venerdì 28 febbraio 2014

Orientarsi....







dal blog Traditio Liturgica 

Oggi la confusione regna sovrana, soprattutto in ambito religioso. Solo uno spirito grossolano o totalmente disinformato può non rendersene conto. Se poi qualcuno è in cattiva fede, ossia conosce l'ordine della Chiesa ma gli va bene questo andazzo irregolare, la sua situazione personale è addirittura peggiore.

Ebbene, facciamo finta d'esserci persi in una regione sconosciuta, molto lontano dalla propria casa e dalla propria patria.
Qui s'impongono alcune brevi riflessioni.

1) Perché, una volta persi, sentiamo il bisogno di "tornare indietro"? Evidentemente perché, dentro di noi, c'è il bisogno di recuperare quello che fa parte della nostra storia, di quello per cui noi siamo noi e non qualsiasi altro. Abbiamo bisogno di tornare a quello che sentiamo essere la nostra vera vita.
Nella condizione dello smarrito può esserci qualcuno che ci dice: "Non tornare indietro, quello a cui pensi non esiste più e non ha senso, è morto e passato. Alla fine tutto è uguale a tutto".
Davanti a queste parole, sappiamo, con il cuore, che non è così! La mente viene ingannata ma il cuore no! Il luogo che ci ha visti crescere non potrà mai essere identico ad un altro, non potrà mai non esistere, dal momento che esiste almeno in noi! Sappiamo che chi ci dice queste cose mente sapendo di mentire. È un essere spudorato.

Applicazione al campo religioso: quando un sacerdote o un laico "religioso" ci dicono che guardare alle nostre radici, alla coerenza e alla tradizione cristiana non ha senso, che tutto è uguale a tutto, che non si può più tornare indietro... ebbene mentono sapendo di mentire poiché quello che caratterizza l'esperienza umana non si può dissociare da quello che caratterizza l'esperienza religiosa! Perché, allora, gli crediamo?

2) Da smarriti, abbiamo bisogno di sapere in che regione sconosciuta siamo, abbiamo bisogno di una carta geografica o di costruirne una (fu la prima cosa che fecero gli esploratori del XVI secolo), abbiamo bisogno d'una bussola per sapere in che direzione stiamo andando o, al più, seguire le coordinate geografiche con il sorgere o il tramonto del sole, con la posizione delle stelle.
Se qualcuno ci raggiunge e inizia a dirci: "Lasciate perdere le carte e le bussole, sono inutili. Fidatevi di chi vi dice ora bianco ora nero, a seconda delle convenienze o delle simpatie", voi cosa penserete? Sicuramente che vi sta ingannando.

Applicazione al campo religioso: quando un sacerdote o un laico "religioso" ci dicono che non ha senso la nostra ricerca nei testi del passato (i santi Padri, i teologi, i documenti della Chiesa) e che conviene affidarsi a quello che dicono varie autorità anche se si contraddicono (ieri alcune autorità religiose cattoliche condannavano il simpatizzante di fedi non cristiane perché consideravano quest'ultime erronee e morte, oggi le stesse autorità esaltano il simpatizzante di queste fedi, considerate viventi e sorgente di autentica conoscenza per il cristiano), perché pensiamo che dicono cose assolutamente giuste e non c'ingannano? Non è strano questo capovolgimento totale di giudizi?

Perché continuiamo ad avere fiducia di queste stesse autorità nel momento in cui oscurano il passato del Cristianesimo e se ne vergognano? Non parlo di situazioni in cui si esercitò un abuso di potere ma di situazioni in cui la dottrina veniva chiaramente esposta, definita, non edulcorata, sfumata, messa da parte in favore di un puro umanitarismo buonista...

Se riprendiamo la metafora della bussola e della carta è come se queste autorità ci dicessero: "Lascia perdere questa carta, è troppo chiara; butta via questa bussola, è troppo precisa. Oggi non si fa più così per orientarsi: si va a simpatie. Se vedo una persona simpatica in quella direzione vado per di là, se ne vedo un'altra in una direzione opposta vado all'opposto. Ovunque c'è della verità e ogni verità equivale ad un'altra: se uno ti dice che il nord è il sud ha ragione, se un altro ti dice che il sud è l'est ha pure ragione!".

Come mai non ci faremo imbrogliare da questi discorsi insensati nel caso dell'orientamento geografico e lo facciamo ampiamente nell'orientamento religioso? Non proviamo un poco di vergogna a farci umiliare così mentre nelle cose umane correremo per via di avvocati solo per una piccola mancanza di rispetto?

La verità è che quelli che riescono a vederci un po' chiaramente sono ben pochi e sono forse considerati come dei tontarelli. La maggioranza non se ne fa pensiero (forse perché, alla fine, non gliene frega nulla della fede e della Chiesa).

Costoro non sospettano neppure lontanamente che oggi chi alimenta la confusione e l'apostasia religiosa non sono i "nemici" della Chiesa ma... molti dei loro stessi capi!

Quindi per riprendere l'analogia della bussola e della cartina geografica, nella Chiesa ci possono essere diverse tendenze:

a) Tendenza sfacciatamente mondana: "Lasciate perdere bussola e cartina sono cose vecchie; siate spontanei e seguite gli stimoli della vostra coscienza o del mondo". Qui gli scritti della tradizione ecclesiastica se non sono proprio buttati via stanno in soffitta con le cose stantie e sotto un notevole strato di polvere.

b) Tendenza mondana mascherata: "Sì, bussola e carta sono cose interessanti ma oggi bisogna anche saperne fare a meno. Non dico che si devono buttare via ma, in gran parte, queste sono cose che dicono poco oggi".
Qui gli scritti della tradizione ecclesiastica sono stati spulciati, ma molto raramente. Si preferiscono i loisirs della modernità: divertimenti, svaghi, gite con i quali attrarre la gente.

c) Tendenza ingannatoria: "Dobbiamo trarre aspirazione da bussola e carta ma non leggervi quello che dicono bensì altro".
Gli scritti della tradizione ecclesiastica vengono avvelenati e si fa dire alla Scrittura quello che essa non ha mai detto.

All'estremo opposto c'è un'altra tendenza sostenuta da pochissimi:

d) Tendenza integrista: "Quanto è stato scritto nella cartina è estremamente vero. Se la realtà ci smentisce è la cartina che dev'essere seguita, non la realtà".
Qui i testi religiosi sono considerati in modo massimalista senza tenere conto che ci dev'essere comunque una interpretazione che però non significa la loro negazione.
Trattati così, tali scritti vengono idolatrati.

Pochi sembrano, invece, accorgersi di questa:

e) Posizione corretta: "Si segue bussola e carta. Se nel frattempo qualcosa nella realtà è cambiato lo si annota nella carta ma questo non significa certo che Parigi diventa Roma e Roma si trasferisce in Scandinavia".
I testi della tradizione cristiana hanno bisogno di essere sempre integrati ed arricchiti ma questo non significa che debbano essere abbandonati o rinnegati. Oggi possiamo conoscere di più riguardo alla psicologia umana e avere un approccio più articolato del quale tenere conto. Ma questo non significa che ascesi, peccato e grazia sono cose vecchie o inutili. L'intelligenza spirituale si deve sempre associare all'intelligenza del momento presente. Questo, d'altronde, è sempre stato l'atteggiamento dei maggiori luminari nella storia del Cristianesimo.

L'esempio della bussola e della carta ci mostra chiaramente un tale disorientamento al punto da poter tranquillamente affermare che oggi - in campo religioso - è in atto una vera e propria perversione delle intelligenze che segue, d'altronde, alla perversione degli spiriti, già ampiamente diffusa.








giovedì 27 febbraio 2014

ORA IL MISTERO E’ ANCORA PIU’ FITTO. RATZINGER E “LA STAMPA”. LE MIE DOMANDE SENZA RISPOSTA.



Antonio Socci

Ieri sulla “Stampa” e “Vatican Insider” (il sito del giornale dedicato al Vaticano)  è apparso con gran rilievo questo titolo che riporta parole attribuite a Benedetto XVI: “La rinuncia è valida. Assurdo speculare sulla mia decisione”.
Suona come una clamorosa risposta alle domande che io avevo posto su queste colonne a un anno dalle sue storiche dimissioni.

AUTOGOL

I colleghi di “Vatican Insider-La Stampa”, per capirci,  sono gli stessi che reagirono con stizza allo scoop con cui, il 25 settembre 2011, preannunciavo le dimissioni di papa Benedetto. Ci fu chi scrisse che era “scandalizzato” dal mio articolo.
Questi colleghi corsero a fare i pompieri intervistando chi diceva che era tutto infondato e che il mio articolo era assurdo e ridicolo.
Sappiamo poi come sono andate le cose e quanto era infondato ciò che scrissi.
Gli amici della “Stampa” avrebbero potuto imparare, da quella vicenda del 2011, che non bisogna mai accontentarsi delle “verità ufficiali”, altrimenti basterebbe pubblicare i comunicati stampa dei vari palazzi.
I giornalisti esistono per porre domande, mostrare le cose che non quadrano, indagare e chiedere spiegazioni sulle cose oscure o non chiarite.
Invece anche ieri gli amici di “Vatican insider” sono corsi a fare i pompieri, chiedendo a Benedetto di smentirci. Ma il risultato rischia di essere opposto a quello voluto.
Da ieri infatti i dubbi sulle sue dimissioni si sono ingigantiti. Perché – come tutti sanno – il Vaticano non smentisce mai le tante illazioni o le congetture infondate che appaiono sui media.
Se in questo caso ha accettato di intervenire addirittura il papa emerito (troppo onore) è segno che il problema c’è. Ed è enorme. Non si scomoda un papa, infatti, per una baggianata.

DUBBI

Del resto ciò che pubblica “La Stampa” non è affatto chiaro. Anzitutto quando si dispone di un documento come quello – la risposta di un Papa – è buona regola pubblicarlo integralmente tale e quale e con riproduzione fotografica.
Invece il suddetto articolo di Andrea Tornielli riporta solo qualche frase estrapolata e la fotografia della firma e della carta intestata. Senza dirci quali sono state le domande complete e le risposte complete, con annessi e connessi.
In secondo luogo i brevi virgolettati attribuiti al papa emerito smentiscono qualcosa che io non avevo mai messo in discussione. Infatti egli afferma che la sua decisione è stata davvero libera.
Ma questo lo aveva già dichiarato solennemente nell’annuncio dell’11 febbraio 2013. Cosa credevano, alla “Stampa”, che oggi Benedetto dicesse di aver mentito?
Io ho sempre creduto alla sua dichiarazione di allora. Infatti nell’articolo del 12 febbraio scorso scrivevo: “Non è ammissibile dubitare delle sue parole, quindi il suo fu un gesto libero”.
Ma ciò non spiega nulla. Questo grande uomo di Dio aveva detto di aver preso tale decisione “non per il mio bene, ma per il bene della Chiesa”, perché bisogna avere “sempre davanti il bene della Chiesa e non se stessi”.
Considerata la guerra che gli era stata scatenata contro (si vedano i miei articoli precedenti), si può ipotizzare che egli – vedendo addensarsi sulla Chiesa certe minacce (sulla Chiesa, non su se stesso) – abbia liberamente deciso di fare un passo indietro per evitare tempeste alla barca di Pietro.
In questo caso la scelta sarebbe stata libera, tuttavia determinata da circostanze esterne tutte da svelare. D’altra parte era stato lo stesso papa Benedetto – nella sua messa d’insediamento – a chiedere: “pregate per me perché io non fugga per paura davanti ai lupi”.
La rinuncia non è una fuga davanti ai lupi, perché – anzi – da papa emerito sostiene con la preghiera il papa regnante, Francesco, nella lotta. Tuttavia quella frase clamorosa rivelava ufficialmente che il Vicario di Cristo aveva a che fare con branchi di lupi.
Chi fossero non è mai stato chiarito. Si riferiva anche al mondo. Tuttavia questo “attacco concentrico” aveva “origine fuori, ma spesso anche dentro la Chiesa”.
Lo scriveva lo stesso Tornielli (con Paolo Rodari) nel 2010 nel libro intitolato “Attacco a Ratzinger”, dove si mostravano l’isolamento di Benedetto e i suoi molti nemici.
Lì si svelava che subito dopo il Conclave potenti cardinali di Curia decretavano già che quel pontificato sarebbe durato poco (“solo due o tre anni”) e che “l’unica cosa che non si perdona a Ratzinger è quella di essere stato eletto Papa”.
D’altronde sabato scorso, in San Pietro, si è potuto vedere che Benedetto è tuttora in ottima forma fisica, così come è intellettualmente lucidissimo.
Dunque le domande sulle vere ragioni della rinuncia si ripropongono (del resto, in duemila anni di storia della Chiesa, mai un papa si era ritirato per l’anzianità).

