domenica 28 febbraio 2021

Tavola, talamo e toilette: la Chiesa che verrà inquieta già

 


Passare dalle tre “S” (sacrificio, sacerdozio, sacramento), alle tre “T” (tavola, talamo, toilette): mangiare, copulare e occuparsi della reciproca pulizia, espressione del “prendersi cura”. Il caso di un forum col vescovo di Belluno delinea scenari da neo Chiesa senza più sacramenti.




Luisella Scosati, 28-02-2021

La pandemia è diventata la ghiotta occasione per accelerare il processo di de-cristianizzazione della Chiesa cattolica. Dopo che l’idea di un “cambio di paradigma” nella Chiesa è stata sdoganata dall’attuale Pontefice, non passa giorno in cui non si abbiano notizie di applicazioni creative di questo nuovo ideale. Archiviato il principio dell’ermeneutica della riforma nella continuità, quasi fosse nient’altro che l’opinione personale di Benedetto XVI, non può che essere la fantasia la facoltà più produttiva di questa “stagione ecclesiale”.

Il 9 luglio scorso, il Vescovo della diocesi di Belluno, S. E. Mons. Renato Marangoni aveva preso parte ad un dibattito, organizzato dal forum di Limena, insieme ad Andrea Grillo. Titolo: la Chiesa che verrà (vedi qui). Ahi. Il titolo richiama un articolo di Ghislain Lafont, monaco benedettino dell’Abbazia Sainte-Marie de la Pierre-qui-Vire (fondata nel 1850 dalla grande figura di Jean-Baptiste Muard), pubblicato l’anno scorso sulla rivista Munera.

Nell’articolo, Lafont auspicava il passaggio da una Chiesa identificata nel binomio fides et sacramenta, che «corrispondeva a una percezione un po’ negativa della Rivelazione», ad una concepita come Evangelium et donum Spiritus Sancti. Lafont ritiene che questa “seconda chiesa” debba sì inglobare la fede e i sacramenti, ma mutandone il significato. La Chiesa, a dir suo, dovrebbe convertirsi, in funzione del lavoro comune per stabilire la fraternità tra gli uomini; «da rimedio per il peccato fondato su un’istituzione forte, opponibile a tutte le altre, dobbiamo passare a una capacità positiva di costruire la fraternità umana.

Da un atteggiamento esclusivo e ostile, giungere a un’apertura, a una comunicazione o persino a una collaborazione tra tutte le istituzioni. Passare dal denunciare l’errore (interno o esterno) a un incontro attivo per il bene». I riferimenti “profetici” di questa specie di conversione vengono rintracciati da Lafont nell’incontro interreligioso di Assisi, del 1986 e nell’appello di Abu Dhabi, del 2019. La dichiarazione Dominus Iesus, che si colloca in mezzo ai due “eventi profetici”, non viene ovviamente menzionata; anzi, dev’essere considerata uno spiacevole incidente del percorso, dal momento che la Chiesa che verrà è chiamata a rinunciare all’esclusività per accettare «di essere un mezzo, con altre Chiese, religioni, istituzioni non confessionali, di questa cultura attiva della fraternità».

Il senso del discorso è che non c’è (più) un’umanità da salvare: la salvezza «è già data, poiché il peccato è perdonato». Anche il Concilio Vaticano II dev’essere superato, in quanto esso, nel rapporto con le altre religioni, afferma pur sempre un ordine, «le cui forme sono pensate a partire dalla forma perfetta, quella cattolica». Brutta roba. Occorre invece privilegiare «l’aspetto dinamico: ognuna delle componenti di questo ordine articolato è ormai considerata nella sua capacità di costruire la fraternità umana».

Il passaggio è dunque tra questi due modelli di Chiesa: il primo basato sulla fede e sui sacramenti necessari per la salvezza eterna; il secondo su un Vangelo sine glossa, ossia, secondo la spiegazione di Lafont, che vada al di là delle formulazioni dogmatiche e magisteriali, per aprirsi ai doni dello Spirito. E questa conversione, necessaria per costruire la fraternità, deve comportare un «nuovo modo di fare e comprendere: il modo di dire la fede, quello di celebrare e pensare la liturgia, quello di assicurare il governo». Aspetti che certamente – Lafont ne è consapevole – incontrano forti resistenze; ma «chissà se il trauma della pandemia non vincerà queste resistenze?». Benedetta pandemia, che ci dà una mano a rovesciare la barca di Pietro!

E’ quello che si auspica Mons. Marangoni, evocando l’immagine dei discepoli di Emmaus di Arcabas (de gustibus...): «dopo l’incontro di Cleopa e del suo compagno con il Risorto l’artista raffigura la porta aperta, il cielo stellato, una sedia che si sta rovesciando… quella sedia che si sta rovesciando è un’immagine molto bella di Chiesa in questa stagione che stiamo vivendo». Contento lui, stiamo tutti più tranquilli.

Anche Andrea Grillo propone un cambio di paradigma, proponendo di passare da una Chiesa fondata sulle tre “S” (sacrificio, sacerdozio, sacramento), alle tre “T” (tavola, talamo, toilette). Sissignori: mangiare, copulare (non si capisce se il vincolo coniugale sia richiesto) e occuparsi della reciproca pulizia, espressione del “prendersi cura”.

Marangoni inizia così la rivoluzione auspicata dal duo Lafont-Grillo, rallegrandosi del fatto che la pandemia ha finalmente permesso di togliere i banchi e mettere le sedie. In effetti a tavola (la prima delle tre “T”) con una panca... è alquanto scomodo. Non osiamo immaginare cosa diventeranno le chiese quando si passerà al talamo e alla toilette.

Intanto però la pandemia sta offrendo l’opportunità di realizzare il grande sogno di detronizzare l’Eucaristia, che da fons et culmen della vita cristiana, viene letteralmente dissolta nel nuovo moralismo del “prendersi cura”. Altrove, infatti, (vedi qui), Ghislain Lafont ricordava che «il sacramento dell’eucaristia non sembra al primo posto nell’economia della fede. Ciò di cui si tratta per l’umanità è rendere a Dio un sacrificio spirituale che consiste interamente nella pratica della carità: verso Dio, verso se stesso, verso il prossimo. Sacrificio nella misura in cui questo si realizza nel movimento di donare, di chiedere, di ricevere, che è il ritmo stesso dell’amore e implica una felice rinuncia».


Di fronte alla proibizione di celebrare pubblicamente l’Eucaristia «avrei preferito con la mia comunità monastica continuare a celebrare insieme – almeno finché il Coronavirus non ci separi - la Liturgia delle Ore senza celebrare l’Eucaristia. Tenuto conto che non si può condividere l’Eucaristia con gli altri battezzati a noi vicini, ma la si può celebrare solo “tra noi” a porte chiuse».


Forse bisognerebbe riconsiderare con maggiore attenzione l’episodio che gli evangelisti Marco, Matteo e Giovanni mettono in luce, appena prima del tradimento del Signore. La condanna scandalizzata dell’unzione di Gesù da parte di Maria di Betania si unisce ad una inopportuna preoccupazione dei discepoli per i poveri. Il più scandalizzato è proprio lui, il traditore, che sembra anche il più zelante difensore dei “poveri”. In verità, san Giovanni lo smaschera: dei poveri non gli importava nulla.

E non poteva essere diversamente, perché non gli importava più nulla del Signore. Se l’Eucaristia non è al centro, se l’amore verso il Signore presente nell’Eucaristia non è più al primo posto – come auspicato da Lafont e dai suoi epigoni – il “prendersi cura”, la fratellanza, i poveri sono solo dei pretesti per nascondere la tremenda verità del tradimento. E Giuda era, a quanto pare, membro attivo del primo “collegio episcopale”.












sabato 27 febbraio 2021

La filosofia cristiana che spiega la crisi di oggi. Di Roberto Marchesini.





Pubblichiamo la recensione di Roberto Marchesini al nuovo libro di Stefano Fontana uscita ieri su la Nuova Bussola Quotidiana.

26 febbraio 2021By adminNOTIZIE DSC

Per ordinare il libro si può scrivere a info@vanthuanobservatory.org



Una situazione ormai classica: i cattolici si oppongono ai «nuovi diritti» (aborto, maternità surrogata, omosessualità, matrimoni gay, eutanasia…) ma non sanno perché. E non sanno neppure comunicare in modo efficace le loro ragioni. Intendiamoci: non credo che, se riuscissero a comunicare meglio le loro ragioni, riuscirebbero comunque a convincere qualcuno. Ma non è questo il punto. Il punto è che molte persone, ben orientate e di buona volontà, non riescono a dare ragione della speranza che è in loro, persino… a loro stessi. Purtroppo, questo problema mina l’efficacia apologetica dei cattolici e, soprattutto, abbandona il mondo all’abisso del male, della morte e della sofferenza.

La causa di questo problema è presto detta: viviamo in un contesto culturale costruito a tavolino, da almeno cinque secoli, esattamente per raggiungere questo obiettivo. La filosofia moderna è nata con lo scopo di togliere ai cattolici gli strumenti filosofici e linguistici che permettono di costruire una barriera intorno alla legge naturale.

Facciamo qualche esempio che riguarda la filosofia. La legge naturale risplende in tutta la sua verità ed evidenza semplicemente utilizzando un pensiero di tipo metafisico. Sollevando lo sguardo dalla materia, vediamo che la realtà è un insieme meravigliosamente ordinato e finalistico; il bene è quindi ciò che porta verso il fine, male ciò che allontana da esso. Il principio che dà senso e ordine alla realtà è il Logos (che i cattolici sanno incarnato in Gesù); l’insieme delle leggi che permette la realtà come la vediamo è la legge naturale; l’uomo percepisce la legge naturale sottoforma di leggi morali e religiose; le leggi morali e religiose hanno, tra le loro conseguenze, la difesa dei più deboli. È sufficiente negare la metafisica per far crollare tutto. Infatti il pensiero moderno ha negato che l’uomo possa conoscere il Logos, la legge naturale e le leggi morali e religiose; ha stabilito, infatti, che l’uomo possa conoscere esclusivamente ciò che ha una estensione, cioè la materia. Eliminata la metafisica, non c’è altra possibilità che accettare il pensiero moderno, anche se non lo si condivide.

Veniamo al linguaggio. La parola «forma», che nella filosofia classica indicava la parte essenziale di ogni cosa, per il pensiero moderno indica ciò che è accessorio, superfluo; non diciamo forse «è solo una questione di forma»? La parola «natura» – che, nella filosofia tradizionale, indica il principio che guida lo sviluppo di ogni cosa verso il suo fine – diventa nel pensiero moderno ciò che non è contaminato dall’uomo, dal pensiero, dal Logos. Eliminate le leggi morali e religiose, ecco che i deboli sono in completa balìa del più forti. Del resto, Darwin ci dice che «lo fanno anche gli animali»… quindi è «naturale».

