sabato 31 luglio 2021

Il Cardinale Sarah: "il divieto di celebrare la Santa Messa tradizionale è ispirato dal demonio che desidera la nostra morte spirituale"




Come non riproporre ai nostri lettori, in questi giorni infelici, l'intervista concessa ad Edward Pentin da parte del Card. Robert Sarah, già Prefetto della Congregazione del Culto Divino, e uscita per le cure del National Catholic Register a settembre 2019 QUI.
MiL ne aveva già dato menzione QUI.
Che dire? Decisamente attuale e tristemente profetica.
AZ





Il Cardinale Sarah, [già] Prefetto della Congregazione del culto divino:
il divieto di celebrare la Santa Messa tradizionale è ispirato dal "demonio che desidera la nostra morte spirituale"





Perché Lei pensa che sempre più giovani sono attratti dalla liturgia tradizionale o nella cosìddetta forma straordinaria?

Lo vedo e ne sono testimone: i giovani mi hanno confidato la loro assoluta preferenza per la forma straordinaria, più educativa e più insistente sul primato e centralità di Dio, sul silenzio e sul significato della trascendenza sacra e divina.

Ma soprattutto, lo comprendiamo facilmente, come non possiamo essere sorpresi e profondamente sbalorditi per il fatto che quella che ieri era la regola oggi è vietata?
Non è forse vero che proibire o nutrire dei sospetti nei confronti della forma straordinaria della Messa può essere ispirato solo dal demonio che desidera il nostro soffocamento e la nostra morte spirituale?

Quando la forma straordinaria viene celebrata nello spirito del Concilio Vaticano II, rivela la sua piena fecondità: perchè ci sorprendiamo che una liturgia che ha donato così tanti Santi continui a sorridere alle giovani anime assetate di Dio?
Come Benedetto XVI, spero che le due forme del rito romano si arricchiscano a vicenda. Ciò implica uscire da un'ermeneutica di rottura.
Entrambe le forme hanno la stessa fede e la stessa teologia. Contrapporsi è un profondo errore ecclesiologico.
Significa distruggere la Chiesa strappandola alla sua Tradizione e facendole credere che ciò che la Chiesa considerava santo in passato è ora sbagliato e inaccettabile: un grande inganno e un insulto a tutti i Santi che ci hanno preceduto! Che visione della Chiesa!

Dobbiamo allontanarci dalle opposizioni dialettiche.
Il Concilio non desiderava rompere con le forme liturgiche ereditate dalla Tradizione, ma, al contrario, valorizzarle migliorando la partecipazione.
La Costituzione conciliare stabilisce che "le nuove forme scaturiscano organicamente, in qualche maniera, da quelle già esistenti" " . (Art.23 N.d.R.)
Sarebbe quindi sbagliato opporre la Tradizione della Chiesa al Concilio (e viceversa N.d.R)
In questo senso, è necessario che coloro che celebrano la forma straordinaria lo facciano senza uno spirito di opposizione e quindi nello spirito della Costituzione Sacrosanctum Concilium. Abbiamo bisogno della forma straordinaria per discernere anche in quale spirito celebrare quella ordinaria.
Al contrario, celebrare nella forma straordinaria senza tener conto delle indicazioni del Sacrosanctum Concilium rischia di ridurre questa forma a un residuo archeologico senza vita e senza futuro.
Sarebbe auspicabile includere nell'appendice di una futura edizione del Messale (riformato N.d.R.) anche il Rito penitenziale e l'Offertorio della forma straordinaria al fine di sottolineare che le due forme liturgiche si illuminano a vicenda, in continuità e senza opposizione.
Se viviamo in questo spirito, allora la liturgia cesserà di essere il luogo delle rivalità e delle critiche e ci condurrà infine nella grande liturgia celeste.







Il card. Brandmüller sul Traditionis Custodes. Una legge va accettata per essere valida.



Un ennesimo importante intervento, tra i più autorevoli, su Traditionis Custodes. Il card. Walter Brandmüller, eminente storico della Chiesa, pubblicato su Kath.net l'intervento che riprendo di seguito nella traduzione di Stilum Curiae.
A differenza dei numerosi precedenti, viene considerato in maniera impeccabile l'elemento formale. Restano perplessità sulla relativa efficacia del rilievo in un contesto che ha fatto della dell'eresia dell'informe (per dirla con Mosebach) e dell'arbitrio la sua stella polare. Tuttavia irrobustisce le ali della nostra resistenza... Qui l'indice dei precedenti e correlati. Il card. Brandmüller sul TC.


Una legge va accettata per essere valida.



Card. Walter Brandmüller 

Con il motu proprio Traditionis custodes, Papa Francesco ha praticamente scatenato un uragano che ha messo in subbuglio quei cattolici che si sentono attaccati al rito “tridentino” della messa rinverdito dal Summorum Pontificum di Benedetto XVI.

D’ora in poi – secondo la dichiarazione essenziale della Traditionis custodes – il Summorum Pontificum di Benedetto sarà in gran parte sospeso e la celebrazione della Santa Messa, con alcune eccezioni, sarà consentita solo secondo il Messale di Paolo VI.

Uno sguardo alla scena dei blogger e ad altri media rivela come la protesta mondiale sia scoppiata contro il documento, che è insolito nella forma e nel contenuto.

In contrasto con le proteste relative al contenuto della Traditionis custodes, occorre ora fare qui alcune riflessioni che si riferiscono a momenti fondamentali della legislazione ecclesiastica – a proposito della Traditionis custodes.

Se la discussione sulla Traditionis custodes ha riguardato finora il contenuto legislativo del motu proprio, qui sarà considerato da un punto di vista formale come un testo giuridico.

Prima di tutto, bisogna notare che una legge non richiede un’accettazione speciale da parte degli interessati per acquisire forza vincolante.

Tuttavia, deve essere ricevuta da loro. La ricezione significa l’accettazione affermativa della legge nel senso di “farla propria”. Solo allora la legge acquista conferma e permanenza, come insegnava il “padre” del diritto canonico, Graziano († 1140), nel suo famoso Decretum. Ecco il testo originale:
Leges instituuntur cum promulgantur. Firmantur cum moribus utentium approbantur. Sicut enim moribus utentium in contrariem nonnullae leges hodie abrogatae sunt, ita moribus utentium leges confirmantur” (c. 3 D. 4).
(Le leggi sono istituite quando vengono promulgate. Si confermano quando sono avvalorate dal comportamento di chi le usa. Così infatti a causa del comportamento degli utenti in senso contrario, alcune leggi sono state abrogate, e così per il comportamento degli utenti le leggi vengono confermate).Ciò significa, tuttavia, che perché una legge sia valida e vincolante, deve essere approvata da coloro a cui è rivolta. Così, d’altra parte, alcune leggi oggi sono abolite dalla non osservanza, così come, al contrario, le leggi sono confermate dal fatto che gli interessati le osservano.

In questo contesto, si può anche fare riferimento alla possibilità prevista dal diritto consuetudinario secondo cui un’obiezione giustificata contro una legge della Chiesa universale ha almeno inizialmente un effetto sospensivo. Ciò significa, tuttavia, che la legge non deve essere obbedita finché l’obiezione non è stata chiarita.

Bisogna anche ricordare che in caso di dubbio sul fatto che una legge sia vincolante, essa non lo è. Tali dubbi potrebbero, per esempio, essere dovuti a una formulazione inadeguata del testo della legge.

Qui diventa chiaro che le leggi e la comunità per la quale sono emanate sono legate l’una all’altra in modo quasi organico, nella misura in cui il bonum commune della comunità è il loro obiettivo.

In parole povere, tuttavia, questo significa che la validità di una legge dipende in ultima analisi dal consenso di coloro che ne sono colpiti. La legge deve servire il bene della comunità – e non viceversa la comunità la legge.

Le due cose non sono opposte, ma legate l’una all’altra, nessuna delle quali può esistere senza o contro l’altra.

Se una legge non viene o non viene più osservata dall’inizio o nel corso del tempo, perde la sua forza vincolante e diventa obsoleta.

Questo – e questo va sottolineato con forza – vale naturalmente solo per le leggi puramente ecclesiastiche, ma in nessun caso per quelle basate sulla legge divina o naturale.

Come esempio di una lex mere ecclesiastica, si consideri la costituzione apostolica Veterum sapientia di Papa Giovanni XXIII del 22 febbraio 1962, con la quale il Papa prescriveva il latino per l’insegnamento universitario, tra le altre cose.

Giovane neolaureato che ero, ho reagito solo scuotendo la testa. Beh, il latino era la norma all’Università Gregoriana di Roma, e questo aveva un buon senso vista la babele di lingue tra gli studenti, che venivano da tutti i continenti. Ma che le lezioni di Cicerone, Virgilio e Lattanzio fossero comprese è fonte di dubbio. E ora: la storia della chiesa, anche dei tempi moderni, in latino? Con tutto l’amore professato per la lingua dei romani – come potrebbe funzionare?

E così è rimasto. Veterum sapientia fu a malapena stampata e presto dimenticata. Ma ciò che questa fine ingloriosa di una costituzione apostolica significò per il prestigio dell’autorità papale divenne evidente solo cinque anni dopo, quando l’enciclica Humanae vitae di Paolo VI fu quasi annegata tra le proteste del mondo occidentale.

Fatto, dunque, amici, e pazienza. Mai lo zelo non illuminato ha servito la pace, il bene comune. Fu San John Henry Newman che, citando il grande Agostino, ci ricordò: “Securus iudicat orbis terrarum”. Nel frattempo, facciamo attenzione al nostro linguaggio. Il “disarmo verbale” è già stato chiamato così. In parole più pie: nessuna violazione dell’amore fraterno (e recentemente sororale)!

Ora – di nuovo sul serio: che idea grottesca che il mistero stesso dell’amore diventi un pomo della discordia. Di nuovo, citiamo Sant’Agostino, che chiamava la Santa Eucaristia il legame d’amore e di pace che racchiude il capo e i membri della Chiesa. Non sarebbe un più grande trionfo dell’inferno se questo legame si rompesse di nuovo, come è successo molte volte in passato. E il mondo sogghignerebbe: “Guarda come si amano!”.








“Traditionis custodes” / Tre domande a monsignor Nicola Bux. “Un papa non può disporre della liturgia come se fosse cosa propria”

 


30LUG
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by Aldo Maria Valli

Torniamo su Traditionis custodes con tre domande a monsignor Nicola Bux, liturgista.

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Può spiegare in termini semplici qual è l’obbiettivo del nuovo documento?