GUARDAROBA

L’altra risposta virgolettata, riportata da Tornielli, fa trasecolare. Alla domanda sul perché ha deciso di rimanere papa emerito (e non vescovo emerito o cardinale), col vestito da papa, Benedetto avrebbe testualmente risposto così: “Il mantenimento dell’abito bianco e del nome Benedetto è una cosa semplicemente pratica. Nel momento della rinuncia non c’erano a disposizione altri vestiti”.
Ora, che l’intelligenza sopraffina di Ratzinger abbia voluto liquidare con una battuta surreale una questione delicatissima, che in questo momento non può e non vuole spiegare, a me pare evidente.
Padroni invece quelli della “Stampa”  di considerarla una risposta esauriente. Evidentemente credono che, fra l’11 febbraio (data dell’annuncio) e il 28 febbraio (fine del pontificato), in tutto il Vaticano e nei negozi e fra i sarti di Borgo Pio, non si poteva trovare nemmeno una tonaca scura.
Anzi, è stato confermato dal cardinal Bertone che la rinuncia era già stata decisa da mesi (come su questo giornale si è sempre scritto), quindi si dovrebbe credere che in un intero anno non sia stato possibile, in Vaticano e dintorni, trovare una tonaca scura.
Per questo Ratzinger avrebbe deciso – contro il parere di tutti i canonisti (compresa Civiltà cattolica) – di restare Sua Santità Benedetto XVI e di vestire di bianco.
Creando una situazione unica nella storia della Chiesa, per la coesistenza di due papi e perché non è stato definito, né a livello canonico né a livello teologico, lo status di papa emerito (nei secoli scorsi tutti i pontefici che si sono ritirati sono tornati alla loro condizione precedente l’elezione).
Mi pare che non ci sia bisogno di commenti. Del resto l’aver deciso, nelle scorse settimane, di tenere lo stemma da papa, rifiutando quello da papa emerito e quello da cardinale, come c’entra con l’abito nell’armadio?

RISPOSTE MANCANTI

Non ho trovato, nella pagina della “Stampa”, la risposta alla mia domanda sulla frase che Benedetto pronunciò, il 27 febbraio 2013, per definire la sua scelta. Parlando del suo ministero petrino disse: “Il ‘sempre’ è anche un ‘per sempre’ - non c’è più un ritornare nel privato. La mia decisione di rinunciare all’esercizio attivo del ministero, non revoca questo”.
Cosa significa quella rinuncia all’”esercizio attivo”, quel “per sempre” e quel ministero petrino “non revocato”? Sarebbe stato interessante che un grande teologo come Benedetto illuminasse tutta questa situazione.
Così come sarebbe stato interessante chiedergli cosa mai era accaduto di così urgente venerdì sera perché Francesco telefonasse direttamente a Benedetto chiedendogli di andare, l’indomani mattina, al Concistoro pubblico in San Pietro.
Si è trattato oltretutto di un fatto che ha contraddetto ciò che Benedetto aveva annunciato (“sarò nascosto al mondo”). Perché questa emergenza?

GIORNALISTI

A questo proposito devo precisare che – contrariamente ad altri, a cui forse allude Tornielli – personalmente non ho mai contrapposto i due papi, rilevando che appaiono davvero come Mosè che prega sul monte e Giosuè che combatte nella valle. Insieme per salvare la Chiesa in un momento così drammatico come forse in duemila anni mai ha vissuto.
Con Tornielli, che conosco da 30 anni e di cui mi reputo amico, ho avuto anche di recente un piccolo bisticcio.
Mi aveva colpito il fatto che in due pezzi consecutivi, sabato e domenica, avesse usato, per Benedetto, le espressioni “primo fra i cardinali” e poi “vescovo emerito di Roma”, pur sapendo bene che Benedetto aveva rifiutato di assumere proprio quelle qualifiche e aveva optato invece per “Papa emerito”.
Avevo chiesto, scherzosamente, a Tornielli perché riteneva di degradare Benedetto, ma mi ha risposto con stizza e allora ho abbozzato.
Personalmente credo che il compito di noi giornalisti non sia quello di “normalizzare” una situazione obiettivamente unica, magari improvvisandoci tifosi di un papa o di un altro (che certo non hanno bisogno di tifosi).
Il nostro compito è quello di cercar di capire, di porre domande, di far emergere la complessità di una situazione. Può darsi che le nostre domande e il nostro indagare possano disturbare, ma il nostro dovere è cercare la verità sempre (anche il nostro dovere di cristiani del resto è questo).

ZUCCHETTO

Ho motivo di ritenere, ad esempio, che sia stato fatto notare a papa Benedetto che, fra le domande da me poste, c’era la constatazione del mancato bacio dell’anello, nei due incontri pubblici fra i due papi.
Pare che per questo Benedetto, al Concistoro di sabato, abbia fatto il gesto di togliersi la berretta davanti a Francesco (mai fatto in precedenza), gesto che è stato enormemente amplificato dai vaticanisti.
Tutta quell’enfasi però mi pare fuori luogo perché è ovvio che Francesco è il papa regnante: Benedetto fin da prima del Conclave gli ha assicurato reverenza e obbedienza. Come tutti noi cattolici dobbiamo fare (personalmente su queste colonne ho sempre sostenuto e difeso papa Francesco).
Ma i fatti sono testardi, esistono e interrogano: proprio l’enfasi sulla berretta mi pare metta in rilievo ancora una volta che pure sabato scorso non c’è stato il bacio dell’anello (un aspetto che resta misterioso e fa riflettere).
Se per la prima volta Benedetto dovesse fare quel gesto dovremmo pensare che ci sono state su di lui pressioni molto forti (e che anche nel passato ce ne siano state).
In ogni caso il mistero s’infittisce.




Da Libero, 27 febbraio 2014
Lo Straniero


mercoledì 26 febbraio 2014

Che cosa devo pensare, io fuori della comunione, dell’ostia ai peccatori?








di Giuliano Ferrara

Per me contano i segni. E in questo sono cristiano, i segni dei tempi, i presagi di fonte evangelica. La comunione ai divorziati risposati è un segno di aggiornamento molto disinvolto della chiesa, un poderoso mutamento di prassi se non anche di dottrina. Non ho niente di conservatore e di retrogrado da affermare, è da una vita che vivo senza scandalo in mezzo ai divorziati e alle famiglie spaiate in ogni modo, e il mio senso laico del peccato prevede atti peggiori, l’abbandono, il tradimento, il dolore comunque procurato, di un’ordinaria separazione seguita da divorzio e nuovo matrimonio, ma un’obiezione segnica ovvero logica ce l’ho.

La conseguenza dell’ostia ai peccatori incalliti, fuori dalla grazia di Dio, è che nessuno penserà più alle conseguenze delle sue azioni, perché non ci sarà più alcuna linea di resistenza. Penitenza, misericordia, perdono, riconciliazione, eucaristia come viatico, pastoralità e comunionalità non assertiva né escludente: sono concetti bellissimi, linee di vita importanti per una Chiesa, lo capisco. Devono potersi sperimentare arditamente anche nel cuore del peccato moderno e postmoderno. Lo capisco.
Il problema per me non è la parola del Messia messa tra parentesi, vissuta forse fino in fondo ma non rispettata nella sua letteralità, perché la lettera uccide e lo spirito solleva e libera; né appartengo alla congregazione per la Dottrina della fede, le questioni teologiche e canoniche mi interessano, ma appunto solo come segni di come gira il mondo, che da due millenni gira anche intorno al cuore cristiano della civiltà. Al divorzio, visto come si sono messe le cose, seguirà tutto il resto: il divorzio in Chiesa è già tanto, ma il resto è troppo o rischia di essere troppo.

Infatti parallelamente alle istruzioni pastorali sui divorziati risposati le conferenze episcopali franco-tedesche muovono contro la Humanae vitae, bestia nera del cattolicesimo post-conciliare. Pincus, Freud e Lacan, Beaulieu con la sua Ru486, e la sessuologia, sono destinati a conquistare, tra mistica e sorriso mondano, gli ultimi bastioni della contraddizione etica nella storia. Sotto apparato spirituale, e di riforma canonica, passa quel che c’è. Passerà anche l’eutanasia, è appena ovvio, perché non si vede dove ci si possa fermare. Se i figli della Chiesa disdicono l’appuntamento con il rumore della loro stessa battaglia, chi sarà per me? E se non ora, quando?

I gesuiti hanno il senso della Chiesa come istituzione, e sanno sottomettere le regole generali alle occasioni della casistica. Possono negarlo con sottigliezza e generosità di cultura, ma quella è la loro specialità. Ora accettano l’intimazione di chiedere scusa ai divorziati risposati che sono rimasti fuori da un atto liturgico eucaristico di particolare significato. Domani, perdono e misericordia a parte, riformuleranno dottrina e criteri sulla scorta dei diversi casi, che si moltiplicano, di manipolazione della vita, di corruzione dell’esistenza. Allora tanto valeva mollare i sacramenti quando lo chiedevano Lutero e Calvino e Zwingli. O no?





© - FOGLIO QUOTIDIANO  26 febbraio 2014




Ratzinger: la mia rinuncia è valida, assurdo fare speculazioni





Benedetto XVI risponde con una lettera ad Andrea Tornielli: il nostro vaticanista gli aveva inviato alcune domande a proposito di presunte pressioni e complotti che avrebbero provocato le dimissioni

ANDREA TORNIELLI
«Non c'è il minimo dubbio circa la validità della mia rinuncia al ministero petrino» e le «speculazioni» in proposito sono «semplicemente assurde». Joseph Ratzinger non è stato costretto a dimettersi, non l'ha fatto a seguito di pressioni o complotti: la sua rinuncia è valida e oggi nella Chiesa non esiste alcuna «diarchia», nessun doppio governo. C'è un Papa regnante nel pieno delle sue funzioni, Francesco, e un emerito che ha come «unico e ultimo scopo» delle sue giornate quello di pregare per il suo successore.

