sabato 29 febbraio 2020

CINA-SANTA SEDE. Il Vaticano dichiara guerra al cardinale Zen




Una esplosiva lettera firmata dal Decano del Collegio cardinalizio, cardinale Giovanni Battista Re - che la Nuova Bussola Quotidiana ha potuto consultare - attacca duramente l'arcivescovo emerito di Hong Kong, cardinale Zen, reo di criticare l'Accordo segreto tra Cina e Santa Sede che sta costando l'aumento della persecuzione nei confronti dei cattolici. Nella lettera si mescolano giudizi fuorvianti - affermando una inesistente continuità tra la linea di questo pontificato e quella dei precedenti pontefici - a dichiarazioni gravissime: si attribuisce a Benedetto XVI la paternità dell'Accordo attuale e si afferma un cambiamento dottrinale riguardo alla possibilità di Chiese indipendenti.




ECCLESIA
Riccardo Cascioli, 29-02-2020

Il cardinale Joseph Zen è un ostacolo per la Chiesa in Cina, e da ora la Chiesa cattolica potrà anche essere formata da Chiese indipendenti. È questo il succo di una esplosiva e incredibile lettera inviata il 26 febbraio a tutti i cardinali dal decano del Sacro Collegio, il cardinale Giovanni Battista Re, e che la Nuova Bussola Quotidiana ha potuto consultare in esclusiva. Si tratta di un duro e inaudito attacco frontale all’88enne arcivescovo emerito di Hong Kong, fiero oppositore dell’Accordo segreto tra Cina e Santa Sede firmato a Pechino il 22 settembre 2018.

È un gesto senza precedenti, reso ancora più significativo dal fatto che si tratta del primo atto ufficiale (il numero di protocollo è 1/2020) del nuovo decano del Sacro Collegio. Re era stato nominato lo scorso 18 gennaio, come conseguenza del Motu Proprio con cui papa Francesco a sorpresa ha reso a tempo determinato la carica, pensionando così il cardinale Angelo Sodano.

La lettera intende essere una risposta a quella che lo stesso cardinale Zen aveva inviato ai suoi confratelli lo scorso 27 settembre, ma non solo. Il cardinale Re infatti fa riferimento esplicito a diversi altri interventi di Zen che – come si sa – è molto attivo nel portare il grido dei cattolici cinesi cosiddetti “clandestini”, che si vedono umiliati e condannati da questo accordo che resta tuttora segreto.

Nella lettera il primo punto riguarda la presunta continuità tra papa Francesco e i suoi predecessori riguardo a possibili accordi con la Cina: «Nell’approccio alla situazione della Chiesa cattolica in Cina, c’è una profonda sintonia di pensiero e di azione degli ultimi tre pontefici, i quali – nel rispetto della verità – hanno favorito il dialogo tra le due Parti e non la contrapposizione». Si attribuisce quindi a san Giovanni Paolo II «l’idea di pervenire a un Accordo formale con le Autorità governative sulla nomina dei vescovi», ricordando che egli «favorì il ritorno alla piena comunione dei Vescovi consacrati illecitamente nel corso degli anni a partire dal 1958».

Il cardinale Re passa poi all’attacco diretto al cardinale Zen, reo di aver affermato più volte che «sarebbe stato meglio nessun Accordo piuttosto che un “brutto Accordo”». «I tre ultimi Pontefici – prosegue Re – non hanno condiviso tale posizione e hanno sostenuto e accompagnato la stesura dell’Accordo che, al momento attuale, è parso l’unico possibile».

Queste affermazioni del cardinale Re costituiscono una grave distorsione della realtà perché è invece evidente la diversità di approccio di san Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI rispetto all’attuale pontificato. Se è vero che c’era in loro un grande desiderio di dialogo con la Cina e a ciò hanno dedicato molti sforzi, è altrettanto vero che questo era funzionale esclusivamente all’obiettivo di aiutare la Chiesa cinese - divisa tra “patriottici” e “clandestini” - alla riconciliazione.
E allo stesso tempo riaffermavano i punti irrinunciabili per un accordo, che doveva rispettare la libertà religiosa e l’identità della Chiesa, incluso la libertà di nominare i vescovi. Ne sono testimonianza le risposte dure di san Giovanni Paolo II alle provocazioni cinesi nella nomina dei vescovi; la decisione di procedere alla canonizzazione dei martiri cinesi il 1° ottobre 2000 malgrado le dure reazioni di Pechino; e la lettera del 27 maggio 2007 di Benedetto XVI ai cattolici cinesi, solo per citare i fatti più eclatanti.

Il cardinale Re intende poi smentire un’affermazione del cardinale Zen secondo cui l’accordo firmato nel settembre 2018 poteva essere «lo stesso che papa Benedetto aveva, a suo tempo, rifiutato di firmare». Il decano assicura di avere verificato nell’Archivio della Segreteria di Stato e fa un’affermazione pesantissima: «Papa Benedetto XVI aveva approvato il progetto di Accordo sulla nomina dei Vescovi in Cina, che soltanto nel 2018 è stato possibile firmare».

Quindi, secondo il cardinale Re, l’Accordo segreto porterebbe anche la firma di Benedetto XVI, una rivelazione clamorosa che a questo punto richiede la prova: vengano resi pubblici i documenti della Segreteria di Stato citati dal cardinale Re e l’Accordo segreto del 2018, così da dimostrare tali affermazioni. Se questo fosse vero, se ne dovrebbe dedurre che papa Benedetto XVI aveva rinnegato tutto quanto scritto pubblicamente, come ad esempio nella famosa e già citata Lettera ai cattolici cinesi del maggio 2007, la cui radicale diversità dall’approccio spiegato da Re mostriamo in altro articolo (clicca qui). Peraltro Re non spiega come mai avendo già dato Benedetto XVI il placet all’Accordo, questo non sia stato firmato già dieci anni fa.

Infatti il passaggio più gravido di conseguenze per la Chiesa universale arriva subito dopo: «L’Accordo prevede l’intervento dell’autorità del Papa nel processo di nomina dei Vescovi in Cina. Anche a partire da questo dato certo, l’espressione Chiesa indipendente non può più essere interpretata in maniera assoluta, come “separazione” dal Papa, così come avveniva in passato». Affermazioni che lasciano basiti: si può essere “Chiese indipendenti” e nello stesso tempo in comunione con il Papa, una dichiarazione che va ben oltre i confini della Chiesa cinese e propone una nuova ecclesiologia. Ma, riferendosi alla Cina, è esattamente ciò che papa Benedetto XVI negava nella Lettera ai cattolici cinesi, definendo «inconciliabili con la dottrina cattolica» gli statuti dell’Associazione patriottica che invece l’Accordo segreto – a quanto è dato vedere – legittima.

Il cardinale Re è chiaramente cosciente della portata di queste affermazioni, tanto è vero che subito dopo spiega che siamo davanti a un «cambiamento epocale» da cui discendono conseguenze «sia sul piano dottrinale che su quello pratico». Si parla dunque esplicitamente di cambiamenti dottrinali pur di arrivare all’Accordo con il governo cinese, affermazione gravissima come si può facilmente intuire: è l’approccio esattamente opposto a quello espresso pubblicamente da san Giovanni Paolo II e Benedetto XVI.

Il resto della lettera cita poi le critiche più dure rivolte dal cardinale Zen all’Accordo, ritenute una «contestazione» alla «stessa guida pastorale del Santo Padre anche nei confronti dei cattolici “clandestini”», e si fa riferimento al fatto che il Papa ha più volte ascoltato le ragioni del cardinale Zen e letto le «sue numerose missive». Il cardinale Zen diventa così il facile capro espiatorio per il prolungarsi di «tensioni e situazioni dolorose» che dividono la Chiesa cinese malgrado lo sforzo del Papa e dei suoi collaboratori.

In altre parole, quella del cardinale Re – che ovviamente non ha scritto di sua spontanea iniziativa – è una vera e propria chiamata ai confratelli per isolare il cardinale Zen, tanto da far pensare che l'eliminazione dell'arcivescovo emerito di Hong Kong faccia parte dell'Accordo segreto. Dovrebbe però spiegarci il cardinale Re come mai dopo l’Accordo la persecuzione contro i cattolici in Cina si sia intensificata, peraltro nel silenzio totale della Santa Sede; e spiegare anche come mai l’Associazione patriottica, ormai riconosciuta dalla Santa Sede, non abbia mai espresso anche solo il desiderio della comunione con Roma.












Il Papa che si dimise





di Marcello Veneziani, 28-02-2020

Come oggi [28 febbraio ndr], sette anni fa Benedetto XVI lasciava il pontificato ed entrava nella penombra del papato emerito. Ero presente in San Pietro quella mattina. C’era il sole, la piazza era gremita e il Papa citava più volte il cuore per suscitarlo; ma invano. Mi era accaduto altre volte di tagliare con gli occhi un’atmosfera tesa, partecipe e dolente come fu alla morte di Giovanni Paolo II o in altre occasioni liturgiche e visite pastorali. Altre volte ho sentito sfiorare l’aura che per i credenti è il soffio dello Spirito Santo. Quella volta il clima radioso sembrava rubare l’attenzione al rito e l’autunno di un pontificato veniva sopraffatto da un sorprendente annuncio di primavera. Girando tra la gente non vedevo commossa partecipazione, piuttosto turismo e qualche amarezza, forse un filo di delusione e un’onda di umana simpatia, più tanta curiosità. Al di là dell’immagine che ne dava la tv, la gente era spaesata di fronte a un evento inedito. Stava lì a salutare il congedo del Pensionato Eccellente. Una cerimonia mesta e festosa. Il Papa si dilungò nei ringraziamenti come un vecchio preside che va in pensione e ringrazia gli studenti, i bidelli e il corpo docente e poi si sofferma a ricordare che i presidi passano ma la scuola resta, è viva. Ratzinger ripeté tante volte che la Chiesa è viva, anzi “è un corpo vivo” e quell’insistenza tradiva il timore inverso: che quel corpo avesse subito ferite difficilmente sanabili. Ora che sono passati sette anni possiamo ben dirlo.


Il menage tra i due papi è entrato nella crisi del settimo anno e i segni si vedono tutti. Quello speciale “concubinato” è andato via via logorandosi fino al gesto autoritario di Bergoglio di congedare Padre George Ganswein che ha segnato un punto di non ritorno nella relazione tra il papa emerito e il papa in carica. Sette anni fa si pensava che un papa malandato che si dimetteva per ragioni di salute non avrebbe fatto ombra a lungo al papa in carica; e la sua discrezione, la sua schiva timidezza e la sua deliberata scelta di farsi da parte, lasciavano pensare che i papi non si sarebbero mai sovrapposti. Ma le posizioni assunte da Bergoglio, l’enfasi mediatica che le ha moltiplicate, le tifoserie opposte e la nostalgia di un pontificato nel segno della tradizione e della civiltà cristiana, oltre che il piglio dispotico assunto dal pontefice in carica nei confronti di chi dissente dalla sua linea, hanno reso quella coabitazione davvero problematica e sempre a un passo dallo scisma. Ratzinger non ha intenzione di capeggiare alcuna fronda e nemmeno di fomentarla; non ha l’età, il temperamento, la volontà di farlo. Ma resta simbolicamente imbarazzante il bipapismo divergente che rispecchia, al di là delle intenzioni, la divaricazione radicale nella Chiesa e nella Cristianità.