L’obiettivo dichiarato è l’unità della Chiesa, che sarebbe minacciata dalla contestazione nei confronti del Concilio Vaticano II. Ma la contestazione di un concilio ecumenico, benché atto niente affatto commendevole, non è una novità nella storia della Chiesa. Si pensi alle obiezioni sollevate dal cardinale Gaetano a un altro concilio ecumenico, il V Lateranense, 1512-1517. Il punto è che l’unità nella Chiesa difetta da tempo a causa della crisi della fede e del crollo della liturgia, provocate dalle deformazioni del Novus Ordo “al limite del sopportabile”. Se non si pone mano alla riforma della riforma liturgica, sarà impossibile ricondurre i buoi nella stalla… Il documento fa cenno alle deformazioni, ma questa toppa è peggiore del buco. Infatti, affermando che Benedetto XVI aveva promulgato il motu proprio Summorum pontificum per ricondurre all’ovile la Fraternità sacerdotale San Pio X non si dice la verità, come ha dichiarato lo stesso Benedetto XVI sia nella lettera di accompagnamento al Summorum pontificum sia nel libro Ultime conversazioni con Seewald: Benedetto ha esplicitamente rigettato tale lettura riduttiva del suo motu proprio. Invece esso postulava appunto il reciproco arricchimento tra le due forme del rito romano, ossia “la riforma della riforma”; non è corretto citare il pensiero di un pontefice, di un alto prelato, di un autorevole teologo senza considerare le diverse fasi del suo pensiero. Inoltre il nuovo motu proprio cita diverse frasi di Summorum pontificum distorcendone il senso, ma non cita quella dove Benedetto dice che ciò che un tempo era sacro non può d’improvviso essere dichiarato negativo ed essere abrogato, perché resta sempre sacro. Può un papa rovesciare completamente l’insegnamento di suoi due predecessori, di cui uno santo e l’altro ancora vivente? Può un papa disporre della liturgia come se fosse cosa propria? Abbiamo pubblicato un intervento in traduzione su questo argomento su Il pensiero cattolico.

Che cosa cambierà ora in concreto?


Nel documento si fa appello al popolo di Dio: ma ci si è accorti della consistenza del popolo che ha seguito il Summorum pontificum? È ormai un mare che attraversa tanti paesi del mondo. Poi, se proprio si tiene al popolo, perché non lo si è protetto dagli innumerevoli abusi arrecati alla liturgia? Perchè i vescovi non hanno vigilato sull’applicazione dell’Istruzione Redemptionis Sacramentum, voluta da Giovanni Paolo II dopo il Sinodo sull’Eucaristia per porre fine appunto agli abusi e persino ai reati contro il Sacramento? Si sono persino trasformate le chiese in trattorie, dimenticando quanto prescrive il rito della Dedicazione della chiesa. Tuttavia la fede e la preghiera di quella parte di popolo che è consapevole della presenza del Signore – che sola fa sacra la liturgia – troverà sempre le vie per esprimersi devotamente, proprio ora che la frequenza alla Messa ordinaria tocca ovunque il punto più basso, mentre alle Messe nel rito romano antico aumenta inesorabilmente. Si può fermare l’acqua del mare? Con questo motu proprio si mettono preti e fedeli davanti a un caso di coscienza: ubbidire all’iniqua decisione della legittima autorità presa contro la tradizione e contro la carità pastorale oppure ubbidire alla tradizione? Non bisognerebbe mai mettere i fedeli davanti a questi casi di coscienza che amareggiano e fanno pesare il voler rimanere nella Chiesa. Ora si pretende obbedienza assoluta a questo nuovo motu proprio, ma quanti vescovi hanno disatteso il Summorum pontificum? Vogliamo ricordare il caso di vescovi (come Plotti a Pisa) che addirittura emanarono norme diocesane che lo contraddicevano. Altri non hanno emesso norme, ma nei fatti hanno ostacolato in ogni modo la sua attuazione nelle loro diocesi; e la sinodalità così spesso invocata dall’attuale pontefice, dove la mettiamo? Tralascio la questione, su cui è intervenuto a suo tempo anche Ratzinger, se il papa abbia il potere di cambiare la liturgia; la Costituzione liturgica del Vaticano II al n. 22 afferma che la Sede apostolica e i vescovi possono solo “moderarla”.

Qualcuno ha parlato di provvedimento punitivo oltre che restrittivo. È d’accordo?


Se così fosse, il documento sarebbe stato preparato da ideologi e non da pastori. Purtroppo occorre dire che esso si impone senza dare motivazioni dottrinali, ma solo disciplinari. L’art. 1 abroga il Summorum pontificum ed è dottrinale ma senza fornire spiegazioni; il resto sono solo norme disciplinari o, come si suole dire oggi, pastorali, per non riconoscere la sconfitta del nuovo rito, che non ha aumentato il numero dei fedeli, anzi, né le vocazioni. Del resto, si son consentite le profanazioni in San Pietro con le pachamama, e non si è intervenuti sulle derive liturgiche e oltre del sinodo tedesco. Temo reazioni che innescheranno processi dirompenti per l’unità della Chiesa. Ma Gesù Cristo sopravanza tutto e sta facendo nuove col suo Spirito tutte le cose: dove rinasce il sacro nei cuori, comincia la riforma della liturgia sempre daccapo. A questo ha contribuito il Summorum pontificum e con esso il pensiero e il cuore di Benedetto XVI. Per il resto, rinvio ai nuovi dubia sollevati dalla Dichiarazione del cardinale Burke e dall’intervento del cardinale Brandmüller, entrambi davvero magistrali.


Una riflessione conclusiva. Il 17 luglio scorso un articolo in formiche.net ha sostenuto che la Chiesa è cambiata, e con essa tutta una visione delle cose. Per esempio: non bisogna chiedere più la conversione degli ebrei. Quindi è cambiata la liturgia: si vede dal fatto che non celebra più il sacerdote, ma il popolo insieme, che l’altare è una tavola. Prima c’erano due Chiese, ora non più; questo vuol dire Chiesa “sinodale”; quindi non si chieda più il cambiamento nella continuità, o di interpretare così il Vaticano II. Ma, per la dottrina cattolica, non è così: il sacerdozio è immutabile, celebra Cristo, la Chiesa è gerarchica e il sacerdote celebra nella persona di Cristo capo e rappresenta Cristo nel mondo, perché ha detto agli apostoli: chi accoglie voi accoglie me. I vescovi e presbiteri hanno ereditato questo sacerdozio apostolico. Gli abusi sono la vera causa dell’anti-concilio. Una nuova liturgia? Ha un futuro solo ciò che ha un passato. E poi non disse Benedetto XVI a Parigi che nella Chiesa c’è posto per tutti?




fonte 



TOTALITARISMO ALL’ITALIANA.






 Di Stefano Fontana, 30 luglio 2021

Diventa sempre più incomprensibile il silenzio della Chiesa italiana davanti alle forme di totalitarismo ormai evidentissime che il potere politico assume nel nostro Paese. Se teniamo conto di tutto il magistero sociale su questo tema e dell’eroismo di tanti cristiani lungo la storia, siano stati essi vescovi o laici, questo silenzio diventa disarmante.

A cominciare dal marzo 2020, il potere politico italiano ha considerato se stesso come inamovibile, ha proclamato prima e prolungato poi uno stato di emergenza che aumenta i suoi poteri, ha governato principalmente o per decreti amministrativi del Presidente del Consiglio oppure per decreti-legge, il parlamento è stato messo da parte e, anzi, si è tentato – approfittando della distrazione sui temi della cosiddetta pandemia – di far passare leggi profondamente ingiuste come il ddl Zan. La cosiddetta emergenza è stata utilizzata per bloccare la situazione politica, per garantire il posto in parlamento di tanti deputati avventizi (parvenu), per portare alla presidenza del Consiglio un uomo delle istituzioni politiche e finanziarie come trampolino per la sua elezione alla presidenza della Repubblica.

Questi “peni poteri” prima di Conte ed ora di Draghi, non sono però stati adoperati per predisporre le cure domiciliari e immediate al Covid-19, ma solo per lanciare un grande piano di profilassi – in accordo con i grandi centri di potere globali – tramite la vaccinazione. Le cure a casa sono state impedite, i medici di base non ricevevano i pazienti, le proposte di terapie alternative sono state aprioristicamente escluse, i medici che le hanno praticate, salvando vite umane, lo hanno fatto a proprio rischio e pericolo, l’unica via praticata era stata quella della spedalizzazione, salvo poi lamentare l’intasamento dei reparti di terapia intensiva e usare questo dato per terrorizzare la gente. Del resto proprio la spedalizzazione era stata la principale causa della mortalità nei primi mesi del contagio, quando l’intubazione faceva più danni che benefici.

Come avviene nei totalitarismi, le informazioni non sono state date ai cittadini secondo criteri di trasparenza e veridicità. All’inizio erano state vietate le autopsie sui corpi dei deceduti, poi furono secretati i verbali del Comitato tecnico scientifico, poi sono stati sistematicamente gonfiati i dati circa il numero dei decessi per Covid, ascrivendo a questa causa ogni morte avvenuta. Durante tutta la pandemia e ancora oggi, i principali media introdotti nelle stanze del potere, a cominciare dai telegiornali RAI, hanno fornito dati assoluti e non relativi: per esempio i dati dei nuovi contagi senza dare anche il dato del numero dei tamponi effettuali, oppure il dato dei contagiati senza chiarire che tipo di gravità costoro segnalassero. Il regime ha fatto pensare che contagiato significasse malato e, più ancora, malato grave o addirittura in fin di vita.

I due ambiti più preoccupanti di questa somministrazione contraffatta dei dati da parte del potere riguardano la natura del vaccino stesso e la vaccinazione dei giovani. Molti dei vaccini somministrati nella campagna vaccinale non sono vaccini. Cioè non consistono nell’iniettare nel corpo umano il virus in forma debole per attivare gli anticorpi. Molti di essi vogliono invece cambiare la struttura molecolare del corpo umano per ridurre la possibilità di prendere il virus. Le due cose sono molto diverse, ma su ciò non c’è stata nessuna informazione ufficiale. Quanto alla vaccinazione dei giovani e dei bambini le fonti del potere totalitario non hanno fornito i dati da cui deriva la completa inutilità della cosa, dato che nei paesi dove non c’è stato lockdown è risultato che il tasso di trasmissibilità nei giovani è ridicolo.

Del resto quali scelte dei nostri governi sono state dettate e suffragate da prove scientifiche? La composizione del Comitato tecnico scientifico è sospetta, i video-virologi hanno detto tutto e il contrario di tutto, perfino l’uso della mascherina all’aperto non ha fondamento scientifico, e nemmeno il famoso metro di distanza sociale. Perfino il fatto che la vaccinazione di massa aveva un carattere sperimentale è stato messo in sordina. Che sia assurdo vaccinare per un virus in mutazione, che non ci sia certezza che la vaccinazione eterologa sia priva di danni, che i vaccinati non fossero completamente immunizzati è stato tenuto nell’ombra. Appartiene ai regimi totalitari strumentalizzare la scienza.

