mercoledì 29 giugno 2016

Suor Cecilia, carmelitana di Santa Fe. Chi è capace di sorridere così nel momento della morte?

 
 
 
 
 
Oggi condividiamo una notizia triste dal punto di vista umano, ma radiosa dal punto di vista della fede vissuta nell’eternità e nell’abbraccio di Dio Padre.
 
Suor Cecilia, del Carmelo di Santa Fe, in Argentina, soffriva di un tumore al polmone. Quello che ha più colpito quanti la circondavano è stato il tenero sorriso con il quale ha chiuso gli occhi a questo mondo, simile a quello di un’innamorata che aspetta un incontro a lungo atteso, come si può vedere dalle fotografie.
 
Il Carmelo di Santa Fe ha comunicato la morte di suor Cecilia con un testo breve ma profondo inviato ai membri dell’Ordine e a tutti i suoi amici:
 
Cari fratelli, sorelle e amici:
 
Gesù! Solo poche righe per avvisarvi che la nostra amatissima sorella si è addormentata dolcemente nel Signore dopo una malattia dolorosissima sopportata sempre con gioia e dedizione al suo Sposo Divino. Vi inviamo tutto il nostro affetto per il sostegno e la preghiera con cui ci avete accompagnate durante questo periodo così doloroso ma allo stesso tempo tanto meraviglioso. Crediamo che sia volata direttamente in Cielo, ma vi chiediamo ugualmente di non smettere di ricordarla nelle vostre preghiere, e lei dal cielo vi ricompenserà. Un grande abbraccio dalle sue sorelle di Santa Fe.

[Traduzione dallo spagnolo a cura di Roberta Sciamplicotti]







http://www.iltimone.org



"Il sacerdote deve credere, prima di tutto"

 
 
 
Per gentile concessione dell'editore Cantagalli pubblichiamo uno stralcio dal libro “Insegnare e imparare l'amore di Dio”, appena pubblicato in 5 lingue, che raccoglie 43 omelie tenute da Joseph Ratzinger sul tema del sacerdozio. Offriamo ai lettori della Nuova BQ un passo da un omelia del 1979 pronunciata a Monaco.
 
 
 
di Joseph Ratzinger*
29-06-2016

"Nella Lettera scritta ai sacerdoti di tutto il mondo in occasione del Giovedì Santo, il Santo Padre parla di un uso diffusosi in molti luoghi al di là della cortina di ferro, lì dove la persecuzione ha del tutto eliminato la presenza dei sacerdoti. Tramite amici ero venuto a conoscenza già diversi anni fa di fatti simili. Lì talvolta avviene che le persone si riuniscono in una chiesa abbandonata, ovvero, se non ve ne è rimasta alcuna, in un cimitero, nel luogo dove è seppellito un sacerdote.

Mettono sull’altare, o sulla tomba, la stola e recitano insieme le preghiere della liturgia eucaristica. Al momento che corrisponde alla transustanziazione, scende un profondo silenzio, interrotto alle volte dal pianto. Il Papa, rivolgendosi a noi sacerdoti, aggiunge: "Cari fratelli, se a volte qualcuno di voi ha dei dubbi sul proprio ministero, se ha delle incertezze sul senso di esso, se pensa che sia socialmente infruttuoso o addirittura inutile, rifletta su questo. Rifletta su quanto ardentemente quegli uomini desiderano udire le parole che solo le labbra di un sacerdote possono efficacemente pronunciare.

Su quanto vivamente desiderano ricevere il Corpo del Signore; su quanto ansiosamente attendono che qualcuno possa dire loro: “Io ti assolvo dai tuoi peccati!” In questa “Eucaristia di desiderio” – nella quale gli uomini, nella loro solitudine, si protendono nella preghiera verso il Signore, a cui, nel loro desiderio vanno incontro e così sono in comunione con la Santa Chiesa e perciò con Lui stesso – in questa “Eucaristia di desiderio” avviene la testimonianza della Chiesa viva, la testimonianza della nascosta vicinanza del Signore e la testimonianza di ciò che significa il sacerdozio.

Davanti a questa umiltà della fede, come appare angusta la soluzione di alcuni teologi secondo i quali, in caso di necessità, chiunque potrebbe pronunciare le parole della consacrazione. In una simile “Eucaristia di desiderio” c’è certamente molta più presenza del Signore che in un’arbitrarietà che pretende fare anche di Cristo e della Chiesa un prodotto nostro. Nessun uomo può avere l’audacia di usare a suo piacimento l’io di Cristo come fosse l’io suo proprio senza bestemmiarlo. Nessuno, da sé, può dire: “Questo è il mio corpo”; “Questo è il mio sangue”; “Ti assolvo dai tuoi peccati”.

Eppure di queste parole abbiamo bisogno come del pane quotidiano. E dove esse non vengono più pronunciate, il pane quotidiano diviene insipido e le conquiste sociali vuote. È questo il dono più profondo e insieme più entusiasmante del ministero sacerdotale, quello che solo il Signore stesso può dare: il dono di riferire le sue parole non solo come parole del passato, ma di parlare con il suo io qui e ora, di agire in persona Christi; di rappresentare la persona di Cristo, com’è detto nella liturgia. In fin dei conti, da qui è possibile desumere tutta l’essenza dell’agire sacerdotale e il compito della vita sacerdotale.

E non c’è dubbio che queste parole rimangono efficaci anche quando un sacerdote le contraddice con la sua vita, proprio perché dipendono dall’io di Gesù Cristo e non da quello dell’uomo. Non è l’uomo a rimettere i peccati, ma Lui. Non è reso presente il corpo di questo o di quello, ma il Suo. Ma allo stesso tempo è chiaro che noi non possiamo proferire tali parole senza che esse reclamino la nostra stessa vita, senza che esse esigano la nostra profonda corrispondenza a quello che diciamo.

Perché se interiormente vivessimo in modo contrario a quello che rappresentiamo, dobbiamo essere condannati. Colui che può pronunciare con la sua bocca l’io di Gesù Cristo, innanzitutto perciò deve crederci. Il sacerdote deve essere in primo luogo un credente. È questo il cuore di tutto il suo agire, e se questo manca, più niente è vero. Certo, può continuare una certa attività di routine, ma le viene a mancare l’essenziale, la Chiesa diviene un’associazione per il tempo libero, e diviene superflua.


*Benedetto XVI Pontefice emerito della Chiesa Cattolica
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 


Riforma: Müller puntualizza....




“Insegnare e imparare l’amore di Dio”: è il primo volume, edito da Cantagalli, della collana di testi firmati da Joseph Ratzinger – Benedetto XVI, che presenta una raccolta di sue omelie sul sacerdozio.
   
 
 
 
Marco Tosatti
28/06/2016
“Insegnare e imparare l’amore di Dio”: è il primo volume della collana di testi firmati da Joseph Ratzinger – Benedetto XVI, che presenta una raccolta di sue omelie sul sacerdozio. Un dono per lui nella Sala Clementina del Palazzo Apostolico, nel corso della cerimonia in occasione del 65mo anniversario della sua ordinazione sacerdotale, alla presenza di Papa Francesco.
 
Un testo che si fregia della prefazione del Pontefice regnante, e di un’introduzione del Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, il card. Gerhard Ludwig Müller. Il Pontefice parla della “teologia in ginocchio” di Joseph Ratzinger: “in ginocchio perché, prima ancora che essere un grandissimo teologo e maestro della fede, si vede che è un uomo che veramente crede, che veramente prega; si vede che è un uomo che impersona la santità, un uomo di pace, un uomo di Dio”.


Dal libro, edito da Cantagalli, il Pontefice sottolinea come la preghiera sia il fatto centrale per la Chiesa e per i cristiani. “Perché́ senza il legame con Dio siamo come satelliti che hanno perso la loro orbita e precipitano come impazziti nel vuoto, non solo disgregando se stessi ma minacciando anche gli altri”, scrive Joseph Ratzinger citato da Francesco, che riporta poi il racconto della conversione dello scrittore Julien Green, narrato da Ratzinger.

“Casualmente in questi giorni ho letto il racconto che il grande scrittore francese Julien Green fa della sua conversione. Scrive che nel periodo tra le due guerre egli viveva proprio come vive un uomo di oggi: si permetteva tutto quello che voleva, era incatenato ai piaceri contrari a Dio così che, da un lato, ne aveva bisogno per rendersi la vita sopportabile, ma, dall’altro, trovava insopportabile proprio quella stessa vita. Cerca vie d’uscita, allaccia rapporti. Va dal grande teologo Henri Bremond, ma la conversazione resta sul piano accademico, sottigliezze teoriche che non lo aiutano. Instaura un rapporto con i due grandi filosofi, i coniugi Jacques e Raîssa Maritain. Raîssa Maritain gli indica un domenicano polacco. Lui lo incontra e gli descrive an- cora questa sua vita lacerata. Il sacerdote gli dice: “E Lei, è d’accordo a vivere così?”. “No, naturalmente no!”, risponde. “Dunque vuole vivere in modo diverso; è pentito?”. Sì!” fa Green. E poi accade qual- cosa di inaspettato. Il sacerdote gli dice: “Si inginocchi! Ego te absolvo a peccatis tuis – ti assolvo”. Scrive Julien Green: “Allora mi accorsi che in fondo avevo sempre atteso questo momento, avevo sempre atteso qualcuno che mi dicesse: inginocchiati, ti assolvo. Andai a casa: non ero un altro, no, ero finalmente ridiventato me stesso”. 