Ora: perché dovremmo occuparci di astruse questioni filosofiche? Perché non sono poi tanto astruse, ma hanno una ricaduta pesantissima sulla nostra vita. Un esempio? Leggiamo cosa scrive il marchese De Sade nel suo famoso pamphlet intitolato Francesi, ancora uno sforzo se volete essere repubblicani: «Se dunque è incontestabile che noi abbiamo ricevuto dalla natura il diritto di esprimere i nostri desideri indifferentemente a tutte le donne, è fuori discussione anche il diritto che abbiamo di poterle obbligare a sottomettersi a quei desideri, e non in esclusiva, il che sarebbe una contraddizione, ma momentaneamente. È incontestabile infatti che è nostro diritto stabilire delle leggi che le costringano a cedere alla passione di chi le desidera; e possiamo usare legalmente la violenza stessa, perché essa è un effetto del nostro diritto. La natura non ha forse dimostrato che esso ci spettava, dal momento che ci ha concesso la forza necessaria per sottometterle a noi?». Puntuale e preciso: la «naturale» legge del più forte permette all’uomo di fare della donna ciò che vuole.

Riassumo: accettando il contesto filosofico e linguistico attuale, la morale tradizionale diventa assurda e non trasmissibile. Il contesto è stato creato apposta per ottenere questo effetto. Ecco perché non ha senso affermare che «la Chiesa deve parlare un linguaggio moderno»: è proprio il linguaggio moderno che rende assurdo ciò che la Chiesa dice. Bisogna, piuttosto, tornare ad insegnare una filosofia e un linguaggio tradizionale, cioè gli strumenti che rendono sensate le leggi morali e religiose.

Questo è il motivo del mio entusiasmo per l’ultima pubblicazione dell’amico Stefano Fontana (in foto), firma di punta de La Nuova Bussola Quotidiana. Dopo Filosofia per tutti (2016), La sapienza dei medievali (2018) e La sapienza dei Greci (2020), tutti per i tipi Fede & Cultura di Verona, ecco il bellissimo La Filosofia cristiana (Fede & Cultura, Verona 2021). Si tratta di un vero corso di filosofia suddiviso in moduli: ontologia, gnoseologia, teologia, antropologia, morale e politica. Il linguaggio è quello dell’alta divulgazione, accessibile a tutti senza scadere nel semplicistico. Si tratta di un’opera tanto meritoria quanto importante della quale consiglio a tutti la lettura.

Per ordinare il libro scrivere a info@vanthuanobservatory.org













venerdì 26 febbraio 2021

L’imposizione della Comunione sulla mano: un abuso e una forma di clericalismo





25FEB
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by Aldo Maria Valli

Cari amici di
Duc in altum, l’imposizione della Comunione sulla mano, giustificata da infondate ragioni igieniche, è in realtà un abuso e una forma di clericalismo. Lo spiega don Federico Bortoli in questo esaustivo contributo che volentieri vi propongo. Don Federico è sacerdote della diocesi di San Marino-Montefeltro.

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di don Federico Bortoli

La questione della Comunione sulla mano è una tematica che mi sta molto a cuore e ho ampiamente trattato nel mio libro La distribuzione della Comunione sulla mano edito da Cantagalli, con la prefazione del cardinale Robert Sarah. Perciò in queste righe non affronterò il tema nel suo complesso, con tutte le sue problematiche, ma mi limiterò a considerare se esiste un fondamento medico-scientifico e giuridico per imporre la Comunione sulla mano, come si sta facendo in molti luoghi. Naturalmente per ciò che concerne l’ambito medico farò riferimento a esperti in materia, mentre per l’aspetto giuridico cercherò di dare il mio contributo di canonista, basandomi su ciò che dice realmente il diritto canonico, che come ho avuto modo di apprendere nei miei studi è essenzialmente la ricerca di “ciò che è giusto” in modo oggettivo ed è garanzia affinché vengano salvaguardati i diritti dei fedeli. Spesso, invece, si ha l’impressione che il diritto o presunto tale venga utilizzato come strumento per imporre le proprie idee, calpestando le norme reali e i diritti dei fedeli, approfittando solamente della propria posizione di potere.

A seguito dell’attuale situazione sanitaria legata al Covid, in molti luoghi la Comunione in bocca viene negata, ponendo serie difficoltà di coscienza sia ai fedeli che desiderano ricevere l’Eucaristia in tal modo, sia ai sacerdoti che desiderano rispettare il diritto dei fedeli stessi a comunicarsi così.


Il divieto della Comunione in bocca viene giustificato basandosi sul fatto che tale modalità sarebbe, in maniera certa e inequivocabile, più rischiosa rispetto alla Comunione sulla mano per la contaminazione da Covid. Come vedremo, di questo non vi è alcuna evidenza scientifica oggettiva. Sul tema ci sono opinioni contrastanti, come del resto su tutta la questione Covid si sente tutto e il contrario di tutto all’interno della stessa comunità scientifica, e non si capisce perché debbano valere di più le opinioni di certi medici piuttosto che di altri, solo perché coincidono con il proprio punto di vista del tutto personale. È necessario valutare le cose con la maggiore oggettività possibile.


Tutti i medici concordano sul fatto che, in base alla letteratura scientifica, il Covid si trasmette attraverso goccioline (droplets): in altre parole il coronavirus deve letteralmente “prendere il volo” per poter infettare, e ciò può avvenire con starnuti, colpi di tosse e parlando a voce alta. Inoltre, alcuni medici come il dottor Paolo Gulisano, epidemiologo presso l’ospedale di Lecco e il dottor Fabio Sansonna, chirurgo presso l’ospedale Niguarda di Milano, evidenziano che la stessa saliva finché non passa dallo stato liquido, come è normalmente in bocca, allo stato di goccioline è innocua. Oltretutto la saliva stessa contiene il lisozima che è un disinfettante naturale, il quale agisce contro i virus e i batteri.


Il professor Filippo Boscia, presidente nazionale dei medici cattolici, sostiene che sono proprio le mani, toccando tutto, a essere la parte del corpo più esposta ai virus e che pertanto è proprio la Comunione sulla mano a essere più pericolosa. Di fronte a tale considerazione si obbietterà che, utilizzando il gel disinfettante e non facendo lo scambio della pace, tale problema non sussiste. In realtà, dopo esserci disinfettate le mani all’ingresso della chiesa, con le mani inevitabilmente si tocchiamo le panche e altri oggetti. Ma soprattutto, in molte chiese, nonostante le attuali normative dicano che le offerte devono essere lasciate prima o al termine della funzione in un apposito contenitore (qui sì che si che si può tranquillamente trasgredire la norma), da tempo si è cominciato a raccogliere le offerte durante l’offertorio, pur utilizzando un oggetto adeguato per mantenere la distanza. Resta il fatto che i fedeli, dopo avere toccato il denaro, banconote o monete che siano (e si sa che dal punto di vista igienico sono tra le cose più sporche), ricevono l’Eucaristia sulla mano e se la portano alla bocca. Qualcuno dovrebbe spiegare dove sta l’igiene in questo caso. Per di più, molti sacerdoti notano che proprio distribuendo la Comunione sulla mano, con molta facilità, entrano in contatto con la mano del fedele, per quanto si cerchi di evitarlo, mentre con la Comunione in bocca molto raramente si viene in contatto con la lingua o le labbra del fedele e, se dovesse capitare, è sufficiente procedere alla disinfezione delle dita. Quindi, è proprio la Comunione sulla mano a essere meno sicura dal punto di vista igienico.


Ben ventuno medici cattolici austriaci, nel giugno scorso, rifacendosi alle considerazioni del professor Boscia, hanno chiesto alla loro conferenza episcopale di rimuovere il divieto della Comunione in bocca e la conferenza ha tolto questo divieto. Nel settembre scorso anche ventisette medici tedeschi hanno fatto la medesima richiesta alla loro conferenza episcopale.

Chiarito quindi che non vi è alcuna seria e oggettiva ragione sanitaria per imporre la Comunione sulla mano, analizziamo ora la questione dal punto di vista giuridico, cercando di capire se i vari provvedimenti volti a vietare la Comunione sulla lingua siano leciti e validi.

Innanzitutto si sostiene che la Comunione sulla mano sarebbe una richiesta tassativa dello Stato per garantire la salute pubblica, la cui non osservanza porterebbe addirittura a conseguenze penali. A tal proposito, chi ritenesse che lo Stato possa determinare nel concreto un rito liturgico, segnalo che il cardinale Sarah, quando era prefetto del Culto divino, il 12 settembre scorso ha reso pubblica una lettera ufficiale del 15 agosto 2020, approvata in forma specifica dal Santo Padre, in riferimento all’attuale situazione sanitaria, dove si ricorda che «le norme liturgiche non sono materie sulla quale possono legiferare le autorità civili, ma soltanto le competenti autorità ecclesiastiche», facendo riferimento diretto a Sacrosanctum Concilium 22 e al can. 838 del Codice di diritto canonico. Tanto per rispondere a chi distribuisce con tanta superficialità patenti di disobbedienza al Papa e al Vaticano II, senza alcun fondamento. Ci può stare che vengano date indicazioni circa il distanziamento e l’uso delle mascherine, ma non certo determinare come si debba svolgere un rito liturgico. In ogni caso, stando all’ultimo documento emanato dal ministero dell’Interno stilato sulla base del famoso Comitato tecnico-scientifico, si parla solo di “raccomandazione” di evitare la distribuzione della Comunione in bocca. Quindi non vi è assolutamente alcun obbligo e tantomeno alcuna conseguenza penale nel non osservare tale raccomandazione.


Inoltre, è molto interessante considerare che nei protocolli siglati dallo Stato italiano con le Comunità ortodosse, protestanti, evangeliche e anglicane, al momento della Comunione si chiede solamente di non venire a contatto con i fedeli, senza assolutamente entrare nel dettaglio di come si debba svolgere questo rito. Ed è risaputo che le Comunità ortodosse fanno sempre la Comunione sotto le due specie utilizzando un cucchiaino che viene avvicinato alla bocca di ogni fedele. Anche alcune comunità luterane fanno la Comunione in bocca e in ginocchio. Quindi lo Stato verso queste comunità non ha affatto preteso che la Comunione venga fatta solo ed esclusivamente in mano; stanno svolgendo il rito di Comunione come hanno sempre fatto. La stessa raccomandazione di evitare la Comunione in bocca indirizzata alla Cei è stata fatta solo dopo una sollecitazione da parte della stessa Cei e nel primo protocollo si parla solo di non venire a contatto con le mani dei fedeli, senza escludere la Comunione in bocca. Pertanto è falso affermare che lo Stato o la Cei pretendono in modo tassativo la Comunione sulla mano.


Molti sostengono che le conferenze episcopali regionali e/o il singolo vescovo diocesano possano proibire la Comunione in bocca. Ma è veramente così? Innanzitutto possiamo notare che questi “provvedimenti” sono per lo più semplici comunicati o lettere, presentando quindi delle lacune dal punto di vista formale e giuridico e pertanto non possono in alcun modo abrogare o sospendere la norma generale della Comunione in bocca. Perché è proprio questo il punto fondamentale: la Comunione sulla lingua è la norma generale che regola la distribuzione dell’Eucaristia, confermata in modo solenne dalla Santa Sede con l’Istruzione Memoriale Domini del 29 maggio 1969. Quindi è il legislatore supremo, la Sede Apostolica, ad aver confermato la norma generale della Comunione in bocca. La stessa Istruzione prevede anche la possibilità di chiedere l’indulto della Comunione sulla mano, che dal punto di vista giuridico è una eccezione alla legge e che pertanto non può per sua natura diventare la norma generale. Per questo motivo un vescovo nella propria diocesi può fare tranquillamente un decreto con il quale vieta la Comunione sulla mano (come ha fatto il vescovo di Oruro in Colombia nel 2016), ma non può fare il contrario, ossia vietare la Comunione in bocca.