Ogni potere totalitario si permette di dare ordini insensati, perché si ritiene al di sopra anche della logica. Di disposizioni insensate ne abbiamo sperimentate tantissime in questo anno e mezzo. Una delle ultime permetteva ai ristoranti di preparare tavoli per un massimo di quattro persone. Ma se le persone erano sei, il ristoratore aggiungeva un tavolo distanziato dall’altro da un centimetro. Alle disposizioni demenziali diventa lecito trovare una via d’uscita. Nessuno ha mai capito il senso del limite massimo di 200 persone nelle chiese, anche quelle che ne possono contenere migliaia come le nostre grandi cattedrali. Non sono che pochi esempi di una valanga di disposizioni completamente assurde.

Completamente assurda e priva di sostegno scientifico è l’idea oggi imposta con grande clangore che la colpa della persistenza della pandemia sia dei non vaccinati. Da qui le nuove disposizioni discriminanti le persone, come il Green Pass e addirittura la minaccia di non ammettere a scuola i bambini non vaccinati. Il non vaccinato non avrebbe diritto ad entrare in un museo e nemmeno il suo figlioletto. Soprattutto questa violenza nei confronti dei minori dovrebbe fare esplodere la protesta, ma la Chiesa italiana, come tanti altri a partire dei partiti di opposizione, tace.

Stefano Fontana







venerdì 30 luglio 2021

Quella fede così infantile dei cattolici adulti





Fra i tipi cattolici, uno molto diffuso nella politica contemporanea, da Prodi a Biden, è il “cattolico adulto”. Si proclama pubblicamente cattolico, ma altrettanto pubblicamente promuove politiche che contraddicono la dottrina della Chiesa, dall’aborto al gender. Benedetto XVI li aveva capiti e definiva “infantile” la loro fede.




di Tommaso Scandroglio (30-07-2021)

Continuiamo con la nostra carrellata di “tipi cattolici” (nelle puntate precedenti: il cattolico ombra e il cattolico omissivo). Oggi parliamo di una classica figura di cattolico dei nostri tempi: il cattolico adulto.

Dici “cattolico adulto” e subito il pensiero corre a Romano Prodi che quando, nel 2005, la Chiesa italiana decise giustamente di affossare il referendum sulla legge 40 con l’astensione lui sbottò: “Sono un cattolico adulto e vado a votare”. Qualche anno dopo gli fece eco un figlio di quella stessa mentalità che dimentica la Bibbia e il Catechismo in biblioteca, ma sul tavolo di lavoro tiene la Costituzione. Ci riferiamo a Matteo Renzi che, a favore delle unioni civili e sedicente cattolico, non ebbe vergogna ad esplicitare quali fossero le sue priorità: “Io sono cattolico, ma ho giurato sulla Costituzione e non sul Vangelo”. Che è come dire, io sono un giudice ma in tribunale mica applico la legge, bensì il regolamento del mio condominio. Di cattolici adulti è pieno il mondo e la stella in ascesa, ma forse ancora per poco, più nota al momento porta il nome di Joe Biden il quale riesce a tenere insieme il comando di non uccidere con il placet all’aborto e sovrascrivere sulla pagina della Bibbia in cui si narra che Dio “li creò maschio e femmina” la teoria del gender, usando pure caratteri svolazzanti e gradevoli.

Le caratteristiche del cattolico adulto sono molteplici. In primis è un separatista: costui scinde in modo netto la vita privata, nonché pubblica, dalla dottrina cattolica. Dal punto di vista logico non ci sarebbero problemi se il Nostro si confessasse ateo, agnostico o almeno laicista. Il problema invece sta nel fatto che si presenta come cattolico. Sfidando il principio di non contraddizione il cattolico adulto tenta allora di coniugare il suo appoggio ad aborto, contraccezione, fecondazione artificiale, divorzio, rapporti extramatrimoniali, omosessualità, transessualità, eutanasia con la sua appartenenza alla Chiesa cattolica. Grazie a questa impossibile ibridazione tra ciò che è retto e ciò che è storto, il cattolico adulto ha fatto la sua parte in Parlamento e insieme ad altri compagni di cordata ci ha regalato leggi come quella sul divorzio, aborto, Fivet, Unioni civili ed eutanasia.

Il Nostro ha in testa quindi una strana idea di cattolicità, adulterata, è proprio il caso di dire, inquinata da un misto di modernismo, progressismo, liberalismo e giustizia sociale. Per lui essere cattolici significa lotta alla povertà, disoccupazione e porti aperti. Il resto sono questioni private in cui solo Dio è giudice e le cui sentenze rimangono occulte a noi poveretti.

Una seconda caratteristica del cattolico adulto, che discende dalla prima, è la sua voglia di emancipazione dal Magistero. Non tanto dalla struttura gerarchica della Chiesa, la quale, se politico, può venire anche utile – da qui la sua inclinazione al clericalismo – bensì dall’insegnamento della Chiesa. Il cattolico adulto è quello che cammina spedito sulle sue gambe e non ha bisogno di stampelle dottrinali, è un illuminato, uno che non se ne fa nulla di miracoli e, volendo, nemmeno della grazia ordinaria dei sacramenti. In questo autarchia dottrinale del cattolico adulto che basta a se stesso e in questa autosufficienza morale e spirituale si possono forse intravedere delle influenze protestanti. Il Magistero diventa un orpello, la Rivelazione è aperta ad esegesi confezionate su misura. Insomma il cattolico adulto si salva da solo.

Costui quindi sarà pure un cattolico adulto, ma non è adulto come cattolico, dato che la sua fede è bambina. Benedetto XVI in un’omelia del 2009 disegnò benissimo il profilo di questo nostro amico: “La parola ‘fede adulta’ negli ultimi decenni è diventata uno slogan diffuso. Ma lo s’intende spesso nel senso dell’atteggiamento di chi non dà più ascolto alla Chiesa e ai suoi Pastori, ma sceglie autonomamente ciò che vuol credere e non credere – una fede ‘fai da te’, quindi. E lo si presenta come ‘coraggio’ di esprimersi contro il Magistero della Chiesa. In realtà, tuttavia, non ci vuole per questo del coraggio, perché si può sempre essere sicuri del pubblico applauso. Coraggio ci vuole piuttosto per aderire alla fede della Chiesa, anche se questa contraddice lo ‘schema’ del mondo contemporaneo. È questo non-conformismo della fede che Paolo chiama una ‘fede adulta’. È la fede che egli vuole. Qualifica invece come infantile il correre dietro ai venti e alle correnti del tempo”.

Il cattolico adulto – e lo siamo in fondo un po’ tutti noi, almeno a volte – è però dotato di furbizia. Ha fiuto. Riconosce cioè dove spira il vento, dove è la parte giusta della storia e ci si ficca all’istante. Lo fa per più motivi: perché cerca il plauso del mondo, perché è più comodo o più utile, perché non vuole essere escluso dalla gente che conta e invece intruppato in un manipolo di poveri sfortunati bigotti e baciapile, perché non vuole rimanere indietro mentre un futuro radioso lo sta aspettando a braccia aperte. Insomma lo fa per un sacco di motivi, ma non certo per Dio.

(Fonte: LaNuovaBQ)





"Fuori dalla chiesa i non vaccinati". Comincia Casale Monferrato





Una chiesa in pieno centro espone il divieto di ingresso a chi non è vaccinato. Ma non è l'iniziativa di un semplice parroco: a deciderlo è stato il direttore del bisettimanale diocesano, che già dalle colonne del giornale si era scagliato con invettive contro chi non si vaccina. Il tutto con l'avallo del vescovo, mentre già in cattedrale l'ingresso ai non vaccinati era stato vietato per una lectio divina. La CEI non vede nulla. E allora avanti altre diocesi.






COVID E CLERICALISMO
ECCLESIA
Riccardo Cascioli, 30-07-2021

Ci stavamo giusto chiedendo quale diocesi avrebbe dato il via al “Fuori i ‘non vaccinati’ dalla Messa”, dopo qualche tentativo isolato di alcuni parroci. E la risposta non è tardata: Casale Monferrato, in Piemonte, è arrivata prima. Attenzione: non c’è ancora un decreto ufficiale del vescovo, ma ciò non toglie che l’invito sia ugualmente efficace e valido per tutta la diocesi. Ieri mattina i fedeli che si sono recati nella centralissima chiesa di San Paolo apostolo (di fronte al municipio) hanno trovato sul portone principale un cartello (vedi foto di apertura) che recita: «Chi non è vaccinato costituisce grave pericolo, non è gradito in questa chiesa».


Fin qui potrebbe sembrare la solita iniziativa del solito parroco fanatico. Ma il punto è che il rettore della chiesa è don Paolo Busto, che dopo essere stato direttore della Caritas casalese è ora anche direttore del bisettimanale diocesano La Vita Casalese e, per ciò stesso, molto vicino al vescovo Gianni Sacchi. Abbiamo provato a contattarlo per capire le sue ragioni, ma ci ha subito sbattuto il telefono in faccia. E indagando un pochino è apparso subito chiaro perché non avesse voglia di spiegarsi: in realtà lo aveva già fatto sul numero de La Vita Casalese del 15 luglio. Per l’occasione ha scritto l’articolo di apertura non solo invocando l’obbligo vaccinale ed esortando il governo in tal senso, ma pure lanciandosi in dure invettive contro chi sceglie di non vaccinarsi.


Bastano i vari elementi del titolo per capire l’antifona: “Occorre severità e chiarezza”, dice il titolo a caratteri cubitali. Se non si capisse a cosa si fa riferimento, ecco l’occhiello: “Chi non si vaccina non abbia contatto con persone a rischio e se si ammala paghi lui l’ospedale”. Ancora più duro il catenaccio: “Riottosi, ignoranti e fanatici mettono a rischio la campagna vaccinale del nostro Paese”. Non sappiamo se don Busto sia riottoso, ma quanto a ignoranza e fanatismo non è secondo a nessuno. E infatti, se possibile, l’articolo - che prosegue nelle pagine interne con un titolo sempre nell’ordine della chiarezza, “Occorre vaccinarsi” - è anche peggio.

Secondo don Busto, verso i non vaccinati ci vuole “tolleranza zero”, soprattutto per chi svolge professioni a contatto con il pubblico, compresi i sacerdoti: «Non possono, non devono essere tollerati nella loro pericolosità», scrive in grassetto perché il concetto sia ben chiaro. E quindi: «no vaccino, no lavoro». E se ti ammali paghi l’ospedale: 1.250 euro
 

per ogni giorno in reparto Covid (si è bene informato anche sui prezzi) e 2.500 euro per la terapia intensiva. «Al giorno, naturalmente», aggiunge nel caso qualcuno non avesse capito. E poi ecco il gran finale: «In una chiesa, il sacerdote ha spiegato che non sono graditi fedeli non vaccinati perché metterebbero a rischio tutti quelli che seguono scrupolosamente le norme. Anche questo fa riflettere». E don Busto, dopo aver riflettuto e abituato i lettori all'idea, ha pensato bene di passare all’azione.