Quando fu eletto quindici anni fa Ratzinger apparve il papa della continuità, non solo rispetto a Woytila ma alla tradizione cattolica. La sua elezione rispecchiava la centralità geopolitica tedesca nell’Europa unita. Sul piano pastorale, l’avvento di un teologo come Ratzinger indicava una strada e una sfida: affrontare il nichilismo, il relativismo e l’ateismo pratico partendo dalla testa. Cioè dal pensiero, ma anche dal luogo cruciale in cui era sorto, l’Europa cristiana. Ma la sordità dell’Europa, i pregiudizi verso la Chiesa e il Papa della Tradizione, il suo linguaggio impervio, i temi bioetici e la pedofilia, le maldicenze contro di lui, l’inimicizia dei poteri che contano, portarono Ratzinger alla ritirata. La Chiesa allora preferì puntare sul cuore anziché sulla testa e ripartire dalle periferie del mondo, a sud, anziché dall’epicentro della crisi, a nord. Con Francesco, il papulista, nacque la parrocchia globale, ecosolidale, l’interclub delle religioni, con una spiccata predilezione verso gli islamici, soprattutto migranti. Restò il disagio di vedere due papi vestiti di bianco che vivono a poca distanza e talvolta s’incrociano ingenerando smarrimento ottico e pastorale.


Le sue dimissioni pronunciate in latino in quel febbraio di sette anni fa, sancirono con asciutto lindore il fossato incolmabile che lo separava dal suo tempo. Il latino le scolpì nel marmo del passato, le rese lapidarie e indelebili. Si avvertiva nella voce di Ratzinger l’affanno dei secoli e nei suoi occhi che evitavano di incrociare lo sguardo del mondo sembrava celarsi un segreto. Forse la percezione della catastrofe spirituale del nostro tempo, la sordità alla missione religiosa e alle aspettative della fede. Nel suo invecchiare si rifletteva la tremenda vecchiezza della Sposa di Cristo: chiese svuotate, vocazioni calanti, sacerdoti vacillanti nella fede. Il cinismo che cresce. Ma con Bergoglio le cose anziché migliorare precipitarono.


Ratzinger fu lacerato dal conflitto tra fede e inquietudine, poco compreso dal mondo. Per la sua lievità era più amabile del suo predecessore e del suo successore, ma fu meno amato di ambedue. Le sue dimissioni da Santo Padre furono la testimonianza più alta e sofferta della nostra società senza padre.


Non si dimenticano i suoi sguardi di spaventata dolcezza, di trattenuta mestizia, la sua scarsa dimestichezza con le cose del mondo, il suo disagio di vivere nello splendore regale, le sue delicate maniere, le sue pantofole rosse. A volte Ratzinger si abbandonava ai sorrisi serafici, anche quando fu scaraventato per terra (quanta differenza…); occhieggiava all’umorismo degli angeli o si atteggiava a un’affabile severità che lo faceva somigliare a Paolo Stoppa nel ruolo del Papa Re nel Marchese del Grillo. Il suo sguardo si scusava col mondo e suggeriva agli astanti: siate indulgenti, sono un pensatore che regge il Pontificato. Aveva “quel non so che di angelico”, come diceva Petrarca di Celestino V, il papa che abdicò, “inesperto di cose umane”. Fragile come un cristallo, ma splendente di luce. Quella luce che ora non vediamo.


MV, La Verità 28 febbraio 2020











venerdì 28 febbraio 2020

Non spaccateci gli stereotipi.


a chi ha sarà dato Silvana De Mari Community






L’associazione lgbt il Cassero ci è rimasta impressa per aver messo in scena una rappresentazione sodomitica che noi abbiamo trovato nauseante in quanto ha offeso la nostra religione e la nostra anima, ma il magistrato di turno ci ha spiegato che era arte e non ha dato seguito alle denunce. Il Cassero Salute è la parte del sito che con la incredibile pretesa di fare prevenzione spiega pratiche bizzarramente definite erotiche, che quindi supponiamo essere  normali nel mondo gay, come lo scatting, la pratica cioè di tirarsi le feci addosso. (http://www.casserosalute.it/scatting/.)

Sempre con fiumi di denaro pubblico gli attivisti del Cssero entrano nelle scuole  (https://www.cassero.it/attivita/scuola/  ) per la destrutturazione di stereotipi e il superamento di pregiudizi; la prevenzione e il contrasto al bullismo e alle discriminazioni socio-culturali derivanti da alterità di genere, etnia, religione, orientamento, classe, disabilità; lo sviluppo di contenuti cognitivi e modalità interpretative su identità sessuale, benessere socio-relazionale, inclusione dell’altro.

Qualcuno informi i gai giullari del Cassero che noi cafoni ai nostri stereotipi ci siamo dannatamente affezionati e stiamo cominciando a seccare con tutti i giullari che ci vengono a spaccare gli stereotipi- Non ci rompete gli stereotipi, perché ci irritiamo. I nostri stereotipi non vi piacciono perché voi nei nostri stereotipi non vi ci riconoscete? Affari vostri, non ce ne può importare di meno. Non ci rompete gli stereotipi. Anche ai nostri pregiudizi ci siamo affezionati, per esempio al pregiudizio che lo scatting faccia schifo e basta e che chi lo ritiene una pratica erotica descrivibile nella sezione salute del suo sito non debba entrare nelle nostre scuole.

Come ci siamo arrivati? Cerca di dare una risposta Elisabetta Frezza, nel libro La Malascuola.
La scuola italiana, una scuola dai trascorsi gloriosi, da anni subisce un processo sistematico di demolizione, perseguito dai signori che si avvicendano al governo del Paese,  allo scopo di imporre la nuova morale di Stato, dopo aver sgombrato il campo dalla famiglia, in nome della omogeneizzazione culturale verso il basso capace di garantire alla cabina di comando sovranazionale una popolazione facilmente manovrabile.

 Un  esercito ammaestrato dall’asilo all’università a liberare le emozioni e a rifuggire la logica.
L’interessantissimo saggio di Elisabetta Frezza  si propone di svelare l’imbroglio che ha come scopo finale l’invasione di campo dell’educazione, a questo mirano i programmi che diffondono nelle scuole di ogni ordine e grado l’ipersessualizzazione precoce, l’omoerotismo, l’indifferentismo sessuale  che sono diventati obbligatori con la “Buona scuola” di Renzi.

 A scuola si è sempre andati per imparare. Imparare da maestri chiamati a trasmettere il bagaglio di sapere da utilizzare nella vita per essere capaci di ragionare autonomamente. Ora invece, ci dicono, si deve andare a scuola per entrare in relazione, per apprendere l’affettività, il sesso, e a gestire pacificamente i conflitti, per scegliere senza restrizioni chi si vuole essere.  Ormai nessuno più ha la forza di levare gli scudi in difesa dei propri figli, ogni nuova aberrazione spacciata per progresso viene recepita da una società fragile in cui le difese naturali si sono via via allentate a causa del cedimento della chiesa contrabbandato come sollecitudine pastorale a beneficio di tutti.

 L’esca infallibile per attirare un gregge senza più guida di pastori è stata la lusinga della libertà assicurata a tutti di seguire i propri istinti, l’uomo è diventato egli stesso arbitro del bene e del male e misura del proprio comportamento morale. La trasgressione è normalizzata, l’amore è misura di tutte le cose. Love is love, stava già scritto nei Baci Perugina, ma ora è confermato dal nuovo magistero.  Secondo  la teoria della rana bollita di Chomsky l’uomo digerisce tutto purchè gli venga somministrato in piccole dosi solidamente progressive: quindi, volendo imporre a qualcuno un cambiamento radicale, bisogna propinarglielo in maniera lenta e graduale, solo così il cambiamento non suscita alcuna opposizione .

 Il politologo americano Joseph Overton ha elaborato negli anni Novanta un modello di ingegneria sociale la cosiddetta  finestra di Overton  che dimostra come un tabù possa essere infranto nella società purchè lo si incanali in uno schema preciso. Si parte da qualcosa di assolutamente inaccettabile (Overton fa l’esempio del cannibalismo) si passa dalla fase radicale in cui il cannibalismo resta sempre aborrito e vietato dalla legge, ma si comincia a profilare qualche deroga in casi limite, parallelamente il fenomeno è reso oggetto di discussione che gli conferisce dignità accademica: i cannibali diventano antropofagi e poi antropofili.

 In  questa fase il fenomeno indigesto penetra nel pensiero collettivo che  comincia a metabolizzarlo, anche attraverso proposte shock quali rivendicare il cannibalismo libero in modo che una soluzione di compromesso risulti addirittura sensata. Per la fase decisiva della legalizzazione entra in gioco lo statagemma della “discriminazione”  allo scopo di creare il mito della minoranza oppressa: i cannibali devono riuscire a guadagnarsi la qualità di vittime discriminate in modo da far scattare un meccanismo rieducativo sulla collettività.

 L’ultima fase della finestra consente il realizzarsi del paradosso finale: criminalizzare chi non adegua il proprio atteggiamento ai nuovi criteri di giudizio, contestualmente si afferma lo psicoreato, ovvero il reato commesso da chi osa pensare qualcosa di diverso da ciò che il potere ha deciso debba essere pensato.

 Questo processo, già compiuto per l’omosessualità e indifferentismo sessuale,  sta dispiegandosi a grandi passi per la pedofilia, avviata sulla strada della normalizzazione attraverso le varie fasi della finestra di Overton per diventare, nella percezione diffusa, al pari dell’omosessualità, una mera forma del comportamento sessuale.

 Lo slittamento della pedofilia verso la normalizzazione è compiuto nel nome dei  “diritti dei bambini” promossi dalla Carta ONU.  Il fanciullo tutelato dalla Carta ONU è il fanciullo autodeterminato. Sulla premessa che tutto quanto il bambino fa liberamente per lui è buono, saranno buoni anche i rapporti sessuali con adulti se e in quanto fondati sul suo consenso.

 Il potere totalitario sovranazionale, per realizzare la costruzione del mondo nuovo, deve sopprimere la sovranità degli Stati e frantumare l’istituzione familiare garante naturale di un sistema di regole sul comportamento sessuale. La famiglia,  va abbattuta e il facsimile  omosessuale serve a infliggerle il colpo di grazia definitivo. Ecco che, con l’entrata in vigore della legge Cirinnà, l’unica vera famiglia, che è una realtà ontologica che precede il diritto, tramite un’astuta distorsione lessicale, diventa sulla bocca di tutti “famiglia tradizionale”.
 
Tutto questo accade nel bel mezzo di una battaglia che avrebbe dovuto vedere gli uomini di chiesa schierati al fianco delle famiglie invece l’Amoris Laetitia, escogitato per scardinare la dottrina cristiana, fornisce il marchio di qualità cattolica al sistema ideologico voluto dai poteri forti e realizza la collaborazione piena tra super-Stato e neo-Chiesa nel promuovere anche questo punto dell’agenda sovranazionale partorita dalle élite mondialiste.

Elisabetta Frezza esorta a sguainare le famose spade di Chesterton  per  tornare a dire parole vere, gridare forte che l’innocenza dell’infanzia non può essere violata. Dobbiamo gridare che il re è nudo. Dobbiamo riesumare la bandiera dei principi non-negoziabili e non arretrare di un solo passo nel difenderli. Vale la pena ricordare le parole di Hannah Arendt: “Il suddito ideale del regime totalitario non è il nazista convinto o il comunista convinto, ma l’individuo per il quale la distinzione fra realtà e finzione, fra vero e falso non esiste più.”