Dal monastero «Mater Ecclesiae» dentro le mura vaticane, il Papa emerito Benedetto XVI ha preso carta e penna per stroncare le interpretazioni sul suo storico gesto di un anno fa, rilanciate da diversi media e sul web in occasione del primo anniversario della rinuncia. Lo ha fatto rispondendo personalmente a una lettera con alcune domande che gli avevamo inviato nei giorni scorsi, dopo aver letto alcuni commenti sulla stampa italiana e internazionale riguardanti le sue dimissioni. In modo sintetico ma precisissimo, Ratzinger ha risposto, smentendo i presunti retroscena segreti della rinuncia e invitando a non caricare di significati impropri alcune scelte da lui compiute, come quella di mantenere l'abito bianco anche dopo aver lasciato il ministero di vescovo di Roma.


Come si ricorderà, con un clamoroso e inatteso annuncio, l'11 febbraio 2013 Benedetto XVI comunicava ai cardinali riuniti in concistoro la sua libera decisione di dimettersi «ingravescente aetate», per motivi di età: «Sono pervenuto alla certezza che le mie forze, per l'età avanzata, non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero petrino». Annunciava anche che la sede apostolica sarebbe stata vacante a partire dalla sera del 28 febbraio: i cardinali si sarebbero riuniti per procedere con l'elezione del successore. Nei giorni successivi, Ratzinger faceva sapere che avrebbe mantenuto il nome di Benedetto XVI (che compare anche in calce alla fine della lettera), che si sarebbe definito d'ora in avanti «Papa emerito» (come risulta anche dall'intestazione a stampa della stessa lettera) e avrebbe continuato a indossare l'abito bianco, anche se semplificato rispetto a quello del Pontefice, vale a dire senza la mantelletta (chiamata «pellegrina») e senza la fascia.

Nel corso dell'ultima udienza del mercoledì, il 27 febbraio 2013, in una piazza San Pietro inondata di sole e gremita di fedeli, Benedetto XVI aveva detto: «In questi ultimi mesi, ho sentito che le mie forze erano diminuite, e ho chiesto a Dio con insistenza, nella preghiera, di illuminarmi con la sua luce per farmi prendere la decisione più giusta non per il mio bene, ma per il bene della Chiesa. Ho fatto questo passo nella piena consapevolezza della sua gravità e anche novità, ma con una profonda serenità d’animo. Amare la Chiesa significa anche avere il coraggio di fare scelte difficili, sofferte, avendo sempre davanti il bene della Chiesa e non se stessi».

E aveva aggiunto che il suo ritirarsi, «nascosto al mondo», non significava «ritornare nel privato». «La mia decisione di rinunciare all’esercizio attivo del ministero - aveva detto - non revoca questo. Non ritorno alla vita privata, a una vita di viaggi, incontri, ricevimenti, conferenze eccetera. Non abbandono la croce, ma resto in modo nuovo presso il Signore Crocifisso. Non porto più la potestà dell’officio per il governo della Chiesa, ma nel servizio della preghiera resto, per così dire, nel recinto di San Pietro». Proprio queste parole circa il suo voler restare «nel recinto di San Pietro» hanno fatto ipotizzare ad alcuni che la rinuncia non sia stata davvero libera e dunque valida, quasi che Ratzinger si fosse voluto ritagliare un ruolo di «Papa ombra», cioè quanto di più lontano dalla sua sensibilità si possa immaginare.

Dopo l'elezione di Francesco, le novità del suo papato, la scossa che sta portando alla Chiesa con la sua parola e la sua testimonianza personale, era fisiologico che alcuni - com'è sempre peraltro accaduto in occasione di un cambio di pontificato - lo contrapponessero al predecessore. Una contrapposizione che lo stesso Benedetto XVI ha sempre rifiutato. Nelle ultime settimane, con l'avvicinarsi del primo anniversario della rinuncia, c'è chi è andato oltre, ipotizzando persino l'invalidità delle dimissioni di Benedetto e dunque un suo ruolo ancora attivo e istituzionale accanto al Papa regnante.

Lo scorso 16 febbraio, chi scrive ha inviato al Papa emerito un messaggio con alcune specifiche domande in merito a queste interpretazioni. Due giorni dopo è arrivata la risposta. «Non c’è il minimo dubbio - scrive Ratzinger nella missiva - circa la validità della mia rinuncia al ministero petrino. Unica condizione della validità è la piena libertà della decisione. Speculazioni circa la invalidità della rinuncia sono semplicemente assurde». Del resto, che la possibilità di dimettersi fosse tenuta in considerazione da molto tempo era ben noto alle persone più vicine a Ratzinger, e da lui stesso confermata nel libro intervista con il giornalista tedesco Peter Seewald («Luce del mondo», 2010): «Se un Papa si rende conto con chiarezza che non è più capace, fisicamente, psicologicamente e spiritualmente, di assolvere ai doveri del suo ufficio, allora ha il diritto e, in alcune circostanze, anche l'obbligo, di dimettersi».

È stato inevitabile, un anno fa, dopo l'annuncio - mai un Papa in duemila anni di storia della Chiesa aveva rinunciato per anzianità - collegare questo clamoroso gesto al clima mefitico di Vatileaks, dei complotti nella Curia romana. Tutto il pontificato di Benedetto XVI è stato una via Crucis, e in particolare gli ultimi anni: prima a motivo dello scandalo della pedofilia, da lui coraggiosamente affrontato senza incolpare le lobby o i «nemici esterni» della Chiesa, ma piuttosto la «persecuzione», il male che viene dal di dentro della Chiesa stessa. E poi a motivo della fuga di documenti prelevati dalla scrivania papale dal maggiordomo Paolo Gabriele. La rinuncia è stata dunque collegata a questi contesti. Ma Benedetto XVI aveva spiegato, sempre nel libro-intervista con Seewald, che non si lascia la nave mentre il mare è in tempesta. Per questo prima di annunciare le dimissioni, decisione presa da tempo e confidata ai più stretti collaboratori con mesi d'anticipo, Ratzinger ha atteso che la vicenda Vatileaks, il processo a Gabriele e l'inchiesta affidata ai tre cardinali si fossero conclusi. Soltanto dopo ha lasciato.

Nella lettera che ci ha inviato, il Papa emerito risponde anche alle domande sul significato dell'abito bianco e del nome papale. «Il mantenimento dell’abito bianco e del nome Benedetto - ci ha scritto - è una cosa semplicemente pratica. Nel momento della rinuncia non c’erano a disposizione altri vestiti. Del resto porto l’abito bianco in modo chiaramente distinto da quello del Papa. Anche qui si tratta di speculazioni senza il minimo fondamento».




Vatican Insider 26/02/2014


martedì 25 febbraio 2014

"Segni dei tempi"






I problemi che attanagliano il Cristianesimo odierno nascono prevalentemente dall'essere stato abbassato, adeguato alla mentalità corrente, trasformato in una filosofia più o meno buonista. Questi problemi derivano dall'aver reso la Sacra Scrittura un libro da leggersi in modo razionalistico: i miracoli sarebbero dei modi di dire, tutto sarebbe facilmente demitizzabile, nessuno deve più inquietarsi. 

Lo svilimento della liturgia ne è il logico risultato.

La posizione tradizionale propria alla Chiesa è, invece, in un versante totalmente diverso.
La notiamo in queste pagine scritte da un monaco atonita nel 1986: padre Paisios (*).

Il monaco, vissuto santamente, prende in esame un'iniziativa che allora pareva essere una novità (oggi questo esperimento è in fase avanzata di applicazione): segnare non solo le merci ma pure le persone con un sistema o un microchip nel quale c'è il codice "666". Questo microchip all'inizio appartiene ad una nuova carta d'identità, poi si prevede che venga immesso sotto la pelle di ogni persona.

Personalmente non so cosa ci riserverà il futuro, per quanto mi renda conto che i segni e i simboli, come il "666", non sono per nulla trascurati da parte di forti gruppi di potere mondiale! Mentre noi non ci diamo che pochissimo peso, questi gruppi ci credono e li usano. Mentre questi gruppi non cambiano il loro sistema simbolico (orientato per affermare ed espandere il loro potere), i cristiani - particolarmente in Occidente - non credono ai simboli al punto che disprezzano le liturgie tradizionali che li usano e trasformano le loro messe in feste paesane.

Viceversa, la stessa massoneria ha rituali fortemente simbolici.
Padre Paisios non fa troppi giri di parole e troppe giustificazioni.

Con in mano la Bibbia identifica subito il "666" come segno anticristico e lo dice, ridicolizzando coloro che lo ritengono irrilevante. La storia della salvezza prosegue il suo corso, nel tempo, ma pure l'opposizione ad essa da parte del Nemico, opposizione che non viene mai meno. Tutto questo per Paissios non è un mito ma una realtà che si svolge ora.





Se rimarremo stupiti dal suo modo di argomentare, se qualcuno lo rifiuterà ritenendolo esagerato o fanatico, è solo perché siamo stati talmente anemizzati da credere che il nostro modo di pensare è quello giusto. Il nostro Cristianesimo si è traviato quando è divenuto zucchero a velo per tutti! Viceversa nel vangelo Cristo non parla di zucchero ma di sale che può far male sulle ferite ma sana. E se questo sale perde sapore, aggiunge, verrà calpestato. Porsi nella prospettiva di Cristo impone necessariamente tutto un altro ordine di valori e di valutazioni. È questo che mi preme sottolineare.


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di Padre Paisios l'atonita

"Segni dei tempi"


Dopo la tempesta demoniaca,
il divino sole arriverà.

Dietro allo spirito mondano della “libertà” odierna, dietro alla mancanza di rispetto verso la Chiesa di Cristo, verso chi ci precede nell'età (genitori e insegnanti) e verso chi ha timore di Dio, è nascosta schiavitù spirituale, ansia e anarchia che conducono il mondo in un vicolo cieco, alla rovina mentale e fisica.

Perciò dietro al perfetto sistema di sicurezza informatica, “scheda di servizi” (1), si nasconde una dittatura globale, un asservimento all’Anticristo: “Inoltre obbligò tutti [...] a farsi mettere un marchio sulla mano destra o sulla fronte. Nessuno poteva comprare o vendere se non portava il marchio, cioè il nome della bestia o il numero che corrisponde al suo nome. Qui sta la sapienza. Chi ha intelligenza, calcoli il numero della bestia, perché è un numero d'uomo; e il suo numero è seicentosessantasei” (Ap 13, 16-18).
Sant’Andrea di Cesarea, scrive quanto segue: “Per quanto riguarda il nome dell’infame Anticristo, il significato preciso del numero come altre cose scritte a lui relative, il tempo e l’esperienza lo rivelerà ai santi; […] ma la grazia divina non ha permesso che il nome del distruttore fosse scritto nel libro divino; cercando di scoprirlo si possono affermare molte cose”(2).

Stranamente, però, pure molte persone spirituali, oltre a dare proprie strane interpretazioni, temono come i mondani questo sistema di controllo globale, invece di preoccuparsi spiritualmente aiutando i cristiani e infondendo loro una sana inquietudine, forza nella fede e facendo loro sperimentare la divina consolazione.

Rimango perplesso! Tutti questi eventi non li impensieriscono? Perché non esaminano, almeno una volta, le interpretazioni delle loro menti? E, se così facendo, agevolano il piano dell’Anticristo sul sigillo, com'è possibile che riescano a trascinare alla perdizione ancora altre anime? Ecco cosa intende il versetto dell'Apocalisse quando dice: “… per ingannare, se fosse possibile, anche gli eletti”.

Saranno ingannati coloro che interpretano con la mente tutte queste cose (3).