A noi invece fa riflettere anche il fatto che se tutti questi preti e vescovi mettessero un decimo dell’energia e della convinzione che trasmettono nella propaganda pro vaccino nell’annuncio di Cristo, sicuramente l’Italia sarebbe ancora un paese cattolico. Ma tant’è.

Peraltro, l’estrema durezza delle parole di don Busto lascerebbe pensare a una situazione della pandemia fuori controllo in Piemonte o nella diocesi di Casale Monferrato. Invece i dati aggiornati a ieri sera ci dicono che in Piemonte (circa 4.5 milioni di abitanti) ci sono attualmente 2006 contagiati (0,04% della popolazione), ovviamente in buona parte asintomatici. Nei reparti Covid della regione, inoltre ci sono 76 ricoverati (0,002% della popolazione) e 4 sono in terapia intensiva. Scendendo alla provincia di Alessandria (poco più di 420mila abitanti), di cui fa parte il comune di Casale Monferrato, dall’inizio della pandemia si sono registrati 29.873 contagiati (il 7% della popolazione) e attualmente parliamo di meno di 400 persone contagiate (attenzione: positive al tampone, non malate). Cifre ridicole se paragonate all’immagine che si vuol dare di una situazione al collasso.

Inutile ripetere qui le falsità antiscientifiche scritte da don Busto, che fa soltanto da megafono a una serie di luoghi comuni su Covid e vaccino che tante volte abbiamo affrontato. E neanche ci soffermeremo sul fatto che la stessa Congregazione per la Dottrina della Fede nella Nota dello scorso settembre dedicata proprio ai vaccini anti-Covid aveva chiarito che tale vaccinazione «non è un obbligo morale».

Qui dobbiamo invece rilevare come stiamo arrivando alla fine di un processo iniziato con l’asservimento della Chiesa allo Stato e con la visione del vaccino come strumento di salvezza: non si può che arrivare qui, ai cattolici che non si vaccinano si nega la partecipazione alla Messa. I politici che promuovono l’aborto fino alla nascita possono accostarsi alla Comunione, i fedeli che hanno ragioni personali e anche religiose per non vaccinarsi non possono neanche varcare la soglia della chiesa.

Si dirà: ma stiamo parlando ancora dell’iniziativa di un prete, per quanto in vista esso sia. Già, ma è solo l’ultimo tassello: il vescovo Sacchi è apertamente a favore dell’obbligo vaccinale. È stato tra i primi a vaccinarsi e ha esercitato forti pressioni sui sacerdoti perché si vaccinassero tutti. E ieri infatti ha preferito ignorare le mail con cui abbiamo chiesto un suo giudizio sulla vicenda di don Busto. Del resto, proprio nelle settimane scorse, il parroco della cattedrale nonché amministratore apostolico di altre parrocchie del centro, monsignor Eugenio Portalupi, a una sua lectio divina aveva pubblicamente vietato l’ingresso ai non vaccinati.

La questione dunque è chiara: a Casale Monferrato i fedeli non vaccinati sono pregati di non partecipare alle Messe e anche di non entrare in chiesa. E possiamo stare tranquilli che questi esempi faranno scuola. Tanto più che a Roma hanno deciso di non vedere. Per l’Ufficio Comunicazioni sociali della Conferenza Episcopale (CEI), da noi interpellato, «non abbiamo segnalazioni di questo tipo, a livello nazionale, tali da prevedere un intervento».
Avanti la prossima diocesi.

(Ha collaborato Ermes Dovico)






giovedì 29 luglio 2021

Perché ci teniamo alla liturgia









Negli ultimi giorni, molti di noi si sono chiesti più e più volte perché teniamo così tanto alla liturgia. Perché la pubblicazione della Traditionis custodes ci ha rattristato tanto e sperimentiamo in modo acuto e potente il sentimento di desolazione, di vederci, ancora una volta, abbandonati e perseguitati da quelli che dovrebbero essere i nostri pastori. Conosco molti buoni cattolici, molto più pii e santi di me, che vanno quotidianamente alle loro messe novus ordo , e che non hanno nemmeno sentito parlare del nuovo documento pontificio. Perché, allora, facciamo parte di quel piccolo gruppo che sembra provare piacere nel creare un problema dove non ce ne sarebbe?

I motivi sono tanti, ma questa volta voglio segnalarne uno, che ritengo uno dei più importanti e al quale non sempre viene dato l'accento che merita. Siamo alle prese con la liturgia tradizionale per una questione di bellezza; perché è una bella liturgia, contraria alla liturgia moderna, che si distingue per la sua bruttezza e volgarità. E a Dio è dovuto un culto degno e, quindi, bello.

La liturgia è essenzialmente bellezza salvifica, o bellezza performativa , per dirla con il linguaggio di John Austin. La ripetuta frase di Dostoevskij "La bellezza salverà il mondo" può essere intesa solo in questo senso. Come cristiani, sappiamo che la vera bellezza è il volto trasfigurato di Cristo-uomo, e sappiamo che è una bellezza che ha la sua origine nella volontà salvifica del Padre verso l'umanità: Dio ha voluto che la bellezza del Logos incarnato ci salvasse . Ed è per questo che i Padri, sia della Chiesa d'Oriente che d'Occidente, affermano che la liturgia è l'opera salvifica dell'Unigenito Figlio di Dio che continua nei nostri tempi.

Questa concezione della liturgia come incastro senza soluzione di continuità tra la vita del cielo e quella della terra appare molto più chiaramente nella teologia bizantina che in quella latina. Le chiese e la liturgia in esse celebrate sono un'immagine del mondo divino, come afferma san Germain di Costantinopoli (VIII secolo): "Il tempio è il cielo in terra, dove abita e si muove il Dio del cielo". E non è una fantasia, ma è radicata nel mistero dell'incarnazione di Cristo, annunciato nelle Scritture e spiegato nei testi liturgici. San Paolo scrive ai Filippesi (2, 6-11):

Cristo Gesù, che era di condizione divina, non considerò questa uguaglianza con Dio come qualcosa da custodire gelosamente: al contrario, si annientò, assumendo la condizione di servo, facendosi simile agli uomini. E presentandosi con sembianze umane, si umiliò fino ad accettare la morte e la morte in croce per obbedienza. Per questo Dio lo ha esaltato e gli ha dato il Nome che è al di sopra di ogni nome, affinché nel nome di Gesù ogni ginocchio nei cieli, sulla terra e nell'abisso si pieghi e ogni lingua proclami alla gloria di Dio il Padre: "Gesù Cristo è il Signore".

Il Salvatore del mondo è Gesù Cristo risorto, glorificato, asceso al cielo e assiso glorioso alla destra del Padre. Più bello di Lui niente esisteva, niente esiste e niente esisterà. E la sua manifestazione è la liturgia.

Scrive san Giovanni Damasceno (VIII secolo): “Nei tempi antichi Dio, incorporeo e senza forma, non poteva essere rappresentato in nessun aspetto. Ma ora, perché Dio è stato visto attraverso la carne […] io rappresento ciò che è stato visto da Dio”. In questa teologia, la liturgia costituisce insieme una rappresentazione e una ri-presentazione - per rendere nuovamente presente - l'opera salvifica di Cristo sulla terra.

Entrando in una chiesa tradizionale, non macchiata dall'arte contemporanea o dai dubbi gusti estetici del parroco di turno, che appende striscioni di plastica alle sue colonne e incolla alle pareti disegni di bambini, si sperimenta di essere in un luogo di mistero, luogo santo, separato dal mondo e inondato dalla presenza di Dio. E anche quando l'altare è lontano dai fedeli e "dando loro le spalle", non è inteso come un ostacolo alla partecipazione del popolo ai misteri della liturgia, ma piuttosto come un aiuto. Se tutto è sempre manifesto, non c'è manifestazione . Da qui la necessità di occultamento, e quindi anche che Nicolai Gogol ha scritto in riferimento alla liturgia bizantina: “In questo momento si aprono solennemente le porte reali, come se fossero le stesse porte del regno dei cieli, e davanti agli occhi dei fedeli riuniti il l'altare appare raggiante, simile alla dimora della gloria di Dio e luogo della sapienza celeste da cui discende la conoscenza della verità e l'annuncio della vita eterna” ( Meditazioni sulla Divina Liturgia, ed. S. Rapetti, Nova Millenium Romae, Roma, 2007, p. 88).

Nel nostro mondo sublunare, questo è l'unico modo - quello simbolico - in cui possiamo entrare “nel velo del santuario, dove Gesù è entrato per noi come precursore” (Eb 9,11). Ma questo ingresso non è meno reale perché, dal momento in cui Cristo è venuto una volta per tutte, si è aperta una breccia nel muro del cielo e siamo in comunione con la liturgia celeste offerta dalle potenze celesti attorno all'altare. .

La liturgia celebrata in questo clima di profondo simbolismo, attraverso il quale si avvicina lo splendore soprannaturale dell'inaccessibile maestà di Dio, testimonia l'esaltazione e la santificazione della creazione, l'apparizione maestosa di Dio che ci inonda, ci santifica, ci divinizza attraverso la trasfigurazione luce della sua grazia celeste. Non si tratta solo di “ricevere i sacramenti” ma di vivere abitualmente in un'atmosfera che ci avvolge nel corpo e nell'anima, trasfigurando la propria fede in una visione concreta di bellezza e gioia soprannaturali.

Per i cristiani che ci hanno preceduto nella fede, la più umile chiesa campestre è sempre stata il paradiso in terra , il luogo dove gli uomini e le donne, secondo la loro capacità e il loro desiderio, si aggrappavano alla liturgia devota del cosmo redento, dove i dogmi non erano sterili astrazioni ma inni di lode esultante, e l'opera salvifica della divina compassione - la croce, il sepolcro, la risurrezione nel terzo giorno e l'ascensione al cielo - si sono resi presenti ed efficaci per opera dello Spirito Santo che era, è e vuole essere.