Malascuola Silvana De Mari Community 







Storia di Giacinta. La pastorella di Fatima che offrì la propria vita per la salvezza delle anime







Aldo Maria Valli, 28-02-2020

Tutti abbiamo sentito parlare dei pastorelli di Fatima. Molti di noi hanno letto libri sulle apparizioni e, almeno grosso modo, conosciamo i fatti. Ma chi erano i tre bambini? Come vivevano e, soprattutto, come vissero quei giorni? Che cosa pensavano mentre erano protagonisti di una vicenda tanto eccezionale? E che cosa ci insegna la loro storia?

Con Giacinta (Etabeta, 136 pagine, 12 euro) padre Serafino Tognetti ci accompagna nel mondo piccolo di una di quei tre bimbi: Giacinta Marto, che all’epoca delle apparizioni aveva sette anni, due meno del fratello Francisco e tre meno della cugina Lucia dos Santos, l’unica dei tre che raggiunse l’età adulta e anzi morì molto anziana, a novantotto anni.

Perché proprio Giacinta? Padre Serafino spiega che è stata una questione di sguardi. Osservando la foto dei pastorelli, è rimasto colpito dal volto di Giacinta, da quel cipiglio, da quegli occhi da grande in un viso di bambina. “Un piccolo generale in gonnella”, così la definisce l’autore. Una bimba che, se fosse andata a scuola (ma non ci andava) avrebbe fatto solo la seconda elementare, eppure capì al volo il significato soprannaturale di ciò che le stava succedendo e prese tremendamente sul serio le richieste della Vergine.

Francesco era più delicato e timido, quasi mesto. Lucia, la cugina, con i suoi dieci anni era già quasi un’adolescente in quel tempo in cui si cresceva molto in fretta. Giacinta invece colpisce perché, pur così piccola, è consapevole. Fin da subito sa che il destino non solo suo, ma di tante persone, è nelle sue mani. “Si sente mediatrice” e, proprio perché bambina, priva di malizia e con il cuore puro, non ha mai un ripensamento, né sta a interrogarsi su se stessa, ma si lascia riempire dalla potenza divina e ne diviene strumento.

Il terzetto conduceva una vita segnata dalla semplicità e dall’essenzialità. Nata l’11 marzo del 1910 (lo stesso anno in cui padre Pio fu ordinato sacerdote e il papa san Pio X promulgò il Giuramento della fede a cui erano tenuti i membri del clero per combattere il modernismo), Giacinta aveva nella cugina Lucia l’amatissima compagna di giochi. E quando a Lucia la famiglia affidò il compito di occuparsi del piccolo gregge di pecore, chiese ai suoi di poterla seguire. Il papà di Giacinta diede il permesso, a patto che tenessero con loro anche il taciturno Francisco. Fu così che tra la fine del 1915 e i primi mesi del 1916, mentre in Europa infuriava la guerra, si formò il gruppetto.

Circa il carattere deciso di Giacinta, padre Serafino scrive: “Una volta cresciuta e cominciando a manifestarsi in lei le caratteristiche dominanti del suo temperamento, apparve chiara in lei una virtù che sarà fondamentale per rendere credibile nella sua casa, a suo tempo, la veridicità delle future apparizioni: la sincerità”. Giacinta era una di quelle rare persone che hanno un istinto radicato per la verità e non sopportano alcun inganno o bugia. Anche per questo divenne, nonostante l’età, una testimone autorevole e combattiva, per niente disposta a lasciarsi manipolare o condizionare.

Difetti? Certo, anche lei ne aveva. Lucia racconta che se la prendeva facilmente e, durante i giochi, capitava che mettesse il muso. Era permalosa e anche ostinata, molto. Un concentrato di energia in un corpicino minuscolo e quasi insignificante. Quanto alla preparazione religiosa, non si può proprio dire che fosse eccelsa. Giacinta non andava a scuola, non sapeva né leggere né scrivere, non andava al catechismo, non aveva fatto la prima comunione. Però in famiglia aveva imparato le preghiere ed era stata educata alle virtù cristiane, al rispetto degli altri e al culto di Dio.

Dopo la prima apparizione, il 13 maggio del 1917, Lucia impone a Giacinta e a Francisco di non raccontare niente a nessuno. Ma Giacinta non ci riesce. Proprio perché incapace di dissimulazione, riferisce tutto alla mamma, ed è così che la notizia incomincia a diffondersi e Giacinta diventa, di fatto, la prima apostola di Fatima.

Non bisogna mai dimenticare, e padre Serafino lo sottolinea, che i tre bambini ebbero la visione dell’inferno. E ovviamente ne furono terrorizzati. In questi nostri tempi di politicamente corretto, e di religione ridotta a sentimentalismo consolatorio, è qualcosa di inconcepibile. Ma i tre furono messi di fronte all’orrore del castigo divino riservato ai peccatori. E lo furono perché era necessario. “Molti vanno all’inferno – disse la Vergine parlando ai tre bambini – perché non c’è nessuno che preghi e si sacrifichi per loro”. Dunque, i bambini capirono subito quale fosse il loro dovere: sacrificarsi per limitare il numero dei dannati. E Giacinta da quel momento non smise più di prendere sul serio il compito affidatole da Maria.

Come può sacrificarsi una bambina di sette anni che vive in un luogo sperduto e povero e passa le sue giornate badando a un gregge di trenta pecore? Semplice: per esempio, rinunciando alla merenda, oppure a un bicchier d’acqua sotto il sole cocente, oppure recitando il rosario quando invece sarebbe il momento di giocare.

Nel mondo piccolo di Giacinta anche i sacrifici, ai nostri occhi, sembrano piccoli. Ma per lei di certo non lo erano. Dare la merenda alle pecore (ma l’idea, in verità, venne a Francisco) può far sorridere, ma bisogna immaginare che cosa significava quel gesto per bambini che non avevano quasi nulla.

Fatima, il fenomeno Fatima, nacque così, all’insegna della piccolezza. E del sacrificio. La cui espressione più semplice e immediata è il digiuno.

Dobbiamo anche immaginare il trambusto nel cuore e nell’anima di Giacinta. La Madonna non solo le fece vedere l’inferno, ma le disse che il Santo Padre avrebbe molto sofferto. Ma che ne poteva sapere la piccola Giacinta del Santo Padre? A stento sapeva che esisteva il papa e che stava a Roma, ma era come parlare di un marziano. Eppure, subito si mise a fare sacrifici anche per questo misterioso Santo Padre, per evitargli le sofferenze.

Avrete già capito che il libro di padre Serafino, pur essendo essenzialmente una cronaca, è anche un’opera di alta teologia. E non solo perché l’autore di tanto in tanto inserisce riflessioni di don Divo Barsotti, il fondatore della Comunità dei Figli di Dio di cui padre Serafino è stato il primo successore, ma perché nella vicenda ci sono tutte le componenti tipiche della presenza e dell’azione di Dio: la piccolezza, la semplicità, la marginalità, l’obbedienza. E la sofferenza.

Alla fine del 1918, dopo poco più di un anno dalle apparizioni ufficiali, Francisco e Giacinta si ammalarono, quasi contemporaneamente. E le pagine che padre Serafino dedica agli ultimi tempi sono le più struggenti. Giacinta prima assiste alla morte del fratello, poi sale lei stessa sul Calvario. All’influenza spagnola, la pandemia che tra il 1918 e il 1920 fece milioni di vittime in Europa e nel mondo intero, si aggiunse una broncopolmonite con un doloroso ascesso nella pleura. Fu deciso il ricovero in ospedale e Giacinta, pur consapevole che non sarebbe servito a conservarle la vita, lasciò fare. Sapeva benissimo che la sua sofferenza rientrava in quel piano divino di cui le aveva parlato la Vergine: soffrire per sottrarre anime all’inferno e per aiutare il Santo Padre. Ne era totalmente consapevole, al punto che disse: “Soffro molto, ma per la conversione dei peccatori e per il Santo Padre. Mi piace tanto soffrire per amore di Gesù e di Maria. Essi sono molto contenti di chi soffre per la conversione dei peccatori”. E quando pronunciò queste parole aveva otto anni!

Sono tante le riflessioni di Giacinta che andrebbero riportate. Poiché non aveva frequentato il catechismo, non poteva ricevere l’Eucaristia, ma la desiderava tanto. Invidiava la cugina Lucia, che poteva comunicarsi e ricevere il “Gesù nascosto”, e le chiedeva di starle vicina. Esclamava: “Oh Gesù nascosto! Se potessi riceverlo in chiesa. Se in Cielo si farà la comunione, io mi comunicherò tutti i giorni!”. E padre Serafino commenta: “Non so se si possa esprimere con un linguaggio più ingenuo, ma più corretto, il rapporto intimo della creatura con il Creatore nel dono della santa Eucaristia. In Cielo non si fa la comunione perché si è comunione”.

Prima della morte a Giacinta non fu risparmiato neppure un trasferimento a Lisbona, con relativo strappo dalla mamma e dalla famiglia. “Non ci pensare”, le disse Lucia nel tentativo di consolarla, ma Giacinta, prontissima, rispose: “Lascia che ci pensi, perché più ci penso e più soffro, e io voglio soffrire per amore del Signore e per i peccatori. E poi non m’importa: la Madonna verrà a prendermi per portarmi in Cielo”.

Giacinta muore alle dieci e mezza di sera del 20 febbraio 1920. Non ha ancora compiuto dieci anni. Nel pomeriggio chiese con insistenza di poter ricevere il viatico. Il parroco venne e la confessò, ma non le diede la comunione.

Giacinta fu composta con un abito bianco e una fascia azzurra ai fianchi. Lei stessa aveva chiesto di essere vestita così. Beatificata da Giovanni Paolo II il 13 maggio 2000, la bambina, come il fratello Francisco, è stata proclamata santa il 13 maggio 2017 da papa Francesco in occasione del centenario della prima apparizione della Madonna di Fatima. Santi non perché videro la Madonna, ma per come vissero, e morirono, dopo averla vista.

In un bel capitolo, intitolato Alla scuola dei bambini, padre Serafino unisce alla storia di Giacinta quelle di altri piccoli santi: Antonietta Meo detta Nennolina, Laura Vicuña, Mari Carmen, Simone Sassi, José Luis Sanchez del Rio, Odette Vidal Vieira, Giuseppe Ottone, Nellie Organ, Manuel Foderà. Padre Serafino lo chiama “l’esercito dei bambini”, un plotone di testimoni della fede che Gesù pone in mezzo a noi dicendoci: “Siate come loro. Altrimenti non entrerete”.

Aldo Maria Valli










giovedì 27 febbraio 2020

UN FRATE ATTRAVERSA MILANO. E BENEDICE CON IL SANTISSIMO






Marco Tosatti, 27-02-2020

Cari amici e nemici di Stilum Curiae, un amico mi ha inviato queste righe. Mi sembrano degne di essere condivise, così come sarebbe ben degno di essere imitato il comportamento di questo sacerdote, in ogni città e quartiere. La persona che ci ha inviato questa storia è degna di fede. Crediamo sia vera. Ma anche se non lo fosse, credo che l’esempio sarebbe positivo, e l’effetto spirituale sarebbe fortissimo. E credo che servirebbe anche a ad abbandonare quelle forme di rispetto umano malriposto che ci impediscono di manifestare pubblicamente ciò in cui si crede. Un bell’esercizio spirituale di umiltà e abbandono per la Quaresima, no?


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*Ascoltate cosa ha fatto un Sacerdote di Milano*: frate Gianbattista

Con la mano destra su Gesù sul cuore (la teca con il SS.mo Sacramento era nella pettorina del mio saio) e con il Santo Rosario nella mano sinistra, ho iniziato la mia processione dall’altare della nostra Chiesa del Sacro Cuore di Gesù! Cantavo “Re di gloria”.


