calice del Nostro Signore Gesù Cristo"… e poi versano dell'acqua dicendo anche: "Uno dei soldati… " ecc. Quando il pane è messo sulla patena, si dice: "Che questa patena sia segnata col corpo santo del Nostro Signore Gesù Cristo".

Nel Rito Copto, il sacerdote, con l'ostia nelle sue mani, recita la preghiera dell'Offertorio durante la quale, dopo un'apologia dove si riconosce indegno di questo alto ministero, implora: "Accordaci, o Signore, che il nostro sacrificio sia accettato davanti a Te per i miei peccati e per le ignoranze del tuo popolo".

Nel Rito della Grande entrata, che nel Rito Bizantino assume solennità speciale, i doni sono trattati come se Cristo fosse presente. In parecchi luoghi il popolo ha l'abitudine di prosternarsi davanti alla processione: il sacerdote benedice il popolo coi doni e poi il coro canta, finendo l'inno dei Cherubini: "per ricevere il Re del cielo e della terra, invisibilmente scortato dalle legioni degli angeli".

Nel Rito Armeno, sebbene la cerimonia non sia così sviluppata (perché la processione si svolge dentro il santuario, passando dietro l'altare), le parole del Salmo 23, (vv. 7-10), dette dal diacono mentre porta le offerte, non sono meno significative: "Sollevate le vostre porte, principi, ed alzate voi, porte eterne, ed entrerà il Re della gloria"; ed alla domanda fatta dal celebrante: "Chi è questo Re della gloria, il Signore dei potenti?", risponde: "questo è il Re della gloria!". E rimette il calice e la patena al celebrante che benedice il popolo con essi, dicendo: "Benedetto colui che viene nel nome del Signore".

Il Rito Sirio comporta una preghiera molto comparabile al "Suscipe Sancta Trinitas" dei riti latini; si trovano infatti lì presenti il memoriale dell'opera del riscatto, la commemorazione di tutti i santi che sono stati graditi a Dio "dalla creazione", la commemorazione dei defunti ed in modo particolare degli offerenti.

Dagli esempi portati si ricava che la prolessi non è un fenomeno limitato al Rito Romano e nemmeno ai Riti occidentali del Medioevo; questo fenomeno si trova, infatti, anche nei Riti orientali e, ciò che è più importante, nei Riti che avevano rotto la loro comunione con la Chiesa già nel V secolo. E in più nei Riti orientali esiste un fenomeno ancora più sorprendente: l'epiclesi dopo la consacrazione. Accade che tanto la prolessi quanto l'epiclesi sono difficili a spiegare se si considera l'azione liturgica da un punto di vista "illuminista" o "razionalista", concezione che pretende che i gesti e le preghiere devono svilupparsi secondo un rigoroso ordine logico e cronologico, e che tutto deve essere razionalmente comprensibile a tutti. Questo non può essere capito in altro modo se non considerando la cerimonia liturgica nel suo insieme come un tutto unitario (di cui il nocciolo è essenzialmente l'aspetto sacrificale), avendo uno "spazio" ed un "tempo" che le sono propri, differenti dal "chiaro e distinto" della ragione umana, così come accade con l'Offertorio posto all'inizio della Messa, la frequente ripetizione delle preghiere e delle formule e in generale l'abbondante utilizzazione di gesti simbolici.

È anche da segnalare, infine, la concezione della Messa come Sacrificio propiziatorio, chiaramente riflessa in questa preghiera sira molto antica della frazione del pane: "Oh Padre di Giustizia, ecco vostro Figlio che si sacrifica per acquietare la vostra collera. Accettatelo. È morto per me affinché io ottenga il perdono. Accettate questo sacrificio presentato dalle mie mani e scusatemi. Non si ricordi più degli errori che ho commesso contro la vostra Maestà. Ha effuso il suo sangue sul Calvario per i malfattori. Prega per me. Ascoltate la mia preghiera a causa dei suoi meriti. Quanti peccati da parte mia e che misericordia da parte vostra, se li pesate! Ma la vostra misericordia ha maggior peso delle montagne più pesanti. Guardate, certamente, i peccati, ma guardate anche il sacrificio offerto per essi; il sacrificio e la vittima sono infinitamente superiori ai peccati. È perché io ho peccato che il vostro Amato ha sofferto dei chiodi e della lancia. Le sue sofferenze sono sufficienti per acquietarvi e per esse ottengo la vita. Gloria al Padre che ha consegnato il suo Figlio per la nostra salvezza, adorazione al Figlio che è morto sulla croce e ci ha dato la vita, riconoscenza allo Spirito Santo che ha cominciato e compiuto il mistero del nostro riscatto".

Ci sarebbero tantissimi altri esempi ma dobbiamo fermarci qui, per fare una riflessione finale.

A proposito del cosiddetto Messale "di san Pio V", sebbene non esista una soppressione assoluta e totale nel senso che il suo uso non fu mai interrotto completamente e dappertutto, è palese tuttavia che questa soppressione è stata cercata: il suo uso fu energicamente represso, tormentando chiunque pretendesse di utilizzarlo.