Invece il Prefetto della Congregazione della Fede Gerhard Ludwig Müller dalle omelie del suo predecessore sottolinea soprattutto la difesa del sacerdozio sacramentale, “che, per sua natura, è essenzialmente diverso dal sacerdozio comune di tutti i fedeli”.  Il porporato tedesco coglie l'occasione per ricordare la logica che sottintende ad alcune linee guida della Chiesa di Roma: “Cristo, per mezzo della sua Risurrezione, ha superato la più̀ grande crisi della fede mai esistita: la crisi pre-pasquale dei discepoli e, in particolare, la crisi della missione e della potestà̀ apostolica, e dunque anche la crisi del sacerdozio cattolico. Così è possibile superare an-che tutte le crisi storiche del sacerdozio proprio e soltanto nel nostro sguardo rivolto al Signore, a quel Signore al quale è dato ogni potere in cielo e sulla terra e che è con noi tutti i giorni, sino alla fine del mondo”.


E Gerhard Ludwig Müller nell’anno in cui le Chiese protestanti ricordano la Riforma, mette alcuni puntini sulle “i”. “Penso in particolare – scrive - alla crisi della dottrina del sacerdozio, avvenuta durante la Riforma protestante, una crisi a livello dogmatico, con cui il sacerdote è stato ridotto a un mero rappresentante della comunità, mediante una eliminazione della differenza essenziale fra il sacerdozio ordinato e quello comune di tutti i fedeli”. 
 
Una crisi che si ripete attualissima: “Joseph Ratzinger evidenzia con grande acume che, laddove viene meno il fondamento dogmatico del sacerdozio cattolico, non solo si esaurisce la fonte alla quale si può efficacemente abbeverare una vita alla sequela di Cristo, ma viene meno anche la motivazione che introduce sia a una ragionevole comprensione della rinuncia al matrimonio per il regno dei cieli (cfr. Mt 19, 12), sia del celibato quale segno escatologico del mondo di Dio che verrà, segno da vivere con la forza dello Spirito Santo, in letizia e certezza. Se la relazione simbolica che appartiene alla natura del sacramento viene oscurata, il celibato sacerdotale diviene il relitto di un passa- to ostile alla corporeità e viene additato e combattuto come l’unica causa della penuria di sacerdoti. Non da ultimo, scompare poi anche l’evidenza, per il magistero e la prassi della Chiesa, che il sacramento- to dell’Ordine debba essere amministrato solo a uomini. Un ufficio concepito in termini funzionali, nella Chiesa, si espone al sospetto di legittimare un dominio, che invece dovrebbe essere fondato e limitato in senso democratico”.




http://www.lastampa.it


martedì 28 giugno 2016

Elogi ai sacri riti solenni ed antichi






Redazione di blog.messainlatino.it
28/06/2016

Mal di pancia liturgici durante le dirette TV da Etchmiadzin (Armenia)


"Celebrano all'antica! Anche i cattolici facevano così, poi venne il Concilio! "...

Alcuni attenti lettori di MiL ci hanno segnalato che durante le dirette TV della Divina Liturgia celebrata domenica 26 giugno dal Catolicos Karekin II Patriarca supremo di tutti gli Armeni alla presenza di Papa Francesco nella Cattedrale Madre di Etchmiadzin, diversi sono stati i meritati elogi nei confronti del sacro rito.
Per non parlare dei paramenti del Clero armeno che sono stati entusiasticamente esaltati per la loro ricchezza, per contraddirsi solo due attimi dopo quando è stata inneggiata la simplicitas del vestiario del Papa...che indossava però una bella stola ricamata con gli stemmi di Benedetto XVI ...

Non è la prima volta che in occasione delle celebrazioni della Divina Liturgia Cardinali, Prelati o giornalisti TV hanno giustamente elogiato quegli antichi e solenni riti.
Uno rimase famoso.
Dicitur che in occasione di una visita ufficiale ad Atene un Prelato (ora Cardinale di Curia) assistette alla Divina Liturgia nella Cattedrale Ortodossa al termine della quale volle esprimere personalmente all'Arcivescovo la sua compiaciuta ammirazione per quel sacro rito.
La risposta dell'Arcivescovo greco, schietta come lo stile degli ellenici, fu una doccia fredda per il Prelato cattolico "Perchè allora voi cattolici avete distrutto completamente la vostra antica Liturgia?". La frase citata rimbalzò poi nei corridoi delle Sacre Congregazioni... fino alla pubblicazione del Motu Proprio Summorum Pontificum che ricevete subito gli apprezzamenti, come ben sappiamo, proprio dai nostri fratelli Ortodossi.

In casa cattolica sono giustamente elevate giuste e sacrosanti attestazioni di ammirazione per la Divina Liturgia orientale ma gli stessi se ne guardano dal lodare la "ritrovata" liturgia "classica" del rito romano!
L'ammirazione liturgica della leadership cattolica, che dice di apprezzare la Divina Liturgia orientale, si arresta inesorabilmente davanti al muro ideologico che circonda la "riforma liturgica" post-conciliare : i puri di cuore lo scavalcano mentre gli ignavi vi rimangono appresso.

Un esempio: la Comunità dei Padri Rogazionisti di Assisi ha dedicato un'intera pagina nel loro sito alla "bellissima" Divina Liturgia del Catolicos Karekin II alla presenza del Sommo Pontefice Francesco. (cliccare QUI )
Chissà però se quei bravi religiosi hanno mai assistito ad una Messa Solenne o a un Pontificale in ritus antiquior cattolico: glielo consigliamo fraternamente anche perchè oltre alla bellezza di un rito che fonda le radici nell'epoca apostolica essi vi potrebbero scorgere anche un intenso aspetto vocazionale.
Senza disporre difatti di alcun tipo di rèclame diocesana o parrocchiale diversi giovani trovano il loro compimento spirituale delle celebrazioni nel ritus antiquior: ministranti, cantori, organisti, apparatori.

In questo tempo di magra per la spiritualità e per la vera "partecipazione" alla vita ecclesiale esistono ancora dei volontari liturgici (che non sono dei marziani extra-terresti) che si sacrificano nel più totale nascondimento perché vogliono piacere solo a Dio.

Soltanto liberando la mente dal veleno "ideologico post-sessantottino" si potrebbero notare le tante affinità fra il "ritus antiquior" Romano e la Divina Liturgia orientale.
Sono le immagini delle dirette TV da Etchmiadzin a mostrarcele : la posizione dell'Altare "ad Crucem" o "ad orientem", il Calice coperto, la doppia confessione con l'invocazione alla Madonna, agli Angeli e ai Santi, il lavabo, le posizioni posturali del celebrante, l'entrata pontificale sotto il baldacchino ecc. ecc.
"Nemo propheta acceptus est in patria sua" ci dice il Santo Vangelo.
Ci rallegriamo dunque per le espressioni di compiacimento che i nostri fratelli Ortodossi indirizzano sempre più spesso alla nostra "liturgia ritrovata" poi, ne siamo sicuri, "col tempo e con la paglia matureranno anche le nespole"...

AC
Ad laudem Dei


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Il Santo Padre Francesco e il Catolicos Karekin II incedono processionalmente sotto il baldacchino liturgico e vengono incensati ripetutamente da due sacri ministri.




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L'Altare (rigorosamente ad orientem) e il Calice coperto


















Joseph Ratzinger 65 anni dopo





"E così sul sacerdozio cattolico si abbatté la furia della critica protestante". Nell'anniversario dell'ordinazione sacerdotale del futuro Benedetto XVI, il cardinale Müller racconta la sua indomita resistenza all'offensiva dei seguaci di Lutero




di Sandro Magister


ROMA, 28 giugno 2016 – "Nel momento in cui l’anziano arcivescovo impose le sue mani su di me, un uccellino – forse un’allodola – si levò dall’altare maggiore della cattedrale e intonò un piccolo canto gioioso. Per me fu come se una voce dall’alto mi dicesse: va bene così, sei sulla strada giusta".

Nell'autobiografia di Joseph Ratzinger c'è anche questo ricordo della sua ordinazione al sacerdozio, avvenuta 65 anni fa, il 29 giugno 1951, festa dei santi Pietro e Paolo, nel duomo di Frisinga per mano del cardinale Michael von Faulhaber.