Si sostiene, però, che in caso di emergenza sanitaria, quanto sopra non vale. In realtà non vi è alcun fondamento giuridico in tale affermazione. Per di più abbiamo già dimostrato che non vi sono evidenze scientifiche oggettive per affermare che la Comunione sulla mano sia più sicura dal punto di vista igienico rispetto alla Comunione in bocca. Ma ammesso che si dimostrasse questo, solo il legislatore supremo, ossia la Santa Sede, potrebbe cambiare la norma generale della Comunione in bocca (e al momento non l’ha ancora fatto). Nessuna autorità inferiore può modificare questa norma, quindi nessuna conferenza episcopale nazionale, regionale o il singolo vescovo può modificare la norma generale della Comunione in bocca.


Lo stesso canone 838 del Codice di diritto canonico è estremamente importante in tal senso, perché ricorda proprio che regolare la sacra liturgia spetta alla Sede Apostolica, sottolineando che il vescovo diocesano può legiferare in materia liturgica entro i limiti della sua competenza. Le stesse conferenze episcopali hanno dei limiti ben determinati, come stabilisce il canone 455. Perciò se un vescovo o una conferenza episcopale vietano la Comunione in bocca, anche nel caso in cui al posto di comunicati o lettere utilizzano decreti (più corretti dal punto di vista formale), oltrepassano comunque i limiti della loro competenza, compiendo un vero e proprio abuso di potere. Questi provvedimenti pertanto risultano essere invalidi e non hanno alcuna forza obbligante, né per i sacerdoti né per gli altri fedeli. Si dirà che per altre questioni, come l’abolizione dello scambio della pace (recentemente modificato), non si sono poste obiezioni, ma questo intervento rientra nel proprio ambito di competenza, anzi lo stesso celebrante ha facoltà sempre di ometterlo, non essendo obbligatorio. Quindi è davvero paradossale che certi pastori pretendano l’obbedienza a certe “norme” stabilite in modo arbitrario, quando essi stessi sono i primi disobbedienti alle autentiche norme della Chiesa.

L’attuale Ordinamento generale del Messale Romano e l’Istruzione Redemptionis Sacramentum del 25 marzo 2004 confermano in maniera chiara e inequivocabile che il fedele ha sempre e comunque il diritto di ricevere la Comunione in bocca, anche dove è consentita la Comunione sulla mano. Non solo, la stessa Istruzione al n. 91 ricorda che non è lecito negare la Santa Comunione a seconda del modo che uno sceglie per comunicarsi, citando il canone 843 § 1, che stabilisce che «i ministri sacri non possono negare i sacramenti a coloro che li chiedono opportunamente». Ora, come si può negare la Comunione semplicemente perché un fedele chiede di riceverla in un modo stabilito dalla Chiesa? Il fedele che non vuole ricevere la Comunione sulla mano non lo fa perché è fissato, rigido e formalista, ma perché con questa modalità ci sono molti inconvenienti, primo fra tutti l’inevitabile dispersione di frammenti eucaristici. La rigidità piuttosto la si riscontra in chi vuole imporre con la forza la Comunione sulla mano. In sostanza si dice: “Vuoi la Comunione? O la predi in mano o niente!”. Complimenti, e poi ci riempiamo la bocca di carità e sensibilità pastorale, di vicinanza ai fedeli, di essere misericordiosi e comprensivi. In realtà questa imposizione appare né più né meno come una forma di clericalismo, mai tanto combattuto come in questo tempo, ma solo a parole. Diversi sacerdoti, pur essendo contrari alla Comunione sulla mano, non la negano e nell’attuale situazione, per venire incontro alle difficoltà di alcuni fedeli, disorientati da tante informazioni contrastanti che ricevono, fanno comunicare prima coloro che vogliono la Comunione in mano e poi alle fine quelli in bocca. Quindi è sufficiente un po’ di buon senso. Mi pare che questi sacerdoti dimostrino un’apertura e una elasticità mentale ben maggiore di certi novelli farisei e legalisti. E invece cosa si fa? Chi rispetta la libertà di scelta dei fedeli, con le dovute attenzioni, viene accusato di disobbedienza e, senza alcun fondamento scientifico, di essere un irresponsabile, un untore, di essere causa di propagazione del virus, di non preoccuparsi della salute della gente. Come siamo bravi a stravolgere la realtà!


Piuttosto sembra che, nell’attuale situazione, si sia presa la palla al balzo per dare un’ultima spallata alla Comunione in bocca, detestata da molti per motivi ideologici. Ne è prova il fatto che qualche vescovo ha addirittura definito la Comunione sulla lingua un abuso liturgico, quando in realtà è proprio la Comunione sulla mano a essersi imposta come un abuso liturgico, che poi è stato successivamente legalizzato. Sono numerosi i fedeli che, anche prima dell’inizio della pandemia, sono stati derisi, presi in giro e gravemente offesi dai propri pastori solo perché desideravano ricevere la Comunione in bocca e in ginocchio, dimostrando anche in questo caso una proverbiale carità e sensibilità pastorale. A loro veniva intimato, con estrema severità, di alzarsi, altrimenti non avrebbero ricevuto l’Eucaristia: questo sì che è un abuso, come ricorda Redemptionis Sacramentum n. 91. Ma, di fronte a tanti casi del genere, non si è preso nessun provvedimento, anzi c’è stato un tacito assenso.

Mi pare che molti fedeli oggi dimostrino di aver più fede nella Presenza Reale di Nostro Signore e di aver più rispetto nell’Eucaristia rispetto a tanti pastori che, invece di fare crociate contro la Comunione in bocca, dovrebbero forse prendere esempio dalla fede dei piccoli e semplici pastorelli di Fatima che così pregavano con la preghiera insegnata loro dall’Angelo: «Mio Dio, io credo, adoro, spero e Ti amo. Ti chiedo perdono per quelli che non credono, non adorano, non sperano e non Ti amano. Santissima Trinità, Padre e Figlio e Spirito Santo, io Ti adoro profondamente e Ti offro il Preziosissimo Corpo, Sangue, Anima e Divinità di nostro Signore Gesù Cristo, presente in tutti i Tabernacoli del mondo, in riparazione degli oltraggi, sacrilegi ed indifferenze con cui Egli stesso ê offeso. E per i meriti infiniti del Suo Cuore Sacratissimo e del Cuore Immacolato di Maria, Ti domando la conversione dei poveri peccatori».









mercoledì 24 febbraio 2021

Ultimo libro di Padre Tognetti: Laus, le apparizioni più lunghe della storia







“La Madonna di Laus” (Ed. Sugarco, 2021), di padre Serafino Tognetti, è un libro frutto del ritrovamento di una corposa documentazione in francese sulle apparizioni mariane che educarono, per istruire tutti i credenti, la veggente Benedetta (Benoîte) Rencurel che ci indica come diventare santi.




Marco Lepore, 22-02-2021

“È uno dei tesori più nascosti e più potenti della storia d’Europa”, sosteneva Jean Guitton. È pertanto singolare che quanto avvenne a Laus, in Francia, a partire dal 1664, sia così poco noto. Eppure si tratta di una delle poche apparizioni ufficialmente riconosciute dalla Chiesa: solo 15, mentre oltre 250 sono ancora oggetto di studio; in più, furono le apparizioni più lunghe della storia, poiché andarono avanti per ben 54 anni consecutivi!

Tutti conoscono le apparizioni della Vergine Maria a Lourdes, Fatima, La Salette, Guadalupe ecc., per citare solo alcune tra le più famose, mentre quelle del Laus sono misteriosamente cadute nell’oblio da parte dei più, nonostante si tratti di una vicenda bellissima, avvincente, commovente, assolutamente edificante, uno squarcio di Cielo che sarebbe davvero un peccato non poter contemplare.

Dobbiamo infinita gratitudine, allora, a padre Serafino Tognetti, che ha scritto e fatto pubblicare il libro “La Madonna di Laus” (Ed. Sugarco, 2021), frutto del ritrovamento sul posto di una corposa documentazione in francese, costituita anche da manoscritti redatti, durante la vita della veggente, da persone che furono testimoni oculari della vicenda e, a diverso titolo, implicate in essa.

Il libro racconta, con dovizia di particolari, l’avventura “incredibile” di Benedetta (Benoîte) Rencurel. Un testo che si legge tutto d’un fiato (anche se in verità andrebbe gustato e meditato lentamente) perché scritto con la semplicità e la verve stilistica che caratterizzano la modalità comunicativa tipica di padre Serafino Tognetti, figlio spirituale di un grande mistico come Divo Barsotti, capace tuttavia, come pochi, di “tradurre” in modo comprensibile, e non di rado con grande simpatia, il pensiero e gli insegnamenti profondissimi di quest’ultimo.

È vero, a Laus non furono dati dei messaggi per l’umanità intera, non vi furono profezie e fenomeni eclatanti come il sole rotante a Fatima o come l’immagine miracolosa del mantello a Guadalupe, e forse per questo le apparizioni non sono “passate alla storia”, anche se avvennero ugualmente fatti straordinari per portata e numerosità, come si può scoprire leggendo il libro.

L’aspetto più rilevante, tuttavia, nonché di estrema attualità e interesse per noi oggi, è che la Madonna, apparendo per 54 anni consecutivi alla stessa persona, l’umile e ignorante pastorella Benedetta Rencurel (che era analfabeta e tale rimase per tutta la vita), ci ha fatto conoscere “in diretta”, passo dopo passo, la Sua mirabile pedagogia, plasmando questa semplice creatura perché divenisse una perfetta cristiana. Cioè una santa. “Il vero lavoro di Maria santissima a Laus fu la formazione spirituale di Benedetta, affinché risultasse chiaro per tutti, poi, che cosa occorre fare e come bisogna vivere per essere sempre in grazia di Dio e santificarsi nella grazia” (p.89).

Allo stesso modo, attraverso i semplici, materni, teneri ma indefettibili insegnamenti della Madonna, è possibile anche per ciascuno di noi percorrere con sicurezza il cammino della santità. Maria Porta del Cielo, Madre del Buon Consiglio, Rifugio dei peccatori... Ecco perché le apparizioni del Laus devono assolutamente essere conosciute.

Una vita, quella di Benedetta, vissuta - si potrebbe dire - “gomito a gomito” con la Santa Vergine, incontrata forse già diverse volte quand’era ancora fanciulla, ma presentatasi in modo più esplicito quando aveva neanche diciassette anni. Da quel momento, la presenza dolcissima di Maria non sarebbe più venuta meno, accompagnandola nel cammino e guidandola alla santità fino alla morte, avvenuta all’età di settantuno anni.

Bisogna anche dire che oltre alle apparizioni mariane, Benedetta vide anche degli angeli (col suo Angelo Custode, poi, aveva un contatto costante), diversi santi e visse esperienze mistiche particolari. Tra il 1669 e il 1684, per ben quattro volte ebbe la visione di Cristo crocifisso, che le parlò dalla croce posta per la strada di Avançon, località poco distante da Laus. In comunione con Lui, visse una crocifissione mistica “ogni venerdì” per parecchi anni. Dovette inoltre subire frequenti attacchi spirituali e fisici da parte del demonio, furibondo per la grande quantità di anime che si convertivano andando in pellegrinaggio in quel luogo.