C'è di più. Non solo si proibì "de facto" il rito ricevuto dalla tradizione; si cercò anche di eliminare in maniera molto ampia e generalizzata tutto quello che in qualche modo potesse ricordarlo: si potrebbe dire che si è cercato di fare una vera "damnatio memoriae".

Ricordo che la damnatio memoriae, letteralmente la "condanna" della memoria, era nell'antichità la condanna giudiziale del ricordo stesso di qualcuno considerato come "nemico" dello Stato dopo la sua morte, mediante la distruzione di qualunque vestigia di quel ricordo. Quando il Senato Romano la decretava ufficialmente si procedeva ad eliminare tutto quanto potesse ricordare il condannato, spesso un imperatore, mediante una serie di misure come il ritiro o distruzione delle sue immagini, la cancellazione del suo nome dalle iscrizioni in cui fosse raffigurato e nelle quali si ricordassero le sue azioni, l'abbattimento dei monumenti in suo onore. Si arrivava fino alla condanna esplicita del suo nome familiare mediante la proibizione di usarlo per altri membri della famiglia. Nell'antico Egitto si produsse qualcosa di simile quando il culto del dio Amón fu abolito ufficialmente: L'introduzione della nuova religione di Aton suppose l'eliminazione dell'antica e le immagini di Amón furono distrutte e le iscrizioni che lo nominavano, cancellate.

Ci troviamo qui davanti a qualcosa di simile. L'esigenza non è stata soltanto quella di celebrare secondo il nuovo Messale ma ha implicato che anche lo "stile celebrativo" dovesse essere completamente differente rispetto a tutto quello che era anteriore: la scelta degli ornamenti, i vasi sacri, la disposizione e l'ornamento dell'altare o delle chiese, la musica e i gesti celebrativi, niente doveva ricordare il passato. In molti ambienti, anche lo scegliere, tra le formule ottative previste dal Messale di Paolo VI, quelle formule che erano comuni col rito anteriore era molto malvisto. Certe cose raccomandate, e perfino comandate, dal Novus Ordo Missae, erano cadute in disuso e potevano creare difficoltà a chi volesse metterle in pratica. Tutto questo non era soltanto una "moda"; fu imposto frequentemente come una legge, certamente non scritta. Enumero alcuni esempi, di diverso valore ed importanza in se stessi, ma che erano causa di reazioni altrettanto indignate: l'uso di pianete romane, di vasi sacri ricchi, di tre tovaglie sull'altare, il velo del calice (anche se è comandato dal nuovo Messale), il fare l'inchino e la genuflessione all'Incarnatus, pure comandato quando si recita il Credo Niceno (cosa che d'altra parte, era già di per sé malvista in molti ambienti là dove esiste l'alternativa del credo Apostólico), fare la riverenza prima di ricevere la comunione in piedi e, in alcuni luoghi, il fatto di ricevere il sacramento in bocca (e non parliamo del fare la comunione in ginocchio!), concelebrazione quotidiana e, in pratica, "obbligatoria", attenzione alle particelle, unire il pollice ed indice dopo la consacrazione, le mani giunte del sacerdote o dei ministri quando non le hanno occupate, utilizzare il "Canone Romano", anche se trasformato in preghiera Iª; a volte si arriva ad estremismi come evitare di mettere i candelabri e i vasi dei fiori in maniera simmetrica sopra l'altare e si cerca perfino di evitare che nel momento di pregare con le braccia alzate queste siano poste alla stessa altezza ed in posizione elegante e degna.

E non diremo niente dell'uso della lingua latina, anche se questo uso non solo non fu mai abrogato ma è stato sempre chiaramente consigliato. Nel caso dei religiosi tenuti all'obbligo dell'ufficio corale, è stato formalmente prescritto. Meno ancora parleremo della celebrazione "ad orientem".

In questo senso Benedetto XVI, attraverso le cerimonie preparate da Mons. Guido Marini, sta realizzando una delicata, ma urgente, "recuperatio memoriae". Che, grazie a Dio, comincia ad essere imitata in diverse parti.

Tuttavia la situazione generale continua ad essere molto difficile, come lo è stata in tutto questo tempo da quaranta anni a questa parte.

Il Concilio stesso, nel testo ufficialmente approvato e pubblicato, aveva protetto, oggettivamente parlando, i due aspetti della continuità: l'aspetto diacronico affermando che le riforme dovevano essere fatte in modo che non si introducessero innovazioni se non quando lo richiedeva una vera e accertata utilità della Chiesa, e con l'avvertenza che le nuove forme scaturissero organicamente da quelle già esistenti. E l'aspetto sincronico dicendo che tutti i riti legittimamente riconosciuti erano uguali in diritto e in dignità.

Tuttavia, come nella fattoria di Orwell, ormai tutte le rubriche, le regole, le leggi liturgiche sono state di fatto drasticamente semplificate e alla fine non è rimasta che una sola: "Tutti i Riti sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri".

da «Instaurare Omnia in Christo», 2010, 3, pp. 8-16.
www.instaurare.org