Attraversata la piazza Tricolore cantando, ho imboccato corso Monforte iniziando il Santo Rosario 📿 (la Santa Corona, contro il coronavirus) a voce alta! Le prime persone incontrate alla fermata del 54 guardavano incuriosite. Due donne hanno fatto il segno di Croce. Un povero mi ha fermato e mi ha detto: cosa stai facendo frate? E io gli ho detto sto portando in giro per le strade il Signore Gesù e prego Maria salute degli infermi con il Rosario perché ci aiutino contro il coronavirus.

Ha toccato la corona e ha fatto il segno di croce. Di fronte all’indifferenza camminavo pregando e cantando ancora più con fede mettendo l’intenzione ad ogni mistero e invocando Maria, San Carlo e i Santi patroni di Milano. Chiesa di San Babila… chiusa! Chiesa di San Carlo al corso … chiusa!

Che tristezza! Proseguo nello spazio centrale di corso Emanuele che porta al Duomo. Lo sguardo di tanti si fissa sulla mia corona, sulla mia mano al petto, si accostano per sentirmi cantare, una ragazza canta devota con me “Inni e canti”.

Tanti si fanno il segno di croce! Perfino due poliziotti nella macchina che pattuglia avanti e indietro il corso. Incontro un medico caro amico in bicicletta: mi ferma e si informa. Sta con me e prega con me. Mi saluta abbracciandomi commosso. Giungo al Duomo per fortuna aperto, almeno per la preghiera. Sosto davanti ai gradini e canto l’ave Maria in latino, in gregoriano.

Poi salgo i gradini, mi giro, do le spalle al duomo, estraggo la teca con il Santissimo Sacramento, faccio una preghiera ad alta voce e benedico la città. Chi si è fermato incuriosito si è fatto il segno di croce. Un uomo si è pure inginocchiato. Felice e con la gioia nel cuore sono tornato in convento, certo che Gesù e Maria un miracolo l’han già fatto!








mercoledì 26 febbraio 2020

La fede forte di santa Giacinta Marto






Cristina Siccardi, 26-02-2020

Mentre il mondo combatte contro il Coronavirus del 2020 (Covid-19), dove l’Italia è il terzo Paese al mondo per numero di contagi, in questi giorni si è celebrato un centenario di grande importanza, silenziato dalla Chiesa e dai media, ma molto sentito da tutti quei prelati, sacerdoti, monaci, monache e fedeli rimasti cattolici e, quindi, seriamente devoti alla Madonna di Fatima. Il 20 febbraio 1920 moriva, infatti, a dieci anni, santa Giacinta Marto a causa della pandemia del virus della Spagnola (influenza H1N1), come suo fratello Francesco.

Fra il 1918 e il 1920 la pandemia causata da quel virus contagiò circa 500 milioni di persone, inclusi alcuni abitanti di remote isole dell’Oceano Pacifico e del Mar Glaciale Artico, provocando il decesso di 50-100 milioni di individui (dal tre al cinque per cento della popolazione mondiale dell’epoca), più vittime della peste nera del XIV secolo. Ma veniamo a Giacinta. Uno dei suoi divertimenti preferiti, insieme a Francesco e alla cugina Lucia, era quello di gridare ad alta voce, dall’alto dei monti, seduta sulla roccia. Il nome che più echeggiava era quello della Madonna. A volte proprio lei, «quella a cui la Vergine Santissima ha comunicato maggior abbondanza di grazie e maggior conoscenza di Dio e della virtù», come scriverà suor Luciados Santos, recitava tutta l’Ave Maria, pronunciando

la parola seguente soltanto quando l’eco riproduceva per intero quella precedente. Tale innocentissima preghiera di bambina, quasi surreale, dove il soprannaturale si sovrapponeva al naturale, riecheggia nelle nostre coscienze quando veniamo a sapere che proprio lei sacrificò la sua vita per i «poveri peccatori», per la Chiesa e per il Papa.

L’unica pubblicazione degna di nota, uscita in questi giorni per rendere omaggio alla piccola e grandissima bimba del Portogallo, è stato il libro di Padre Serafino Tognetti, dal semplice titolo Giacinta (Etabeta, pp.134, € 12,00). L’autore le ha dedicato una biografia non solo perché si tratta di un anniversario che non può e non deve essere trascurato, ma perché ella rappresenta quella militanza di cui oggi la Chiesa ha assoluto bisogno. Un giorno ha detto il monaco dei Figli di Dio, primo superiore della Comunità dopo la scomparsa di Don Divo Barsotti, che abbiamo bisogno dello sguardo di Giacinta, quello dei lottatori, di coloro che sanno che la vittoria sul male costa sudore e sangue. E il mondo ha paura del suo sguardo severo: sono occhi che parlano di Dio e della Sua Grazia, degli uomini e dei loro peccati.

Giacinta, che era stata, fino al momento delle apparizioni dell’Angelo del Portogallo (1916) e quelle di Nostra Signora di Fatima, una bambina solare, allegra, spensierata, che amava cantare e ballare, si trasforma e diventa, come stanno a dimostrare sia le testimonianze che le fotografie che la ritraggono, serissima e con pupille che trafiggono come lame lucenti. «“Mentre Giacinta sembrava preoccupata nell’unico pensiero di convertire i peccatori e salvare le anime dall’Inferno, Francesco sembrava che pensasse solo a consolare Gesù e la Madonna, che aveva contemplato molto tristi” [dalle Memorie di suor Lucia, ndr]. Entrambi si piazzano sotto la croce, guardano Gesù crocifisso, ma Giacinta tiene un piede anche sulla porta dell’Inferno, perché ciò che vide il 13 luglio del ‘17 fu impresso in lei con ferro rovente, ed ella non potrà mai dimenticare quell’agghiacciante visione. […] Giacinta, ne siamo sicuri, è un’anima che ottiene. La sua preghiera è accolta proprio per la sua sincerità totale, assoluta, senza macchia. Se questa fu la sua potenza mediatrice sulla terra, lo sarà probabilmente anche adesso in Cielo» (pp. 22).

Il profilo che Lucia tratteggia della cuginetta è straordinario: è il ritratto dei puri di cuore. Giacinta era insaziabile nella pratica del sacrificio e delle mortificazioni. Agli inizi del mese di luglio del 1919, entrò in ospedale, contagiata dalla Spagnola. Sua madre le chiese che cosa desiderasse e la piccola chiese la presenza di Lucia. La visita fu tutto un parlare delle sofferenze offerte per i peccatori al fine di allontanarli dall’Inferno, ma anche per il Sommo Pontefice. Scrive nelle Memorie suor Lucia: «Tu rimani qua per dire che Dio vuole istituire nel mondo la devozione al Cuore Immacolato di Maria. Quando ce ne sarà l’occasione, non ti nascondere. Di’ a tutti che Dio ci concede le grazie per mezzo del Cuore Immacolato di Maria; che le domandino a Lei, che il Cuore di Gesù vuole che vicino a Lui, sia venerato il Cuore Immacolato di Maria. Chiediamo la pace al Cuore Immacolato di Maria; Dio la mise nelle mani di Lei. S’io potessi mettere nel cuore di tutti, il fuoco che mi brucia qui nel petto e mi fa amare tanto il Cuore di Gesù e il Cuore di Maria!». Nelle sue manifestazioni Giacinta cammina sempre sul crinale della vita eterna, con l’abisso della dannazione che si spalanca sotto i suoi piedi: ella ragiona come il vero cattolico medievale, ovvero trascendendo il mondo con il suo benessere materiale, perseguendo soltanto la via del Cielo, per questo ella sopportava tante sofferenze e tante ingiustizie (comprese le drammatiche vessazioni di tutti coloro che non credevano ai pastorelli di Fatima).

«Se sapessero…» ripeteva sempre, pensando agli uomini dei tempi moderni. Sapessero che cosa? «Che gli atti di questa vita terrena hanno una valenza eterna. Questo è il grande problema dell’uomo di oggi: non sapendo più che cosa sta a fare al mondo, cerca affannosamente il senso delle cose, senza mai trovarlo» (p. 97). Diceva ancora Giacinta che le persone non pensano alla morte di Gesù. Don Divo Barsotti, dal canto suo, affermava che «“Gesù è diventato un pretesto per parlare d’altro”. Si inizia a parlare del Cristo, si finisce col parlare di politica» (ibidem). La Passione di Cristo è una passione per i figli del Padre e in ogni uomo c’è il prezzo del sangue divino, c’è la nobiltà della Santa Croce. Adoramus te, Christe, et benedicimus tibi, quia per sanctam crucem tuam redemisti mundum.

Dall’ultima apparizione di Fatima del 13 ottobre 1917 al dies natalis di Giacinta trascorsero 28 mesi: è in questo tempo che si santificò, spogliandosi totalmente di se stessa per servire umilmente Gesù, per consolarLo, per farLo contento con i mezzi che la Madre di Dio aveva rivelato alla Cova d’Iria: la preghiera, il Santo Rosario, la rinuncia, il sacrificio. Invero, la penitenza è l’unico mezzo per assurgere a Cristo Signore, ben lo sanno i Santi. Giacinta morì completamente povera e sola nell’ospedale di Lisbona, e non ebbe neppure la consolazione di ricevere la santa Comunione, perché le venne negata.

La fede di Giacinta è quella dei Santi di Dio, non quella da salotto. È una fede virile, forte, che non fa sconti a se stessi ed è coraggiosa, va all’arma bianca: da soli contro il nemico, il demonio e le sue tentazioni, quelle che portano al peccato. La guerra terribile non è contro il mondo, ma è contro se stessi e chi vince quella guerra si fa partecipe della Redenzione dell’Unico Salvatore.

L’internazionale Carnevale di Venezia è stato abolito in questo Anno Domini 2020 per limitare i contagi dal Coronavirus e la Quaresima, quest’anno, inizia con la quarantena di molti. Approfittiamo di questo tempo di castighi e di misericordia per ascoltare e mettere in pratica, finalmente, gli insegnamenti della Madonna di Fatima, che santa Giacinta prese alla lettera sine glossa.

(Cristina Siccardi)

Fonte:

www.corrispondenzaromana.it/la-fede-forte-d…










martedì 25 febbraio 2020

Le "litanie dell'umiltà" del Servo di Dio cardinale Rafael Merry del Val y Zulueta




Il Servo di Dio cardinale Rafael Merry del Val y Zulueta (1865-1930) fu Segretario di Stato al servizio di papa san Pio X. Fu quindi al fianco di San Pio X condividendo tutti gli “affanni” che percorsero quel provvidenziale pontificato.

Il cadinale Merry del Val compose delle litanie, chiamate “dell’umiltà”. Evidentemente il suo ruolo così prestigioso e oneroso, l’avrebbe potuto tentare nell’orgoglio; e così, nella sua santità, decise di pregare il Signore per evitare di cadere in qualsiasi peccato di vanità.

Il nostro consiglio è di recitare queste litanie almeno una volta alla settimana. Esse non potevano che nascere nella bellezza della Verità Cattolica, che sola indica l’umiltà come strada maestra.



O Gesù! mite ed umile di cuore! Esauditemi.

Dal desiderio di essere stimato – Liberatemi, Gesù.

Dal desiderio di essere amato – Liberatemi, Gesù,

Dal desiderio di essere decantato – Liberatemi, Gesù.

Dal desiderio di essere onorato – Liberatemi Gesù.