A festeggiare la ricorrenza col papa emerito, nella Sala Clementina, c'è oggi anche papa Francesco.

Nell'occasione, è offerto a Ratzinger un volume che raccoglie 43 sue omelie, con una prefazione dello stesso Francesco, anticipata alcuni giorni fa da "la Repubblica" e da "L'Osservatore Romano":

> "Ogni volta che leggo le opere di Joseph Ratzinger…"

Il volume, intitolato "Insegnare e imparare l'amore di Dio", è edito contemporaneamente in sei lingue: in Italia da Cantagalli, negli Stati Uniti da Ignatius Press, in Germania da Herder, in Francia da Parole et Silence, in Spagna da Biblioteca de Autores Cristianos, in Polonia dall'Università Cattolica di Lublino.

Il brano che segue è tratto dall'introduzione al volume, scritta dal cardinale Gerhard L. Müller, prefetto della congregazione per la dottrina della fede e curatore dell'opera omnia di Ratzinger.

Nell'anniversario dell'ordinazione sacerdotale del futuro Benedetto XVI, il cardinale racconta la sua indomita resistenza all'offensiva dei seguaci di Lutero.

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Sacerdozio cattolico e tentazione protestante





di Gerhard L. Müller


Il Concilio Vaticano II cercò di riaprire una nuova strada verso l’autentica comprensione dell’identità del sacerdozio. Perché mai si giunse allora, all’indomani del Concilio, a una sua crisi d’identità paragonabile storicamente solo con le conseguenze della Riforma protestante del XVI secolo?

Penso alla crisi della dottrina del sacerdozio avvenuta durante la Riforma protestante, una crisi a livello dogmatico, con cui il sacerdote è stato ridotto a un mero rappresentante della comunità, mediante una eliminazione della differenza essenziale fra il sacerdozio ordinato e quello comune di tutti i fedeli. E poi alla crisi esistenziale e spirituale, avvenuta nella seconda metà del XX secolo, esplosa cronologicamente dopo il Concilio Vaticano II – ma certo non a causa del Concilio – e delle cui conseguenze noi oggi ancora soffriamo.

Joseph Ratzinger evidenzia con grande acume che, laddove viene meno il fondamento dogmatico del sacerdozio cattolico, non solo si esaurisce la fonte alla quale si può efficacemente abbeverare una vita alla sequela di Cristo, ma viene meno anche la motivazione che introduce sia a una ragionevole comprensione della rinuncia al matrimonio per il regno dei cieli (cfr. Mt 19, 12), sia del celibato quale segno escatologico del mondo di Dio che verrà, segno da vivere con la forza dello Spirito Santo, in letizia e certezza.

Se la relazione simbolica che appartiene alla natura del sacramento viene oscurata, il celibato sacerdotale diviene il relitto di un passato ostile alla corporeità e viene additato e combattuto come l’unica causa della penuria di sacerdoti. Non da ultimo, scompare poi anche l’evidenza, per il magistero e la prassi della Chiesa, che il sacramento dell’Ordine debba essere amministrato solo a uomini. Un ufficio concepito in termini funzionali, nella Chiesa, si espone al sospetto di legittimare un dominio, che invece dovrebbe essere fondato e limitato in senso democratico.

La crisi del sacerdozio nel mondo occidentale, negli ultimi decenni, è anche il risultato di un radicale disorientamento dell’identità cristiana di fronte a una filosofia che trasferisce all’interno del mondo il senso più profondo e il fine ultimo della storia e di ogni esistenza umana, privandolo così dell’orizzonte trascendente e della prospettiva escatologica.

Attendere tutto da Dio e fondare tutta la propria vita su Dio, che in Cristo ci ha donato tutto: questa e solo questa può essere la logica di una scelta di vita che, nella completa donazione di sé, si pone in cammino alla sequela di Gesù, partecipando alla sua missione di Salvatore del mondo, missione che egli compie nella sofferenza e nella croce, e che Egli ha ineludibilmente rivelato attraverso la sua Risurrezione dai morti.

Ma, alla radice di questa crisi del sacerdozio, bisogna rilevare anche dei fattori intra-ecclesiali. Come mostra nei suoi primi interventi, Joseph Ratzinger possiede fin dall’inizio una viva sensibilità nel percepire da subito quelle scosse con cui si annunciava il terremoto: e ciò soprattutto nell’apertura, da parte di tanti ambiti cattolici, all’esegesi protestante in voga negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso.

Spesso, da parte cattolica, non ci si è resi conto delle visioni pregiudiziali che soggiacevano all’esegesi scaturita dalla Riforma. E così sulla Chiesa cattolica (e ortodossa) si è abbattuta la furia della critica al sacerdozio ministeriale, nella presunzione che questo non avesse un fondamento biblico.

Il sacerdozio sacramentale, tutto riferito al sacrificio eucaristico – così come era stato affermato al Concilio di Trento –, a prima vista non sembrava essere biblicamente fondato, sia dal punto di vista terminologico, sia per quel che riguarda le particolari prerogative del sacerdote rispetto ai laici, specialmente per ciò che attiene al potere di consacrare. La critica radicale al culto – e con essa il superamento, a cui si mirava, di un sacerdozio che limitasse la pretesa funzione di mediazione – sembrò far perdere terreno a una mediazione sacerdotale nella Chiesa.

La Riforma attaccò il sacerdozio sacramentale perché, si sosteneva, avrebbe messo in discussione l’unicità del sommo sacerdozio di Cristo (in base alla Lettera agli Ebrei) e avrebbe emarginato il sacerdozio universale di tutti i fedeli (secondo 1 Pt 2, 5). A questa critica si unì infine la moderna idea di autonomia del soggetto, con la prassi individualista che ne deriva, la quale guarda con sospetto a qualunque esercizio dell’autorità.

Quale visione teologica ne scaturì?

Da un lato si osservava che Gesù, da un punto di vista sociologico-religioso, non era un sacerdote con funzioni cultuali e dunque – per usare una formulazione anacronistica – era un laico.

Dall’altro, sulla base del fatto che nel Nuovo Testamento, per i servizi e i ministeri, non viene addotta alcuna terminologia sacrale bensì denominazioni ritenute profane, sembrò che si potesse considerare dimostrata come inadeguata la trasformazione – nella Chiesa delle origini, a partire dal III secolo – di coloro che svolgevano mere “funzioni” all’interno della comunità, in detentori impropri di un nuovo sacerdozio cultuale.

Joseph Ratzinger sottopone, a sua volta, a un puntuale esame critico, la critica storica improntata alla teologia protestante e lo fa distinguendo i pregiudizi filosofici e teologici dall’uso del metodo storico. In tal modo, egli riesce a mostrare che con le acquisizioni della moderna esegesi biblica e una precisa analisi dello sviluppo storico-dogmatico si può giungere in modo assai fondato alle affermazioni dogmatiche prodotte soprattutto nei Concili di Firenze, di Trento e del Vaticano II.

Ciò che Gesù significa per il rapporto di tutti gli uomini e dell’intera creazione con Dio – dunque il riconoscimento di Cristo come Redentore e universale Mediatore di salvezza, sviluppato nella Lettera agli Ebrei per mezzo della categoria di “Sommo Sacerdote” (Archiereus) – non è mai dipeso, come condizione, dalla sua appartenenza al sacerdozio levitico.

Il fondamento dell’essere e della missione di Gesù risiede piuttosto nella sua provenienza dal Padre, da quella casa e da quel tempio in cui egli dimora e deve stare (cfr. Lc 2, 49). È la divinità del Verbo che fa di Gesù, nella natura umana che egli ha assunto, l’unico e vero Maestro, Pastore, Sacerdote, Mediatore e Redentore.

Egli rende partecipi di questa sua consacrazione e missione mediante la chiamata dei Dodici. Da essi sorge la cerchia degli apostoli che fondano la missione della Chiesa nella storia come dimensione essenziale alla natura ecclesiale. Essi trasmettono il loro potere ai capi e pastori della Chiesa universale e particolare, i quali operano a livello locale e sovra-locale.






http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1351330






lunedì 27 giugno 2016

Dio vede più lontano di noi. La Provvidenza in un aforisma della tradizione spirituale russa






Un monaco di nome Serafino chiedeva con insistenza al Signore di poter prendere il suo posto sulla croce, perché voleva condividere in tutto il ruolo di Cristo. 

Un giorno il Crocifisso accettò, ma a un patto, gli disse il Signore Gesù: "Che tu stia zitto". Serafino, essendo monaco, abituato al rigore, all'osservanza del silenzio, garantì tranquillamente. 

Il Cristo scese dalla croce e vi salì invece Serafino e si mise sul crocifisso che era in Chiesa. 