Per noi latini e razionalisti moderni, questo suona come nient'altro che poesia. Ma la liturgia è teofania, terreno privilegiato del nostro incontro con Dio, dove i misteri sono veramente visti con gli occhi trasfigurati della fede. L'aneddoto raccontato da un gesuita itinerante in Russia è molto significativo. Parlando con un batjushka la sua vulgata gli spiegava: l'importante dell'essere cristiani è la conversione dei peccatori, la confessione, l'insegnamento del catechismo, la meditazione quotidiana. E, in tutte queste attività, la liturgia gioca solo un ruolo secondario. Il vecchio maestro di russo rispose: “Tra voi è solo una questione secondaria. Ma tra noi non è così. La liturgia è la nostra preghiera comune, introduce i nostri fedeli al mistero di Cristo meglio di tutto il vostro catechismo. Fa passare davanti ai nostri occhi tutta la vita di Cristo… Per comprendere il mistero di Cristo risorto, né i tuoi libri né la tua predicazione sono di alcun aiuto. Per questo è necessario aver vissuto la Notte Gioiosa (Pasqua) con la Chiesa bizantina”.

Quando scendiamo dal mondo che ci parla in russo vecchio al quale ci offre la nostra liturgia romana ereditata dalla riforma di papa Montini, riceviamo un colpo terribile. Perché la nuova liturgia riesce a malapena a trasmettere briciole di bellezza. A questo non è stato voluto dai riformatori e, soprattutto, da coloro che hanno dato forma a quella liturgia, ma hanno voluto un raduno festoso dei fedeli animato dal sacerdote, che "presiede la celebrazione" e fa da showman . Nelle consuete liturgie parrocchiali, la bellezza e il mistero sono stati soppiantati dalla volgarità e dal peggior gusto; il soprannaturale per il sociologico; cielo per terra. Oggi non è la bellezza che salva il mondo e nemmeno la ragione.

È per tutto questo che ci interessa la liturgia.




Addenda: Vi consiglio di visitare periodicamente questo sito, che mantiene aggiornate le statistiche sull'applicazione dei Custodes Traditionis nel mondo.









Traditionis custodes: un atto di debolezza






Cristiana de Magistris, 28 luglio 2021

Dopo un’attenta e calma lettura del recente motu proprio Traditionis Custodes, scevra di quell’acrimonia e sdegno che quasi inevitabilmente suscita un documento – come questo – dai toni draconiani e tendenziosi, il testo pare non un atto di forza ma di debolezza, un canto del cigno che, prossimo alla fine, canta con voce non più bella ma più forte.

Il documento presenta una quantità di anomalie canoniche che i giuristi dovranno passare attentamente al vaglio. A noi preme soffermarci su un solo punto, liturgico, che ci sembra di una portata assolutamente rivoluzionaria e inattendibile. All’articolo 1 del documento, come per dare il la a tutto ciò che segue, si legge: «I libri liturgici promulgati dai santi Pontefici Paolo VI e Giovanni Paolo II, in conformità ai decreti del Concilio Vaticano II, sono l’unica espressione della lex orandi del Rito Romano».

Molto ci sarebbe da dire su quell’in conformità ai decreti del Concilio Vaticano II, visto che il messale di Paolo VI – com’è stato ampiamente dimostrato – è andato molto oltre il dettato conciliare, coniando una liturgia ex novo, in completa discontinuità non solo con la tradizione compendiata nel messale di san Pio V, ma anche con la volontà degli stessi padri conciliari.

In ogni caso, questa Liturgia fatta “a tavolino” (cardinal Ratzinger), non può più essere considerata parte del Rito Romano. Una personalità dello spessore di monsignor Gamber lo affermò con vigore dopo l’entrata in vigore del nuovo messale. La nuova liturgia è un «Ritus modernus», disse, non più «Ritus Romanus». Padre Louis Bouyer, membro del Movimento Liturgico, che nel complesso era favorevole alle innovazioni conciliari, fu costretto ad affermare: «Dobbiamo parlare chiaramente: oggi non c’è in pratica nella Chiesa Cattolica una liturgia degna di questo nome». «Oggi – incalzò monsignor Gamber riferendosi alla liturgia riformata – siamo davanti alle macerie di una Tradizione quasi bimillenaria». Padre Joseph Gelineau, uno dei fautori del rinnovamento, poté dire: «Che coloro che, come me, hanno conosciuto e cantato una Messa solenne gregoriana in latino la ricordino, se possono. Che la confrontino con la Messa che abbiamo ora. Non solo le parole, le melodie e alcuni dei gesti sono diversi. A dir la verità, si tratta di una liturgia diversa della Messa. Questo va detto senza ambiguità: il Rito Romano che conoscevamo non esiste più (le rite romain tel que nous l’avons connu n’existe plus). È stato distrutto (il est détruit)».

Che il Rito Romano non sopravviva più nel messale riformato di Paolo VI sono liturgisti amici e nemici della Tradizione ad affermarlo. Pertanto, il messale riformato – come afferma K. Gamber – merita il titolo di messale modernus ma non romanus.

Alla luce di queste elementari considerazioni liturgiche, come intendere l’articolo 1 del motu proprio? A cui si aggiunge – nella lettera ai Vescovi – la sorprendente e tendenziosa affermazione: «Si deve perciò ritenere che il Rito Romano, più volte adattato lungo i secoli alle esigenze dei tempi, non solo sia stato conservato, ma rinnovato ‘in fedele ossequio alla Tradizione’. Chi volesse celebrare con devozione secondo l’antecedente forma liturgica non stenterà a trovare nel Messale Romano riformato secondo la mente del Concilio Vaticano II tutti gli elementi del Rito Romano». E termina: «in particolare il canone romano, che costituisce uno degli elementi più caratterizzanti». Ora bisogna chiarire bene che nel messale di Paolo VI il Canone Romano non è – neppure nella sua edizione typica – il Canone Romano del messale di san Pio V. È quello che più gli assomiglia, ma non coincide in alcun modo con esso. Padre R. T. Calmel O. P., tra il 1968 e il 1975, scrisse ben 4 articoli riuniti poi sotto il significativo titolo Riparazione pubblica al Canone Romano oltraggiato (nel nuovo messale) per spiegarne la bellezza e l’immutabilità, nonché le antinomie esistenti tra il Canone Romano del messale di san Pio V e quello di Paolo VI. Ci addolora – sì, anche noi siamo addolorati – riscontrare in un documento pontificio (per di più indirizzato ai Vescovi) tanta imperizia. Ma tant’è. E non è la sola. Rimane inoltre da spiegare che cosa sia ora il messale di san Pio V, visto che non è più espressione del Rito Romano, essendo il messale di Paolo Vi l’unica espressione della lex orandi del Rito Romano. Dopo almeno 400 anni di vita ha forse cessato di essere Rito Romano?

L’altro grave problema che si pone è la legittimità di un tale atto. Ancora Klaus Gamber, nel suo studio “La riforma della liturgia romana”, si chiede se un supremo pontefice possa modificare un Rito. E risponde negativamente, poiché il Papa è il custode e il garante della liturgia (come dei dogmi), non il suo padrone. «Nessun documento della Chiesa – scrive Gamber –, neppure il Codice di Diritto Canonico, dice espressamente che il Papa, in quanto Supremo Pastore della Chiesa, ha il diritto di abolire il Rito tradizionale. Alla plena et suprema potestas del Papa sono chiaramente posti dei limiti […]. Più di un autore (Gaetano, Suarez) esprime l’opinione che non rientra nei poteri del Papa l’abolizione del Rito tradizionale. […]. Di certo non è compito della Sede Apostolica distruggere un Rito di Tradizione apostolica, ma suo dovere è quello di mantenerlo e tramandarlo». Ne segue che il Rito Romano, espresso dal messale di San Pio V non è né abrogato né abrogabile e tutti i sacerdoti conservano il diritto di celebrare la Messa e i fedeli di assistervi.

Desta infine stupore e dolore leggere nella Lettera ai vescovi che l’intento di questo motu proprio non è altro che quello di san Pio V dopo il Concilio di Trento: «Mi conforta in questa decisione il fatto che, dopo il Concilio di Trento, anche san Pio V abrogò tutti i riti che non potessero vantare una comprovata antichità, stabilendo per tutta la Chiesa latina un unico Missale Romanum». Ma san Pio V fece l’esatto opposto di ciò che ha fatto papa Francesco con questo motu proprio. È vero che san Pio V stabilì per tutta la Chiesa latina un unico Missale Romanum, ma tale messale – a differenza di quello di Paolo VI imposto da Francesco – fu solo restaurato, in ottemperanza ai decreti tridentini, per essere strumento di unità per tutti i cattolici perché più antico non perché più nuovo. Come può il messale di Paolo VI essere strumento di unità se (oltre a una miriade di altri problemi) ha raggiunto una creatività, cioè una diversità, “al limite del sopportabile”, come riconosce lo stesso Pontefice? Inoltre, la “comprovata antichità” dei riti voluta dal Papa di Lepanto richiedeva un’interrotta continuità di almeno 200 anni. Il che significa che il rito moderno di Paolo VI, sotto il grande Inquisitore, sarebbe stato elegantemente depennato, senza alcuna speranza, neppure remota, di poter assurgere a rito unico di tutta la cristianità. Senza poi dire che san Pio V con la bolla Quo primum blindò il suo Messale in perpetuum, rendendolo inabrogabile. Il motu proprio invoca dunque l’autorità di chi lo condanna. Anche qui sorprende rilevare in un documento pontificio una tale imperizia storica.

In conclusione, il motu proprio, a voler leggere in profondità, è una dichiarazione di guerra, ma è anche il riconoscimento di una sconfitta. È un apparente atto di forza che copre una debolezza e imperizia di fondo. Il messale riformato è stato una catastrofe ad ogni livello: liturgico, dogmatico, morale. Il risultato a tutti evidente è che ha svuotato chiese, conventi e seminari. Non potendo imporlo per la forza della tradizione, che non veicola, lo si vuole imporre a colpi di leggi. Ma è un’operazione improba, fondata sull’inganno, e perciò destinata a fallire. Non è un colpo mortale dato al Rito Romano, ma l’eutanasia del rito moderno. Non è una falciata esiziale, ma una potatura vivificante del messale di san Pio V, il quale – per l’odio che suscita tra le frange moderniste della gerarchia – conferma di essere «la cosa più bella da questa parte del Cielo», che ci è stata tramandata dai nostri padri e che tramanderemo ai nostri figli, anche se dovessimo imporporarlo col nostro sangue.









mercoledì 28 luglio 2021

“Più un’anima è santa, più esercita un profondo influsso nella Chiesa”







“Più un’anima è santa, più esercita un profondo influsso nella Chiesa”. Queste parole sono di padre Gabriele di Santa Maria Maddalena (1893-1953), scritte nel suo Intimità Divina. Dicono una cosa vera. Dinanzi ai problemi della Chiesa, che in questi tempi sono quelli che sono, sono ovviamente doverosi tutti gli sforzi che si devono fare sul piano dell’apostolato e della denuncia (cosa che come C3S ci sforziamo indegnamente di fare); ma ancor più bisogna santificarsi. Perché tutti gli sforzi di apostolato a nulla servono se non si sostanziano nella vita interiore.