Dal desiderio di essere lodato – Liberatemi, Gesù.

Dal desiderio di essere preferito agli altri – Liberatemi, Gesù.

Dal desiderio di essere consultato – Liberatemi, Gesù,

Dal desiderio di essere approvato – Liberatemi, Gesù.

Dal timore di essere umiliato – Liberatemi, Gesù.

Dal timore di essere disprezzato – Liberatemi, Gesù.

Dal timore di soffrire ripulse – Liberatemi, Gesù.

Dal timore di essere calunniato – Liberatemi, Gesù.

Dal timore di essere dimenticato – Liberatemi, Gesù.

Dal timore di essere preso in ridicolo – Liberatemi, Gesù.

Dal timore di essere ingiuriato – Liberatemi, Gesù.

Dal timore di essere sospettato – Liberatemi Gesù.

Che gli altri siano amati più di me – Gesù, datemi la grazia di desiderarlo!

Che gli altri siano stimati più di me – Gesù, datemi la grazia di desiderarlo!

Che gli altri possano crescere nell’opinione del mondo e che io possa diminuire – Gesù, datemi la grazia di desiderarlo!

Che gli altri possano essere impiegati ed io messo in disparte – Gesù, datemi la grazia di desiderarlo!

Che gli altri possano essere lodati ed io, non curato – Gesù, datemi la grazia di desiderarlo!

Che gli altri possano essere preferiti a me in ogni cosa – Gesù, datemi la grazia di desiderarlo!

Che gli altri possano essere più santi di me, purché io divenga santo in quanto posso – Gesù datemi la grazia di desiderarlo!














lunedì 24 febbraio 2020

L’indecenza di non far celebrare la Messa



San Carlo Borromeo comunica gli appestati



lunedì 24 febbraio 2020


"Concedi a noi, o Signore, te ne preghiamo, l'effetto della devota supplica, e divenuto a noi propizio, allontana la peste e la carestia: affinché i cuori dei mortali conoscano che tali flagelli scoppiano per il tuo sdegno, mentre cessano per la tua misericordia"
così il Messale ambrosiano fa pregare il Sacerdote sull'Altare nella Messa per il tempo di carestia e di penitenza (Orazione sopra il popolo). E, mentre dilaga l'infezione del corona virus, si rimane stupiti nel constatare la distanza di questa perenne intenzione della Chiesa dai comunicati che sono stati affissi sui portali delle chiese dell'Arcidiocesi di Milano in asettica ottemperanza a un'ordinanza della Regione Lombardia (non diversamente ciò sta accadendo in molte altre Diocesi del Nord d'Italia dopo la pubblicazione del Decreto del Governo sulla stessa materia), quasi che l'ordinamento e la vita soprannaturale della Chiesa siano senz'altro a disposizione dell'ordinamento positivo pubblico: "Avviso importante. La Parrocchia ... in ragione dell'ordinanza emanata dal Presidente della Regione Lombardia sospende tutte le celebrazioni liturgiche (Sante Messe) fino a data da definirsi". Se si considera, inoltre, la improbabilità della celebrazione della Messa senza la presenza di fedeli nel contesto teologico della riforma liturgica, si deve concludere che il numero delle Messe celebrate nelle Diocesi interessate sarà molto esiguo, se non quasi annientato.

Sull'indecenza di questa situazione pubblichiamo qui di seguito per il vantaggio di ogni cattolico le preziose osservazioni di Fabio Adernò, Avvocato rotale e Dottore in Diritto canonico presso l'Università Pontificia della Santa Croce a Roma.


* * *

Molte Diocesi del Nord si stanno affrettando a sospendere le celebrazioni, applicando evidentemente in modo supino il decreto legge varato ieri notte, quasi che le Messe fossero partite di calcio o manifestazioni sociali.


Tale decisione è un’offesa al Creatore, perché lo Si priva del culto dovuto e soprattutto è una manifestazione di mancanza di senso di trascendenza e di fiducia nell’opera salvifica della Provvidenza e dell’azione di Dio nella storia dell’Uomo.


Applicare criteri preventivi e cautelari è sacrosanto per tutelare il bene della vita, e vanno evitate le imprudenze e le superficialità, ma d’altra parte non ha alcun senso non fare celebrare la Santa Messa, che è Sacrificio anche espiatorio offerto per la remissione dei peccati, il ristabilimento dell’amicizia con Dio, ma anche per invocare la concessione di grazie come la corporale guarigione o debellare malattie e pestilenze.


Sospendere le celebrazioni delle Messe vuol dire abbandonarsi inermi alla desolazione, all’immanenza, vuol dire privare le anime del giusto conforto, del soprannaturale sostegno.... quando invece i frutti spirituali di quel Sacrificio gioverebbero senz’altro allo spirito.


D’altra parte, amaramente si constata come sia sempre più lontano dall’attuale modernistica visione “ecclesiale” concepire di celebrare la Messa e non distribuire la Santa Comunione... diversamente invece da come insegna la storia della Chiesa, da sempre saggia nel favorire la moltiplicazione delle celebrazioni anche in contemporanea, e prudente nel consigliare di evitare la distribuzione laddove le condizioni fossero sconvenienti per i più vari motivi.

Una tale visione nega la trascendenza di quel Sacrificio sublime, e lo riduce ad “azione” umana che “vale solo” se “partecipato”.


Ma questa non è la Messa secondo la dottrina Cattolica. E la Messa non vale in proporzione al numero di comunioni che si fanno; la Messa ha un valore inestimabile e produce effetti infinitamente più grandi di tutte le nostre miserie.


Si celebrino, dunque, Messe su Messe, senza distribuzione. I fedeli facciano comunioni spirituali e offrano al Signore questa rinuncia. E Iddio abbia misericordia di noi.













domenica 23 febbraio 2020

MESSE SOSPESE A LODI. Coronavirus, la pastorale igienista tra sciacallaggio gesuita e vescovi che pregano




La Chiesa nel panico da Coronavirus. La pastorale igienista fa sospendere le Messe nel lodigiano e cremonese. Restrizioni a Milano e Padova. Per Bassetti si tratta solo di «qualche sacrificio». Non sarebbe invece il caso di intensificare le Messe per tenere lontano il virus? Il catto-igienismo è il risultato della Messa non più centro insostituibile della vita cristiana, ma semplice servizio. Lo sciacallaggio di Padre Spadaro che politicizza anche la febbre cinese. Ma ci sono vescovi capaci di uno sguardo di fede che fanno pregare i fedeli.




Andrea Zambrano, 23-02-2020

Se il vescovo di Lodi ha deciso di sospendere tutte le Messe nelle parrocchie dei comuni del lodigiano coinvolti nell’epidemia di Coronavirus, avrà avuto avuto sicuramente le sue buone ragioni. Precisamente, le ragioni sono quelle del Prefetto della cittadina lombarda che ha deciso di proibire tutte le manifestazioni pubbliche. Tra queste vi sono anche le Messe, quindi il vescovo non ha fatto altro che applicare alla lettera il dispaccio governativo.

Stessa cosa per Cremona: anche sotto al Torrazzo niente Messe. Mentre a Milano e Padova, il vescovo ha disposto di non usare l'acquasantiera e di prendere la comunione rigorosamente sulla mano.

Sicuramente nelle pieghe del Concordato o di un qualche accordo Stato-Chiesa sarà prevista anche la “clausolina” che per ragioni di ordine pubblico il governo possa anche d’imperio sospendere le Messe, però è significativo vedere come il clero sia pronto senza batter ciglio a rinunciare a ciò che è davvero indispensabile. Se la ragion di Stato prevale sulla ragion di fede, allora ditelo.

Era davvero indispensabile? La soggettività dell’emotività ha il sopravvento sull’oggettività del “manteniamo la calma” che di solito era una delle stelle polari della Chiesa, ma ha prodotto anche buffi testacoda, come quello della rassicurazione episcopale lodigiana del “massima allerta, ma nessun allarmismo”. Come sia possibile non essere allarmisti dopo che si sono cancellate Messe che probabilmente non erano state tolte nemmeno durante la Seconda Guerra Mondiale e la dominazione napoleonica, è davvero un mistero.

Ma anche questo contribuisce a creare, va da sé, quel clima che il Manzoni a proposito di un’altra celebre epidemia di febbre pestilenziale chiamava «un fatto di cieca e indisciplinata paura», davvero poco saggio se si pensa che neanche il cardinal Federigo aveva osato tanto, limitandosi a esprimere contrarietà sull’utilità della processione per le vie di Milano con la reliquia di Carlo Borromeo. Non risulta che avesse sospeso le Messe, le quali danno cibo all’anima, ma sono anche la via più veloce per arrivare dritti dritti a farci sentire dal Padre nei Cieli. Anzi, nel '500 fu proprio il Santo vescovo di Milano a portare in processione la reliquia del Sacro chiodo proprio per scongiurare un'altra pestilenza simile. 



Semmai era il caso di aumentarle le Messe, non per mettere a rischio la popolazione, ma per non cessare un minuto di chiedere a Dio di essere preservati da una pandemia e da una diffusione del Coronavirus totale. Quale Padre, se un figlio gli chiede un pesce, gli dà una serpe?

Sfumature preconciliari, direbbe qualcuno. O forse la differenza che segna una fede che si incarna da una che considera ormai la Messa un servizio come tanti, da togliere o aggiungere a piacimento a seconda di fattori sempre esterni?

Oggi invece si fermano le Messe e si proibisce la comunione in ginocchio come se il cibo per l’eternità potesse arrecare qualcosa di male per l’uomo. E si dispensano i fedeli dal precetto domenicale come se fossero già tutti mezzi moribondi sul letto pronti per l’arrivo dei monatti.

È una deriva igienista, che sta contagiando come un virus molti uomini di Chiesa e che ha contagiato anche il presidente della Cei Gualtiero Bassetti, il quale, impegnato a Bari per il noto evento dei popoli mediterranei, ha pensato di raccomandare ai fedeli di rispettare tutte le norme igieniche. «Dobbiamo allora seguire tutte le norme igieniche e certamente ci sarà qualche sacrificio da affrontare. Se è per il bene della salute e se è per il bene dei nostri cittadini, affronteremo anche qualche sacrificio ma finché non ci vengono date norme precise, anche noi siamo nella condizione di attendere».

È una deriva della pastorale igienista di una Chiesa che da un lato si mostra accondiscendente e rispettosa di tutte le regole della burocrazia sanitaria, ma dall’altro apre uno squarcio desolante su come si sia ridotta la Chiesa "in uscita", la Chiesa "ospedale da campo": chiusa per mancanza di gel antisettico. Ma alimenta così la fobia e la paura. Curioso: la leggenda nera degli untori iniziò proprio nel Duomo di Milano con la comparsa di una sostanza giallognola sugli assiti del tempio milanese. Molti secoli dopo nello stesso tempio torna a rivivere il grido del "dagli all'untore!". 



Va detto che c’è anche il rischio di essere estremisti dall’altra parte. Cioè di sottovalutare il pericolo rappresentato dal Coronavirus e collegare le misure di quarantena e semi coprifuoco con il complottismo politico e paranoico che solo i teologi dei salotti possono partorire. La vignetta pubblicata da padre Antonio Spadaro ieri mattina è un’offesa non solo al suo status di sacerdote, ma soprattutto un affronto a tutti gli italiani che il Coronavirus ce l’hanno davvero. La vignetta non merita molte descrizioni: anche in questo caso è colpa della Lega sovranista. Ovviamente è follia pura, ma Spadaro, che gode di una fiducia incondizionata del Santo Padre nonostante abbia dato prova molte volte di essere un ideologo e non un pastore, continuerà ad acquisire meriti. E poco gli importerà se anche stavolta abbia dato prova di doti di sciacallaggio da anti italiano.