E mentre i segni sembrano chiari, “la bestia” di Bruxelles, con il 666, ha risucchiato quasi tutti i paesi nel computer. La scheda, il documento d’identità, l’“introduzione del sigillo”, che cosa dimostrano? Purtroppo dalla radio possiamo sapere solo che tempo farà.

Che cosa ci dirà allora Cristo?: “Ipocriti, sapete dunque interpretare l’aspetto del cielo e non sapete distinguere i segni dei tempi?” (Mt 16, 3).

Così, perché possano malignamente avanzare nel “sistema di controllo globale”, dopo la scheda e il documento d’identità, si dirà continuamente attraverso la tv, che, qualcuno potrebbe rubare la scheda di un altro sottraendogli denaro dalla banca. D’altra parte, pubblicizzeranno il “sistema perfetto”, il sigillo con il 666, il nome dell’anticristo, sulla mano o sulla fronte inciso a raggi laser, invisibile esteriormente.

Purtroppo, ancora una volta, alcuni “colti” cercheranno di “fasciare” i propri figli spirituali come dei bambini, fingendo di proteggerli da queste preoccupazioni. “Non c’è da temere, non è nulla, è sufficiente credere interiormente!”. Così, mentre vediamo l’apostolo Pietro rinnegare Cristo esteriormente – e questo fu un vero rinnego –, essi rifiutano il Santo sigillo di Cristo ricevuto nel Santo Battesimo, “Sigillo del dono dello Spirito Santo”, accettando il sigillo dell’anticristo. Dicono così che [nonostante tutto] hanno in loro Cristo!

Tale logica, purtroppo, esisteva anche in alcuni “colti” ai tempi dei santi martiri. Questi cercavano di modificare il pensiero dei candidati al martirio, come riporta Basilio il Grande nel suo discorso al martire Gordios: “… molti diventavano assurdi cercando di convincere il martire a rinnegare solo con parole ma mantenendo la fede nell’anima con retta disposizione interiore, perché Dio non presta attenzione al linguaggio e osserva solo l’anima. Invece il martire Gordios fu irremovibile e rispose: «Nessuna lingua fatta da Cristo tollera pronunciare una parola contro il proprio Creatore… Non illudetevi, nessuno può deridere Dio. Egli ci giudica dalla nostra bocca. Ci rende giustizia e ci condanna attraverso le nostre parole» ”.

Inoltre, durante il regno di Decio, veniva chiesto con un decreto che la gente confessasse la religione dei pagani. Chi, tra i cristiani, lo dichiarava e sacrificava agli idoli, prendeva un certificato e veniva risparmiato dal martirio. I negatori di Cristo non erano solo questi, ma pure chi dava soldi ai pagani della commissione, ottenendo così un certificato senza dover rinnegare apertamente. Erano i cosiddetti “portatori di libello”. La nostra Chiesa li considerava apostati-caduti.

Abbiamo tanti esempi, come il miracolo di San Teodoro, che celebriamo ogni anno nel sabato della prima settimana di Quaresima: “Giuliano l’Apostata, sapendo che i Cristiani purificavano la prima settimana della Quaresima con il digiuno, motivo per cui la chiamiamo “settimana pura”, fece in modo che fossero posti sul mercato solo cibi segretamente contaminati col sangue di sacrifici idolatrici, perché i cristiani si contaminassero. Però, per divina volontà, il martire Teodoro apparve in sogno all’allora arcivescovo di Costantinopoli Eudossio rivelandogli l’accaduto e ordinandogli di radunare subito i fedeli la mattina del lunedì per impedir loro di acquisire quei cibi suggerendo loro di nutrirsi, in alternativa, con quanto era semplicemente a loro disposizione, i kolliva… Così lo scopo dell’apostata fu annullato e il pio popolo rimase incontaminato…” (4).

Astenersi dai sacrifici agli idoli è una regola dei santi Apostoli.: “… Allora si riunirono gli apostoli e gli anziani… si ordini [ai cristiani] di astenersi dalle cose contaminate nei sacrifici agli idoli, dalla fornicazione, dagli animali soffocati e dal sangue…” (Cfr. At 15, 29).

Malgrado quanto ho citato, purtroppo si sentono dire un cumulo di sciocchezze, da parte di alcuni moderni “colti”. Ad esempio uno dice: “Accetterò il documento d’identità con il 666, sovrapponendogli una Croce”. Un altro dice: “Accetterò il sigillo sulla testa con il 666 sovrapponendo ad esso una Croce…”. Continuano dicendo cose simili, credendo che giungeranno a santificarsi in questo modo, mentre tali cose sono inganni.

Solo le cose che accettano la santificazione si santificano come l’acqua: essa riceve la benedizione e diventa acqua santa. L’urina non accoglie la santificazione.

La pietra diventa pane attraverso il miracolo. Le feci non accolgono la santificazione.

Pertanto, il diavolo, l’anticristo, quando si trova con il suo simbolo, nel nostro documento d’identità, nella nostra mano o nelle nostre teste, queste non si santificano sovrapponendoci una Croce.

Riceviamo il potere della preziosa Croce, del simbolo sacro, della santa Grazia di Cristo solo quando ci basta il santo sigillo del Battesimo, con cui rinneghiamo Satana e ci uniamo a Cristo, accogliendo questo stesso santo sigillo, “Sigillo del dono dello Spirito Santo”.

Cristo ci dia la nostra buona illuminazione. Amìn.


Monte Athos, Kellìon di Koutloumousi “Panagùda”, Sabato della I settimana dei digiuni, 1987.


Con molto dolore e amore di Cristo,
Monaco Paisios


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(*) Anche chi, per sua convinzione, non fa riferimento all'Oriente cristiano, non può restare indifferente al pensiero di p. Paisios.

Padre Paisios si riferisce all’iniziativa di chi vuole diffondere un sistema di controllo-censimento attraverso l'imposizione di un codice o di un chip sottocutaneo che ha, guarda caso, il numero "666" che nel libro dell'Apocalisse è associato al numero della bestia. Paisios non dà poca importanza a queste cose e le legge nella loro immediata evidenza poiché da fede alla Scrittura senza relativizzarla.
S. Andrea di Cesarea, Spiegazione dell’Apocalisse di Giovanni, cap. XXXVIII, pp. 341-42.

Dietro a quest'affermazione si cela qualcosa di profondo: chi interpreta le Scritture in modo razionalistico (oggi lo fa la quasi totalità del Cristianesimo in Occidente) cade nell'inganno poiché finisce per non farle più parlare per il presente e le confina nel passato (con il metodo razionalistico si cerca il contesto storico, quello a cui l'agiografo pensava mentre scriveva, ecc. Si conclude dando per implicito che molte delle cose narrate sono passate e non dicono gran che per l'oggi). In questo modo, i cristiani si concedono quello che un tempo si sarebbero certamente proibiti e finiscono per cadere nell'errore. È quanto succede oggi, con la giustificazione di un clero che vede la vita cristiana troppo umanamente e razionalisticamente, distorcendola e rendendo mute le Scritture. L'esatto contrario di quanto fa Paisios! 

Grande Orologion, p. 446.



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In questo file pdf (http://issuu.com/lamprotes/docs/segni_dei_tempi/11?e=9640055/6850318) si ha pure il testo autografo originale di p. Paisios





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Da Traditio Liturgica 


lunedì 24 febbraio 2014

Il matrimonio, la seconda chance e la misericordia






di Riccardo Cascioli

Devo confessare che quando sento parlare di “seconda chance”, seconda opportunità, a proposito di matrimonio, provo un profondo disagio. Sono abbastanza vecchio da ricordare la propaganda divorzista intorno al referendum del 1974 (anche se allora ero un adolescente), quanto si parlasse di seconda opportunità, presentando casi estremi e cercando di dimostrare la disumanità di una legge che imponeva di rimanere legati a un solo uomo o una sola donna pure in questi casi. Poi, come giornalista, ho avuto modo di seguire negli anni ’90 in Irlanda i tentativi di introdurre il divorzio in quel paese. E anche qui, l’argomento forte era quello della “seconda chance” per chi si trovava in certe situazioni particolari. Insomma, "seconda chance" e divorzio vanno a braccetto da sempre.

Ecco perché quando sento eminenti cardinali parlare di “seconda chance” – con riferimento ai divorziati risposati e alla loro riammissione ai sacramenti -, nasce quel disagio, che diventa più profondo quando vi si accosta la parola Misericordia. «Non è immaginabile che uno possa cadere in un buco nero da cui Dio non possa tirarlo fuori», aveva detto il cardinale Walter Kasper nella sua relazione al Concistoro. Ma se questo è il criterio, perché allora solo una “seconda chance” e non anche un terza, una quarta e via numerando? Ci saranno sicuramente persone sfortunate che capiteranno male anche nel secondo matrimonio. Forse che la Misericordia di Dio è limitata? E’ lo stesso papa Francesco ad aver detto tante volte che Dio non si stanca di perdonare, siamo noi che ci stanchiamo di chiedere perdono. E in fondo lo sappiamo: quante volte accostandoci al Sacramento della Riconciliazione ci siamo trovati a dover confessare lo stesso peccato di cui già tante volte ci eravamo pentiti e per il quale avevamo promesso di non ripeterlo più?

Ma siccome la differenza la fa l’eventuale “permanere nel peccato”, viene anche da chiedersi perché la possibilità di accostarsi ai sacramenti pur permanendo in una situazione irregolare (per di più pubblica) debba valere per un solo peccato.

E’ vero, il cardinale Kasper - contrariamente a tanti suoi confratelli tedeschi – ha detto chiaramente che non può essere messa in discussione l’indissolubilità del matrimonio, ma quel suo chiedere come trovare la quadratura del cerchio mettendo insieme indissolubilità e seconda chance fa intuire la pericolosità della questione. Il pericolo è ciò di cui Gesù incolpa i farisei quando dice loro che sono «veramente abili nell’eludere il comandamento di Dio per osservare la vostra tradizione». Vale a dire, trovare il modo per mantenere una fedeltà formale alla norma dell’indissolubilità mentre nella sostanza la si aggira. E’ un pericolo peraltro che al Concistoro è stato evocato.

Ed è un pericolo che è reso ancora più presente dal fatto che la questione dei divorziati risposati ha ormai assunto un peso più che sproporzionato. Parlando di sfide della Chiesa riguardo alla famiglia, infatti, non si può non notare che questo aspetto riguarda soltanto le Chiese dei paesi occidentali, e anche all’interno di queste non appare certo come il fenomeno numericamente più evidente. Ad esempio, come non constatare che la maggior parte delle persone, anche coloro che vanno in chiesa la domenica, hanno perso qualsiasi consapevolezza di cosa sia la famiglia, che cosa la definisce, quale è il progetto di Dio su di essa? Divorzi e seconde e triple nozze sono solo la conseguenza, così come la tranquilla accettazione di qualsiasi genere di unione. Non sarebbe forse il caso di concentrarsi anzitutto su questo punto, che implica ripensare come accompagnare le coppie al matrimonio? E’ vero, per chi si trova già nei guai è troppo tardi, ma almeno si eviterebbe di moltiplicare in futuro situazioni oggettive di sofferenza.

In ogni caso, la questione dei divorziati risposati riguarda un numero limitato di paesi e andando verso un Sinodo che vede coinvolte le Chiese di tutto il mondo stupisce che non si parli di altro. Eppure le sfide riguardo alla famiglia sono molte e anche gravi. Dai tentativi in sede internazionale di ridefinirne il significato ai matrimoni forzati in Africa e Asia, dalla schiavitù del prezzo delle spose alla poligamia, le sfide che la Chiesa incontra sul suo cammino sono molte. Ridurre tutto il dibattito ai divorziati risposati – pur senza voler minimizzare la sofferenza di chi si trova in certe condizioni - sembra il dramma di una Chiesa che non solo non arriva alle periferie esistenziali ma non riesce neanche a sollevare lo sguardo dal proprio ombelico.