Entrò un uomo ricco a pregare e, mentre pregava, gli scivolò giù il sacchetto dei soldi. Si alzò per andarsene e Serafino, che aveva visto, avrebbe voluto dirgli che gli era caduto il sacchetto, però si era impegnato a tacere e quindi tacque

Subito dopo entrò un uomo povero, cominciò a pregare, ma gli caddero subito gli occhi su quel sacchetto di soldi; si guardò intorno, non c'era nessuno che vedeva, prese il sacchetto, se lo mise in tasca e scappò. Serafino avrebbe voluto dirgli che non doveva prenderli, perché non erano suoi, ma si era impegnato a star zitto e tacque. 

Quindi entrò un giovanotto che si mise devotamente in ginocchio ai piedi del crocifisso chiedendo aiuto e protezione perché stava per mettersi in viaggio per mare e voleva essere aiutato. In quel
mentre entrò l'uomo ricco con i gendarmi dicendo che aveva lasciato in chiesa il sacchetto dei soldi. L'unica persona presente in chiesa era quel giovanotto; i gendarmi lo presero e lo arrestarono. 

A quel punto Serafino non riuscì più a stare zitto e disse: innocente". Figuratevi! Il crocifisso che ha parlato ha salvato quel giovane, perché in forza di quella voce fecero le indagini meglio, lasciarono andare il giovanotto che si imbarcò. Arrestarono quello che aveva preso i soldi che dovette restituirli all'uomo ricco. 

Alla sera il Cristo aveva la faccia scura e rimproverò seriamente Serafino: "Non va proprio bene"

"Ma come, Signore?". "Ti avevo detto di stare zitto". "Ma ho rimesso a posto le cose, ho fatto giustizia". 

Dice allora il Signore: "No, Serafino, tu hai sbagliato tutto; il tuo impegno era quello di tacere; me lo avevi detto, me lo avevi promesso. Invece, parlando, tu hai rovinato la mia azione. 

Quel ricco stava per fare un'opera cattiva con quei soldi e io glieli ho fatti perdere; quel povero ne aveva bisogno e io glieli ho fatti trovare; quel giovanotto sta naufragando in mare.
Mi aveva chiesto aiuto; se fosse andato in prigione avrebbe perso la nave e non sarebbe morto. Tu invece lo hai mandato libero, si è imbarcato, e ora annega

Hai rovinato tutto, non sei in grado di metterti al posto del Cristo, caro Serafino!

Anche se sei un monaco avanzato in spiritualità, la provvidenza di Dio guida le cose meglio di noi, anche quando sembra che le cose vadano storte"



(Dalla tradizione spirituale russa)







fonte: http://www.scuolaecclesiamater.org/




Benedetto XVI. Una proposta che non tramonta





scritto da Aldo Maria Valli

È la mattina dell’11 febbraio 2013, giorno in cui la Chiesa ricorda la Madonna di Lourdes, quando Benedetto XVI, rivolgendosi in latino ai cardinali riuniti in concistoro per il voto su alcune cause di canonizzazione, introduce la cattolicità in una fase tutta nuova della sua storia bimillenaria. 

Le parole con le quali apre l’incontro hanno la forza dirompente di una bomba: «Conscientia mea iterum atque iterum coram Deo explorata ad cognitionem certam perveni vires meas ingravescente aetate non iam aptas esse ad munus Petrinum aeque administrandum». Il papa sta dicendo che rinuncia al trono. Non ce la fa più. «Dopo aver ripetutamente esaminato la mia coscienza davanti a Dio, sono pervenuto alla certezza che le mie forze, per l’età avanzata, non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero petrino. Sono ben consapevole che questo ministero, per la sua essenza spirituale, deve essere compiuto non solo con le opere e con le parole, ma non meno soffrendo e pregando. Tuttavia, nel mondo di oggi, soggetto a rapidi mutamenti e agitato da questioni di grande rilevanza per la vita della fede, per governare la barca di san Pietro e annunciare il Vangelo è necessario anche il vigore sia del corpo, sia dell’animo, vigore che, negli ultimi mesi, in me è diminuito in modo tale da dover riconoscere la mia incapacità di amministrare bene il ministero a me affidato. Per questo, ben consapevole della gravità di questo atto, con piena libertà, dichiaro di rinunciare al ministero di Vescovo di Roma, Successore di San Pietro, a me affidato per mano dei Cardinali il 19 aprile 2005, in modo che, dal 28 febbraio 2013, alle ore 20, la sede di Roma, la sede di San Pietro, sarà vacante e dovrà essere convocato, da coloro a cui compete, il Conclave per l’elezione del nuovo Sommo Pontefice». 

Chi avrebbe mai detto che, dopo quasi otto anni, il pontificato di Joseph Ratzinger, il teologo bavarese al tempo stesso fermo e gentile, sarebbe terminato in questo modo? Le prime reazioni sono di incredulità, sia fra i porporati convocati dal papa, sia nell’opinione pubblica mondiale. Perché questa decisione?

Negli ultimi mesi del pontificato il papa è apparso molto stanco. Ma davvero c’è solo questo? Saranno gli storici a tentare una risposta. Noi contemporanei possiamo soltanto affidarci alla cronaca. Prima fra tutte quella del 13 febbraio 2013, quando, in occasione dell’udienza generale del mercoledì, in un’aula Nervi strapiena e fremente di affetto per il papa, Benedetto XVI, alla sua prima apparizione pubblica dopo la clamorosa decisione di rinunciare al pontificato, ribadisce di essere approdato alla sua decisione «dopo aver pregato a lungo» e dopo «aver esaminato davanti a Dio la mia coscienza, ben consapevole della gravità di tale atto, ma altrettanto consapevole di non essere più in grado di svolgere il ministero petrino con quella forza che esso richiede. Mi sostiene e mi illumina la certezza che la Chiesa è di Cristo, il Quale non le farà mai mancare la sua guida e la sua cura».

Le parole del papa, ripetutamente interrotte da applausi fragorosi, ribadiscono con nettezza che la scelta è stata pienamente libera. È quanto richiede il diritto canonico: nessuno può imporre le dimissioni al papa, e nessuno deve ratificarle.

Nel libro Luce del mondo, intervistato dal giornalista Peter Seewald, suo conterraneo, Ratzinger aveva detto chiaramente, già nel 2010, che se il papa avverte di non possedere più le forze necessarie per reggere le sorti della Chiesa universale ha non solo il diritto ma il dovere di farsi da parte. E Ratzinger, l’umile e razionalissimo professore, ne ha tratto le debite conseguenze. Mancando le energie necessarie, meglio lasciare il campo a un papa più vigoroso.

Ma come non pensare che il suo passo, così estremo, non sia nato anche dai tanti problemi che hanno costellato il pontificato? Che non sia il frutto, per esempio, delle tensioni interne sfociate nel cosiddetto affare Vatileaks e nell’arresto del maggiordomo pontificio, accusato di essere «il corvo»? Come non sospettare che il papa sia stato logorato non solo dagli impegni d’ufficio, ma anche da una curia litigiosa e spesso molto poco collaborativa nei suoi confronti? E come non ripensare alle parole dette, sempre a Seewald, a proposito del giorno dell’elezione, vissuto come un vero e proprio trauma? Disse Ratzinger ricordando quelle ore: «Il fatto di trovarmi all’improvviso di fronte a questo compito immenso è stato per me un vero choc. La responsabilità, infatti, è enorme. Veramente avevo sperato di trovare pace e tranquillità. Il pensiero della ghigliottina mi è venuto: ecco, ora cade e ti colpisce».

Per poco meno di otto anni il papa tedesco ha accettato di rinunciare alla pace e alla tranquillità. Poi ha detto basta. Anche se nessun Dante, probabilmente, lo renderà immortale, sarà ricordato come il papa dimissionario, più ancora di Celestino V.

Ma è giusto ricordarlo soltanto così? Certamente no. Perché lungo il suo pontificato ha parlato, ha insegnato e ha indicato vie importanti per tutti, non solo per i cattolici e non solo per i credenti. Un contributo considerevole al dibattito in campo culturale, religioso e spirituale, di fronte alle sfide che riguardano l’uomo del ventunesimo secolo. Un contributo che merita di essere analizzato.

Al centro del magistero di Benedetto XVI c’è una domanda: chi è l’uomo? La risposta, elaborata fin dalla prima enciclica, la Deus caritas est del 2005, dedicata all’amore cristiano, è che l’uomo è una creatura voluta da Dio per un atto d’amore che la creatura è chiamata a sua volta a ricambiare e diffondere. Domanda e risposta sono state inserite dal papa all’interno di una grande proposta riguardante la ragione umana.

Il teologo Ratzinger, in controtendenza rispetto al pensiero contemporaneo, sostiene infatti che lo spazio della razionalità non si esaurisce con ciò che è sperimentabile, ma va al di là e comprende la sfera trascendente. L’indagine su se stesso e sul significato del proprio essere, insopprimibile in ogni uomo, porta inevitabilmente a fare i conti con l’ipotesi Dio. Un’ipotesi che il papa chiede di non eliminare a priori, ma di indagare proprio in virtù di quella razionalità che è pienamente umana quando non è mutilata dalla pretesa positivistica.