Tra un estremo e l’altro però c’è una Chiesa che fortunatamente non ha perso il senso dell'orientamento e non ha alcuna intenzione di farsi tirare la giacca né dalle grida prefettizie né dal gesuitico odio manifestato dallo spin doctor di Civiltà Cattolica.

Sono i vescovi diocesani che stanno incominciando a invitare i propri fedeli a pregare per i malati (leggi QUI), ma soprattutto per chiedere a Dio di tenere lontana la peste del nuovo millennio dalle case. Il Coronavirus ha fatto la sua prima comparsa in Italia in piccoli centri urbani: paesi di provincia in cui ci si conosce tutti e dove – fortunatamente – il campanile costituisce ancora l’edificio più alto. La Nuova BQ ha raccolto la preghiera di alcuni di loro, ben sapendo che altri se ne aggiungeranno in queste ore. È a loro che tocca il compito di tenere viva la fede del popolo, mantenerlo nella speranza cristiana, perché la calma non è una virtù, e soprattutto affidarsi al Padre, perché solo «dall’Altissimo infatti viene la guarigione (Sir 38,1-2.4.6-15)». E va chiesta senza complessi igienisti.










venerdì 21 febbraio 2020

La Corona del Rosario: in tasca sempre, in qualsiasi momento






San Giuseppe Moscati, grande clinico di Napoli, portava sempre la corona del Rosario in tasca. Quando era in sala medica, di fronte a casi difficili, metteva per qualche attimo la mano in tasca, stringeva la corona e chiedeva aiuto alla Madre Divina. E le sue diagnosi avevano spesso del portentoso, a volte del miracoloso.

S. Camillo de Lellis, il Fondatore dei Ministri degli infermi, fece risuonare di Ave Maria le corsie di tanti ospedali e ricoveri per sofferenti. Ogni giorno egli recitava il Rosario con i malati all’ospedale, e ai suoi figli raccomandava, con l’esempio e con la parola, che anche «negli uffici e impieghi più materiali di casa – in cucina, guardaroba, lavanderia – si doveva abitualmente pregare recitando la corona». S. Giovanni di Dio e Santa Giovanna Antida Thouret, S. Vincenzo Pallotti e Santa Maria Bertilla, hanno svolto un’opera santa di conforto spirituale e di sostegno morale per tanti ammalati con la recita del S. Rosario che trasforma ogni letto dell’ammalato in un altare di preghiera e sacrificio vivente.

Spostiamoci ora sui monti, e pensiamo al giovane studente il Beato Piergiorgio Frassati e al maestro universitario Beato Contardo Ferrini, che portavano entrambi la corona del Rosario in tasca, appassionati alpinisti, ma ambedue ancor più appassionati amatori del Rosario, che non tralasciavano mai di recitare anche nei giorni di audaci ascensioni, ai rifugi alpini, negli alberghi o sui picchi dei monti…

Ci fu anche qualche palazzo reale in cui la recita del Rosario risuonò devota nelle grandi sale dei sovrani. La reggia in cui visse la venerabile Maria Cristina di Savoia che aveva sempre la corona del Rosario in tasca, è stata ricordata da molti per l’esempio singolare offerto dalla Venerabile, la quale, fin da fanciulla, si aggirava ogni pomeriggio per le stanze reali suonando un campanello per chiamare il personale di servizio alla recita del Rosario.

L’ultimo esempio, tanto più attuale, quanto più significativo e coraggioso, è quello del Sommo Pontefice Giovanni Paolo II, che portava sempre con sè la corona del Rosario in tasca e fu proprio durante un solenne discorso all’ONU, nel Palazzo delle Nazioni Unite, teneva il Rosario fra le mani. E nei Giardini Vaticani, durante il breve passeggio, era molto facile incontrare il Papa che sgranava piamente la corona del Rosario. Abbiamo tutti da imparare a fare tesoro di questo gioiello del Rosario, fonte di ogni grazia.















giovedì 20 febbraio 2020

“Ho scoperto la Messa tridentina. Ma quanti dubbi!” / Con una risposta di monsignor Nicola Bux






Aldo Maria Valli, 20-02-2020

Cari amici di Duc in altum, un numero crescente di fedeli, anche in Italia, si sta avvicinando alla Santa Messa in rito tridentino, celebrata secondo le indicazioni fornite da Summorum Pontificum, la lettera apostolica in forma di motu proprio di Benedetto XVI (7 luglio 2007).

Poiché non pochi lettori del blog mi chiedono indicazioni e informazioni sulla Messa tridentina, ho pensato di pubblicare a titolo di esempio una lettera ricevuta di recente, alla quale faccio seguire il parere che ho chiesto a monsignor Nicola Bux.

A.M.V.


***



Caro Valli, sono stato alla Messa in rito tridentino nella chiesa di Santi Celso e Giuliano, a Roma. Il celebrante era un giovane sacerdote, mi sembra dell’Istituto Cristo Re Sommo Sacerdote.

Nella chiesa c’è una bella immagine di san Giovanni Paolo II (sono molto devoto a questo santo) e da tale particolare deduco che i sacerdoti lì non siano lefebvriani. Pertanto non rischio scomuniche latae sententiae se decido di andarci più spesso, giusto?

Del resto, lo stesso san Giovanni Paolo II era stato nella sostanza tollerante con i fedeli “tradizionalisti” a condizione che riconoscessero l’autorità del pontefice e la liceità delle Messe in volgare.

Inoltre, se non sbaglio, il motu proprio del 2007 emanato da Benedetto XVI ha comunque permesso a tutti i fedeli che ne abbiano il desiderio di partecipare a Messe in rito tridentino, purché celebrate da sacerdoti lecitamente ordinati e in comunione con Roma.

La Messa tridentina è considerata una forma straordinaria del rito romano, e di per sé non è mai stata bandita. La regola dovrebbe essere questa fintantoché non ci siano nuove decisioni di papa Bergoglio. Conferma?

Le confesso che, come tutti quelli della mia generazione (sono nato nel 1970), sono cresciuto con le Messe in rito ordinario e non ho per niente dimestichezza con la liturgia tridentina, ma ne sono attirato.

Tra le differenze più evidenti, noto l’assenza della preghiera dei fedeli e del segno della pace (come mi era stato raccontato dai miei genitori). Non so se il brano del Vangelo coincide con quello del rito ordinario.

Nel complesso, si ha la sensazione che Cristo sia davvero il protagonista della celebrazione e non l’assemblea o il suo “presidente”.

Non vi sono i canti (con chitarre annesse!) che in base alla mia personale esperienza in alcuni contesti sembrano essere diventati più centrali della celebrazione eucaristica stessa.

Inoltre, il testo del Padre nostro dovrebbe rimanere quello tradizionale (a sua volta corrispondente quasi perfettamente alla versione greca risalente alla fine del primo secolo), senza gli adattamenti leciti ma poco convincenti che entreranno in vigore a novembre. Ho capito bene?

Lo ripeto: riconosco di non essere abituato alla liturgia tridentina e mi ci vorrà un po’ di tempo per acquisire familiarità. Ma ora che l’ho scoperta non la lascerò.

Mi può consigliare qualche lettura per aiutarmi in tal senso?

Lettera firmata

***

Risponde monsignor Nicola Bux

Caro Valli, la chiesa romana dei Santi Celso e Giuliano era la parrocchia nella quale fu battezzato Eugenio Pacelli, il venerabile papa Pio XII.

L’Istituto di Cristo Re Sommo Sacerdote, a cui appartiene il celebrante della Messa di cui parla il lettore, è di diritto pontificio e quindi cattolico a pieno titolo. Esso celebra la Santa Messa nella forma straordinaria, chiamata comunemente tridentina.

È vero che in questa Messa risalta maggiormente la centralità di Cristo, perché il sacerdote appare davvero come ministro, servitore di Dio, decentrato rispetto all’altare e alla Croce. In questa Messa, poi, l’ordine delle letture è proprio, risalente a san Girolamo. Invece l’ordine delle letture della Messa nella forma ordinaria è stato confezionato dopo il Vaticano II.

L’Istituto di Cristo Re è uno degli istituti addetti a ciò. Invece la Fraternità Sacerdotale San Pio X, composta dai sacerdoti e fedeli che hanno seguito lo scisma dell’arcivescovo Lefebvre, non è rientrata nella comunione della Chiesa cattolica, nonostante l’atto di revoca delle scomuniche e la licenza del papa regnante riguardante la celebrazione dei sacramenti del matrimonio e della penitenza.

Quanto alla Santa Messa celebrata dai loro sacerdoti, valida anche se non legittima – appunto a motivo della perdurante non comunione – dovrebbe valere quanto stabilito dal Direttorio ecumenico per le confessioni separate da Roma; ossia, i fedeli che si trovano in regioni ove non fosse facile accedere a luoghi di culto cattolico possono supplire andando dagli ortodossi e appunto dai lefebvriani. Dove invece vi fossero chiese cattoliche, non dovrebbe esserci motivo per non andare alla Santa Messa celebrata da ministri in comunione con la Chiesa cattolica.

La ragione è che la legittima celebrazione dell’Eucaristia e la vera partecipazione ad essa, presuppongono come esistente la comunione ecclesiale, per consolidarla e portarla a perfezione(cfr Giovannni Paolo II, Ecclesia de Eucharistia, 35). Tra comunione ecclesiale e comunione eucaristica c’è un nesso ineludibile.

Forse tutto ciò, nella confusione attuale, diventa difficile da comprendere. D’altronde se perdurasse lo scisma, e alla morte degli attuali vescovi della Fraternità subentrassero altri vescovi ordinati senza il mandato di Roma, costoro non sarebbero solo illegittimi come i primi, ma anche invalidi, e quindi le eventuali ordinazioni sacerdotali sarebbero nulle. Speriamo quindi che la FSSPX rientri nella comunione cattolica.

Sul Padre nostro rimando al recente libretto a più mani da lei curato, caro Valli: Non abbandonarci alla tentazione? Riflessioni sulla nuova traduzione del “Padre nostro” (Chorabooks, 2020).

Consiglio come letture utili: Claude Barthe, Storia del Messale tridentino, Solfanelli 2018. E, perdonando l’autocitazione: Nicola Bux, Come andare a Messa e non perdere la fede, II edizione, Il Giglio, 2016.

In Domino Iesu

Nicola Bux














Ecco perché il cristiano non sa più sacrificarsi e soffrire







Perché il cristiano non sa più sacrificarsi e soffrire? Perché è cambiata la Messa!

19 FEBBRAIO 2020


“Tra i fenomeni veramente assurdi del nostro tempo io annovero il fatto che la croce venga collocata su un lato dell’altare per lasciare libero lo sguardo dei fedeli sul sacerdote. Ma la croce, durante l’Eucaristia, rappresenta un disturbo? Il sacerdote è più importante del Signore? (…) Il Signore è il punto di riferimento. E’ lui il sole nascente della storia. Può trattarsi tanto della croce della passione, che rappresenta Gesù sofferente che lascia trafiggere il suo fianco per noi, da cui scaturiscono sangue e acqua -l’Eucaristia e il Battesimo-, come pure di una croce trionfale, che esprime l’idea del ritorno di Gesù e attira l’attenzione su di esso. Perché è Lui, comunque, l’unico Signore: Cristo ieri, oggi e in eterno.”[1]
Queste parole sono state scritte dall’allora cardinale Ratzinger: la croce sembra aver rappresentato un disturbo e il sacerdote è diventato più importante del Signore. Il futuro Benedetto XVI con queste riflessioni esprime un invito a rimettere la Croce sugli altari.