Stimolati da questo, abbiamo perciò deciso di andare a vedere quali problemi concreti e quale sfide relative alla famiglia debbano affrontare le Chiese d’Africa, Asia e America Latina. E li pubblicheremo nei prossimi giorni.








La nuova Bussola Quotidiana 24-02-2014

Tavola rotonda a Pisa











Derive antropologiche. Gender, a Roma maestre «rieducate»







Luca Liverani 

Di cosa hanno bisogno i bambini degli asili nido e delle scuole del­l’infanzia? Ma è chiaro: di essere e­ducati alla «pluralità dei modelli fami­liari e dei ruoli sessuali», con percorsi che passino «per la decostruzione degli ste­reotipi ». E ciò perché «la disparità di ge­nere e la persistenza di ruoli tradiziona­li sono ancora ben presenti nel sistema educativo italiano». Possibile? Sì, dice il Campidoglio, è sui bambini da 0 a 6 an­ni che bisogna lavorare per combattere «il femminicidio, l’omofobia e il bulli­smo».

È tutto nero su bianco, nella circolare ­datata 13 novembre 2013 - del diparti­mento Servizi educativi e scolastici del Comune che ha avviato il 20 febbraio il «Piano di aggiornamento per l’anno sco­lastico 2013-2014 per le educatrici dei Ni­di e le insegnanti delle Scuole dell’infan­zia di Roma Capitale». Firmato: la diri­gente Patrizia Piomboni. Un progetto strutturato in «22 ore di aggiornamento di base», che ha per tema «l’identità e la differenza di genere» per i circa 7mila in­segnanti e addetti di nidi e asili romani. E sta già sollevando proteste tra i genito­ri che si sentono scippati del diritto-do- vere all’educazione.

In consiglio comunale è già stata depo­sitata una proposta di delibera del con­sigliere Gianluigi De Palo, per ribadire l’i­neludibilità della collaborazione tra scuola e famiglie sui temi dell’educazio­ne sessuale: la proposta chiede «pieno e formale consenso» preventivo dei geni­tori su queste tematiche e «programmi didattici alternativi ove necessario». In attesa che entri nel calendario delle vo­tazioni dell’Aula capitolina, nel II Muni­cipio l’ha presentata il consigliere Giu­seppe Scicchitano di Cittadini x Roma: «Le insegnanti dell’asilo di Villa Chigi hanno cominciato questa formazione – dice – e molte famiglie si sono allarma­te ». La delibera, uguale a quella che at­tende il voto in Campidoglio, ha avuto il sì all’unanimità, il 20 febbraio, del parla­mentino municipale, guidato dal mini­sindaco di centrosinistra Giuseppe Ge­race.

L’aggiornamento degli educatori e degli insegnanti comunali, intanto, è partito. Nel progetto la lotta all’omofobia, si leg­ge, non è l’unico obiettivo: si punta ad­dirittura a contribuire all’uscita del Pae­se dalla crisi. Proprio così: perché la sud­detta «persistenza di ruoli tradizionali» condizionerebbe addirittura «la scelta dei corsi di studio e delle professioni, in mo­do tale da incidere negativamente sulla crescita economica e sullo stato sociale». Basta con queste facoltà sessiste, insom­ma, che escludono le matricole di sesso femminile e deprimono l’economia.

Tra le diverse finalità del progetto c’è ­come già detto - quello di «sostenere la parità donna/uomo, la pluralità dei mo­delli familiari e dei ruoli sessuali»; «favo­rire le insegnanti/educatrici nella lettu­ra dei processi di identificazione degli stereotipi e dei pregiudizi di genere», che dilagano, evidentemente, nei nidi e ne­gli asili; «sollecitare riflessioni sul peso dei modelli culturali, familiari e sociali»; «sostenere» il personale «nella messa a punto di pratiche educative che favori­scano una serena scoperta delle identità in bambine e bambini attraverso lo scambio, la conoscenza reciproca e – si aggiunge – la sperimentazione delle dif­ferenze ». Insomma: con questo proget­to di aggiornamento «si vuole favorire la formazione di personalità libere e per la decostruzione degli stereotipi».

Un altro mattone, insomma, nel monu­mento all’ideologia del gender che il Campidoglio sta tenacemente costruen­do. Un mese fa la presentazione del pro­getto Lecosecambiano@Roma, promos­so dall’assessorato Scuola, su richiesta degli istituti, contro il bullismo omofo­bico. Tra gli obiettivi: «Contribuire alla lotta contro “l’omofobia interiorizzata e sociale”, promuovendo un nuovo ap­proccio alla molteplicità degli orienta­menti sessuali e delle identità di gene­re », anche favorendo «una visione posi­tiva attraverso concrete testimonianze» nelle scuole di testimonial filo-gay del mondo dello spettacolo e della cultura e rappresentanti di associazioni Lgbt.

Due settimane fa, poi, il bando per la se­lezione interna al personale comunale, per individuare esperti in «politiche di genere e Lgbt» per potenziare il diparti­mento Servizi educativi e scolastici. Lo stesso che ora lancia la formazione degli educatori, nel comparto scolastico della prima infanzia su cui il Comune ha car­ta bianca.​​​​





Avvenire 23 febbraio 2014


domenica 23 febbraio 2014

DUE PAPI IN SAN PIETRO. I PERCHE’ DI UN EVENTO MAI VISTO IN DUEMILA ANNI





Antonio Socci

Nella storia bimillenaria della Chiesa nessuno prima di ieri aveva mai visto in San Pietro due papi insieme e che si abbracciano come fratelli. E’ accaduto al Concistoro dove Francesco ha invitato a partecipare il papa emerito Benedetto XVI.
Francesco ha deviato la solenne processione d’ingresso per andare a salutarlo (poi, uscendo dalla basilica, ha deviato di nuovo per tornare da lui e scambiare alcune parole).
E’ la terza volta che i media immortalano il loro abbraccio. Nel marzo scorso a Castelgandolfo, poi nei giardini vaticani per la benedizione di una statua di San Michele Arcangelo.
Altre volte si sono incontrati e si incontrano privatamente a colazione, lontano dai giornalisti.
Ma quello di ieri è un caso particolare perché era una cerimonia pubblica solenne nella Basilica di San Pietro. Era un avvenimento ecclesiale molto importante, perché si trattava della creazione di 19 nuovi cardinali.
Per questo la partecipazione di papa Ratzinger ha avuto un rilievo particolare: è stata la prima volta, dal giorno del suo ritiro, che ha partecipato a una cerimonia pubblica. Doppiamente significativa questa sua presenza perché ieri, per la Chiesa, era la festa della Cattedra di San Pietro, quindi la festa del Papato.

IL MISTERO DELLA RINUNCIA

Prima di chiedersi cosa può significare questo “Concistoro dei due papi” (come è stato subito definito), bisogna constatare che Benedetto XVI è apparso in una buona forma fisica.
Sul suo vigore intellettuale non ci sono dubbi e chi ne avesse avuti li ha visti dissolvere, a settembre scorso, leggendo la formidabile risposta che Ratzinger ha fatto a un libro di Piergiorgio Odifreddi.
Una risposta pubblica in cui – pur con la sua consueta cortesia – gli ha impartito una vera e propria lezione. Scorrendo quelle pagine si può constatare che Ratzinger non è solo l’intelligenza più lucida (e ortodossa) della Chiesa, ma anche una delle menti più illuminate della nostra epoca.
Però la constatazione della sua buona forma fisica e della sua perfetta lucidità intellettuale, ripropone mille domande sui motivi della sua “rinuncia”.
Tutti i papi infatti, nel corso dei secoli, hanno vissuto i loro ultimi anni di pontificato disponendo di forze molto ridotte per l’avanzata età (basti ricordare il grande Giovanni Paolo II che ha fatto dell’ultimo suo periodo di ministero una testimonianza dalla croce).
E’ obiettivamente inspiegabile dunque il “ritiro” di un papa come Benedetto XVI che è tuttora in salute e perfettamente efficiente. Considerata la guerra spietata che gli è stata fatta, anche dentro alla Curia e alla Chiesa, fin dalla sua elezione, nel 2005, è del tutto legittimo sospettare che vi siano state pressioni indebite per indurlo al “ritiro”. O comunque che siano state create le condizioni per spingerlo a quel passo.

PAPA PER SEMPRE

Veniamo ora alle immagini viste ieri in San Pietro. Un vaticanista, ha scritto, in rete, che “Benedetto XVI, vestito di bianco, con il soprabito, era seduto in prima fila, come primo tra i cardinali”.
Solo che egli non è affatto un cardinale e neanche “il primo fra i cardinali”. Quello che è lo ha detto il Segretario di Stato Parolin, dopo aver salutato papa Francesco: “Salutiamo, con uguale affetto e venerazione, il Papa emerito, Sua Santità Benedetto XVI, lieti per la sua presenza in mezzo a noi…”.
Del resto lo stesso Francesco, l’11 febbraio scorso, lo ha chiamato “Sua Santità Benedetto XVI”. Molti sembra che non si accorgano dell’eccezionalità di questa situazione, della sua unicità, in tutta la storia della Chiesa. Evidentemente è dovuta ai tempi che la Chiesa si trova a vivere.
Ieri è stato lo stesso Francesco a renderla evidente al mondo intero. Vedendo quelle immagini infatti tornavano in mente (con tutte le domande del caso) le parole di Benedetto XVI, pronunciate il 27 febbraio 2013, quelle parole che sembra siano state rimosse da molti: “Il ‘sempre’ è anche un ‘per sempre’ - non c’è più un ritornare nel privato. La mia decisione di rinunciare all’esercizio attivo del ministero, non revoca questo”.
Ieri era evidente che “l’esercizio attivo del ministero” petrino è svolto da papa Francesco, ma pure che quel ministero, per quanto riguarda Benedetto XVI, non è “revocato” ed è “per sempre”.
Cosa significhi dal punto di vista ecclesiale non so dirlo. Ma il dovere dei giornalisti è quello di descrivere la realtà dei fatti così come sono, e, nel caso, di fare domande e chiedere spiegazioni e cercare di capire.

PERCHE’ E’ TORNATO

Eccoci dunque alla domanda sul significato della scelta di papa Francesco. Perché ha voluto Benedetto ieri in San Pietro al solenne Concistoro?
Forse è stato un gesto di cortesia. E’ la risposta più immediata. Ma forse anche la più banale e, a ben vedere, del tutto insoddisfacente.
Perché questo evento accade dopo un anno dal loro avvicendamento, un anno durante il quale ce ne sono state molte altre di cerimonie a cui Benedetto XVI avrebbe potuto partecipare. A cominciare dalla messa d’insediamento di Francesco.
Se dopo un anno si verifica un fatto del genere, che interrompe – per comune volontà di Bergoglio e di Ratzinger – l’“assenza” di Benedetto XVI dal mondo (che era stata annunciata come totale e definitiva), il motivo probabilmente è diverso. Più profondo e importante.
Nessuno è nella mente dei due papi, quindi è inutile fare illazioni. C’è però una coincidenza che fa riflettere. Proprio l’altroieri il Concistoro era stato aperto dalla relazione del cardinale Kasper sui temi caldissimi del prossimo Sinodo (relativi alle questioni della famiglia e dell’accesso ai sacramenti).
Kasper rappresenta le fazioni progressiste-moderniste della Chiesa, quelle che vogliono andare verso un sostanziale annacquamento della dottrina, ovvero – a mio avviso – verso l’autodemolizione della Chiesa, resa subalterna alle ideologie mondane.
Ratzinger – prima da cardinale, braccio destro di Giovanni Paolo II – e poi da Papa, è sempre stato considerato da queste fazioni come il grande avversario.
Egli ha rappresentato e rappresenta infatti non solo l’ortodossia, la fedeltà alla tradizione della Chiesa, ma anche una straordinaria intelligenza cattolica, capace di dialogare col mondo senza sottomettersi ad esso e – anzi – affascinando e attraendo le migliori intelligenze laiche.