È un discorso, quello sulla ragione, che il papa ha affrontato in particolare nella lezione tenuta a Ratisbona, durante il viaggio in Baviera nel 2006. Interpretato in chiave anti-islamica per via di una citazione riguardante Maometto, l’intervento di Benedetto XVI aveva come destinatario il pensiero espresso dalla cultura occidentale e soprattutto europea, un pensiero colpevole, a suo giudizio, di aver abbandonato l’ipotesi Dio con drammatiche conseguenze sul piano morale. 

Nella visione di Ratzinger, infatti, l’eliminazione di Dio dall’orizzonte conoscitivo equivale a rendere l’uomo schiavo di sé, perché quando la libertà ha come unica misura l’uomo stesso è falsa e apre la porta all’uso strumentale dell’essere umano. 

Gli incessanti appelli per il rispetto della vita dal concepimento alla morte naturale, per la difesa della famiglia fondata sul matrimonio e per la libertà religiosa vanno inquadrati all’interno di questa cornice, che comporta un dialogo serrato con la cultura secolarizzata. Il contrasto a tratti è stato aspro, ma il papa non ha mai voluto annacquarlo. Intervenendo nel dibattito pubblico, ha detto a più riprese, la Chiesa non difende interessi propri, bensì l’identità della persona in quanto creata a immagine di Dio.

Benedetto XVI ha individuato il grande avversario nel relativismo etico, che nasce dall’abbandono della ricerca della verità, ritenuta non pertinente alla ragione umana. Oggi proposto ed esaltato dalla mentalità dominante come garanzia del rispetto reciproco, della tolleranza e, alla fine, della democrazia stessa, il relativismo è, per papa Ratzinger, un vero tarlo sia per l’intelletto sia per lo spirito: creando pericolosi vuoti all’interno della morale umana, esso lascia la creatura senza punti di riferimento, del tutto sbandata e incapace di usare la propria libertà in senso costruttivo.

Contro il relativismo morale il papa si è battuto incessantemente, riaffermando la validità della dottrina del diritto naturale, i cui precetti fondamentali sono espressi nel decalogo. La legge «naturale», ha sostenuto il pontefice citando il Catechismo della Chiesa cattolica, è chiamata così «perché la ragione che la promulga è propria della natura umana». Essa infatti «indica le norme prime ed essenziali che regolano la vita morale» e ruota attorno a due perni, «la sottomissione a Dio, fonte e giudice di ogni bene, e il senso dell’altro come uguale a se stesso».

A giudizio di papa Benedetto, mediante la dottrina della legge naturale si raggiungono due finalità essenziali: «Da una parte, si comprende che il contenuto etico della fede cristiana non costituisce un’imposizione dettata dall’esterno alla coscienza dell’uomo…; dall’altra, partendo dalla legge naturale di per sé accessibile a ogni creatura razionale, si pone con essa la base per entrare in dialogo con tutti gli uomini di buona volontà e, più in generale, con la società civile e secolare» (discorso nell’udienza ai membri della Commissione teologica internazionale, 5 ottobre 2007).

Per Benedetto XVI abbandonare la ricerca della verità significa entrare in una dimensione di smarrimento e confusione che ha gravi conseguenze sul vivere. Una volta persa l’idea che i fondamenti dell’essere umano e delle relazioni sociali esistono e sono riconoscibili, si lascia campo aperto a una lotta tra visioni diverse e tutte equivalenti. Un relativismo che si ripercuote in modo drammatico sulle coscienze e anche sul diritto perché, in mancanza di un fondamento etico originario, evidente e riconosciuto, il criterio dominante diventa quello della maggioranza numerica. E di fatto, in queste condizioni, la maggioranza è riconosciuta come la fonte stessa delle decisioni e della legge civile.

Eliminato il problema della ricerca del bene, perché il relativismo lo ritiene semplicemente non proponibile, non resta che la conta delle posizioni, ma in questo modo tutto si sposta sul piano del potere. Può così accadere che la maggioranza di un momento diventi la fonte del diritto, anche se la storia dimostra che le maggioranze possono sbagliare. Di qui l’ammonimento, contenuto nel discorso citato sopra: «La vera razionalità non è garantita dal consenso di un gran numero, ma solo dalla trasparenza della ragione umana alla Ragione creatrice e dall’ascolto comune di questa Fonte della nostra razionalità».

Il conflitto tra questa visione e quella espressa dalla mentalità corrente, incapace di accettare il discorso proposto dal papa sulla verità, ha attraversato in modo drammatico il pontificato di Joseph Ratzinger. Ma il pontefice teologo, pur con i modi gentili e il tocco lieve che gli sono sempre stati propri, non ha rinunciato a condurre avanti la battaglia.

È qui l’origine dell’incessante riproposizione di quelli che ha definito i principi non negoziabili: la dignità di ogni persona umana indipendentemente da razza e cultura, il valore di ogni vita dal concepimento alla morte naturale, il ruolo della famiglia fondata sul matrimonio, la libertà religiosa. Secondo il magistero di Benedetto, infatti, questi valori fondamentali non nascono da un ordinamento umano e non possono essere agganciati ad alcuna norma elaborata dagli uomini. Nascono invece dal Creatore, che li ha scolpiti in modo indelebile nel cuore di ogni creatura, anche se poi l’uomo, come avviene, può impegnarsi a fondo per dimenticarli o per negare la loro fonte. È dunque la legge naturale, e non il diritto assunto attraverso la logica delle maggioranze, l’autentica garanzia del rispetto dei valori fondamentali, contro ogni manipolazione ideologica e ogni arbitrio determinato dalla legge del più forte. Ed è tragicamente miope, ha detto più volte il papa, l’atteggiamento di chi, oscurando la coscienza individuale e collettiva, lascia campo libero al relativismo etico e allo scetticismo conseguente, contribuendo così a cancellare, con la legge naturale, anche il vero fondamento del sistema democratico.

Risiede qui, in questo processo di erosione della legge naturale, il nocciolo della crisi attuale, considerata dal papa crisi umana prima ancora che cristiana. Nel suo libro Gesù di Nazaret, Benedetto XVI dice che tutte le tentazioni del Maligno nei confronti di Cristo hanno un nucleo in comune: rimuovere Dio. E che cosa sta facendo la modernità, si chiede il pontefice, se non eliminare Dio dal proprio orizzonte? L’operazione sembrerebbe giustificata in nome del realismo, perché Dio non si vede e comunque appare lontano.

Eppure, sostiene il papa, dobbiamo costatare che quando l’uomo e la società eliminano Dio come fondamento dei valori, e lo tollerano al più come opzione individuale senza incidenza sul vivere comune, sprofondano nella mancanza di significato e in questo modo aprono la strada alla schiavitù. Perché i valori fondamentali, a partire dalla vita stessa, sganciati dalla loro origine divina si trasformano in idoli ai quali l’uomo è asservito.

È così che anche il progresso tecnologico, mai condannato dal papa in quanto tale, se privato del suo riferimento morale più profondo si trasforma da strumento al servizio dell’uomo in arma che lo può distruggere. La vera speranza, la più affidabile, è dunque quella fondata in Dio, non nell’uomo, nel suo pensiero o nelle sue realizzazioni (come il papa sostiene nella Spe salvi, la sua seconda enciclica, 
sulla speranza cristiana, del 2007), e tutti i valori umani prendono significato da qui. Riconoscere l’origine divina della creatura umana non equivale a sminuirne l’importanza. Al contrario, è proprio l’origine divina che assegna all’uomo quella dignità e quella grandezza che gli ordinamenti sono chiamati a riconoscere e tutelare.

La necessità di ampliare il raggio d’azione della ragione umana è stata sostenuta in modo particolarmente esplicito dal pontefice in un discorso rivolto al VI Simposio europeo dei docenti universitari (Allargare gli orizzonti della razionalità. Prospettive per la filosofia, 7 giugno 2008), quando ha spiegato che solo una ragione aperta alla fede è in grado di approdare a quell’Amore originario che è la verità più profonda dell’essere. Questa non è, ha precisato il papa, una nuova proposta filosofica e teologica, una fra le tante. È la richiesta di aprirsi alla vera realtà dell’uomo, superando ogni riduzionismo. Richiesta fatta sulla base di una «urgenza storica» della quale la fede cristiana deve farsi carico.

Poiché la fede nel Dio cristiano, e dunque nell’opera salvifica di Cristo, è una realtà che coinvolge interamente la persona e non riguarda solo la sfera intellettuale, la Chiesa, chiamata a escogitare metodi efficaci per annunciarla, chiede di essere riconosciuta come soggetto culturale che esprime un’esigenza profondamente umana. Ecco perché «il cristianesimo non va relegato al mondo del mito o dell’emozione, ma deve essere rispettato per il suo anelito a fare luce sulla verità sull’uomo» (discorso ai partecipanti all’incontro dei rettori e docenti delle università europee, 23 giugno 2007).