Benedetta, infatti, aveva ricevuto il dono della lettura dei cuori e il discernimento degli spiriti: “La pastorella conosceva a perfezione le anime dei visitatori e le conosceva meglio di quanto essi conoscessero sé stessi, tanto che spesso era lei a ricordare ai peccatori degli episodi che essi avevano dimenticato” (p.104). Lungi dall’essere motivo di imbarazzo, proprio per questo sempre più persone si recarono da lei, venendo aiutate a riprendere con serietà il cammino di conversione, innanzitutto grazie ad una confessione sacramentale ben fatta e, poi, accostandosi all’Eucarestia.

Una caratteristica particolare delle apparizioni di Laus è che la Chiesa locale, pur svolgendo le necessarie e minuziose indagini che in questi casi non mancano mai, fu praticamente costretta a riconoscere molto presto la credibilità di quanto accadeva. Non tardò, dunque, a mettere a disposizione due sacerdoti per organizzare l’accoglienza dei sempre più numerosi pellegrini, che diventarono ben presto come un fiume impetuoso e inarrestabile, certamente attirati dalla notizia delle apparizioni, ma altrettanto dalla possibilità di incontrare Benedetta.

Ecco allora il messaggio di Laus: “La veggente stessa, la sua vita. Diventò penitente, mistica, maestra di ascesi, insegnando agli altri il segreto della santità”. Il soave profumo che caratterizzò le apparizioni sin dai loro inizi e che si diffondeva ovunque - profumo che ancora oggi i pellegrini hanno occasione, talvolta, di sentire a Laus - altro non è che il profumo della santità (innanzitutto quella di Maria) a cui tutti siamo chiamati. Anche oggi, anzi oggi più che mai… Ed ecco perché, probabilmente, dopo tre secoli di silenzio, Laus riappare improvvisamente nella sua visibilità nel 2008, quando le apparizioni vengono riconosciute ufficialmente dalla Chiesa. “Con un balzo funambolico di trecento anni, Laus si catapulta nel presente e si pone davanti a noi, con un appello urgente. Che cosa ci vuole dire? Che le cose che allora erano scontate, oggi non lo sono più. Ma sono necessarie, vitali” (p.199)

Ma c’è anche un altro aspetto, che vale per ogni tempo, come ci spiega l’autore nella presentazione del libro: “Il messaggio è di oggi e per oggi, perché in Dio vi è contemporaneità. La storia, scrive Léon Bloy, è lo svolgimento di una trama di eternità sotto occhi temporali e transitori. Noi siamo sempre nel secolo XV, come nel secolo X, come nel momento centrale dell’Immolazione del Calvario, come prima della venuta del Cristo. Gli eventi si svolgono sotto i nostri occhi come un immenso quadro. Solo la nostra visione è successiva. La Madonna a Laus parla a noi, soprattutto oggi”. Cerchiamo di ascoltarla.













martedì 23 febbraio 2021

L’esempio di Giacinta di Fatima dedicato a tutti quei cattolici che negano il valore della “sofferenza vicaria”






Rubrica a cura di Corrado Gnerre, 23/02/2021

Il cammino, soprattutto se procede nell’oscurità, ha bisogno di luce. I pellegrini di un tempo utilizzavano le fiaccole. Fuor di metafora, ne Il Cammino dei Tre Sentieri le fiaccole sono alcuni aneddoti edificanti che si offrono come modelli per uscire vincitori dalle prove e dalle angustie del vivere.

Ormai da tempo tra i cattolici, influenzati da una teologia che ormai nulla ha più di cattolico, si sta facendo strada la convinzione che non possa esistere una sofferenza vicaria, ovvero il soffrire volontariamente o involontariamente (accettando le prove che il Signore permette nella vita) per purificare se stessi e compensare i peccati altrui.

E’ evidente che la sofferenza vicaria poggi sulla convinzione che Dio è Sommo Amore, ma anche Somma Giustizia e, come Somma Giustizia, richiede il compenso del peccato.

La teologia neomodernista, che tra tante cose nega anche questo, non può non attaccare anche il principio della sofferenza vicaria.

Ciò, però, non solo è un’offesa al sacrificio di Cristo, è un’offesa anche all’eroismo di tanti santi e perfino di santi bambini, come è il caso di Giacinta di Fatima.

Ella, infatti, volle essere vittima innocente.

Il soffrire per i peccatori fu la sua dolorosa passione fino alla morte.

Colpita dalla spagnola e dalla pleurite purulenta, fu trasportata in ospedale e sottoposta ad intervento chirurgico per l’asportazione di due costole, senza essere addormentata.

In quella situazione sfruttò ogni occasione per offrire sacrifici per i peccatori.

Il suo conforto era l’assistenza della Madonna.

Morì consumata dai dolori e in solitudine, a soli 10 anni!





Dio è Verità, Bontà e Bellezza
Il Cammino dei Tre Sentieri




sabato 20 febbraio 2021

Il degrado liturgico mette a repentaglio la fede stessa






sabato 20 febbraio 2021

Un precedente da cui ricavare altri elementi in tema: Il Rito Romano Antico e l'applicazione del Summorum Pontificum [qui].



In questi giorni sono rimasto colpito da una lettera scritta da un religioso. L’autore, un domenicano, occupandosi del degrado liturgico imperante, scrive fra l’altro: “Non sono più gli atei, gli anticlericali, i liberi pensatori, i senza Dio quelli che vogliono a tutti i costi spogliare i fedeli di ciò che hanno di più prezioso; sono i vescovi che si dedicano a questo compito”.
La denuncia è molto forte. Nella lettera il religioso parla di “iniziative liturgiche anarchiche e profane” che “brulicano ovunque nelle nostre chiese e anche nelle nostre più venerabili cattedrali, con il consenso e talvolta la partecipazione di alcuni vescovi”. Eppure, sembra che per questi stessi vescovi il pericolo sia la Messa tridentina secondo il rito di san Pio V.

Scrive ancora l’autore della lettera:
“Per chi ci prendono i nostri vescovi? Conosciamo i testi. Sappiamo che il nuovo messale di Paolo VI è semplicemente autorizzato, non imposto. Sappiamo che Paolo VI non ha mai vietato la celebrazione della Messa secondo il rito di San Pio V. Sappiamo che il Concilio, a sua volta, e lo stesso papa, hanno considerato il latino come lingua ufficiale della Chiesa”. Eppure, “al giorno d’oggi un sacerdote può prestare la sua chiesa a musulmani, buddisti, tibetani, patagoni, hippy, papuasici, ragazzi, ragazze, ambigui, ambivalenti, ambidestri, anfibi, ambulanti; ma, ahimè, se un prete infelice vuole celebrare lì la Messa per la quale quella stessa chiesa è stata costruita (dal popolo, non dai preti), e se il popolo vuole assistere alla stessa Messa che lì è stata celebrati per secoli, ecco che gli anatemi episcopali non mancheranno. E arriveranno dagli stessi vescovi che ci parlano di ecumenismo, pluralismo, tolleranza. Vescovi che nei confronti di tutti sono miele puro, ma solo contro di noi, fratelli nella fede e nel sacerdozio, tirano fuori gli artigli e diventano spietati”.
L’autore della lettera, come si vede, non manca di verve polemica, che diventa particolarmente graffiante quando sostiene che i vescovi e i sacerdoti noti per essere “tutto miele” verso chiunque chiudono le porte in faccia a un’unica categoria di persone: quei cattolici che vogliono restare fedeli all’antica liturgia.


Alla fine, il religioso scrive: “San Tommaso d’Aquino ci dice che l’Eucaristia è il bene comune della Chiesa cattolica. Quando questo bene comune viene distrutto, è tutta la Chiesa che si disintegra”.


Mi chiederete: perché sei rimasto tanto colpito da questa lettera? Perché, scritta dal domenicano francese Raymond-Leopold Bruckberger, apparve su Le Figaro il 24 gennaio 1975. Sì, avete capito bene: 1975. Pensate: quarantasei anni fa tutti i problemi che oggi viviamo, e che tanto spesso ci procurano amarezza, erano ben delineati ed evidenti agli occhi di chi era in grado di vedere.

Proprio mentre leggevo la lettera del padre Bruckberger, ne ho ricevuta una da una lettrice del mio blog Duc in altum. Una lettera dolente, intrisa di sconforto, che incomincia così: “Vorrei manifestare un disagio che mi prende ogni volta che vado alla Messa. Un disagio crescente, contro il quale cerco di combattere, ma con scarsi risultati. Fin da quando entro in chiesa non riesco a essere serena. Mi accorgo di troppe cose che non vanno. Mi dico che non dovrei giudicare, ma è più forte di me. Guardo Nostro Signore appeso in croce e gli chiedo: come puoi sopportare tanta trascuratezza, tanti abusi? Non è bastato voler aggiornare il Padre nostro. Ora i vescovi, sempre prontissimi a trascurare l’essenziale a favore del superfluo, si sono pure inventati il grottesco scambio di uno sguardo di pace. Qualcuno fa l’occhiolino, qualcuno si inchina (a Dio non ci si inchina mai, al vicino di panca sì). Tutta la scena ha un che di tragicomico. La Comunione distribuita rigorosamente sulla mano, e con il fedele in piedi, è il culmine dello sfacelo. Dopo la Messa me ne torno a casa incupita e con un senso di colpa a causa delle mie critiche, ma come si fa a non vedere?”.


Il padre Bruckberger, alla fine della sua riflessione, facendo riferimento al pensiero di Henri Bergson, il filosofo che il compianto Vittorio Mathieu definì “il grande rimosso della filosofia contemporanea”, osserva che riti e cerimonie senza dubbio emanano dalla fede, ma hanno anche un effetto su di essa. Riti e cerimonie possono consolidare la fede, ma se vengono sconvolti e pervertiti la fede rischia di essere distrutta.

Tuttavia, tranne rare eccezioni, i nostri pastori non vedono e non sentono. E, sempre misericordiosi e accoglienti con tutti, diventano improvvisamente duri e inflessibili verso chi si permette di ricordare che Deus non irridetur.


 
(Da Duc in altum, il più recente intervento di Aldo Maria Valli per la rubrica La trave e la pagliuzza, in Radio Roma Libera.)










Festeggiamo la domenica anche con i vestiti






DOV'E' FINITA L'ELEGANZA DELLA DOMENICA?

Un tempo si indossava l'abito più bello, mentre oggi della domenica rimane solo il pranzo



Corrado Gnerre

Forse non ci si riflette abbastanza, ma il nostro mondo non solo si è capovolto in senso morale, tant'è che ciò che è normale è diventato anormale e ciò che anormale, normale. Si è capovolto anche nelle piccole cose, che poi tanto piccole non sono.
Pensiamo alla Domenica. Non ci riferiamo solo al fatto che ormai la Domenica non esiste più perché i negozi sono sempre aperti (almeno fino all'epoca Covid), ma anche ad un'altra cosa che può sembrare di poco conto, ma che invece simbolicamente è importante. Ovvero che nei giorni feriali ci si veste meglio e la Domenica si è meno curati. Proprio il contrario di ciò che avveniva un tempo.
Passeggiando per strada, soprattutto prima di pranzo, si nota che molti sono in tuta. Per carità, fare sport è importante. Ma poi - vai a vedere - ti accorgi che non si tratta di chi ha da poco corso o si accinge a farlo. E' proprio un vestire da diporto, insomma un look che vuole sottolineare il fatto che la Domenica è un giorno senza impegni.