CHIESA SOTTO ATTACCO

Nelle scorse settimane si sono fatte sentire molto le fazioni ecclesiastiche che vorrebbero fare del Sinodo una sorta di Vaticano III.
Del resto dall’esterno sono arrivate pressioni gravissime per un “rovesciamento” della dottrina cattolica: basti ricordare il recente fazioso attacco dell’Onu alla Chiesa.
Ma la presenza ieri in San Pietro, al Concistoro, di “Sua Santità Benedetto XVI”, chiesta da Francesco, è uno di quei fatti che parlano da soli.
Che fanno fare memoria della retta via e della retta dottrina. Dal momento che il dovere principale del Papa è proprio la custodia del “depositum fidei”.
Del resto la stessa omelia di Francesco, ieri, è stata – per così dire – di sapore ratzingeriano. Il Papa ha detto infatti ai nuovi cardinali: “La Chiesa ha bisogno del vostro coraggio, per annunciare il Vangelo in ogni occasione opportuna e non opportuna, e per dare testimonianza alla verità”.
Ha aggiunto che “la strada che Gesù sceglie è la via della croce… Diversamente dai discepoli di allora”, ha osservato il Papa “noi sappiamo che Gesù ha vinto, e non dovremmo avere paura della croce, anzi, nella croce abbiamo la nostra speranza. Eppure, siamo anche noi pur sempre umani, peccatori, e siamo esposti alla tentazione di pensare alla maniera degli uomini e non di Dio”.
Questo modo mondano di pensare produce poi “le rivalità, le invidie, le fazioni”. Il Papa ha chiesto dunque ai cardinali di respingere la mentalità del mondo.
Infine ha ricordato ai pastori che il gregge di Cristo è perseguitato in molte parti del pianeta, invitando a “lottare contro ogni discriminazione”, a pregare per questi fedeli e a confortarli nella prova in tutti i modi. Francesco ha parlato come Benedetto.



Da “Libero”, 23 febbraio 2014
Lo Straniero 23 febbraio 2014


sabato 22 febbraio 2014

Il Papa emerito partecipa al concistoro








Benedetto XVI presente in basilica durante la cerimonia per la creazione di 19 nuovi cardinali



Andrea Tornielli
Città del Vaticano
«Salutiamo, con uguale affetto e venerazione, il Papa emerito, Sua Santità Benedetto XVI, lieti per la sua presenza in mezzo a noi...». Con queste parole il neo-cardinale Pietro Parolin, Segretario di Stato, nel suo saluto iniziale, si è rivolto a Ratzinger nel giorno della sua prima uscita pubblica e ufficiale a un anno di distanza dalla storica rinuncia al papato.

Il Papa e il suo predecessore emerito presenti insieme nella basilica di San Pietro, in uno dei momenti più significativi della vita della Chiesa cattolica, la creazione dei nuovi porporati, arcivescovi e vescovi di vari Paesi - molti dei quali provenienti dalle periferie del mondo - e alcuni collaboratori della Curia, vengono aggregati al clero di Roma e diventano elettori del Papa.

Benedetto XVI, vestito di bianco, con il soprabito, era seduto in prima fila, come primo tra i cardinali. E ha assistito alla cerimonia su invito del suo successore Francesco. Il Papa, entrando nella Basilica vaticana, era andato incontro al suo predecessore per salutarlo, e Ratzinger davanti al Pontefice si è tolto lo zucchetto.



Vatican Insider   22/02/2014 

venerdì 21 febbraio 2014

Il doppio gioco del diavolo, pro e contro papa Francesco




Un rapporto dell'ONU umilia la Chiesa esaltando l'attuale pontefice. Che non reagisce e tace anche dopo che il Belgio ha legalizzato l'eutanasia dei bambini. I rischi della strategia del silenzio adottata da Bergoglio



di Sandro Magister


ROMA, 21 febbraio 2014 – A quasi un anno dall'elezione a papa, la popolarità di Francesco continua la sua marcia trionfale. Ma lui stesso è il primo a non volersi fidare degli applausi che gli arrivano dalle tribune anche più inaspettate e lontane.

Ad esempio la copertina che gli ha dedicato la rivista "Rolling Stone", un'incoronazione in piena regola dal tempio della cultura pop.

Oppure l'encomio che il rapporto del comitato dell'ONU per i diritti dei fanciulli ha tributato al famoso "Chi sono io per giudicare?" detto da papa Francesco, unico risparmiato in una Chiesa cattolica contro cui nello stesso rapporto si dice il peggio del peggio.

Nelle sue prime omelie mattutine da papa, Jorge Mario Bergoglio nominava spesso il diavolo. E anche questo suo dire piaceva, faceva tenerezza.

Ma una mattina, era il 19 novembre, invece che col diavolo egli se la prese col "pensiero unico frutto della mondanità", che tutto vuole sottomettere a "uniformità egemonica". Un pensiero unico, proseguì, che già domina il mondo e legalizza anche "le condanne a morte", anche "i sacrifici umani" con tanto di "leggi che li proteggono". E citò uno dei suoi romanzi preferiti, l'apocalittico "Il padrone del mondo" di Robert H. Benson.

Quando ai primi di questo mese di febbraio ha sfogliato le sedici pagine del rapporto dell'ONU, che perentoriamente ingiungono alla Chiesa cattolica di "correggere" la sua dottrina sull'aborto, sulla famiglia, sul sesso, Francesco dev'essersi ancor più convinto che i fatti gli stavano dando ragione, che il principe di questo mondo era davvero all'opera e voleva associare persino lui, il papa, adulando le sue decantate "aperture", all'impresa di uniformare la Chiesa al pensiero egemone, per annientarla.

Non è facile entrare nella mente di papa Bergoglio. Le sue parole sono come tessere di un mosaico di cui però non appare immediatamente il disegno. Dice cose anche forti, anche aspre, ma mai nel momento in cui potrebbero generare conflitto.

Avesse pronunciato quella sua tremenda omelia contro il pensiero unico che vuole egemonizzare il mondo il giorno dopo la pubblicazione del rapporto dell'ONU e in esplicita risposta ad esso, l'evento sarebbe entrato tra le "breaking news" dell'informazione mondiale. Ma così non è stato. Detta in una data qualunque, quella stessa omelia non provocò il minimo sconquasso. Fu ignorata.

Eppure è proprio lì che va letto il pensiero recondito del papa gesuita, il suo giudizio sull'epoca presente del mondo.

"Il parere della Chiesa lo si conosce, e io sono figlio della Chiesa", dice e ridice Francesco. Il suo pensiero è lo stesso che è scritto nel catechismo. E qualche volta lo ricorda polemicamente a chi si aspetta da lui un cambio di dottrina, come nel passaggio meno citato della sua "Evangelii gaudium", dove ha parole durissime contro il "diritto" d'aborto.

Ma mai che proclami a voce alta la dottrina della Chiesa sui punti e nei momenti in cui lo scontro si fa incandescente.

Ha taciuto ora che in Belgio è stata consentita per legge l'eutanasia dei bambini. Si tiene appartato dai milioni di cittadini di ogni fede che in Francia e in altri paesi si oppongono alla dissoluzione dell'idea di famiglia fatta di padre, madre e figli. È restato in silenzio dopo l'inaudito affronto del rapporto dell'ONU.

Con ciò egli si prefigge di spuntare le armi al nemico. Di sconfiggerlo con la popolarità immensa della sua figura di pastore della misericordia di Dio.

C'è un attacco alla Chiesa di tipo giacobino, in Francia e altrove, che semplicemente la vuole estromettere dal consorzio civile.

Ma c'è anche un attacco più sottile, che si ammanta di consenso a una Chiesa rifatta nuova, aggiornata, al passo con i tempi. C'è anche questo nella popolarità di Francesco, un papa "come mai prima ce n'erano stati", finalmente "uno di noi", modellato col copia e incolla di sue frasi aperte, polivalenti.

Contro il suo predecessore Benedetto XVI questa astuzia mondana non poteva essere esercitata. Lui, il mite, preferiva il conflitto in campo aperto, col coraggio del sì sì no no, "opportune et importune", come a Ratisbona, quando tolse il velo alle radici teologiche del legame tra fede e violenza nell'islam, e poi ancora sulle questioni "non negoziabili". Per questo il mondo fu così feroce con lui.

Con Francesco è diverso. Altra partita. Ma nemmeno lui sa come il gioco proseguirà, ora che si fa più duro.




http://chiesa.espresso.repubblica.it


giovedì 20 febbraio 2014

I poveri nella lettera del Papa ai giovani





di Silvio Brachetta

Con il recente Messaggio (21 gennaio) per la XXIXª Giornata mondiale della Gioventù (Gmg del 13 aprile 2014), Papa Francesco continua una riflessione, di notevole profondità teologica, sul tema della povertà evangelica, già avviata ad esempio nel Messaggio (26/12/2013) per la Quaresima di quest’anno. La povertà cristiana, specificava il Papa nel Messaggio quaresimale, «non coincide» con la miseria, perché «la miseria è la povertà senza fiducia, senza solidarietà, senza speranza». Così anche Gesù Cristo «svuotò se stesso» (Fil 2, 7) e divenne povero, non per via di una predilezione della miseria, ma affinché noi potessimo diventare «ricchi per mezzo della sua povertà» (2 Cor 8, 9). È anzi una vera testimonianza evangelica, nonché un’autentica sequela di Cristo, il voler combattere la «miseria materiale», «morale» e «spirituale», al di là di ogni «pietismo filantropico».

Il Dio che ci presenta il Pontefice è dunque, ad esempio, il Dio di santa Caterina da Siena, per la quale «Egli è somma ed eterna ricchezza» (“Lettere”, n. XLVIII). Santa Caterina esaltava spesso la povertà, che permette di eliminare la ricchezza mondana, frutto d’egoismo. Ed esortava la ricerca della vera ricchezza spirituale, che si trova nel corrispondere alla grazia e nell’accrescimento della virtù. Anche nel Messaggio per la Gmg, il Santo Padre specifica che Dio «da ricco che era, si è fatto povero per arricchirci per mezzo della sua povertà» (cf 2 Cor 8, 9). È questo il senso - scrive - per interpretare una delle beatitudini del Discorso della montagna, tema della Giornata mondiale: «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli» (Mt 5, 3). Quello della povertà spirituale, è «il mistero che contempliamo nel presepio, vedendo il Figlio di Dio in una mangiatoia», o sulla «croce, dove la spogliazione giunge al culmine».