Il realismo della fede cristiana è dimostrato, secondo Benedetto XVI, dal fatto che la cultura non nasce da un’esigenza intellettuale, ma dalla vita stessa attraverso i suoi accadimenti, dal bisogno di trovare un significato e una speranza. È quanto il papa ha detto nell’incontro con i rappresentanti della cultura al Collège des Bernardins di Parigi, il 12 settembre 2008 (Le origini della teologia occidentale e le radici della cultura europea), quando ha ricordato che i monaci medievali garantirono la sopravvivenza della vecchia cultura e incominciarono a elaborare la nuova non perché volessero raggiungere questo traguardo specifico, ma per un motivo che era al tempo stesso più elementare e più profondo. «Il loro obiettivo era: quaerere Deum, cercare Dio. Nella confusione dei tempi, in cui niente sembrava resistere, essi volevano fare la cosa essenziale: impegnarsi per trovare ciò che vale e permane sempre, trovare la Vita stessa. Erano alla ricerca di Dio. Dalle cose secondarie volevano passare a quelle essenziali, a ciò che, solo, è veramente importante e affidabile.»

Ecco ciò che Benedetto XVI ha chiesto anche all’uomo contemporaneo. In un tempo per molti aspetti assimilabile a quello culturalmente confuso vissuto dai monaci medievali, ha esortato tutti a fare ricorso alla ragione «ampliata» per arrivare a Dio. Una sfida formidabile alla modernità.
Con la stessa incisività con la quale ha impostato il confronto culturale, il papa ha agito in campo dottrinale, riproponendo la centralità di Gesù, vero uomo e vero Dio. Poiché la corretta relazione  con Dio è il presupposto tanto della morale personale quanto dell’ordine sociale, occorre conoscere il suo volto, ed è una conoscenza che possiamo fare solo attraverso Gesù.

Nel libro dedicato a Cristo, Benedetto XVI si rende conto di quanto sia facile attribuire un volto a Gesù avendo a cuore uno specifico problema. Gesù può così diventare, di volta in volta, un rivoluzionario, se l’obiettivo è la giustizia sociale, o un santone, se invece lo si vuole utilizzare per il raggiungimento della pace interiore. Ma Gesù non può essere piegato a queste esigenze. Come fece Cristo stesso, che chiese agli apostoli quale fosse l’opinione della gente sul suo conto e poi rivolse la domanda ai suoi seguaci, papa Ratzinger ha riproposto l’interrogativo e ha risposto così: Gesù è Dio presente in un uomo, è la rivelazione divina dentro la storia dell’uomo, è l’amore di Dio che si fa carne per la nostra salvezza.

L’insegnamento di Gesù, ha osservato una volta Benedetto, sembra duro e troppo difficile da mettere in pratica. C’è allora chi lo rifiuta oppure chi cerca di adattarlo alle mode dei tempi, snaturandone il messaggio. Ma Gesù «non si accontenta di un’appartenenza superficiale e formale», né gli è sufficiente «una prima ed entusiastica adesione». Ciò che chiede è che tutta la nostra vita sia un’adesione «al suo pensare e al suo volere» (udienza del 25 agosto 2009). Aprire con fiducia il cuore a Cristo e lasciarsi conquistare da lui. Non dobbiamo fare altro. Questo il segreto della felicità.

A più riprese il papa ha sottolineato che l’adesione a Cristo è anche l’unico vero antidoto alle pretese di dominio attraverso il potere umano. «Cristo non teme nessun eventuale concorrente, perché è superiore a qualsivoglia forma di potere che presumesse di umiliare l’uomo», disse nella catechesi del 14 gennaio 2009, aggiungendo a braccio: «Chi è con Cristo non teme niente e nessuno».

In quanto «corpo di Cristo», è la Chiesa la realtà «più omogenea» all’identità di Gesù, ed è quindi solo nella Chiesa che possiamo concepire pienamente Cristo come nostro Signore sia in quanto guida della comunità sia in quanto capo del cosmo intero (il Pantocratore della tradizione bizantina). La Chiesa deve riconoscere che Cristo è «più grande di lei», e tuttavia deve essere consapevole del fatto che solo la Chiesa è corpo di Cristo, non il mondo, non l’universo.

Un’altra suggestiva definizione uscita dalla teologia di Ratzinger è quella di Cristo come «orma di Dio», anzi «la sua impronta massima», un mistero di fronte al quale tutte le nostre categorie concettuali si devono arrendere, lasciando spazio alla «contemplazione umile e gioiosa». Perché solo l’amore è in grado di capire.

Ogni giorno, anche oggi, Cristo viene nuovamente «fra la sua gente», disse il papa nel messaggio per il Natale del 2006, quando si chiese: «Come non sentire che proprio dal fondo di questa umanità gaudente e disperata si leva un’invocazione straziante di aiuto?».
 
«Salvator noster», lo definì in quell’occasione Benedetto XVI: «Cristo è il Salvatore anche dell’uomo di oggi» e il cristiano deve essere colui che si rende capace di far risuonare «in ogni angolo della terra, in maniera credibile, questo messaggio di speranza».

Chi annuncia Cristo, specificò durante la messa a Luanda, nel marzo del 2009, non manca di rispetto alle altre culture e alle altre religioni. Infatti, «se noi siamo convinti e abbiamo fatto l’esperienza che, senza Cristo, la vita è incompleta, le manca una realtà, anzi la realtà fondamentale, dobbiamo essere convinti anche del fatto che non facciamo ingiustizia a nessuno se gli presentiamo Cristo e gli diamo la possibilità di trovare, in questo modo, anche la sua vera autenticità, la gioia di avere trovato la vita». Il cristiano deve sapere che «è un obbligo nostro offrire a tutti questa possibilità di raggiungere la vita eterna». 

La centralità assoluta di Cristo è anche il criterio che, secondo Benedetto XVI, deve ispirare ogni ipotesi di riforma spirituale e sociale. Lo disse chiaramente durante l’udienza del 7 ottobre 2009, quando, illustrando la figura e l’opera di san Giovanni Leonardi, usò la formula «o Cristo o niente».

San Paolo e il santo Curato d’Ars sono gli esempi che il papa ha ripetutamente additato, soprattutto durante l’anno paolino e l’anno sacerdotale: Paolo e Giovanni Maria Vianney, due cristiani che in epoche diverse furono consapevoli di essere portatori di un «tesoro inestimabile», il messaggio della salvezza, ma si resero anche conto di portarlo in un «vaso di creta». Perciò nel trasmettere questo tesoro il cristiano è chiamato a essere «forte e umile», persuaso che «tutto è merito di Dio».

Seguire Cristo è un cammino di verità, perché seguendo lui, insegna papa Benedetto, scopriamo la verità su noi stessi. Ma come si rapporta la verità con la libertà umana?

È questa un’altra domanda centrale nel suo insegnamento. «Per quale scopo si vive in libertà?», si è chiesto il papa nel discorso alle autorità della Repubblica Ceca e al corpo diplomatico il 26 settembre 2009, nel corso della visita a Praga. «Quali sono i suoi autentici tratti distintivi?» Parte da qui la sua riflessione sul «corretto uso della libertà». E, nel dare la risposta, Ratzinger introduce subito l’idea di verità. «La vera libertà presuppone la ricerca della verità, del vero bene, e pertanto trova il proprio compimento precisamente nel conoscere e fare ciò che è retto e giusto.»

«La verità, in altre parole, è la norma guida per la libertà e la bontà ne è la perfezione.» Per questo, ha sottolineato, «l’alta responsabilità di tener desta la sensibilità per il vero e il bene ricade su chiunque eserciti il ruolo di guida», in campo religioso, politico e culturale. Di qui l’esortazione: «Insieme dobbiamo impegnarci nella lotta per la libertà e nella ricerca della verità: o le due cose vanno insieme, mano nella mano, oppure insieme periscono miseramente».

Per i cristiani, ha insegnato incessantemente papa Benedetto, la verità ha un nome e il bene ha un volto. Il nome è quello di Dio, il volto è quello di Gesù. Mantenere salde le radici cristiane, per i singoli come per le comunità sociali, vuol dire dunque usare la libertà per ancorarsi alla verità e al bene. San Paolo, nella lettera ai Galati, dice: «Siete stati chiamati alla libertà». Ma che cosa significa essere chiamati alla libertà? Una delle lezioni più esaurienti tenute dal papa in proposito si trova nel discorso pronunciato nel Seminario Romano Maggiore il 20 febbraio 2009. 