L'APPUNTAMENTO

Eppure l'impegno c'è. L'appuntamento c'è. O meglio: ci sarebbe.
L'appuntamento c'è perché il centro della Domenica è la Santa Messa. E' l'appuntamento con il Fondamento di tutto e con l'Avvenimento che dà senso a tutto: la rinnovazione reale del Sacrificio del Calvario.
Né valgono a riguardo tentazioni pauperistiche di sorta, visto che chi se ne intendeva di povertà, come san Francesco d'Assisi, giustamente pretendeva tale povertà per i suoi frati, ma non per le chiese, che riteneva fosse giusto perfino broccarle di oro e di argento, proprio per sottolineare la grandezza incommensurabile di ciò che in esse avviene e di ciò che in esse si celebra.
E invece oggi a meritare la cravatta e il vestito ben stirato è l'appuntamento di lavoro durante la settimana, lo sportello della banca, la rappresentanza di un prodotto da vendere, non certo la preghiera della Domenica.
Un tempo - come dicevamo - era il contrario. La Domenica si indossava l'abito più bello. Spesso lo si faceva cucire proprio per questo giorno. E le donne perdevano più tempo dinanzi allo specchio.
Oggi della Domenica rimane solo il pranzo, che effettivamente continua ad essere più sostanzioso e sofisticato del resto della settimana. Buona cosa, anzi ottima. Ma - si sa - in questo campo è molto più difficile rinunciare allo stile domenicale.


LA SERIETÀ DEL TEMPO

Come dicevamo, possono sembrare, queste, cose di poca importanza. Tutt'altro. Ne va della serietà del tempo.
Una delle caratteristiche che distinguono l'uomo dagli animali è la capacità di "leggere" il tempo, di saperlo discernere, di coglierlo nel suo proseguire e nel suo variare. E' la distinzione tra tempo profano e tempo sacro.
Il poeta americano Ralph Waldo Emerson (1803-1882) scrive nel suo Works and Days: "(...) i grandi momenti (...) hanno importanza. Che la misura del tempo sia spirituale, non meccanica."
Questo è proprio il punto, anzi: l'annosa questione. Il tempo non può essere misurato "meccanicamente", bensì "spiritualmente", cioè "umanamente". Intendendo con questo avverbio ("umanamente") ciò che è conforme all'umano. E per l'uomo non c'è, non ci può essere, mai un attimo che sia identico ad un altro. Lo scorrere del tempo non deve impedire, anzi, che esso si palesi qualitativamente diverso. Che ciò che è bello, significativo, interessante, possa e debba ciclicamente ritornare.
Ma, invece, la condanna dell'uomo di oggi è proprio il leggere "meccanicamente" il tempo; e così egli fa di ogni giorno una Domenica... ne fa della Domenica un giorno qualsiasi.


Titolo originale: Sta finendo anche l'eleganza della Domenica
Fonte: I Tre Sentieri, 21 ottobre 2020
Pubblicato su BastaBugie n. 701







venerdì 19 febbraio 2021

Un granellino di sabbia inserito nella macchina abortiva






Tommaso Scandroglio, 17 Febbraio 2021

Nel Regno Unito l’aborto è consentito fino alla 24esima settimana e fino alla nascita per motivi legati alla malformazione del feto. La deputata Carla Lockhart, membro del Partito Unionista Democratico dell’Irlanda del Nord, ha presentato una mozione al Governo che potrebbe essere quel granellino di sabbia inserito negli ingranaggi della macchina abortiva capace in futuro di dare qualche serio problema al fronte pro-choice. Ma facciamo un passo indietro. Nel gennaio del 2020 sul Journal of Medical Ethics compare un articolo dal titolo Reconsidering fetal pain (Riconsiderare il dolore fetale) in cui si sostiene che il feto potrebbe sentire dolore anche prima delle 24 settimane, limite temporale oltre il quale usualmente si è certi che il feto percepisca stimoli dolorosi, e in particolare si ipotizza che il feto possa già sentire dolore dalla 12esima settimana. Anche grazie a questo articolo nel marzo del 2020 viene pubblicato il rapporto Fetal Sentience and Pain: An Evidence Review (Sensibilità e dolore nel feto: una revisione delle prove scientifiche) commissionato dall’All-Party Parliamentary Pro-Life Group (APPPG).

Alla luce di tutto ciò la mozione della Lockhart di cui parlavamo all’inizio – mozione appoggiata da 25 parlamentari provenienti dai Tories, dal Scottish National Party e dal Democratic Unionist Party – prevede di somministrare l’anestesia ai nascituri di età gestazionale pari o superiore alla 12esima settimana. Di conseguenza, come ha rilevato la deputata Fiona Bruce, «tenuto conto dell’evoluzione delle indagini e delle ricerche sul dolore fetale, le Linee guida del Royal College of Obstetricians and Gynecologists – che ad oggi hanno quasi dieci anni – su questo problema in relazione all’aborto dovrebbero essere riviste». Infatti tali Linee guida consigliano, in tema di aborto, di dire ai genitori, per tranquillizzarli, che il feto sente dolore solo dopo la 24esima settimana. In breve, nella maggior parte dei casi in cui si effettua un aborto il feto non sentirebbe dolore. Ma sotto accusa non c’è solo il Royal College of Obstetricians and Gynecologists, ma lo stesso Servizio Sanitario Britannico il quale raccomanda l’anestesia per interventi su feti affetti da spina bifida dalla 20esima settimana in su, ma non per interventi abortivi su feti di uguale età gestazionale. Una incomprensibile disparità di trattamento.

Un paio di riflessioni su questa interessante mozione. Innanzitutto, banale a dirsi, un aborto rimane un aborto anche se il feto non sentisse mai dolore. E dunque che il feto percepisca o non percepisca dolore durante la procedura abortiva, l’aborto rimane un atto gravemente immorale. Non diventa un atto lecito se il feto viene prima sottoposto ad anestesia e poi ucciso.

Ma veniamo ad una seconda riflessione: questa mozione è moralmente lecita? La risposta è positiva. Proponendo simile mozione non si appoggia l’aborto, non lo si legittima, ma si cerca di limitarne gli effetti negativi. In merito al primo aspetto – la non legittimazione della pratica abortiva – è però doveroso che i proponenti, come ricorda il n. 73 dell’Evangelium vitae, rendano nota la loro decisa opposizione ad ogni forma di aborto. Infatti qualcuno potrebbe essere così indotto a pensare: «Questi parlamentari non hanno proposto una legge per abrogare la normativa sull’aborto, ma hanno solo proposto di non far soffrire il feto durante l’aborto. Quindi sono a favore di tale pratica seppur nel rispetto di questa procedura volta alla tutela del feto». Pertanto è necessario, per evitare lo scandalo e per non confondere le idee alla gente comune, che i parlamentari dichiarino pubblicamente la loro contrarietà alla pratica abortiva.


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Passiamo al secondo aspetto prima menzionato: la mitigazione degli effetti negativi. Partiamo da un esempio: una persona innocente verrà sicuramente assassinata e la morte sopraggiungerà solo dopo atroci sofferenze procurate dal suo aguzzino. Se fosse impossibile evitare la sua morte, ma fosse possibile evitare la tortura, sarebbe moralmente lecito impedire tale tortura (ovviamente l’atto che evita la tortura dovrebbe essere esso stesso moralmente lecito: ad esempio non sarebbe lecito uccidere l’innocente per evitargli la tortura). La mozione di cui stiamo parlando tende proprio a questo scopo: dato che allo stato attuale appare impensabile abrogare la legge sull’aborto, si tende al maggior bene attualmente possibile evitando al nascituro inutili e ingiuste sofferenze. Ma in merito alla limitazione degli effetti negativi della normativa abortista questa mozione potrebbe essere ancor più efficace su un secondo versante. Se l’effetto positivo immediato è quello di evitare inutili e ingiuste sofferenze al povero nascituro, vi sono effetti positivi remoti ben più importanti. Infatti il messaggio culturale che si lancia con chiarezza con questa mozione è il seguente: se il feto soffre vuol dire che è una persona. Richiamare l’attenzione di politici e cittadini sul fatto che il nascituro è un essere senziente vuol dire rivestirlo dei panni di una umanità personale. Mettere l’accento sulla capacità di soffrire del feto significa, nel sentito popolare, farlo uscire dallo stadio di «grumo di cellule» e restituirgli la sua dignità personale. Parlare di dolore del feto tocca dunque alcune profonde corde emotive della collettività, le quali corde possono poi efficacemente illuminare l’intelletto in merito al vero status antropologico del concepito.

Ma prima di questo step ce n’è uno intermedio anch’esso rilevante: se la mozione passasse, sarebbe un apripista per ulteriori iniziative volte alla tutela del nascituro condannato a morte. In sintesi, questa mozione potrebbe provocare una positiva reazione a catena, una cascata di altri provvedimenti che, pian piano, restringerebbero sempre più le possibilità di abortire. Questi due effetti appena menzionati – l’effetto cascata e il risveglio della coscienza collettiva riguardo l’umanità del nascituro – confutano la comprensibile obiezione che vorrebbe bollare tale mozione come una inutile strategia di retroguardia, votata ad un minimalismo politico inconcludente, refrattaria ad affrontare la problematica dell’aborto in modo radicale. Non è così, infatti la vetta si conquista metro dopo metro, gradualmente.

Tutti questi effetti sono stati ben individuati dal fronte pro-choice il quale ha criticato ferocemente la mozione perché ha compreso che la stessa potrebbe seriamente minacciare la pratica abortiva. Nonostante tale accesa contrarietà e, anzi, proprio per questo motivo, viene da chiedere: perché anche in Italia qualche parlamentare non getta il cuore oltre l’ostacolo del politicamente corretto e prova a presentare una proposta simile?










giovedì 18 febbraio 2021

No, Dio non “si è fatto peccato”






18FEB
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by Aldo Maria Valli

Alcune parole pronunciate da papa Francesco durante l’Angelus di domenica 14 febbraio hanno sollevato perplessità. Il passaggio è quello in cui il papa ha sostenuto che Dio “si è fatto peccato”.

Ecco le parole esatte: “A ciascuno di noi può capitare di sperimentare ferite, fallimenti, sofferenze, egoismi che ci chiudono a Dio e agli altri, perché il peccato ci chiude in noi stessi, per vergogna, per umiliazioni, ma Dio vuole aprire il cuore. Dinanzi a tutto questo, Gesù ci annuncia che Dio non è un’idea o una dottrina astratta, ma Dio è Colui che si “contamina” con la nostra umanità ferita e non ha paura di venire a contatto con le nostre piaghe. ‘Ma padre, cosa sta dicendo? Che Dio si contamina?’. Non lo dico io, lo ha detto San Paolo: si è fatto peccato (cfr 2Cor 5,21). Lui che non è peccatore, che non può peccare, si è fatto peccato. Guarda come si è contaminato Dio per avvicinarsi a noi, per avere compassione e per far capire la sua tenerezza”.


I critici osservano che un conto è dire che Gesù “ha preso su di sé i nostri peccati”, per vincerne sulla Croce il Male che ne è la radice, un altro conto è dire che Dio “si è fatto peccato”.

Dunque, il papa ha sbagliato?

Vediamo che cosa dice il passo di 2Cor 5,2 nelle diverse traduzioni italiane.

“Colui che non ha conosciuto peccato, egli lo ha fatto diventare peccato per noi, affinché noi diventassimo giustizia di Dio in lui” (Nuova Riveduta).


“Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo trattò da peccato in nostro favore, perché noi potessimo diventare per mezzo di lui giustizia di Dio” (Cei).

“Poiché egli ha fatto essere peccato per noi colui che non ha conosciuto peccato, affinché noi potessimo diventare giustizia di Dio in lui” (Nuova Diodati).


“Dio ha riversato su Cristo i nostri peccati, su di lui che non ha mai peccato, affinché, per mezzo suo, diventassimo giusti” (Bibbia della gioia).

“Colui che non ha conosciuto peccato, Egli l’ha fatto esser peccato per noi, affinché noi diventassimo giustizia di Dio in lui” (Riveduta).


“Perciocché egli ha fatto esser peccato per noi colui che non ha conosciuto peccato; acciocché noi fossimo fatti giustizia di Dio in lui” (Diodati).

Queste le parole della Bibbia. Quali conclusioni trarne?

In proposito, ho chiesto un parere a don Alberto Strumia, ed ecco il suo contributo.

*

In Cristo non c’è peccato. Non c’è, ovviamente, in quanto il Verbo è persona divina, ma non c’è neppure in quanto uomo, essendo Gesù privo di peccato originale e quindi anche di ogni altro peccato attuale. Per cui l’interpretazione corretta è che “Dio lo trattò da peccato in nostro favore”, secondo la dottrina di sempre. E non certamente che lo fece peccato nel senso che lo fece diventare peccatore esattamente come uno di noi!

Per completare il discorso, si può riflettere sull’impostazione della teologia medievale in merito alla redenzione operata da Cristo.


Dal momento che si tratta di una questione di giustizia La teologia dogmatica tradizionale (cfr. san Tommaso d’Aquino) lo ha spiegato in termini giuridici avendo come modello lo stesso diritto romano. Ecco i passaggi.

1) Il peccato originale è la rottura della giustizia tra l’uomo e Dio (defectus originalis iustitiae), a opera dell’uomo, tentato da Satana (cfr. san Tommaso, Summa teologica, I-II, q. 82, a. 3co)

2) Dio che è l’offeso ha una dignità infinita e quindi l’offesa fatta dall’uomo a Dio ha una portata infinita.

3) Per riparare a un’offesa di portata infinita occorre che colui che ripara abbia una capacità riparatrice infinita.


4) Solo Dio può avere una tale capacità infinita essendo infinitamente potente (onnipotenza divina). Dunque, colui che ripara il peccato deve essere Dio stesso.

5) Ma l’offensore è l’uomo e quindi colui che ha il dovere di riparare il torto inferto a Dio deve essere anche vero uomo.

6) Quindi solo un Dio-Uomo può compiere la riparazione dell’offesa e quindi solo il Verbo fatto uomo, cioè Gesù Cristo, poteva essere il riparatore (redentore), capace di restituire agli uomini l’accesso alla giustizia verso Dio che era stata perduta con il peccato (la Grazia).

7) Di conseguenza Gesù uomo doveva essere caricato del peccato dell’umanità, assumendosi la responsabilità della colpa degli altri uomini, al loro posto (sostituzione vicaria) e subendo la condanna pur essendo innocente. Qualcosa di simile, fatte le debite proporzioni, per intenderci, fece padre Kolbe prendendo il posto di un altro condannato (che tra l’altro, in questo caso, non aveva colpa neppure lui se non quella che gli veniva abusivamente attribuita per il fatto di essere ebreo).


***







lunedì 15 febbraio 2021

Il transumanesimo: un’ideologia che nega il reale







03 Febbraio 2021 
Tommaso Scandroglio

Forse il minimo comun denominatore di tutte le ideologie è il non riconoscimento del reale. Non riconoscere che nel ventre della madre c’è un essere umano, che una persona fortemente disabile rimane persona e quindi non si può praticare su di lei l’eutanasia, che uomo e donna, dotati di pari dignità naturale, hanno inclinazioni e orientamenti differenti che li portano ad avere anche ruoli sociali differenti e quindi incarnano antropologie diverse ma di pari valore, che l’unica famiglia esistente è quella fondata sul matrimonio e che il matrimonio è un vincolo che può unire solo un uomo con una donna, che esiste una gerarchia sociale naturale, che il sesso biologico è un dato a cui si deve adeguare la psicologia della persona per non trovarsi scissa e così via.

La realtà si impone all’intelligenza come già definita in sé, ma il rivoluzionario non accetta questo riconoscimento e vuole sostituire – in realtà: sovrapporre – la propria realtà, partorita dall’immaginazione, con il reale. Aleksandr Solženicyn narrava nel suo Arcipelago gulag che una volta l’Intelligencija del Partito comunista aveva chiesto ad alcuni ingegneri civili di calcolare quante persone, in piedi e sedute, potessero occupare in media un convoglio di un treno. Gli ingegneri fecero i loro calcoli – ossia interrogarono la realtà – e fornirono alcune cifre ai compagni di partito. Questi ultimi, che si occupavano di politica e non di treni, si sdegnarono massimamente. Quella cifra non era dissimile da qualsiasi altro convoglio di treno imperialista e capitalista. I treni della Grande Madre Russia erano senza dubbio assai più capienti. Risultato: gli ingegneri finirono nel gulag perché nemici del popolo. Gli ingegneri saranno stati pure nemici del popolo, ma erano amici della realtà. Un aspetto della lotta intrapresa dall’ideologo contro la realtà – forse l’aspetto più importante – è il non riconoscimento della identità della realtà. Cosa è l’identità? Per capirlo applichiamo il concetto di «identità» alla individualità della persona umana. Tommaso d’Aquino propone questa definizione: «L’individuo [..] è ciò che è […] e distinto dagli altri. Perciò la persona, in qualsiasi natura, significa ciò che è distinto in quella natura: così nella natura umana significa questa carne, queste ossa, quest’anima, che sono principio di individuazione per l’uomo» (Summa Theologiae, I, q. 29, a. 4 c.). Volendo essere ancor più concisi, citiamo il filosofo Vladimir Jankélévitch, il quale cesellò con grandissima efficacia il seguente aforisma: «io sono il solo ad essere me stesso» (La cattiva coscienza, Dedalo, Bari 2000, p. 130). L’identità dunque, esprimendoci in termini molto semplici, è tutto ciò che determina quell’ente particolare, che lo fa essere unico e distinto dagli altri (mi si permetta di rimandare a T. Scandroglio, Identità, normatività della persona e diritto, in G. Gambino (a cura di), Patologie dell’identità e ipotesi di terapia filosofica, Jusquiaiustum Edizioni, Roma 2017).

Se il rivoluzionario vuole cambiare la realtà, cancellarla per sostituirla con un’altra inventata a tavolino rispondente ai suoi desiderata (razionalismo), il primo nemico da sconfiggere è proprio l’identità. Potremmo immaginare l’identità come quel tratto di matita che definisce, de-limita, dà forma a qualcosa, che porta ad esistenza un ente, che lo chiama dal nulla. Eliminare il perimetro che individua l’identità significa liquefare la stessa (ecco spiegata, ex pluribus, la fluidità di genere): rompi il vaso che contiene un liquido e lo stesso perderà la forma del vaso e assumerà una forma in-distinta. Pensiamo ad un tratto di matita che disegna su un foglio bianco un triangolo. Come far diventare un triangolo un quadrato? Occorre, almeno, cancellare due lati e poi ridisegnarne tre.

La mutazione in senso rivoluzionario del reale può avvenire perlomeno in due modi: il superamento del reale e l’annullamento del reale. In entrambi i casi è come se si stesse cercando di cancellare il triangolo di cui sopra. Partiamo dal superamento del reale. Nel Manifesto dei transumanisti italiani si può leggere: «L’idea cardine del transumanesimo può essere riassunta in una formula: è possibile ed auspicabile passare da una fase di evoluzione cieca ad una fase di evoluzione autodiretta consapevole. Siamo pronti a fare ciò che oggi la scienza rende possibile: prendere in mano il nostro destino di specie. Siamo pronti ad accettare la sfida che proviene dai risultati delle biotecnologie, delle scienze cognitive, della robotica, della nanotecnologia e dell’intelligenza artificiale, portando questa sfida su un piano politico e filosofico, per dare al nostro percorso un senso e una direzione». Si tratta in buona sostanza di una delle possibili varianti della gnosi post-moderna. Il Manifesto così continua: «Per i cristiani l’uomo è fatto a immagine e somiglianza di Dio e non può cambiare se stesso. Per noi, nietzscheanamente, l’uomo è qualcosa che dev’essere superato: l’uomo può cambiare se stesso ed il mondo, può assumere il proprio destino impugnando la tecnoscienza, invece di rimettersi alla fede e alla provvidenza».

Qual è l’errore principale di queste riflessioni? Credere di poter cambiare la natura dell’uomo applicando un processo darwiniano autodiretto (non più selezione naturale, ma artificiale). Insomma si potrebbe passare dall’uomo al super uomo, anzi all’ultra uomo. Utopia (in verità distopia) assai vecchia, ma sempre attuale. Parimenti si potrebbe transitare dal matrimonio eterosessuale a quello omosessuale, dalla filiazione naturale a quella artificiale (compresa la maternità surrogata), etc. Si badi bene: anche per la cultura cristiana esiste un dovere di perfezionare sé stessi – sia in senso fisico, che morale e spirituale – ma il perfezionamento consiste nel migliorare ciò che si è, non nel tentare di diventare ciò che non è possibile diventare (super uomo). Un perfezionamento che avviene sempre all’interno della medesima natura, ma che non può portare a transitare da natura a natura: è impossibile che un uomo diventi un angelo ad esempio. Nel perfezionamento cristiano il confine della tua identità non viene valicato perché è impossibile da valicare (è lo stesso errore del darwinismo: credere che esista il salto interspecie, da specie a specie, e non solo una evoluzione intraspecie, ossia nella medesima specie). Nel delirio transumanista invece l’identità può essere cancellata e venire sostituita con un’altra tramite un processo di potenziamento, di superamento dell’esistente (Hegel pone al centro della sua dinamica dialettica, che imprime un moto progressista a tutto, l’Aufhebung, ossia il «momento superato»). Tutte le cosiddette conquiste in merito ai «diritti civili» sono l’esito di questo processo di superamento dell’identità: l’identità del concepito, del matrimonio, dell’orientamento omosessuale, della dignità personale, etc. Tutte realtà definite nella loro identità dalla legge naturale, ossia dall’ordine universale stabilito da Dio.