Padre Gabriele di Santa Maria Maddalena così scrive:


Gesù ci ha salvati non solo con l’attività esterna di predicazione, di educazione, d’istituzione e di amministrazione dei sacramenti, ma anche con l’obbedienza e il silenzio della sua vita nascosta, con la preghiera di cui tante volte ci parla espressamente il Vangelo e soprattutto col sacrificio della Croce, nel quale culminò tutta la sua opera redentrice (…). In prima linea sta quindi il cosiddetto “apostolato interiore” della preghiera e dell’immolazione; su questo poi si fonda l’apostolato esterno dell’azione, che trae la sua forza e la sua efficacia dal primo.

Quanto più la nostra azione parteciperà a quel che di più profondo e fecondo è nell’opera di Cristo, tanto più sarà efficace; questo si raggiunge appunto mediante la preghiera e il sacrificio abbracciato con generosità e costanza in unione al sacrificio di Cristo, per la salvezza delle anime. Ecco perché la Chiesa -pur riconoscendo l’urgenza dell’apostolato esterno- continua a volere ed a sostenere quelle forme di vita contemplativa che si dedicano all’apostolato interiore (…).

L’ideale apostolico deve spingere l’anima ad abbracciare con piena generosità una vita di continua immolazione nascosta, onde farne un potente mezzo di salvezza per i fratelli, e deve, d’altra parte, spronarla a progredire rapidamente nel cammino della santità per diventare presto tale da ottenere da Dio tutte quelle grazie che desidera per la Chiesa. (…) Più un’anima è santa, più esercita un profondo influsso nella Chiesa.


Dio è Verità, Bontà e Bellezza

Il Cammino dei Tre Sentieri





"Temo che il Papa stia usando un cannone per uccidere una mosca"




Cordileone celebra la Messa delle Americhe



Un grido dal cuore sulla 'Traditionis Custodes' e la messa antica

In forma di Lettera aperta pubblicata dal National Catholic Register, nella nostra traduzione [di Chiesa e post-concilio], una preghiera di Mons. Charles Pope, decano e parroco nell'arcidiocesi di Washington DC, al Santo Padre affinché ritorni sui suoi passi sulla Traditionis custodes. Anche qui l'accento è sulle "due forme" [vedi] e oltre (un vero pot-pourri)... Tuttavia, anche se a me fa cascare le braccia, penso che il grido autentico e le ragioni che lo provocano arrivino per direttissima per lo meno al cuore del Signore. In ogni caso lo riprendo, perché è sintomatico anche della confusione che regna nella Chiesa. Sappiamo bene da dove venga e di quanto in parte possiamo esserne tutti responsabili... Qui l'indice dei precedenti e correlati.




I cattolici tradizionali sono anch'essi pecore del gregge di Cristo e hanno bisogno delle cure di un pastore.



di Mons. Charles Pope

Molti hanno già scritto efficacemente circa le preoccupazioni e le sofferenze suscitate dal motu proprio del Papa, Traditionis Custodes, che fissa norme ferree che limitano la celebrazione della Messa tradizionale in latino. Ho celebrato in questa “forma straordinaria” (oltre che nella forma ordinaria) da più di 32 anni e ne ho scritto spesso. Quindi, cerco di aggiungere la mia voce.
Devo dire che sono addolorato e sbalordito da questo documento e dalla lettera ai vescovi che lo accompagna. Penso non tanto alla mia eventuale perdita, ma ai tanti cattolici che ho servito che amano la forma straordinaria. Per tanto tempo e in tanti luoghi essi sono stati spesso trattati con durezza e sono stati emarginati per il loro amore per la forma della liturgia conosciuta dalla maggior parte dei santi.

Papa Benedetto e Papa San Giovanni Paolo II hanno cercato di sanare la frattura col graduale inserimento nella vita della Chiesa della celebrazione della forma antiquior del Rito Romano. In effetti il loro messaggio per quei cattolici era: “Voi siete importanti per noi. Siete i nostri figli e le nostre figlie. Il vostro amore per la tradizione è legittimo e comprensibile e abbiamo l'obbligo di prenderci cura dei vostri bisogni spirituali e del vostro benessere”.


Qui a Washington, DC, la forma straordinaria è esistita pacificamente accanto alla forma ordinaria in circa 10 delle nostre parrocchie. Non abbiamo parrocchie dedicate esclusivamente alla celebrazione della Messa in latino.

Mentre i fedeli di entrambe le "parti" possono avere preferenze, anche forti, c'è stato rispetto reciproco e volontà di fare spazio gli uni agli altri. Qualunque tensioni possano esserci, sono inferiori e non così diverse da quelle che emergono dal diverso mosaico delle comunità etniche.


In questa diocesi si celebra la messa in decine di lingue. Alcune delle nostre liturgie di rito orientale vengono celebrate anche nelle nostre parrocchie di rito romano. Abbiamo anche una parrocchia che ospita la tradizione liturgica anglicana e quasi una dozzina che ospita la liturgia del Cammino Neocatecumenale con tutti i suoi adattamenti. In qualche modo, facciamo tutti spazio gli uni agli altri e affrontiamo bene le sfide logistiche.

Apparentemente, papa Francesco non vede questa diversità ricca e pacifica quando si tratta della Messa tradizionale in latino. Invece, nella sua lettera di presentazione, scrive ai vescovi del mondo di vedere qualcosa di molto diverso:

«Una possibilità offerta da san Giovanni Paolo II e con magnanimità ancora maggiore da Benedetto XVI al fine di ricomporre l’unità del corpo ecclesiale nel rispetto delle varie sensibilità liturgiche è stata usata per aumentare le distanze, indurire le differenze, costruire contrapposizioni che feriscono la Chiesa e ne frenano il cammino, esponendola al rischio di divisioni».

Anche se altre espressioni di diversità possono essergli tollerabili o gradite, la messa in latino sembra essere l'unico neo. Con un'attenzione speciale che mostra eccessiva durezza, attribuisce la colpa delle divisioni ai cattolici tradizionali che frequentano la messa in latino.


Certamente, ci sono alcune personalità note negli ambienti tradizionalisti che alimentano discussioni accese su questioni liturgiche e di altro genere, compresa l'autorevolezza del Concilio Vaticano II. Ma non è ragionevole attribuire i peccati di una minoranza vocale a un intero movimento. Sì, alcune persone promuovono la superiorità e la gloria della forma straordinaria. Ma conosco molti cattolici di rito orientale che pensano che le loro liturgie siano di gran lunga preferibili e persino superiori al rito romano. Molti cattolici nel Cammino Neocatecumenale affermano che la Chiesa non sperimenterà la riforma finché la loro liturgia e la loro “via” non saranno abbracciate da tutti. Nelle parrocchie afroamericane dove servo c'è un grande orgoglio per la gioia del loro culto e una meraviglia per il motivo per cui tante altre parrocchie sembrano avere liturgie "morte" e brevi [sul sentimentalismo, et alia, dei movimenti... ci sarebbero da scrivere volumi -ndT].

Le persone sono appassionate di ciò che amano, a volte per colpa, ma per la maggior parte ciò è umano e generalmente si mantiene entro una gamma tollerabile di schermaglie e spacconate piuttosto che di disgusto e profonda divisione. Temo che il Papa stia usando un cannone per uccidere una mosca.


Temo anche che diversi aspetti del motu proprio abbiano causato grande dolore e scoraggiamento a molti fedeli e intensificheranno le stesse divisioni lamentate dal Papa.
Considerate i seguenti aspetti:


In primo luogo, il motu proprio ha un tono duro e pesante
. È davvero necessario che il Santo Padre scriva in modo così diretto e autoritario? Consideriamo due citazioni, una dalla lettera, l'altra dal motu proprio :

“prendo la ferma decisione di abrogare tutte le norme, le istruzioni, le concessioni e le consuetudini precedenti al presente Motu Proprio, e di ritenere i libri liturgici promulgati dai santi Pontefici Paolo VI e Giovanni Paolo II, in conformità ai decreti del Concilio Vaticano II, come l’unica espressione della lex orandi del Rito Romano ”.

“Tutto ciò che ho deliberato con questa Lettera apostolica in forma di Motu Proprio, ordino che sia osservato in tutte le sue parti, nonostante qualsiasi cosa contraria, anche se degna di particolare menzione, e stabilisco che venga promulgata mediante pubblicazione sul quotidiano “L’Osservatore Romano”, entrando subito in vigore e, successivamente, venga pubblicato nel Commentario ufficiale della Santa Sede, Acta Apostolicae Sedis.”.


Questo non è il linguaggio della misericordia. Egli “abroga” tutte le autorizzazioni precedenti e “dichiara” che c'è una sola forma della liturgia che si qualifica per la lex orandi (in opposizione al magistero di Benedetto). È “ordinato” per essere osservato in tutte le sue parti e nulla deve resistergli. Anche gli argomenti degni devono cedere. In effetti la questione è risolta e non ammette ritardi. Ha avuto effetto immediato ed è ora in vigore. Raramente Papa Francesco si è rivolto a qualsiasi altro gruppo così duramente. Per altri come i non credenti, i dissidenti ei politici ribelli ci deve essere misericordia, comprensione e tolleranza. Parla di “andare ai margini” e di compassione per i poveri ei perduti moralmente. Ma a coloro che sono attaccati alla Messa in latino arriva questo forte rimprovero, quasi senza spazio di manovra nella Chiesa che amano. È molto scioccante e sono rattristato per me come pastore d'anime che un tale vetriolo sia diretto al gregge che ho a lungo curato.


In secondo luogo, impone requisiti impossibili.
Da un lato il Papa delega ai vescovi qualsiasi decisione sui luoghi, ma poi lega loro le mani. Egli scrive:

“[Il Vescovo diocesano] designi uno o più luoghi dove i fedeli aderenti a questi gruppi possano radunarsi per la celebrazione eucaristica (non però nelle chiese parrocchiali e senza erigere nuove parrocchie personali).”


Ma se non nelle parrocchie, allora dove? Cosa deve fare un vescovo per comprendere, figuriamoci per applicare, questo statuto? È difficile interpretare benevolmente l'istruzione del Papa. Sembra dire ai cattolici seguaci della Messa in latino: "Non siete i benvenuti nelle nostre chiese". Se è così, si tratta di una sorprendente mancanza di sollecitudine pastorale e di amore ed è molto sconcertante.

Terzo, mostra uno strano trattamento riguardo ai vescovi.
Mentre fa riferimento per l'attuazione all'Ordinario del luogo, nello stesso tempo ne restringe il giudizio pastorale in numerosi modi.


Non solo si deve vietare la messa nelle chiese parrocchiali, ma non si può nemmeno conferire facoltà ai nuovi sacerdoti di celebrare la messa in latino senza il permesso di Roma (articolo 4).