Ma il problema è a monte. Quando davvero è stata rimossa la Croce?

Di fatto con la riforma liturgica allorquando il punto di gravitazione si è spostato da Dio all’assemblea, cioè all’uomo. E infatti, sempre l’allora cardinale Ratzinger, denunciava, nella Messa, un’enfatizzazione della dimensione comunionale a discapito di quella sacrificale:

“La liturgia cristiana –Eucaristia- è per sua natura festa della resurrezione, ‘Mysterium Paschae’. In quanto tale essa porta in sé il mistero della croce che è poi l’intima premessa della risurrezione. Ci troviamo semplicemente di fronte ad un eccessivo deprezzamento quando l’Eucaristia viene spiegata come il pasto della comunità: essa è costata la morte di Cristo e la gioia che essa promette presuppone l’entrata in questo mistero di morte. L’Eucaristia è orientata escatologicamente ed è quindi centrata sulla teologia della croce.”[2]
Ora -chiediamoci- tutto questo che conseguenze ha prodotto nella vita dei fedeli?

Tolta la Croce dalla Messa, tolta la Croce dalla vita.

Molti dicono che oggi la fede sia in crisi. Ovviamente si tratta di un’affermazione giusta e anche corretta, perché quando si parla di fede s’intende la sua realtà complessiva, ciò a cui essa riconduce e ciò di cui essa ha bisogno per essere davvero tale. Ma se volessimo essere precisi, dovremmo dire che non basta parlare di crisi della fede, piuttosto dovremmo parlare di crisi dello “spirito della fede”. Nel senso che c’è ancora chi crede nelle verità della fede, ma sono divenuti pochi, se non pochissimi, coloro che configurano la loro vita alla fede e la modellano su di essa.

Togliere la centralità della Croce dalla liturgia ha significato (relativamente al rapporto indissolubile lex orandi-lex credendi) un togliere la centralità della Croce dalla vita.

Il rifiuto della Croce non cambia di poco la vita cristiana, bensì di molto: anzi la distrugge. Negare la Croce, vuol dire convincersi di una capacità di auto-salvazione. Ciò conduce a respingere la sofferenza e lo spirito di sacrificio; a pensare che tutto sommato ciò che conta siano i propri diritti e basta. Guai a farsi mettere i piedi in faccia. Guai a vivere con santa pazienza. Così si sfascia tutto. E anche i cristiani si adoperano in questo. Si sfascia la famiglia, perché non si sopportano più i coniugi. Non si fanno più figli, perché non ci si vuole sacrificare e non si vuole rinunciare. E -di conseguenza- sparisce anche la convinzione che il peccato sia il problema più grave.

Concludiamo con queste precise parole di un sacerdote contemporaneo che da un certo momento in poi ha deciso di celebrare nel Rito Tradizionale. Si tratta di don Alberto Secci. Queste parole sono tratte da una sua omelia:

“Se la Messa non è la Passione di Gesù piano piano diventa una presenza morale quella del Signore! Poi tu sei li che cerchi di stare con Gesù facendo del sentimento e della preghiera per destare delle buone intenzioni e cosi hai compiuto la fine della presenza del Signore e la distruzione della vita cristiana. Ora voglio spezzare una lancia a favore dei preti. Voi dovete avere una grande carità nei confronti dei sacerdoti perché non sono stati loro a cambiare la Messa. Un sacerdote dà la vita per la Messa e se gli cambiano la Messa gli han distrutto la vita. Io ho una grande stima verso i sacerdoti perché è un miracolo se vivono ancora così. Gli hanno tolto tutto! Qui vi chiedo di comprendere fino in fondo il dramma. L’hanno fatto il presidente di un’azione di preghiera che dice: Gesù è presente, ci vuol bene, ora dobbiamo voler bene agli altri etc. ma vi immaginate? E’ un training autogeno, un auto convincimento… questa non è la Messa! (…) Voi immaginate i poveri preti: ci hanno tolto questo. Di cosa viviamo? Di cosa vivremo? Ma hanno tolto anche alle anime questo: come fa uno a rimanere fedele tutta la vita al suo matrimonio? Come fa ad accettare le gioie e le sofferenze di una vita? Come fa ad accettare la malattia e la morte se non dentro questa azione di Cristo?”



[1] J.Ratzinger, Introduzione allo spirito della liturgia, Cinisello Balsamo (Milano) 2001, p.80.

[2] J.Ratzinger, La festa della fede, Milano 1990, p.63.


Dio è Verità, Bontà e Bellezza
Il Cammino dei Tre Sentieri





mercoledì 19 febbraio 2020

«Dottore, mi aiuti a guarire». «Perché non chiede l’eutanasia?»





Manon non è stanca di vivere ma i medici si sono stancati di quelli come lei. Malati psichiatrici e mentali, candidati a forza alla “buona morte” in Olanda




Caterina Giojelli, 19 febbraio 2020

«Che ne dici di chiedere l’eutanasia?». Manon era allibita: a suggerirle di farla finita era stato il suo nuovo psichiatra, l’ultimo di una lunga serie a cui la donna olandese era andata con fatica e speranza a chiedere aiuto. «Possono qualificartiۛ», le aveva spiegato, assicurandole che aveva già tentato tutto quello che si poteva tentare per convivere con una diagnosi di disturbo da stress post-traumatico complesso come la sua, «ma io chiedo un aiuto per guarire, non per morire», aveva pensato la donna arrabbiata, stupefatta.

«IO VOGLIO VIVERE. NON VOGLIO MORIRE»

«Questo accadeva circa sette anni fa», quando l’eutanasia per i malati psichiatrici non era ancora a regime e i sofferenti come Manon potevano dar vita a una domanda di cura a mezzo “buona morte” dei disturbi mentali. Tre anni dopo Manon era a pezzi e le venne proposto di tentare la terapia elettrocompulsiva, «e se non mi aiutasse?», aveva chiesto al nuovo medico che l’aveva in cura, «allora potremo virare sulla traiettoria dell’eutanasia» le fu risposto. Oggi Manon continua a soffrire. Non è affatto contraria all’eutanasia e non esclude di prenderla in considerazione un giorno ma non oggi, «io voglio davvero vivere. Il mondo gira al contrario» dice di un mondo in cui lei non è stanca di vivere ma i medici sono stanchi di lei. E presentano l’ipotesi letale come unica via d’uscita da sofferenze come la sua.

LA BUONA MORTE PER LE DONNE

Da quando è legale per i malati psichiatrici, nei Paesi Bassi le richieste di eutanasia stanno aumentando. E “informare” le persone della possibilità che viene loro offerta, far sapere che accanto a una medicina che cura ce n’è un’altra che “aiuta” in un altro modo, sta diventando il pallino di molti medici. Una recentissima indagine commissionata dal Ministero della sanità pubblica all’Euthanasia Expertise Center ha dimostrato che la nuova falange di pazienti psichiatrici (oltre 3.500 dal 2012) che negli ultimi anni ha rivendicato la “buona morte” è composta al 60 per cento da donne, e che tre quarti dei pazienti psichiatrici che ne ha poi beneficiato erano donne. Età media cinquant’anni, tra le cause di sofferenza “senza speranza” più riscontrate nelle pazienti figuravano la depressione, il bullismo, abusi sessuali, disturbi da stress post traumatico. Come Manon.

PURCHÉ SI PARLI DI MORIRE

Lo studio approda anche a conclusioni bizzarre, come sostenere che siccome solo il 9,5 per cento delle domande sono state esaudite, non solo per inammissibilità al protocollo, ma perché nella metà dei casi i pazienti hanno deciso spontaneamente di ritirare la richiesta di eutanasia e optare per vivere, «ciò dimostra quanto sia importante prenderla in considerazione e avviare un discorso sulla morte che non finisce sempre con la morte» sostiene il direttore del centro Steven Pleiter. Peccato che tra il dovere prendere in considerazione l’eutanasia, presentata appunto come panacea di tutte le sofferenze possibili e patibili, e il farla finita una correlazione esiste lo stesso: chi non viene ammesso al protocollo o riceve tempi di attesa troppo lunghi o ancora si trova a discutere questa scelta con gli psichiatri finisce per risolvere la faccenda da solo, tentando quel gesto estremo, il suicidio, che si è rivelato fatale per sessanta dei pazienti oggetto di studio.

DEPRESSI E PEGGIO ISTRUITI

Ogni anno l’Euthanasia Expertise Center dà la “buona morte” a una sessantina di persone come Manon. Separare il desiderio di morire da una sofferenza psicologica è difficile, giocare con la morte è spesso parte dei disturbi borderline, ma come non temere che una maggiore offerta crei ulteriore domanda tra pazienti psichiatrici per definizione sprovvisti di quell’esercizio di libertà e autodeterminazione che sta alla base della retorica eutanasica? Sarebbe come non riflettere su un’altra caratteristica emersa dallo studio: il 40 per cento di chi aveva avanzato richiesta di eutanasia aveva un grado di istruzione notevolmente basso e al di sotto della media olandese. Secondo i ricercatori, le persone istruite dispongono di maggiori risorse per affrontare le conseguenze della loro malattia e sono più in grado di richiedere e ricevere aiuto. Curioso che proprio dalla società di intellettuali e meglio istruiti sia disceso al “popolo” quel principio per cui i difettosi è meglio eliminarli e gli inguaribili pietosamente sopprimerli. Curioso che a fare le spese del laboratorio eutanasia nei paesi più progrediti nei diritti civili siano sempre i più sprovveduti.

Foto Ansa










Il cardinal Ruini contro il multiculturalismo: “Non è valore in sé”





Dalla critica al multiculturalismo alla difesa dei valori non negoziabili, passando per la non necessità di un “partito dei cattolici”: il cardinal Camillo Ruini e il senatore Gaetano Quagliariello scendono in campo per la difesa del cattolicesimo conservatore.






di Francesco Boezi

Il cardinal Camillo Ruini e il “ruinismo” sono riapparsi sulla scena politico-culturale del Belpaese. Dopo l’intervista rilasciata a Il Corriere della Sera, quella in cui l’ex vertice della Cei ha domandato alla Chiesa cattolica di non chiudere le porte al dialogo con la Lega di Matteo Salvini, il porporato italiano è tornato a dire la sua mediante “Un’altra libertà – Contro i nuovi profeti del paradiso in terra”.

Usando la definizione del coautore della dialettica declinata a mezzo libro, ossia quella del senatore Gateano Quagliariello, si tratta di un “dialogo laico”, centrato sulla “libertà oggi”, sui “suoi confini” e sui suoi “falsi profeti”. Il testo, che è edito da Rubettino, è curato dalla giornalista Claudia Passa. I ruiniani, e questa di per sé già rappresenta una notizia, si stanno riorganizzando: lo scorso novembre è nata un’associazione di laici presieduta da Eugenia Roccella. La pubblicazione dell’opera libraria che è prevista per giovedì 20 coincide quindi con la riproposizione di istanze che sembravano divenute secondarie rispetto allo stradominio del “cattolicesimo democratico”.

L’obiettivo non è quello di ridare vita a “vecchie collateralità” – come le ha chiamate di recente l’ex segretario della Conferenza episcopale italiana, mons. Nunzio Galantino – bensì quello di lanciare un “grido di dolore per la condizione della civiltà occidentale”. Per quanto le argomentazioni proprie della politica, almeno nel senso alto dell’espressione, abbiano trovato dimora nello scambio tra l’ecclesiastico ed il senatore.