Secondo strumento per far lotta al reale. Eliminare il reale, ossia non riconoscere, come almeno fa il transumanesimo italiano, un dato di realtà esistente che deve evolversi in un’altra natura, bensì pensare la natura umana come un foglio bianco su cui scrivere liberamente. Scriveva già Pico della Mirandola nel 1486: io Dio «non ti ho dato, Adamo, né un posto determinato, né un aspetto tuo proprio, né alcuna prerogativa tua, perché quel posto, quell’aspetto, quelle prerogative che tu desidererai, tutto appunto, secondo il tuo voto e il tuo consiglio, ottenga e conservi. La natura determinata degli altri è contenuta entro leggi da me prescritte. Tu te la determinerai, da nessuna barriera costretto, secondo il tuo arbitrio, alla cui potestà ti consegnai» (Orazione sulla dignità dell’uomo, in G. Semprini, Pico della Mirandola, la vita e il pensiero, F.lli Melita, Genova 1988). È il nocciolo della teoria gender per quanto riguarda il transessualismo: non c’è il passaggio da un sesso ad un altro, bensì la creazione di una propria identità sessuale psicologica, ossia di una identità di genere che viene individuata dal libero arbitrio che dà forma all’informe oppure che lascia l’indefinito nel suo stato, potremmo così dire, liquido, anzi «gassoso». In ossequio a queste premesse è assolutamente coerente pensare che i sessi non siano solo due, ma infiniti tanti quanti la nostra immaginazione può generare (trattasi di autopoiesi dell’uomo). La neutralità sessuale quindi rimanda alla neutralità del foglio bianco. Il nulla è dunque lo spazio concettuale proprio dei rivoluzionari (nichilismo, inteso anche come effetto dello sforzo rivoluzionario distruttivo) che in questo tentano di farsi molto simili a Dio. Solo Lui infatti può creare, ossia chiamare qualcosa o qualcuno da nulla. Non l’uomo. Il «sarete come dei» è, perciò, tentazione che ci accompagnerà fino alla fine dei tempi.








sabato 13 febbraio 2021

Sara, piccola grande profetessa dell'Amore di Dio







IL LIBRO IN ANTEPRIMA
ATTUALITÀ
Costanza Signorelli 10-02-2021

Una morte tragica e improvvisa a soli tre anni e mezzo, che spezza le gambe di un'intera famiglia già atrocemente attraversata dal dolore. Eppure la storia di Sara Mariucci e di Mamma Morena, nel tempo, si rivela una immensa storia d'Amore di Dio per tutti i suoi figli a partire da mamma Anna che dopo la morte della sua bambina arriva a dire: "Il Paradiso è nel mio cuore ed io sono in Paradiso con Sara". Sulle sue spoglie oggi si recano fiumi di fedeli che già la pregano come una santa. Ma la missione della piccola bambina di Gubbio è solo all'inizio...




C’è un reale imbarazzo nel dover riferire la storia della piccola Sara Mariucci, tanto abbondante è la porzione di Cielo che si è riversata nella sua straordinaria esistenza.

Non si sa letteralmente da che parte iniziare. Si potrebbe cominciare dalla fine, ovvero dai giorni nostri, raccontando che sono talmente tante le grazie che Dio Padre ha già concesso attraverso le manine di questa bambina, che l’allora vescovo di Gubbio, mons. Mario Ceccobelli, nel 2016, si è trovato “costretto” a traslare le spoglie della piccola, dalla tomba di famiglia nel cimitero, ad una Cappella appositamente costruita presso la chiesa parrocchiale di San Martino in Colle (Gubbio).


Troppi infatti erano i pellegrini che, giungendo da ogni dove, sostavano in preghiera per chiedere l’intercessione di colei che già presentivano come una grandissima Santa. Un caso più unico che raro nel panorama di Santa Madre Chiesa, se si pensa che la bambina di cui stiamo parlando ha poco più di tre anni e mezzo e la cappellina a lei dedicata, per l’appunto, straripa di coloratissimi giocattoli: sono come gli ex voto che i fedeli le portano come tributo per le grazie e i miracoli ricevuti.

Ma la cosa che più colpisce entrando nei particolari di questa vicenda, più celeste che terrena, è vedere come la vita di Sara sembra incarnare perfettamente le profezie annunciate dalla Madonna nelle principali apparizioni moderne, da Fatima in poi, quasi come se questa bambina fosse una profetessa che ci illumina sui tempi che verranno. E chissà quante altre cose Sara ha da svelarci.


La storia di Sara è magistralmente raccontata da Enrico Graziano Giovanni Solinas, nell'imperdibile libro "La grande storia della piccola Sara Mariucci e di Mamma Morena", che esce proprio oggi, mercoledì 10 febbraio, in tutte le librerie cattoliche italiane e che La Nuova Bussola Quotidiana ha potuto leggere per voi (la copertina nell’immagine a destra).

Al lettore giovi sapere che Solinas, giudice laico presso il Tribunale Ecclesiastico Umbro e postulatore delle Cause dei Santi, non appena è entrato in contatto con questa bambina del Cielo, è stato investito di speciali grazie, tanto che, nel libro, smette idealmente i panni dell’autore per diventare lui stesso testimone delle meraviglie operate da Dio attraverso Sara.

“CONSACRATEVI TUTTI AL MIO CUORE IMMACOLATO”

Tutto inizia la sera del 4 agosto 2006, mamma Anna Armentano lo racconta così: “Dopo una giornata trascorsa al mare (in Calabria, ndr), alle 21:00, io e Sara eravamo abbracciate nel letto, la coccolavo un po’ (…) Mentre la tenevo tra le braccia, Sara mi domanda: “Mamma mi racconti una storia?”. Gliela raccontavo tutte le sere, ma quella sera risposi: “Amore, siamo state tutt’oggi al mare, te la racconto domani”. Le ho dato un bacio e l’ho stretta forte a me.

Dopo qualche minuto di silenzio - continua la mamma - durante il quale pensavo si fosse addormentata, sento la sua vocina che dice: “Quando ero pittola, pittola (piccola, ndr) ero in un posto lontano, lontano, meraviglioso”. “E dov’eri?”, le domandai. “Su una nuvoletta”. “E con chi eri?. “Con la mamma Morena”. “La mamma Morena? E chi è questa mamma?”, le ho chiesto meravigliata. “È l’altra mia mamma”. “L’altra tua mamma? Ma Sara, sono io l’unica mamma”, le ho detto ancora più stupita. “E come è quest’altra mamma?”. “È buonissima”, mi ha risposto con un sorriso che le illuminava il viso e con l’aria di chi sa quello che dice. “Più buona di mamma Anna?”. “Sì”. “Sara, veramente, sei sicura?”. “Sì”. “E descrivimela un po’, di che colore ha i capelli?”. “Blu”. “E gli occhi?”. “Castani come i miei”. “E tu lasceresti mamma Anna per andare da mamma Morena?”. “Sì”, mi ha risposto con il sorriso luminoso che le irradiava il viso.

Il racconto di mamma Anna sembra un semplicissimo racconto, mosso dalla fantasia di una bambina di soli tre anni. Se non fosse che quanto accadde l’indomani di questo racconto ha dell’incredibile.

Per tutta la mattina del 5 agosto, infatti, Sara ha un’espressione particolare sul suo visetto. Sembra malinconica, quasi assente. Ad un certo punto, riceve anche un piccolo rimprovero, che le dà modo di parlare nuovamente di quella sua seconda mamma: “Mamma Morena non mi sgrida mai”. Verso le 13.30 la famiglia si reca presso il lido “Stella Maris” dove consuma il pranzo, ed è in quel momento che la bambina, insieme al fratello e al cuginetto, si allontana solo di qualche metro, per raggiungere i giochini elettrici, quelli che solitamente si incontrano sul lungomare e funzionano con le monetine.

“Di lì a poco la mia vita sarebbe cambiata per sempre”, spiega mamma Anna. Sara, infatti, salendo sulla pedana di uno di quei giochi, rimane fulminata da un cortocircuito e muore sul colpo.

Eppure quella che, ad un primo sguardo, sembra una immane e inaccettabile tragedia nasconde una verità che piano piano si disvela, mostrando i tratti di un disegno d’Amore di Dio, infinitamente più potente del male e persino della morte. Si scoprirà infatti che Mamma Morena non è un’invenzione di una bambina ricca di fantasia, ma è la Madonna in persona. E grazie ad una intuizione illuminata del babbo di Sara, Michele, i familiari vengono a conoscenza di una Madonna di nome Morena, amata e venerata in Bolivia, la quale corrisponde esattamente alla descrizione fatta dalla bambina. I capelli blu di cui parla Sara, per esempio, stanno proprio a simboleggiare il manto della Vergine Santa.


Ma non è tutto, la festa di tale Madonna Morena è celebrata il 5 agosto, esattamente il giorno in cui Sara è tornata ad abitare il Paradiso. Appare sempre più evidente che la Madonna, presentandosi a Sara in forme e contorni ancora da scoprire nel profondo, l’ha resa partecipe in un modo tutto speciale del suo piano di salvezza per il mondo intero.

Leggendo a ritroso la storia di Sara, infatti, i familiari hanno riscontrato una serie ricchissima di segni lasciati dal Cielo a conferma di quell’intuizione. Come, per esempio, il fatto che il fratellino e il cuginetto di Sara siano rimasti illesi nonostante fossero anch’essi sul medesimo gioco. Il perito tecnico che ha studiato il caso ha dichiarato questo fatto come scientificamente inspiegabile dal momento che la scarica elettrica che ha colpito Sara era “in grado di uccidere un elefante”. Palmiro, il nonno paterno di Sara, spiega l’inspiegabile così: “Questa non è una disgrazia, perché se fosse stata una disgrazia i morti sarebbero stati tre e non uno. Dopo tutta questa storia, e tutto questo percorso fatto, io posso dire che quella apparente disgrazia, oggi la possiamo annoverare come una grazia”. Parole che possono anche creare scandalo, ma che assumono un significato profondissimo se si procede nella conoscenza di questa anima prediletta da Dio.

“IL MIO CUORE TRIONFERÀ”

Subito dopo la morte della bambina accade un primo fatto miracoloso che interessa proprio la sua famiglia, a partire da mamma e papà. Occorre premettere che la famiglia di Sara, in quel periodo, era molto lontana dalla fede: mamma Anna racconta che la chiesa era da loro frequentata forse per le grandi ricorrenze e che le poche preghiere che Sara conosceva le erano state insegnate dai nonni. Anna, infatti, con Dio aveva chiuso nel momento in cui aveva scoperto che suo cognato era malato di Parkinson e destinato perciò a morire presto. Un dolore insopportabile per la povera Anna che da bambina, a soli 5 anni, aveva visto il padre uccidere a colpi di pistola la madre e che, proprio in quel cognato, aveva ritrovato la forza e il coraggio di credere ancora nell’amore della figura paterna.

Ebbene, quando anche la figlia di tre anni le muore all’improvviso, Anna cade in un'atroce disperazione e per il troppo dolore rifiuta di vedere il corpo senza vita della sua bambina. Grazie ad una amica, però, Anna e Michele si convincono ad andare a salutare la figlioletta. Ed è proprio lì, davanti al corpo di Sara, che succede il miracolo.


Ecco cosa racconta Anna: «Vivevo in me una lacerazione incredibile, un dolore grande come un abisso, ero disperata, angosciata. Poi l’ho vista. (…) Ho visto la serenità, la pace, la gioia che avevano trasfigurato il suo viso: era bellissima, sembrava molto più grande. Dentro di me tutto è cambiato: ho sentito una pace, una serenità mai sentite prima in vita mia. La mente si è aperta, il cuore si è spalancato. Lo spirito del Signore è sceso su di me e mio marito Michele. Ho capito in quel momento tante cose: Sara non è morta, è risorta con Cristo. Maria l’ha presa tra le sue braccia portandola a vivere in Paradiso. (…) Dio è entrato nel mio cuore dicendomi: "Sara è con me”. Dio mi ha presa tra le Sue braccia, mi ha sollevata e ha impedito che io provassi ancora angoscia e disperazione. Sara, il mio piccolo tesoro, è in Paradiso e siccome: “Dove è il vostro tesoro, là è il vostro cuore", il Paradiso è nel mio cuore ed io sono in Paradiso con Sara».