Inoltre, non si possono costituire nuove comunità (articolo 3). Si riferisce a luoghi, oratori, corporazioni o qualcos'altro? È difficile stabilire cosa significhi esattamente.


Quindi, ai vescovi viene data autorità, ma con le mani legate, con un linguaggio confuso e con linee guida quasi impossibili da seguire.

Ora dobbiamo guardare ai nostri vescovi e supplicarli di mostrare la sollecitudine pastorale di cui questo documento sembra mancare. A loro è stato affidato un compito difficile e imbarazzante. Vogliate pregare per loro e cercate di non amareggiarli con predizioni o presunzioni di cattivo trattamento. Molti di loro hanno già mostrato cura pastorale nell'evitare l'attuazione avventata e “immediata” di questo motu proprio.


Cari Vescovi, come pastore d'anime, vi chiedo un'interpretazione dolce e gentile. I cattolici tradizionali sono tra le pecore del vostro gregge e hanno bisogno delle cure di un pastore. Anche se il documento suggerisce di emarginarle, vi prego di non farlo. Questa è una parte vibrante e in crescita del gregge. Molte giovani famiglie e giovani adulti, così come giovani sacerdoti e anziani dipendono da voi per un'azione veramente pastorale.

Se è necessaria una maggiore unità [la vera unità è solo nel Signore -ndT], insegnateci cosa significa, ma per favore, non spingeteci ai margini a vivere nel rifiuto. Alcuni di noi si lasciano prendere dall'ira, ma la maggior parte si sta solo sforzando di essere buoni cattolici vicini al cuore della Chiesa. Teneteci vicini a voi e trovate posto per noi nei vostri cuori.


Caro Santo Padre, ti prego di riconsiderare ciò che hai scritto e di ascoltare il dolore inutile che hai causato. Giustamente desidera l'unità nella Chiesa, ma temo che, con questa azione, finisca per provocare divisioni ben più gravi.


Poiché la mia opinione non conta nulla, le chiedo di considerare le parole del grande rabbino Gamaliele, che disse negli Atti degli Apostoli (5,38-39):
«Quindi nel caso in esame ti consiglio: lascia stare questi uomini. Lasciali andare! Perché se il loro scopo o sforzo è di origine umana, fallirà. Ma se viene da Dio, non potrai fermarli. Potresti anche ritrovarvi a combattere contro Dio». Oremus!





*Mons. Charles Pope è attualmente decano e parroco nell'arcidiocesi di Washington, DC, dove ha fatto parte del Priest Council, del College of Consultors e del Priest Personnel Board. Oltre a pubblicare un blog quotidiano sul sito web dell'Arcidiocesi di Washington, ha scritto su riviste pastorali, ha condotto numerosi ritiri per sacerdoti e fedeli laici e ha anche condotto studi biblici settimanali al Congresso degli Stati Uniti e alla Casa Bianca. Nel 2005 è stato nominato monsignore. [Traduzione a cura di Chiesa e post-concilio]







Dalla Bibbia Cei l’Inferno Continua a Sparire…Perché?





Marco Tosatti, 28 luglio 2021

Cari amici e nemici di Stilum Curiae, il nostro Investigatore Biblico dopo la sua prima scoperta sulla scomparsa dell’Inferno nella traduzione della lettera di Pietro ha continuato a indagare. Guardate che cosa ha trovato…


§§§



Investigatore Biblico 

Scava scava, alla fine si trova sempre qualcosa. Dopo il suggerimento di qualche lettore, mi sono impuntato e ho scovato altre errate traduzioni della CEI 2008 sull’inferno.
In questo caso non avviene un omissione, come nell’articolo precedente.

I traduttori usano un termine “analogo”, ma l’errore è evidente come sempre.
La toppa, ahimè, è peggiore del buco.


Il versetto è Apocalisse 6,8b.

CEI 1974: “Colui che lo cavalcava si chiamava Morte e gli veniva dietro l’inferno
(Ap 6,8b);

CEI 2008: “Colui che lo cavalcava si chiamava Morte e gli inferi lo seguivano”
(Ap 6,8b).

Prima di commentare l’errore andiamo a vedere il testo originale greco:
“καὶ ὁ καθήμενος ἐπάνω αὐτοῦ ὄνομα αὐτῷ ὁ Θάνατος, καὶ ὁ ᾅδης ἠκολούθει ⸂μετ’ αὐτοῦ⸃”;

ed il testo tradotto della Vulgata:
“Et, qui sedebat desuper, nomen illi Mors, et infernus sequebatur eum”.

In sequenza temporale:
Vulgata traduce con “infernus
CEI 1974 traduce con “inferno
CEI 2008 traduce con “inferi”.

[Una vera discesa all’inferno delle traduzioni. Nella Cei 2099 tradurranno con “impero di Sauron”?]

Il termine greco utilizzato è “ades” (dal versetto originale).

La domanda sorge spontanea: Perché tradurre con inferi se nelle traduzioni precedenti viene utilizzato il termine specifico inferno?
Necessario, a questo punto un chiarimento.

Nel Greco classico, seguendo la mitologia, il termine Ade rappresentava il regno dei morti.
Per questo, nella letteratura greca e latina, tradotta nell’italiano, si utilizza la parola inferi.

Con l’avvento di Cristo, che “scende agli inferi”, inteso come luogo in cui albergavano i morti, i regni vengono suddivisi.
La parola “inferno”, utilizzata fino a questa edizione stravagante della CEI 2008, ha rappresentato per il mondo cristiano il regno della dannazione eterna.
Gli inferi, di contro, il regno dei morti inteso in senso mitologico e pre-cristiano.

L’utilizzo della parola inferi in questa nuova traduzione riecheggia quasi un inquietante ritorno al paganesimo pre-cristiano, contrariamente alla differenziazione corretta avvenuta con la divisione dei due termini.

Andiamo a contestualizzare.
Nel versetto è scritto: “Colui che lo cavalcava si chiamava Morte (inteso come il demonio)”, e ne consegue la traduzione del termine con “inferno”, a intendere tutta la ‘cozzaglia’ che lo ha seguito. Errato, quindi, è utilizzare il ‘pagano’ “inferi”, regno dei morti.

Suggerisco la lettura di questa interessantissima tesi di Dottorato in studi storici da pag.66 in poi.

Uscendo dalla questione linguistica, si rifletta sulla sulla gravità di questa errata traduzione.
I traduttori della CEI 2008 tolgono o modificano un termine rappresentativo della dottrina cristiana (“inferno”).

Ma questo non è altro che un penoso andazzo della teologia attuale, tesa a mettere ambiguità o peggio diffondere un’idea eretica in cui si proclama che l’inferno non esiste.

Questa idea, poi, si riflette nella totale assenza di predicazione su questo argomento chiave nelle nostre Parrocchie.
In fondo, Cristo non è venuto forse per liberarci dal giogo del maligno?

Non sono nascosti gli studiosi ‘cattolici’ che affermano e sostengono la non esistenza di uno dei tre regni celesti.

Un esempio è il biblista Don Alberto Maggi – leggi qui – , il quale non ha timore nell’affermare che l’inferno sia un’invenzione superata, aggiungendo falsità di contenuto sulla Sacra Scrittura – cito: “non c’è né parola e neanche immagine dell’inferno” – dimostrando, a quanto mi pare, di aver letto forse solo la copertina della Bibbia.

Ecco una fonte qualsiasi (ma basta leggere il Testo direttamente): L’inferno secondo le Sacre Scritture

Concludo, per dare un filo logico, che questo pensiero ingannevole è sostenuto da una forma deviata del concetto di Misericordia.

Che senso avrebbe la “Misericordia di Gesù” se non esistesse l’inferno e la libertà di poterci finire?
A cosa servirebbe il perdono dei peccati da parte del Signore verso colui il quale si pente di cuore se tanto non esiste un inferno irreversibile?
E ancora, che libero arbitrio sarebbe se Dio impedisse a priori al singolo di scegliere deliberatamente di essere escluso dal suo Regno?
A cosa valgono, a questo punto, le testimonianze dei Santi, che hanno fatto della loro vita l’esempio della lotta spirituale per evitare di cadere nella dannazione?
A tutti sarebbe riservato il medesimo destino, pertanto decadrebbe ogni principio di responsabilità, colpa, giudizio.
Non è forse un concetto protestante già condannato dalla Chiesa nel passato?

Quando l’acqua della Sorgente (Parola di Dio), viene avvelenata da piccole gocce del cianuro della menzogna, il veleno rischia di portare alla morte l’intero villaggio.

Investigatore Biblico









Le Diocesi Piemontesi esultano e applicano con una tale tempestività «Traditionis Custodes»






di Eusebio Episcopo
26 LUGLIO 2021

La stretta di Papa Francesco arriva nelle diocesi dopo un lungo periodo di ostracismo verso il rito tridentino. Vescovi pavidi e chiese vuote. La "riserva indiana" della Misericordia di Torino

A memoria, non si ricorda una tale tempestività nel far conoscere e dare attuazione a una disposizione della Santa Sede. Spesso, ai tempi di Giovanni Paolo II e di Ratzinger, dei documenti pontifici se ne faceva una discreta e sempre critica menzione, se poi andavano contro o cercavano di mitigare la narrazione progressista imperante in diocesi, venivano totalmente ignorati. Così fu il caso, nel 2007, di Summorum Pontificum del quale si fece di tutto perché non venisse conosciuto nelle sue indicazioni e di cui fu scoraggiata in tutti modi l’applicazione. L’arcivescovo Severino Poletto, avversario implacabile della Messa antica – che pure fu la Messa del suo sacerdozio e del latino, lingua in cui forse in seminario non eccelleva – si distinse per la sua durezza. È rimasta famosa la registrazione delle parole con le quali, dopo la disposizione ratzingeriana, Poletto metteva in guardia i preti e i seminaristi dal celebrare la Messa antica e ridicolizzava i fedeli considerati, come tuttora, dei minores habentes, definendoli i «picchiati del latino». Un classico caso di obbedienza disobbediente. 

Tale fu l’atteggiamento di gran parte di quei cuor di leone dei vescovi piemontesi, sempre forti con i deboli e deboli con i forti, impegnatissimi nella loro missione di «curatori fallimentari». L’allora vescovo di Casale Monferrato, monsignor Alceste Catella, liturgista arrabbiato e sodale dell’ideologo della liturgia riformata Andrea Grillo, scacciò in malo modo gli sconcertati fedeli i quali, esercitando un loro diritto, gli chiedevano umilmente la Messa antica, intimando loro di tradurre la bolla pontificia della sua nomina scritta in latino. L’ex vescovo di Alba, Sebastiano Dho, detto il “tramviere” per la sua divisa d’ordinanza simile ai guidatori degli autobus, scrisse che nella sua diocesi il Concilio era stato pienamente accolto perché nessun oserebbe mai chiedergli la Messa in latino. 