Spiegando che la libertà è stata sempre una delle grandi aspirazioni dell’umanità e citando il caso di Lutero, che per mettere in pratica il messaggio di Paolo arrivò a vedere nella regola monastica, nella gerarchia e nel magistero un giogo di schiavitù, il papa affermò che proprio in Paolo c’è la risposta, quando mette in guardia dall’identificare la libertà con l’io assoluto, con il proprio arbitrio, ma la fa coincidere con il servizio agli altri. Non si tratta di vivere secondo la carne, ma di vivere, mediante la carità, per il prossimo. In fondo, dice Benedetto, quale fu l’obiettivo dell’illuminismo e del marxismo? Si tratta sempre della libertà umana come rivendicazione dell’io contro ogni forma di dipendenza esterna. Ma ciò in cui cadono le ideologie, sostiene Ratzinger, è un abbaglio. L’io assoluto, che ha come punto di riferimento e come orizzonte soltanto se stesso, sembra possedere la libertà, eppure realizza soltanto la degradazione dell’uomo. Ecco che cosa succede quando si confonde la libertà con l’autonomia e con il libertinismo.

Il papa riconosce che quello proposto da Paolo è un paradosso difficile da digerire per la mentalità contemporanea, abituata a vedere nella libertà semplicemente una mancanza di vincoli e di doveri. Paolo arriva a dire che la libertà si manifesta nel servire: tanto più siamo liberi quanto più siamo servi gli uni degli altri. Ridursi alla sola carne, cioè all’idea dell’autonomia assoluta, vuol dire abbracciare una menzogna. Perché in realtà «l’uomo non è un assoluto, quasi che l’io possa isolarsi e comportarsi solo secondo la propria volontà». Pensare questo «è contro la verità del nostro essere». «La nostra verità è che, innanzitutto, siamo creature, creature di Dio, e viviamo nella relazione con il Creatore. Siamo esseri relazionali. E solo accettando questa nostra relazionalità entriamo nella verità, altrimenti cadiamo nella menzogna e in essa, alla fine, ci distruggiamo.»

La relazione con il Creatore sarebbe una dipendenza nefasta se Dio fosse un tiranno, ma il Dio cristiano è buono, è un Dio che ci ama. Essere nel suo spazio è sicuramente una dipendenza, ma poiché è spazio d’amore è una dipendenza positiva, per il nostro bene. Corrisponde alla nostra libertà. «Quindi questo è il primo punto: essere creatura vuol dire essere amati dal Creatore, essere in questa relazione di amore che egli ci dona».

Siamo qui nel cuore dell’insegnamento di Benedetto XVI, ma è un cuore difficile da accettare per la mentalità moderna e anche per il cristiano stesso, oggi sottoposto incessantemente a sollecitazioni che lo spingono a identificare sempre di più la libertà con l’autodeterminazione. La nostra condizione di esseri in relazione, spiegò il papa nel discorso ai seminaristi, implica non solo questo legame diretto e fondante con il Dio creatore. In quanto figli di Dio, noi formiamo una famiglia, e dunque, proprio in quanto famiglia, siamo anche in relazione l’uno con l’altro. Di conseguenza, libertà è sia essere nello spazio di Dio, spazio di gioia perché Dio ci ama, sia essere in relazione fra creature: «Non c’è libertà contro l’altro. Se io mi assolutizzo, divento nemico dell’altro, non possiamo più convivere e tutta la vita diventa crudeltà, diventa fallimento. Solo una libertà condivisa è una libertà umana; nell’essere insieme possiamo entrare nella sinfonia della libertà».

Sono espressioni che dimostrano, anche dal punto di vista stilistico, la tensione presente nel papa e il suo desiderio di far capire nel modo più limpido che cos’è la libertà per il cristiano. Una libertà che ha senso solo se vissuta in comune, non come fatto individualistico. Proprio perché si tratta di un bene comune, la libertà così intesa ha bisogno, per essere davvero tale, di un terreno valido per tutti, un «ordine giusto», come lo chiama Benedetto. 

Presupposto di questo ordine è una verità nella quale l’intera comunità possa riconoscersi. Questa verità è appunto Dio, ma se Dio non è riconosciuto, se Dio è negato, non c’è verità comune e non c’è ordine. Ecco così che l’ordine, con il diritto che ne deriva, diventa strumento di libertà contro la schiavitù dell’egoismo. Il papa cita le celebri parole di sant’Agostino: «Dilige et fac quod vis, ama e fa’ ciò che vuoi». Non è, spiega, un invito all’assolutizzazione dell’io. Tutto dipende da quale significato diamo al verbo amare. Se siamo in comunione con Cristo, se ci siamo compenetrati con lui, con la sua morte in croce e la sua risurrezione, allora possiamo dire che la legge divina entra nella nostra volontà e la nostra volontà si identifica con quella di Dio. «E così siamo realmente liberi, possiamo realmente fare ciò che vogliamo, perché vogliamo con Cristo, vogliamo nella verità e con la verità.»

Quelli appena ricordati sono i punti fermi dell’insegnamento di Benedetto XVI, da sottolineare per capire quali sono stati i presupposti del suo magistero, quali le sue principali preoccupazioni, quali le questioni affrontate da un lato nel dibattito con la cultura contemporanea, dall’altro nel confronto all’interno della Chiesa. È così che papa Ratzinger si è proposto all’attenzione delle persone – non solo credenti, non solo cattoliche, non solo cristiane – di questo nostro tempo.

È così che ha formulato il suo pensiero. Da non dimenticare.

Aldo Maria Valli












http://www.aldomariavalli.it



Nonostante quello che scrivono i gesuiti, il “cristiano adulto” è un cattolico adulterato, cioè apostata. Punto.


La Civiltà Cattolica, nota e influente rivista dei padri gesuiti, torna ancora sulla interpretazione della esortazione post-sinodale Amoris laetitia. Lo fa con un pezzo firmato dal direttore, P. Antonio Spadaro, e da Louis J. Cameli, sacerdote teologo della diocesi di Chicago. Nell’articolo si sottolinea che «alcune tra le incomprensioni a riguardo di questo importante testo del Magistero nascono proprio dall’incapacità di comprendere che cosa sia il discernimento e di viverlo».

Una della parole chiave del documento di Papa Francesco a conclusione del lungo periodo sinodale – “discernimento” – viene indicata dalla Civiltà Cattolica come la vera cifra di Amoris laetitia, ciò che permette di affrontare la realtà con un punto di vista che tiene conto delle situazioni personali e quindi può sostenere la “pastorale dei casi particolari”.

Secondo Spadaro e Cameli, questo “discernimento” è la vera «chiave di un cristianesimo adulto»; eppure bisogna riconoscere che le critiche di molti ad Amoris laetitia hanno rilevato il rischio di uno scivolamento verso una pericolosa morale “della situazione”, su cui già si era espressa in modo negativo l’enciclica Veritatis splendor di san Giovanni Paolo II.

A queste critiche non banali la Civiltà Cattolica sempre rispondere dicendo che discernere «non è una forma di diagnosi, di problem solving o di casuistica», ma «il presupposto fondamentale del discernimento è che esso non riguarda un problema, ma piuttosto una vita in cammino, una persona che procede sulla strada verso Dio. Quindi il discernimento ordina le tappe e le dimensioni di quel percorso per identificare dove e come Dio sta invitando quella persona o quella comunità alla conversione e alla vita».

***

Al di là delle parole, cioè il fatto che il discernimento non riguarda un problema, ma una vita in cammino verso Dio, rimane il dubbio rispetto alla pastorale che sembra emergere dall’esortazione. In sottofondo, infatti, pare esservi un’interpretazione della teologia morale che, forse, non sarà “situazionistica”, ma non è così facile distinguerla da essa. Il rischio che molti sottolineano, infatti, è che la norma insegnata dalla Chiesa venga ora considerata semplicemente come un “ideale”, che poi viene adattato alle situazioni, secondo «un bilanciamento dei vari beni in questione» (Cfr. Veritatis splendor n. 103). E ciò, diceva Giovanni Paolo II, sarebbe un «gravissimo errore».








domenica 26 giugno 2016

La Chiesa che si condanna alla peggiore mondanizzazione

ROMA 10-4-2010
CEI 
CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA 
Forum Nazionale dei giovani verso la 46¡ Settimana Sociale nel quale incontrare i giovani delegati che andranno a Reggio Calabria
NELLA FOTO :
 S.E. ARRIGO MIGLIO - 
PH: CRISTIAN GENNARI 

Sono tempi, questi, in cui sentiamo “belle parole” contro la ricchezza, contro le tentazioni di potere che minaccerebbero tanti ambienti ecclesiali… Eppure, mai come in questi tempi, la Chiesa, dai vertici fino al basso, sta patendo la peggiore mondanizzazione che possa esistere.
 
 
di Corrado Gnerre (24-06-2016)
 
Ho ascoltato la breve, ma incisiva, omelia di don Pusceddu. Omelia ormai diventata famosa perché, “sbattuta” sui media, ha provocato una tale reazione che si parla ormai di oltre 30.000 firme rivolte a papa Francesco affinché si prendano provvedimenti contro il sacerdote.
 