Ma non è tutto perché, dopo questo primo miracolo, Dio ha convertito e guarito il cuore di una intera famiglia: nel libro infatti sono raccolte le testimonianze di genitori, fratelli, nonni, zii, cugini… tutti toccati e completamente rinnovati da Dio attraverso la piccola Sara e la sua vita offerta per Amore.

Ma Sara non si è fermata alla sua famiglia, ma da quel momento ha continuato instancabilmente a conquistare cuori su cuori di intere famiglie. “Non è assolutamente un caso - dice l’attuale vescovo di Gubbio, mons. Luciano Paolucci Bedini - se le storie che Sara permette di raccontare sono tutti racconti di famiglia, di sposi e spose, di mamme e di padri, di figli e di figlie e di tutte quelle vicende che mettono in pericolo la navigazione delle famiglie. L’amore ferito, la durezza, l’indifferenza, il timore per l’attesa della vita o la sua mancanza, la divisione e la violenza, la sofferenza, la malattia, la fatica del credere all’Amore”. E infatti è proprio a queste famiglie ferite che Dio attraverso la sua piccola bambina di Gubbio sta concedendo le più copiose grazie di conversione e di guarigione.

IL PIANO DI MARIA E DEI SUOI BAMBINI

Come non vedere, nel dono di questa piccola bambina, il realizzarsi dei piani di Dio, ripetutamente annunciati dalla Madonna in tutte le sue più recenti apparizioni, da Fatima in poi. Innanzitutto, la richiesta di consacrare sé stessi e il mondo intero a Dio attraverso il Cuore Immacolato di Maria, offrendo così la propria vita per Amore di tutto il mondo. Ebbene, in quella domanda: "Tu lasceresti mamma Anna per andare da mamma Morena?" e in quel "Sì", reso con gioia e convinzione non vi è forse una Consacrazione a Dio Padre attraverso il Cuore Immacolato di Maria? E nell'imminente salita al Cielo della bambina, non si scorge una umilissima e purissima offerta della propria vita per Amore?

E ancora. L’annuncio di dure prove e di una vera e propria lotta di satana contro la famiglia, ripetutamente profetizzate dalla Madonna, non si ritrovano forse in tutte le prove acerbissime che la famiglia di Sara ha dovuto affrontare? E anche in tutte le numerosissime famiglie ferite che oggi domandano la sua intercessione dal Cielo?

Ma soprattutto la promessa del Trionfo del Cuore Immacolato, cioè della vittoria dell’Amore di Dio e della Sua salvezza in tutti i cuori che lo desiderano, non è forse l'immagine che ci restituisce oggi Sara della sua stessa famiglia e il suo desiderio per tutte quelle che a lei si affidano?













https://lanuovabq.it/it/sara-piccola-grande-profetessa-dellamore-di-dio



venerdì 12 febbraio 2021

Il Grande Fratello delle religioni: il nuovo data-base di Pechino








by Aldo Maria Valli
Cari amici di Duc in altum, vi propongo un articolo di AsiaNews su un data-base, voluto dal Partito comunista cinese, che conterrà tutte le informazioni sul personale religioso, anche le punizioni ricevute e la cancellazione del loro ministero. Per le autorità di Pechino, clero, monaci, sacerdoti e vescovi hanno anzitutto l’obbligo di “sostenere la leadership del Partito comunista cinese” e “sostenere il sistema socialista”.


***

di Wang Zhicheng

L’Amministrazione statale per gli affari religiosi (Sara) ha dato il via a un data-base che raccoglie tutte le informazioni sul personale religioso. In esso verranno registrati anche “premi”, “punizioni” da esso ricevute, compresi “la cancellazione” del loro ministero e “altre informazioni”. Il tutto sarà tenuto aggiornato “in modo tempestivo”.


Il varo del data-base è una delle novità (art. 33) citate nel documento “Misure amministrative per il personale religioso”, reso pubblico ieri e che manifesta una volta di più il controllo totale delle esperienze religiose in Cina. Il documento è costituito da 7 capitoli e 52 articoli, in cui in modo minuzioso si gestisce l’iscrizione del personale religioso, le sue caratteristiche e il tipo di lavoro, i “diritti”, ma soprattutto “gli obblighi” di vescovi, sacerdoti, monaci buddisti e taoisti, ecc.…

Il documento era stato pubblicato nel novembre scorso sul sito della Sara per raccogliere possibili suggerimenti e correzioni. È stato pubblicato ieri con pochissime variazioni e entrerà in vigore il 1° maggio.

Qualunque persona che voglia esercitare una funzione religiosa deve rispondere a criteri previ: egli deve “amare la madrepatria, sostenere la leadership del Partito comunista cinese, sostenere il sistema socialista, rispettare la Costituzione, le leggi, i regolamenti e le regole, praticare i valori fondamentali del socialismo, aderire al principio di indipendenza e autogestione della religione e aderire alla politica religiosa della Cina, mantenendo l’unità nazionale, l’unità etnica, l’armonia religiosa e la stabilità sociale” (art.3).

Va notato che fra gli “obblighi” vi è il “resistere [contrastare] alle attività religiose illegali e all’estremismo religioso e resistere alle infiltrazioni di forze straniere che usano la religione”. Per i cattolici questo significa che i sacerdoti e vescovi ufficiali non potranno esprimere la comunione con i sacerdoti e vescovi non ufficiali, avallando e sostenendo la divisione imposta dal regime.

Anche i vescovi cattolici, sebbene siano “approvati e ordinati” dal Consiglio dei vescovi cinesi, possono esercitare solo dopo la registrazione presso la Sara. In tal modo, a gestire il ministero pastorale dei vescovi rimane lo Stato e non la Chiesa (art. 16).

Molto simile è la situazione dei “buddha viventi” nel buddismo tibetano: essi non potranno esercitare alcun ministero, né considerarsi vere reincarnazioni senza il permesso del Partito comunista cinese (art. 15).

Interrogato da AsiaNews, un sacerdote cattolico in Cina ha commentato: “In questo documento, di novità non ce ne sono. Si continua a trattare le religioni come istituzioni statali e gli impegni degli operatori religiosi come funzionari civili. Tant’è vero che il loro lavoro deve essere regolato, controllato e registrato come un impiego civile. La registrazione avviene tramite gli organismi religiosi, ma presso gli uffici responsabili civili. E questo è doloroso soprattutto per i vescovi”.

L’8 febbraio scorso, incontrando il Corpo diplomatico, a un certo punto, papa Francesco ha citato il rinnovo dell’Accordo provvisorio fra Cina e Santa Sede. “Si tratta – ha detto – di un’intesa di carattere essenzialmente pastorale e la Santa Sede auspica che il cammino intrapreso prosegua, in spirito di rispetto e di fiducia reciproca, contribuendo ulteriormente alla soluzione delle questioni di comune interesse”. Diversi sacerdoti in Cina si domandano se questo nuovo documento sulle “Misure amministrative” non metta in crisi le conquiste “pastorali” dell’Accordo, dato che sottomette il ministero dei vescovi al potere del Partito e ribadisce la divisione fra comunità ufficiali e sotterranee.

Fonte: AsiaNews






giovedì 11 febbraio 2021

Il TRIDUO dei morti: una tradizione da ripristinare





Articolo scritto da Giorgio Mariano Persico, presidente dell’Associazione delle Confraternite della Diocesi di Bergamo, e pubblicato sull’Eco di Bergamo, quotidiano del gruppo editoriale SESAAB di proprietà della stessa Diocesi.



Triduo dei morti in ricordo di chi è morto in solitudine


È passato quasi un anno dall’inizio delle restrizioni causate da questa pandemia, che ancora adesso non accenna a placarsi, una pandemia che ci ha sconvolti forse più di quanto ci saremmo aspettati e ci ha portato via tantissime persone care e stimate.

Sapendo che in questo periodo dell’anno in molte delle nostre parrocchie si inizia a celebrare il Triduo dei Morti, ho pensato potesse essere interessante riprendere l’origine di queste celebrazioni, purtroppo sconosciute a molti, che si svolgono quasi esclusivamente nelle diocesi di Bergamo, Brescia e in alcune parrocchie sulla sponda del Lago di Garda in diocesi veneta.

Fin dalla loro origine, queste celebrazioni furono volute e stimolate dalle Confraternite, soprattutto le Confraternite del Suffragio, quale ricordo per i morti della peste del 1630: chi moriva di peste veniva seppellito in fretta e senza Funerale, sia per cercare di contenere i contagi sia per la numerosa perdita di sacerdoti che aveva messo in difficoltà molte parrocchie. In questo contesto si inserirono le Confraternite del Suffragio e della Buona Morte, che curavano le sepolture e i suffragi, dei poveri, degli appestati e dei caduti; tale culto per i defunti ebbe poi rapida diffusione anche fra le Confraternite del Santissimo Sacramento, istituite da San Carlo Borromeo, e fra le Discipline titolate a Santi e Madonne.

Tra la fine del XVII secolo e i primi anni del XVIII, proprio sotto la spinta delle Confraternite, si vollero istituire celebrazioni apposite per suffragare i morti della peste e, nel corso di qualche decennio, si delineò quello «schema di suffragio» che divenne comune a moltissime parrocchie; a Nembro, per esempio, la celebrazione del Triduo dei Morti risale al maggio dell’anno 1740 e da allora viene celebrato tutti gli anni.

Tutte le parrocchie bergamasche e bresciane iniziarono così a celebrare questa ricorrenza, strutturandola in un Triduo caratterizzato dall’Adorazione del Santissimo Sacramento, esposto utilizzando la «Macchina del Triduo»: essa è un apparato ligneo dorato che rappresenta, nella maggior parte dei casi, un enorme ostensorio circondato da innumerevoli candele, a rappresentare come tutte le anime dei defunti siano diventate partecipi della luce divina. Di questi apparati ne esistono tanti esempi nelle nostre parrocchie, alcuni più semplici mentre altri letteralmente monumentali: alcuni tra i più conosciuti e pregiati si possono ammirare a Clusone, nella Val Gandino, a Nembro, a Vertova, a Zanica…, tutte parrocchie dove troviamo Confraternite secolari ancora oggi attive e devote tanto nel servizio quanto nel suffragio.

Durante questa pandemia moderna, tante persone sono morte in solitudine e molte sono state sepolte frettolosamente, senza essere funerate: vorrei invitare tutti i parroci della nostra Diocesi a celebrare, e in alcuni casi a ripristinare, il Triduo dei Morti anche a ricordo e in suffragio dei defunti di questa pandemia.

Ora più che mai, dobbiamo riscoprire e tornare a insegnare il rispetto per i morti e l’importanza del suffragio, tanto nelle nostre famiglie quanto a livello di comunità: i ragazzi e i giovani di oggi hanno bisogno di riscoprire il senso della carità del suffragio per i morti, una carità che si sta sempre più spegnendo. L’invito ai sacerdoti, in particolare a quelli responsabili degli oratori o delle scuole, è di educare i ragazzi all’importanza della carità del suffragio: in tutte le famiglie ci sono dei defunti, che anche i ragazzi hanno bisogno di ricordare e suffragare, così come tutte le comunità hanno bisogno di commemorare i propri defunti, non solo durante l’Ottavario dei morti.


Giorgio Mariano Persico
presidente dell’Associazione delle Confraternite della Diocesi di Bergamo