Si potrebbe parlare di altri vescovi piemontesi, ma si scadrebbe nel grottesco, tanto ridicoli erano i pretesti addotti contro Summorum Pontificum, anche se in alcuni casi non mancarono verso i preti velate minacce di agire mediante la loro esclusione dal sostentamento del clero. Pare che il vescovo di Cuneo e Fossano, monsignor Piero Delbosco, a tutti noto per la sua competenza teologica e dottrinale – si fa ovviamente per dire – non voglia sentire parlare in nessun modo della Messa antica, così che la sua diocesi è diventata un florido centro della Fraternità San Pio X. Anche l’ex vescovo di Biella, il “misericordioso” monsignor Gabriele Mana, si adoperò in tutti i modi perché l’esecrando rito tridentino non prendesse piede e quando a Biella fu annunciata la visita ad Oropa del cardinale Raymond Leo Burke, uno dei cardinali dei “dubia” su Amoris Laetitia, proibì ai preti ogni contatto con il cattivo porporato, mentre poco tempo dopo non batté ciglio quando Emma Bonino tenne indisturbata una conferenza in una chiesa parrocchiale della sua diocesi.

Prima ancora di Summorum Pontificum, nel 2004, la Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti emanava l’istruzione Redemptionis Sacramentum che trattava in modo particolareggiato dei numerosi abusi che si erano diffusi nella celebrazione della Messa e, in particolare, «su alcune cose che si devono osservare ed evitare circa la Santissima Eucaristia». A Torino, su disposizione esplicita di uno dei due vescovi ausiliari – il più influente – del documento non comparve nemmeno un cenno sul settimanale diocesano e meno che mai un commento dell’ufficio liturgico, sempre pronto a discettare, con prosa oracolare, sulla disposizione dei fiori o sulla posizione del crocifisso che non deve mai stare al centro dell’altare. Ancora oggi Redemptionis Sacramentum è completamente sconosciuto o considerato uno dei tanti errori di Giovanni Paolo II e del suo teologo Joseph Ratzinger.

Questa volta invece, don Paolo Tomatis, il liturgista princeps della diocesi, funzione che svolge insieme alla simpatica Morena Baldacci che, lasciato il mistico velo, è diventata la teorica della «comunità celebrante», ha commentato il motu proprio di Francesco sulla prima pagina del settimanale diocesano. Con malcelata soddisfazione, ha illustrato il documento che, oltre ad inibire la formazione di gruppi di laici – altro che accoglienza o declericalizzazione! – impone al vescovo di consultare addirittura la Santa Sede prima di concedere l’autorizzazione ai preti che saranno ordinati dopo il motu proprio e che vogliano celebrare la Messa antica, creando delle proprie liste di proscrizione. La conclusione del liturgista è perentoria: «Non si tratta di abolire l’uso del Messale precedente, ma di non incoraggiarlo in alcun modo». Che è esattamente quello che è stato fatto fino ad ora. Perché dunque tanto inusitato zelo? Che cosa si teme? Ma, soprattutto, di cosa stiamo parlando?


Nel dopo Concilio torinese, i pochi fedeli che continuavano a partecipare alla Messa antica si stringevano attorno alla veneranda figura di monsignor Attilio Vaudagnotti (1889-1982) che, come rettore della chiesa della SS. Trinità, continuava imperterrito a celebrarla incurante, data l’età e il prestigio goduto come insegnante di teologia a generazioni di preti, delle reprimende della curia. Sia il cardinale Michele Pellegrino, sia il suo successore Anastasio Ballestrero erano ostili alla Messa antica, vista come un nostalgico «ritorno indietro». Varie richieste non vennero mai prese in considerazione. Nel 1988, la Santa Sede emanò il motu proprio Ecclesia Dei afflicta che concedeva ai vescovi di autorizzare la Messa antica a favore di «tutti coloro che si sentono legati alla tradizione liturgica latina mediante un’ampia e generosa applicazione» di un indulto che ne permettesse la celebrazione. L’anno dopo il cardinale Giovanni Saldarini concesse l’indulto e dispose che una Messa celebrata con il Messale di Giovanni XXIII, potesse essere celebrata in diocesi.

Da allora la Messa antica si è continuata a celebrare presso la chiesa della Misericordia, affidata alla omonima arciconfraternita, dai rettori della chiesa di via Barbaroux, prima da monsignor Oreste Bunino e poi da monsignor Renzo Savarino. A quest’ultimo Poletto, successore di Saldarini, chiese più volte di trovare un pretesto per far cessare tale “scandalo”. Anche dopo Summorum Pontificum che liberalizzava la Messa antica, la Misericordia ha continuato ad assolvere il suo compito di “riserva indiana” o di ghetto al quale venivano indirizzati i fedeli di tutta la vasta diocesi che chiedevano ai parroci e alla curia di applicare quanto stabilito da una legge della Chiesa. Una sorta di “male minore” rispetto al motu proprio di Papa Benedetto che consentiva ai preti di celebrare liberamente la Messa antica anche nelle parrocchie. Oggi, nella chiesa di via Barbaroux vi si celebra ogni domenica la Messa secondo il Messale del 1962 da parte di don Francesco Saverio Venuto, successore di monsignor Savarino sulla cattedra di storia della Chiesa alla facoltà teologica, nonché studioso del Vaticano II. Vi partecipavano, prima del Covid, poco meno un centinaio di fedeli provenienti da tutta la diocesi, per lo più di mezza età ma anche molti giovani, in piena comunione con i legittimi pastori. Prova ne sia che nel 2019 anche l’arcivescovo Nosiglia ha assistito alla Messa, tenuto l’omelia e distribuito l’Eucaristia ai fedeli e così pure ha fatto successivamente il suo vicario generale monsignor Danna. Recentemente, don Andrea Pacini, parroco di S. Agostino, moderatore del distretto pastorale del centro nonché presidente della commissione ecumenica, stimato docente di teologia ma anche esperto di liturgia e musica sacra senza pregiudizi, vi ha celebrato. Se questa è la situazione, non si comprende proprio quale pericolo i fedeli legati alla Messa antica – che con Traditionis Custodes, transiteranno dalla riserva indiana alla specie protetta tenuta in gabbia in attesa di estinzione o di «conversione» - possano rappresentare per l’unità della Chiesa. Sembrerebbe che si voglia sparare ad una formica con un cannone.

La situazione è infatti paradossale. I gruppi stabili esistenti che frequentano la Messa antica dovranno essere interrogati sulla loro adesione al Vaticano II che, sia detto per inciso, ben poco giustifica, nei suoi testi – a cominciare dal latino – e nella sua intentio, l’attuale prassi ecclesiale, mentre chi vuole celebrare e pregare con il rito di Paolo VI è automaticamente dispensato dal pronunciarsi su alcune questioni “secondarie” come il Credo, la divinità di Cristo o l’azione salvifica dei Sacramenti, dati per acquisiti e che invece non lo sono affatto, come bene sanno i lettori del nostro giornale. In realtà, il vero obiettivo sono quei giovani preti e quei laici altrettanto giovani che in questi anni di libertà hanno assaporato la bellezza e la sacralità della Messa antica e che, pur fedeli al messale di Paolo VI, si sono convinti, come diceva Benedetto XVI che «ciò che le generazioni precedenti ritenevano sacro, rimane sacro e grande anche per noi, e non può essere improvvisamente del tutto proibito o addirittura considerato dannoso».

Si tornerà allora alla situazione precedente all’indulto del 1989? Qualche liturgista, la cui differenza con il terrorista è – come disse il cardinale Ratzinger – che con il secondo si può trattare mentre con il primo no – ci proverà senz’altro invocando, ma solo in questo caso, la legge canonica. La situazione è però da allora radicalmente mutata. Nella Chiesa di Torino, il popolo sta scomparendo e il poco clero appare esausto e sfibrato. Come vari osservatori laici hanno colto, le diocesi piemontesi somigliano sempre di più ai resti di quelle Chiese del nord Europa che, secolarizzandosi, non contano più nulla. La blogsfera poi rende tutto evanescente e tutto pone in discussione. Infine, è l’anagrafe che condanna i progressisti o, almeno, i più accaniti. È solo questione di tempo.

Il professor Tomatis conclude il suo intervento sul settimanale diocesano auspicando che adesso, sistemati i «sediziosi» tridentini, ci si concentri sul nuovo Rito – cosa che si fa da cinquant’anni – e si impari l’ars celebrandi con «esprit de finesse»: tutti sanno con quanto sospetto vengano visti i preti che celebrano con il messale di Paolo VI osservando diligentemente le norme (le esecrate «rubriche») o, come si diceva un tempo pie, attente, ac devote. La stessa struttura del nuovo Messale, la cui ultima edizione, a detta di tanti preti, si presenta iconograficamente orribile, autorizza ampiamente il “fai da te” per cui il cardinale Giuseppe Siri, richiesto di un parere rispose semplicemente: vel, vel, vel, oppure, oppure, oppure.

Si dice che la lobby gay, ben presente nelle diocesi e nelle curie piemontesi, sia al settimo cielo poiché Traditionis Custodes li ripaga, con la sua durezza verso i tradizionalisti, delle «sofferenze» che devono sopportare in vista di una Chiesa finalmente al passo con i tempi. Non è mancato, per la verità, qualche raro e intelligente esponente delle correnti progressiste che si è detto preoccupato della brutalità e della sgangheratezza, soprattutto canonica, con la quale sono stati colpiti i tradizionalisti, forse perché non è detto che il prossimo colpo venga assestato a loro. Con Papa Francesco – e lo sa bene anche qualche prelato torinese che ha frequentato e vissuto il clima di autoritarismo peronista della curia romana – non si è mai sicuri di nulla. Hodie mihi, cras tibi.

fonte Lo Spiffero











martedì 27 luglio 2021

Stat Crux... salda in mezzo alle rovine di ogni genere!





Immagine simbolica del disastro in Germania

Nel paese di Weindorf Rech è stata scattata questa foto nel mezzo del disastro causato dalla recente alluvione. Tutto distrutto, è rimasta intatta solo una statua lignea.

La distruzione, la morte, il disastro si fermano lì, nella prossimità della Croce di Cristo, senza poter lambire non solo la Croce stessa e il Crocifisso, ma anche la Madre e il Discepolo amato, che, sfidando ogni logica umana, hanno creduto che il loro rifugio fosse proprio lì dove umanamente non vi si vede che disperazione e morte.

Non servono commenti, ognuno può vedere o non vedere: un segno, il caso, un significato, oppure nulla. (Da segnalazioni dei lettori)



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