Papa Francesco precisa che, nel testo greco originale del Vangelo secondo Matteo, l’«aggettivo greco ptochós (povero) non ha un significato soltanto materiale, ma vuol dire “mendicante”», nel senso di qualcuno che «evoca umiltà» e «consapevolezza dei propri limiti». Così come gli «anawim» - i «poveri di Iahweh» dell’Antico Testamento - «si fidano del Signore», sapendo di «dipendere da Lui». E tra i santi, il pensiero corre subito a san Francesco d’Assisi, che visse «l’imitazione di Cristo povero e l’amore per i poveri in modo inscindibile, come le due facce di una stessa medaglia». Come, allora, trasformare la povertà spirituale in uno stile di vita concreto? Il Santo Padre indica tre maniere. Innanzi tutto è necessario assumere in noi stessi la povertà, cercando di «essere liberi nei confronti delle cose», nel distacco «dalla brama di avere», dall’idolatria nei confronti del denaro. Poi concentrando lo sguardo su coloro che vivono una situazione di povertà materiale e spirituale: «vincendo la tentazione dell’indifferenza», dobbiamo «imparare a stare con i poveri», poiché costoro «sono per noi un’occasione concreta di incontrare Cristo stesso». Abbiamo, cioè, «tutti bisogno di conversione per quanto riguarda i poveri». Infine, potremo incarnare la povertà imparando dai poveri molte cose sull’«umiltà» e sulla «fiducia in Dio». Essi, infatti, «hanno tanto da offrirci e da insegnarci», essendo per noi «come maestri» di saggezza.

Ai giovani il Papa indica le Beatitudini come «via della vera felicità», opposta a ciò «che di solito viene comunicato dai media, dal pensiero dominante». Difatti «beati» - in greco «makarioi» - vuol dire «felici». Per questo il Pontefice sprona ad «andare contro corrente» e ad affrancarsi da una prassi mondana sempre in cerca del successo o del piacere effimero. Ai «poveri in spirito», quindi, appartiene «il regno dei cieli», già presente, ma non ancora compiuto in pienezza. Papa Francesco esorta anche i giovani ad identificarsi in Maria, «povera in spirito», intonando assieme a Lei il Magnificat, che è «il canto di chi vive le Beatitudini». La Vergine è «beata», perché il suo «cuore povero» ha saputo «esultare e meravigliarsi per le opere di Dio».




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mercoledì 19 febbraio 2014

Papa Francesco: "La Confessione è un sacramento di guarigione!"






Durante la catechesi di oggi il pontefice si è soffermato sul valore della Confessione


Radio Vaticana 

Il Sacramento della Riconciliazione “è un Sacramento di guarigione”. E il perdono che ne scaturisce può essere dato solo da Dio, che fa festa ogni volta che un peccatore glieLo chiede. A questo Sacramento bisogna quindi accostarsi senza “pura” né “vergogna”. Sono alcuni dei pensieri espressi da Papa Francesco all’udienza generale di stamattina in Piazza San Pietro, davanti a oltre 20 mila persone. Di seguito, ampi stralci della catechesi del Papa: 

“Attraverso i Sacramenti dell’iniziazione cristiana, il Battesimo, la Confermazione e l’Eucaristia, l’uomo riceve la vita nuova in Cristo. Ora, tutti lo sappiamo, portiamo questa vita “in vasi di creta” (2 Cor 4,7), siamo ancora sottomessi alla tentazione, alla sofferenza, alla morte e, a causa del peccato, possiamo persino perdere la nuova vita. Per questo il Signore Gesù ha voluto che la Chiesa continui la sua opera di salvezza anche verso le proprie membra, in particolare con il Sacramento della Riconciliazione e quello dell’Unzione degli infermi, che possono essere uniti sotto il nome di «Sacramenti di guarigione». Il Sacramento della Riconciliazione è un Sacramento di guarigione. Quando io vado a confessarmi, e per guarirmi: guarirmi l’anima, guarirmi il cuore per qualcosa che ho fatto che non sta bene. L’icona biblica che li esprime al meglio, nel loro profondo legame, è l’episodio del perdono e della guarigione del paralitico, dove il Signore Gesù si rivela allo stesso tempo medico delle anime e dei corpi.

Il Sacramento della Penitenza e della Riconciliazione – anche, noi lo chiamiamo della Confessione – scaturisce direttamente dal mistero pasquale. Infatti, la stessa sera di Pasqua il Signore apparve ai discepoli, chiusi nel cenacolo, e, dopo aver rivolto loro il saluto “Pace a voi!”, soffiò su di loro e disse: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati» (Gv 20,21-23). Questo passo ci svela la dinamica più profonda che è contenuta in questo Sacramento. Anzitutto, il fatto che il perdono dei nostri peccati non è qualcosa che possiamo darci noi: io non posso dire: “Io mi perdono i peccati”. Il perdono si chiede, si chiede ad un altro, e nella Confessione chiediamo il perdono a Gesù. Il perdono non è frutto dei nostri sforzi, ma è un regalo, è un dono dello Spirito Santo, che ci ricolma del lavacro di misericordia e di grazia che sgorga incessantemente dal cuore spalancato del Cristo crocifisso e risorto. In secondo luogo, ci ricorda che solo se ci lasciamo riconciliare nel Signore Gesù col Padre e con i fratelli possiamo essere veramente nella pace (…)

Qualcuno può dire: “Io mi confesso soltanto con Dio”. Sì, tu puoi dire a Dio: ‘Perdonami’, e dire i tuoi peccati. Ma i nostri peccati sono anche contro i fratelli, contro la Chiesa e per questo è necessario chiedere perdono alla Chiesa e ai fratelli, nella persona del sacerdote. ‘Ma, Padre, io mi vergogno!’. Anche la vergogna è buona, è salute avere un po’ di vergogna, perché vergognarsi è salutare (…) La vergogna anche fa bene, perché ci fa più umili. E il sacerdote riceve con amore e con tenerezza questa confessione, e in nome di Dio perdona (...) Non abbiate paura della Confessione. Uno, quando è in fila per confessarsi sente tutte queste cose – anche la vergogna – ma poi, quando finisce la confessione esce libero, grande, bello, perdonato, bianco, felice. E questo è il bello della Confessione (...) Ognuno si risponda nel suo cuore: quando è stata l’ultima volta che ti sei confessato o ti sei confessata? Ognuno pensi. Due giorni – due settimane – due anni – vent’anni – quarant’anni? Ma, ognuno faccia il conto, e ognuno si dica: quando è stata l’ultima volta che io mi sono confessato. E se è passato tanto tempo, non perdere un giorno di più: vai avanti, che il sacerdote sarà buono. E’ Gesù, lì, e Gesù è più buono dei preti, e Gesù ti riceve. Ti riceve con tanto amore. Sii coraggioso, e avanti alla Confessione.

Cari amici, celebrare il Sacramento della Riconciliazione significa essere avvolti in un abbraccio caloroso: è l’abbraccio dell’infinita misericordia del Padre. Ricordiamo quella bella, bella Parabola del figlio che se n’è andato da casa sua con i soldi dell’eredità, ha sprecato tutti i soldi e poi, quando non aveva niente, ha deciso di tornare a casa, ma non come figlio, ma come servo. Tanta colpa aveva nel suo cuore, e tanta vergogna. E la sorpresa è stata che quando ha incominciato a parlare e a chiedere perdono, il Padre non l’ha lasciato parlare: l’ha abbracciato, l’ha baciato e ha fatto festa. Ma, io vi dico: ogni volta che noi ci confessiamo, Dio ci abbraccia".




martedì 18 febbraio 2014

PER UNA DEVOTA FREQUENTAZIONE DELLA CASA DI DIO E PER UN BUON RAPPORTO CON GESÙ EUCARISTIA







di Don Leonardo Maria Pompei

1. Il luogo sacro: tempio e casa di Dio

In tutti i popoli ed in tutte le culture, da sempre, si è avvertita l’esigenza di delimitare uno spazio, circoscrivere un luogo, determinare un ambiente che favorisse l’incontro tra l’uomo e la divinità. Noi italiani possiamo tuttora oggi ammirare le rovine degli antichi (e splendidi) templi pagani di Roma, ma lo stesso possono fare in Grecia, in America Latina, in Africa, in Asia: l’uomo ha sempre sentito che doveva esserci Qualcosa, o meglio Qualcuno di più grande di lui e che era necessario definire un posto in cui fosse possibile cercare una qualche forma di contatto con questo Misterioso Essere. Gli Ebrei, nostri padri e fratelli maggiori (così li definì Giovanni Paolo II), costruirono a Dio un tempio grande, meraviglioso e imponente, purtroppo completamente raso al suolo dall’Imperatore Adriano e di cui oggi si possono ammirare solo le fondamenta del lato occidentale (il famoso “Muro del pianto”): essi sapevano e credevano che nel cuore del Tempio ci fosse la presenza viva e vera di Jahvè, la dimora della sua Gloria, un luogo in cui Egli era, parlava ed ascoltava le preghiere di ogni figlio del suo popolo. Con l’avvento del Cristianesimo questa convinzione si è ulteriormente rafforzata: Gesù, infatti, ha istituito il sacramento dell’Eucaristia, in cui, per un miracolo a noi incomprensibile e di cui gli angeli stessi stupiscono, trasforma la sostanza del pane senza lievito nella sua vera Carne, in cui Egli è e rimane presente sostanzialmente, ovvero con tutto se stesso: Corpo, Sangue, Anima e Divinità. La Chiesa ha chiamato questo miracolo con il nome di transustanziazione, termine che significa per l’appunto “cambiamento di sostanza”: non più pane di farina, ma Gesù in persona. Fin quando sussistono le sacre specie, dunque, Egli è personalmente e realmente presente in esse. Nelle nostre Chiese, dunque, nei tabernacoli di esse, c’è la presenza viva, vera, reale e personale di nostro Signore Gesù Cristo: sono la Casa di Dio per eccellenza, in cui abita Dio in persona, con una presenza viva e vera (anche se silenziosa e misteriosa), che richiede di essere creduta, riconosciuta ed onorata come merita.