Il cardinal Camillo Ruini, per esempio, ha sin da subito annotato, proprio nel primo capitolo del libro, come il “multiculturalismo” non possa essere considerato un valore a se stante. L’alto prelato, in materia d‘immigrazione e di gestione dei fenomeni migratori, ha riportato alla luce le posizioni del cardinal Carlo Caffarra: l’ex arcivescovo di Bologna, che è deceduto nel 2017, aveva svelato di preferire una modalità d’ accoglienza rivolta soprattutto a “persone conosciute” o “identificate”. La linea dei “porti aperti” a tutti, in chiave “emergenziale”, non è percepita come giocoforza dogmatica da una parte della Chiesa cattolica. E questo libro lo conferma. La bioetica poi – com’è naturale che sia – trova molto spazio all’interno di “Un’altra libertà”. Il cardinal Camillo Ruini, tenendo in considerazione la visione del mondo di Benedetto XVI, si scaglia contro il relativismo: “Su queste basi – si legge – viene costruito il ben noto argomento: lasciamo ciascuno libero di abortire, o di scegliere l’eutanasia, mentre al tempo stesso viene escluso il diritto di pensare che l’aborto e l’eutanasia siano un male in se stessi e di agire di conseguenza”. La riflessioni presentate da Ruini e Quagliarello si interessano persino del “post-umano”. Ma a tenere banco nel testo librario è il rapporto che deve intercorrere tra i cattolici e la politica.

Se le politiche sul “fine vita” proposte dagli ambienti progressisti sono equiparabili alla “eutanasia di una civiltà”, infatti, il “Parlamento”, per il duo conservator-liberale, non è affatto esente da “responsabilità”. E questo aspetto viene rimarcato in relazione al pendio scivoloso intrapreso anche nel corso di questa legislatura. Dal “falso laicismo” alla “falsa realizzazione dei diritti civili”: gli avversari ideologici del cattolicesimo conservatore, e dell’uomo per com’è concepito dal cristianesimo, vengono chiamati per nome e cognome. Qual è, dunque, il ruolo che i cattolici sono chiamati ad esercitare, considerato l’humus della società contemporanea? Il cardinal Camillo Ruini grossi dubbi non ne ha. Anzi, il porporato si dice certo di come la “rilevanza pubblica” possa passare solo attraverso “la convergenza dei cattolici sui valori fondamentali”. E non è affatto necessario dare vita ad un “partito dei cattolici”, su cui tanto Ruini quanto Quagliariello appaiono molto più che dubbiosi. Quella della creazione di un partito confessionale, semmai, è sempre stata e rimarrà una “suggestione”.

Lo spartiacque, in sintesi, diviene l’atteggiamento che le varie formazioni partitiche mettono in campo nei confronti dei “valori non negoziabili”. La “questione antropologica” è la base cui guardare per operare una scelta. Ruini, a titolo esemplificativo, cita la cosiddetta “teoria gender”. Uno dei temi delimitati ed utili a stabilire una linea di demarcazione.


Fonte: il Giornale









martedì 18 febbraio 2020

QUELLA VICINANZA TROPPO STRETTA TRA ONU E SANTA SEDE. Il Catholic Register intervista Stefano Fontana





17 febbraio 2020 By editorNOTIZIE DSC

Ecco l’intervista di Edward Pentin a Stefano Fontana per il “Catholic National Register”. Qui la versione in inglese pubblicata.

Segnaliamo anche l’articolo dello stesso Pentin sul medesimo argomento: leggi .

Qui la traduzione in italiano di Sabino Paciolla: leggi





Come probabilmente sapete, il Vaticano e in particolare la Pontificia Accademia delle Scienze sostiene spesso gli Obiettivi di sviluppo sostenibile (SDG), ma senza mostrare alcuna reale opposizione al numero 5 che promuove i diritti riproduttivi e l’uguaglianza di genere. Che cosa dice di questo approccio – che evita questioni morali delicate per collaborare con altri più laici accettabili come il cambiamento climatico e la povertà?


Alla sua domanda bisogna rispondere in due fasi: prima di tutto constatare la differenza con il recente passato; in secondo luogo cercare di capire il motivo della inversione di priorità cui lei accenna alla fine della domanda.

Quanto al primo aspetto, nel 2014 il nostro Osservatorio ha dedicato un numero della sua rivista al seguente tema: “Tutto ha avuto inizio al Cairo, l’ideologia post-umana degli organismi internazionali”. In un suo articolo qui pubblicato.

Alla conferenza del Cairo su “Popolazione e sviluppo” (1994) e poi in quella di Pechino (1995) sulla donna, il presidente della delegazione della Santa Sede, cardinale Renato Raffaele Martino, Osservatore permanente all’ONU, portava avanti una linea di netta opposizione alle direttive ONU, allora spinte da Stati Uniti e Unione Europea. La delegazione, sostenuta da Giovanni Paolo II che seguiva attentamente gli avvenimenti, negava il supposto problema della sovrappopolazione mondiale, si opponeva al controllo delle nascite tramite la pianificazione familiare, si dissociava dai cosiddetti “diritti riproduttivi”, espressione che proprio lì venne coniata per la prima volta, si opponeva all’introduzione di espressioni come “contraccezione d’emergenza”. Il cardinale Martino, scrivendo di queste cose in un numero della rivista del nostro Osservatorio, ricordava che nel marzo del 1994 Giovanni Paolo II inviò una eloquente lettera al Segretario generale delle Nazioni Unite e ai Capi di Stato di tutti i Paesi partecipanti. Sei mesi dopo il Cairo, egli pubblicò l’enciclica Evangelium vitae e in prossimità del vertice di Pechino la Lettera alle Donne.

Ricordando queste cose è evidente l’attuale rovesciamento di prospettiva nelle relazioni tra Santa Sede e ONU, nonostante i “pericoli” iniziati al Cairo si siano nel frattempo acuiti. La piattaforma d’azione del Cairo doveva durare fino al 2015, quando fu rilanciata fino al 2030 con un nuovo programma ancora più preoccupante del precedente in quanto prevedeva perfino l’obiettivo di cambiare su questi temi la cultura e la religione dall’interno.

Il cardinale Martino aveva capito che si era aperto un nuovo fronte, quello delle parole. Al Cairo e a Pechino la Chiesa contraddiceva l’uso di espressioni come “salute produttiva”, mentre oggi la Santa Sede adopera queste espressioni. La Chiesa dovrebbe lottare per le parole a cominciare dalla parola “sostenibilità” che nel contesto ONU viene usata in modo inaccettabile dal punto di vista cattolico. Espressioni come “conversione ecologica” e come “ecologia integrale” possono piacere nell’ambiente ONU ma sono confuse dal punto di vista della teologia cattolica.

Per arrivare al secondo punto, il rovesciamento di prospettiva ora visto ha prodotto un altro rovesciamento: i principi legati alla legge morale naturale come l’aborto, la fecondazione artificiale, il controllo delle nascite non vengono più considerati di primaria importanza e da difendere ad oltranza, sostituiti dalla società multi-religiosa, dalla preoccupazione ecologica e dalla lotta alla povertà. Faccio notare che le stesse espressioni “diritto naturale” e “legge morale naturale”, così frequenti e centrali fino a Benedetto XVI, sono sparite dal linguaggio della Chiesa.


Perché la Santa Sede è così apparentemente entusiasta di collaborare con l’ONU?


Anche Paolo VI, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, nei loro discorsi all’Assemblea delle Nazioni Unite, avevano avuto parole di apprezzamento per l’ONU, però non ne avevano mai sposato l’ideologia e la Chiesa aveva agito in due modi: proponendo in positivo visioni diverse e alternative radicate nel diritto naturale e nella rivelazione; combattendo tramite i suoi Nunzi e le delegazioni vaticane nei vari consessi ONU le distorsioni etiche e politiche. I rappresentanti della Santa Sede non firmavano, come Osservatori, una direttiva d’azione o un accordo sullo sviluppo umano pur positivo in molti punti se non era conforme alla legge naturale e divina in materia per esempio di aborto o di sessualità. Oggi nessuna delle due cose sembra avvenire più.

Lei chiede perché. Rispondo: per lo stesso motivo per cui la Chiesa oggi dice che bisogna collaborare con tutti perché la verità nasce dal dialogo e dal confronto. Cioè per una concezione esistenzialistica e storicistica della presenza della Chiesa nel mondo e quindi anche nel cotesto internazionale. Per questo sostenitori del controllo delle nascite e neomalthusiani – proprio quelli contro cui combatteva la Santa Sede di Giovanni Paolo II e del cardinale Martino – fanno parte di organismi vaticani e sono costantemente invitati e ascoltati. La nuova Chiesa rahneriana concepisce se stessa “nel mondo”, in cammino su un piano di parità con tutti gli altri.


Qual è la sua opinione sul fatto che il Papa stia cercando di convincere il Segretario Generale delle Nazioni Unite a creare una Giornata Mondiale della Fraternità Umana? È un tentativo per una sorta di religione unica al mondo?


Questo appiattimento sulle idee e sul linguaggio sull’ONU secolarizza la fede cattolica, togliendole dal punto di vista filosofico l’impianto metafisico, e dal punto di vista teologico l’assolutezza dottrinale. In questo modo la fede cattolica diventa un “percorso” accanto ad altri, non avendo più la pretesa di poter dire una parola di salvezza anche per le questioni temporali. Un tempo la Chiesa parlava di pace, convivenza e fraternità sulla base: a) della legge naturale, b) del Vangelo di nostro Signore. Oggi ne parla nel senso della collaborazione tra le religioni. Il cambiamento è notevole. Non tutte le religioni accettano il diritto e la morale naturali e, naturalmente, il Vangelo. Il dialogo con le religioni e con le istituzioni internazionali si incentra quindi su un minimo comune denominatore umanistico, generico e universalistico. Mettersi a servizio di questo obiettivo significa pensare che le religioni possano convergere in alcuni obiettivi umanistici lasciando da parte le rispettive teologie, il che è impossibile e pericoloso. Già Maritain si era sbagliato su questo punto. Le religioni considerano i problemi umani in base alla concezione che hanno del volto di Dio. Per farle convergere su un’unica visione di giustizia e di pace, per esempio, bisogna stravolgerle e uniformarle in modo forzato al ribasso. Pensare ad una giornata della fraternità umana da condividere con tutte le religioni significa mettere da parte la legge naturale e il Vangelo.


Quali sono i pericoli di questa collaborazione e in che modo è diversa dai precedenti pontificati?


Credo di aver già risposto, almeno parzialmente, a questa domanda. Ho fatto un esempio della notevole differenza di impostazione rispetto a Giovanni Paolo II rispetto ai rapporti tra Santa Sede e ONU lungo gli anni Novanta del secolo scorso. Ho anche segnalato che il pericolo principale è la secolarizzazione della religione cristiana. Se dovessi aggiungere ancora qualcosa, direi che è una forma di adeguamento della fede cattolica alle logiche del mondo, pensando forse che proprio lì Dio si auto-comunica. Società multi-religiosa, religione ecologica, immigrazioni pianificate sono i tre principali aspetti della “religione secolare” di oggi, fatta propria dall’ONU. Ma è proprio su questi punti che anche la Chiesa sta convergendo senza preoccuparsi troppo di dire qualcosa di specifico e di proprio.

Edward Pentin