2. Il tempio è una casa di preghiera

Fu Gesù in persona, quando scacciò i mercanti dal Tempio, a pronunciare questa frase: “il tempio è una casa di preghiera”. Vuol dire che tutto ciò che si fa, che si dice e che si svolge al suo interno deve avere come fine la preghiera, ovvero deve favorire la preghiera o almeno non impedirla o disturbarla. La preghiera, dice santa Teresa, non è altro che un intimo dialogo e colloquio con Colui che ci ama infinitamente e che si compiace di ascoltarci, di esaudirci, di parlarci. La Sua Voce, però, non è suono percepibile dall’orecchio, ma un pensiero dolce e soave, intimo e delicato, che io magari percepisco come “un mio pensiero”, quando invece è la Voce del mio Dio che parla al mio cuore. È necessario un grande raccoglimento e un profondo silenzio per poterla udire: ecco perché, nelle nostre Chiese, è richiesta una grande attenzione per mantenere un clima di profondissimo silenzio, dentro il luogo sacro e, possibilmente, anche nella zona circostante. Bisogna pian piano abituarsi a non parlare mai ad alta voce, ma sempre a voce sommessa, quasi soffusa e parlare solo di ciò che è indispensabile dire o che la carità fraterna esige che sia detto. Si può senza dubbio pregare ad alta voce, cantare al Signore con tutto il cuore, leggere la sua Parola, commentarla, fare una catechesi in Chiesa; ma non “chiacchierare”, nemmeno fare una buona e amichevole conversazione, cose che rivestono una grande importanza e valenza anche per noi cristiani, ma che non trovano nel luogo Sacro il luogo ideale per svolgersi. Quando sono in Chiesa sono più che mai alla presenza di Dio (anche se Lui mi vede sempre e dovunque mi trovo); ma sono anche nel luogo che è consacrato perché lo si usi solo per ciò che attiene al suo onore, al suo culto, alla sua ricerca. Tutto quello che noi vediamo in una Chiesa cristiana, la bellezza degli arredi sacri, l’architettura, le sculture, le pitture, gli strumenti del culto, sono pensati, voluti e fatti solo per rendere culto a Dio, per dirgli che Lui è bello, che Lui solo è grande, che Lui solo merita tutto il nostro amore, tutta la nostra dedizione, tutta la nostra adorazione. Ed anche per aiutare chiunque entra nel luogo Sacro (anche attraverso la sua bellezza di cui tanto parla Papa Benedetto XVI) a prendere coscienza della Bellezza di Dio: la Chiesa, casa e tempio di Dio, dovrebbe essere una rappresentazione (in piccolo) di ciò che è il Paradiso, dove Dio ed i santi abitano in una felicità e delizia piena e sempiterna: entrando in Chiesa, osservandone il decoro, la pulizia ed anche la bellezza (anche modesta, ma sempre dignitosa), ognuno di noi dovrebbe sentire un po’ di nostalgia di Dio e del Paradiso. Il nostro silenzio, il nostro modo di comportarci, il nostro modo decoroso e dignitoso di vestire, di stare ed intrattenerci nel luogo sacro è una parola che noi diciamo a Dio ed anche agli altri. Padre Pio raccomandava ai suoi figli spirituali di essere irreprensibili nel modo di stare nel luogo sacro, proprio perché questo rivela il nostro senso del soprannaturale, la nostra percezione della grandezza dell’Altissimo, il nostro delicato, devoto, garbato e filiale modo di manifestargli tutto il nostro affetto, amore e adorazione.

3. Alcune indicazioni pratiche

La prima cosa da fare, appena si entra in Chiesa, è volgere lo sguardo verso il Tabernacolo, che è indicato dalla lampada che brilla ininterrottamente a fianco ad esso, e adorare il Signore, realmente presente nel Tabernacolo, con il gesto della genuflessione, che consiste nel piegare il ginocchio destro, toccando con esso la terra, mentre mentalmente si rivolge un’espressione di amorevole saluto al Signore. Dopo la genuflessione, il primo gesto da compiere è il segno della croce, preferibilmente con l’acqua santa, avendo cura di compiere questo gesto con rispetto e devozione, mai in modo frettoloso o distratto. Con questo semplice gesto, infatti, si compiono moltissimi atti di fede: si dichiara di credere nella Santissima Trinità, le cui tre divine Persone si nominano (“nel nome del Padre, e del Figlio e dello Spirito Santo); tracciando il segno della croce, ci si ricorda del patibolo su cui nostro Signore Gesù è stato ucciso, per salvarci dai nostri peccati; questi due misteri (che sono quelli principali della nostra fede cattolica) ci si impegna a tenerli fissi nella mente (si porta la mano su di essa), ad amarli con tutto il cuore (si porta la mano sul cuore) a servirli con tutte le forze (si porta la mano sulle due spalle): e questo, come insegna Gesù, è il primo e il più grande di tutti i comandamenti (“amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua mente e con tutte le tue forze”). Fatti questi gesti, si può andare al banco per rivolgere una preghiera a Gesù, oppure accendere una candela (simbolo della nostra devozione: accendo una candela per dire a Gesù, a Maria o a un santo, che voglio che la mia piccola vita sia consumata per loro, come la fiamma consuma la cera della candela e per “illuminarli”, ovvero per farli vedere a tutti attraverso la mia vita protesa verso la santità). Padre Pio raccomandava, quando si prega in Chiesa, di non divagare con lo sguardo, non girarsi a vedere chi entra e chi esce, etc.: rimango in dolce colloquio con Gesù, gli parlo, lo ascolto, lo lodo, lo ringrazio, gli chiedo le cose di cui ho bisogno. E quando uscirò dalla Chiesa compirò gli stessi gesti di quando sono entrato. La piccola Bernardetta di Lourdes disse che rimase sbalordita (in senso positivo) nel vedere come la Madonna si faceva il segno della Croce, con quanto rispetto, amore e devozione; san Josè Maria Escrivà raccomandava ai suoi figli di fare con molta devozione la genuflessione, evitando di fare strani gesti o pseudo inchini che sembrano quasi “una burla”. Sono infatti gesti che Gesù vede e con cui gli comunichiamo il nostro amore: pensiamo alla differenza tra il ricevere una carezza o un bacetto affettuoso da un nostro familiare, oppure un gesto di circostanza o un bacio dato per abitudine, freddo e senza amore. L’Immacolata Vergine Maria Santissima, i Santi e il nostro Angelo custode ci insegnino ad essere sempre molto delicati e affettuosi verso Gesù, il cui Cuore che pulsa nei nostri Tabernacoli, è un roveto ardente di amore sconfinato verso tutti e ciascuno di noi.

4. Il tempio è un luogo di culto: il sacrificio della Santa Messa

Oltre che casa di preghiera, il tempio è anche il luogo del culto, in cui si offre a Dio il sacrificio a Lui gradito per eccellenza, anzi l’unico che Egli gradisce: quello del Suo Figlio Santissimo, Vittima innocente che si è offerto in olocausto al Padre per la nostra salvezza, distruggendo nel crogiuolo delle Sue immense sofferenze tutti i nostri peccati, per ottenerci la riconciliazione con il Padre, la Grazia che abita nelle nostre anime, la possibilità di vivere come amici di Dio. Al Suo Sacrificio, che si perpetua nel corso del tempo e della storia nel santo Sacrificio della Messa, Gesù associa la sua Chiesa, ovvero ogni fedele battezzato, che da Gesù e in Gesù, per Lui e con Lui, deve imparare a trasformare tutta la sua esistenza in “un’offerta viva gradita al Padre”, offrendo a Dio la propria giornata, il proprio lavoro, le proprie piccole o grandi sofferenze, in una parola tutto se stesso. Dio non cerca e non vuole sacrifici di animali (come nell’Antico Testamento) e nemmeno le nostre cose, i nostri beni: Dio desidera il nostro cuore, che Lui ha creato perché potesse conoscerLo, amarLo e servirLo in questa vita, per goderLo eternamente in quella che ci attende nel Cielo. Tutto questo si vive e si compie soprattutto nella celebrazione della Santa Messa. All’inizio di essa tutti noi ci riconosciamo piccoli e miseri davanti a Dio, bisognosi del suo perdono, della sua Parola e della sua grazia (riti di introduzione e atto penitenziale); poi ascoltiamo la sua Parola, che ci insegna a distinguere il vero dal falso, il bene dal male, il bello dal brutto, perché la mettiamo in pratica (liturgia della Parola); poi professiamo la nostra fede in Dio e Gli eleviamo le nostre suppliche (Credo e preghiera dei fedeli). Nell’offertorio il sacerdote offre se stesso e tutti noi come sacrifici viventi a Dio Padre, supplicandoLo che ci accetti in unione al suo Figlio Gesù, divina Vittima (Ostia) che sarà immolata nella liturgia eucaristica. Poi, il sacerdote ringrazia Dio e lo loda per tutti i benefici che ci elargisce (Prefazio). Finalmente si giunge al momento più solenne, più importante, più bello e più grande che esiste nell’universo: attraverso la consacrazione Dio trasforma il pane ed il vino nel Corpo e nel Sangue di Cristo, che vediamo separati come lo furono sul Golgota, quando Gesù moriva offrendo la sua vita per noi nel supplizio della Croce: tutto questo si compie qui ed ora in ogni Messa che si celebra (liturgia eucaristica). Dopo aver pregato il Padre con le parole insegnateci da Gesù, si giunge all’altro momento cardine della Santa Messa: la santa Comunione, in cui si diventa una sola cosa con Gesù in persona, in un mistero ineffabile che comprenderemo solo in cielo: divento una sola carne, un solo sangue, un solo spirito, un solo cuore con Gesù. È la massima unione possibile che si può avere con Dio su questa terra. Dovrebbe diventare il momento in assoluto più bello della nostra vita. È il dono di Gesù, che attende cuori grati e ben disposti ad accoglierlo.

5. Indicazioni per una buona partecipazione alla santa Messa

I Santi davano delle indicazioni molto semplici, ma anche molto incisive: se vuoi partecipare bene alla santa Messa, vivila come se fosse la prima, come se fosse l’ultima, come se fosse l’unica. Non c’è nulla di più grande nell’universo, come insegnava Padre Pio. La partecipazione alla santa Messa deve essere attenta (non distrarsi e non divagare con gli occhi o col pensiero), degna (non ridere, non chiacchierare, rispondere recitando bene le parti riservate ai fedeli), devota (animata dal senso di stare alla presenza di Dio, stando in ginocchio almeno durante la consacrazione e dopo la Comunione, atteggiamento che esprime l’adorazione che a Dio è dovuta e che i santi raccomandavano: Padre Pio, se vedeva qualcuno in piedi alla sua Messa, esclamava imperiosamente: “in ginocchio!”). Vivere ogni momento della Messa in modo consapevole: umiliandosi nei riti introduzione, ascoltando con attenzione durante la liturgia della Parola, offrendosi a Dio durante l’Offertorio, adorando nel più assoluto silenzio durante la consacrazione e la preghiera eucaristica, amando e intrattenendosi in dolce colloquio con Gesù se lo si è ricevuto nella Comunione sacramentale, oppure, se non ci si può accostare ad essa, fare la comunione spirituale, tanto raccomandata dai Santi, rivolgendo a Gesù eucaristico parole come queste: “desidero riceverti, Signore Gesù, con la purezza, l’umiltà e la devozione con cui ti ricevette la tua santissima Madre e con lo spirito e il fervore dei santi”. Terminata la S. Messa è bene uscire in silenzio e riservare l’area del sagrato della Chiesa per intrattenersi fraternamente con i nostri fratelli e sorelle. I Santi raccomandavano di dedicare un congruo tempo al ringraziamento. Il silenzio dopo la comunione serve a questo.

6. Indicazioni per una buona Comunione sacramentale

Per fare una buona comunione è necessario: essere in grazia di Dio, ovvero non avere sulla coscienza alcun peccato grave non confessato, altrimenti è necessario prima confessarsi; rendersi conto di Chi si va a ricevere, prendendo coscienza del dono che Dio ci fa nella santa Comunione; desiderarlo con tutto il cuore; comunicarsi in modo degno e devoto. Si ricordi che il modo attualmente ordinario di ricevere la comunione nella Chiesa Cattolica è comunicarsi in piedi ricevendo l’Ostia in bocca (forma normale), dicendo “Amen” dopo che il sacerdote ha detto “il Corpo di Cristo” e facendo almeno un inchino profondo con la testa in segno di adorazione. È comunque un diritto dei fedeli che lo desiderano quello di ricevere la comunione in ginocchio, prassi che la Chiesa e anche l’attuale Pontefice hanno sempre lodato e incoraggiato come espressione piena dell’adorazione dovuta a Gesù eucaristia; ricevere la Santa Ostia sulle mani è una facoltà (non un diritto né tanto meno un dovere) che è stata concessa dalla Santa Sede su richiesta dei Vescovi, purché si faccia attenzione alla pulizia delle mani e a non lasciare cadere in terra alcun frammento, anche minimo, in cui è presente Gesù tutto intero.









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