Ebbene, l’omelia* (come potete aver modo di ascoltare), non ha nulla di scandaloso, è condivisibile, e soprattutto risponde pienamente a quello che deve essere il dovere di ogni cattolico, in particolar modo di ogni sacerdote e pastore: predicare la Verità e difendere il gregge da lupi che vorrebbero diffondere gli errori più nefasti.
 
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Intanto il vescovo di Cagliari, monsignor Miglio, è intervenuto, ma non per difendere il sacerdote come era suo dovere, bensì per imporgli il silenzio.
 
Un atto del genere non solo è un tradimento alla Verità, ma è un ulteriore segno di una pericolosissima deriva, che sembra ormai inarrestabile nella Chiesa contemporanea. Mi riferisco alla deriva di una completa “mondanizzazione”.
 
Sono tempi, questi, in cui sentiamo “belle parole” contro la ricchezza, contro le tentazioni di potere che minaccerebbero tanti ambienti ecclesiali… Eppure, mai come in questi tempi, la Chiesa, dai vertici fino al basso, sta patendo la peggiore mondanizzazione che possa esistere.
 
La mondanizzazione più pericolosa, infatti, non è farsi condurre da un’auto di lusso né tantomeno soggiornare tra arazzi e dipinti rinascimentali, bensì “acconciarsi” alla mentalità del mondo, aver paura del suo giudizio e ridursi al silenzio. Ubbidire al mondo, piuttosto che lavorare per la sua salvezza.
 
Ma è mai possibile che non si riesce a capire che con questo atto monsignor Grillo non costringe al silenzio un suo sacerdote ma se se stesso?
 
Scrivo queste cose nella festa di san Giovanni Battista e mi chiedo: cosa farebbe monsignor Miglio se avesse tra i suoi il Battista, ridurrebbe anch’egli al silenzio?
 
San Giovanni Battista la cui predicazione era troppo “escludente”. San Giovanni Battista che non sapeva giudicare tenendo presente i casi particolari. San Giovanni Battista che pretendeva ammonire l’errante e rammentargli il triste destino della dannazione eterna. San Giovanni Battista espressione di un cristianesimo troppo “ideologico”, “rigoroso”, poco “misericordioso” e “integrista”.
 
Ma dove stiamo andando?
 
Che il Signore e Maria Santissima ci rendano quanto prima la grazia di far sì che nella loro Chiesa possa risplendere pienamente – e senza vergogna alcuna! – la Verità nella sua bellezza e integrità.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
* [NdR.] Don Pusceddu ha citato, durante l'omelia, il seguente brano di San Paolo Apostolo ai Romani:
 
[24]Perciò Dio li ha abbandonati all'impurità secondo i desideri del loro cuore, sì da disonorare fra di loro i propri corpi, [25]poiché essi hanno cambiato la verità di Dio con la menzogna e hanno venerato e adorato la creatura al posto del creatore, che è benedetto nei secoli. Amen.
[26]Per questo Dio li ha abbandonati a passioni infami; le loro donne hanno cambiato i rapporti naturali in rapporti contro natura. [27]Egualmente anche gli uomini, lasciando il rapporto naturale con la donna, si sono accesi di passione gli uni per gli altri, commettendo atti ignominiosi uomini con uomini, ricevendo così in se stessi la punizione che s'addiceva al loro traviamento. [28]E poiché hanno disprezzato la conoscenza di Dio, Dio li ha abbandonati in balìa d'una intelligenza depravata, sicché commettono ciò che è indegno, [29]colmi come sono di ogni sorta di ingiustizia, di malvagità, di cupidigia, di malizia; pieni d'invidia, di omicidio, di rivalità, di frodi, di malignità; diffamatori, [30]maldicenti, nemici di Dio, oltraggiosi, superbi, fanfaroni, ingegnosi nel male, ribelli ai genitori, [31]insensati, sleali, senza cuore, senza misericordia. [32]E pur conoscendo il giudizio di Dio, che cioè gli autori di tali cose meritano la morte, non solo continuano a farle, ma anche approvano chi le fa.  
 
 
 
 
 

Stepchild adoption: Centro studi Livatino, “Sentenza della Cassazione è sconfitta per i minori”





Giu 22, 2016

Articolo pubblicato il 22 giugno 2016 dall’Agenzia Sir.


“La decisione della 1a sezione civile dalla Corte di Cassazione sulla step child adoption si pone in contrasto con quel ‘superiore interesse del minore’ che ha costituito finora il pilastro dell’ordinamento, e che in tal modo viene scardinato”, così il Centro studi Livatino in un comunicato stampa di commento alla sentenza.

Nell’esprimere preoccupazione “per questa deriva, giunta fino alla sede di legittimità”, il Centro studi Livatino ricorda “come si sia di fronte all’esito voluto – come lo stesso Centro ha più volte denunciato nei propri documenti -, della recente legge sulle unioni civili”. 

Per il Centro infatti “quando il comma 20 dell’articolo unico equipara le disposizioni in cui si richiama il termine ‘coniuge’ alla parte unita civilmente e aggiunge che ‘resta fermo quanto previsto e consentito in materia di adozione dalle norme vigenti’, ha in mente esattamente la giurisprudenza che oggi trova la sua conferma in Cassazione. 

Con buona pace di chi, al momento del voto della legge, ha vantato l’esclusione della step child adoption”. La sentenza di oggi, conclude la nota, “è una ulteriore sconfitta della tutela dei minori: che può essere rimediata solo da un approfondito e coraggioso rilancio delle ragioni della famiglia e dei figli”.














sabato 25 giugno 2016

É un’Europa da rifondare: parla Benedetto XVI




di Robi Ronza
25-06-206

Poi si tratta di andare a vedere che prezzo cercheranno di farci pagare le élites che erano sin qui riuscite con successo a costruirsi la loro Europa pretendendo che fosse anche la nostra. La prima cosa da dire però è che l’esito del referendum britannico pro o contro l’Unione Europea è un atto di grande libertà; e apre a grandi speranze. L’altro ieri in Gran Bretagna gli elettori hanno votato innanzitutto contro un ordine costituito politico e mediatico che voleva votassero diversamente; e che aveva per questo fatto letteralmente di tutto.

Parlando alla Rai in un’ascoltatissima trasmissione del mattino, l’ex-presidente della Repubblica Giorgio Napolitano si è permesso ieri di definire “incauto” il premier britannico Cameron per aver sottoposto a referendum popolare la questione della permanenza o meno del suo Paese nell’Ue. Da questioni di questa importanza, secondo Napolitano, è meglio che il popolo venga lasciato fuori. Dando prova di una notevole mancanza di comune senso del pudore, il suo pupillo Mario Monti ha detto anche di peggio. Capo di governo imposto al Parlamento, e nominato allo scopo senatore a vita pochi giorni prima della sua entrata in carica, Monti ha affermato che indicendo il referendum Cameron avrebbe nientemeno che «abusato della democrazia».

Quando insomma un popolo vota di testa sua, e non come avrebbero voluto loro, alle élites abituate a considerare “cosa nostra” le istituzioni europee casca la maschera. Da due giorni a questa parte i Napolitano e i Monti di ogni parte d’Europa sono fuori di sé al punto da non riuscire più a nascondere l’autoritarismo recondito, post-comunista o massonico che sia, che caratterizza non da oggi la loro visione politica. Anche se a mio avviso la Brexit è uno shock salutare per l’Unione Europea, senza dubbio non è ordinaria amministrazione. Come si diceva, le élites che non la volevano cercheranno di far pagare al mondo il fallimento del loro progetto facendone il capro espiatorio su cui scaricare emergenze che con essa non hanno nulla a che vedere.

É il caso ad esempio dei titoli dei grandi gruppi bancari italiani sulle cui sorti non si vede che cosa possa pesare l’esodo di Londra dall’Unione. Si deve quindi dare per scontato che ci attendono giorni di turbolenza sui mercati finanziari internazionali; e chi è in grado di farlo ha il preciso dovere di intervenire per stabilizzarli. Frattanto è già scattata la “macchina” della mistificazione del significato profondo della Brexit. In ultima analisi l’episodio è un segno clamoroso del fallimento della pretesa di costruire l’Europa politica basandola solo sugli interessi e prescindendo testardamente dalla sua storia e dai valori che la caratterizzano. L’Europa si può salvare soltanto se cambia risolutamente strada riscoprendo il meglio di se stessa. Viceversa già si sta tentando di far passare l’idea che dalla crisi evidenziata dalla Brexit si possa uscire non cambiando strada bensì andando avanti a testa bassa come se niente fosse.

Per evidenti motivi le chiavi della soluzione di questa crisi
stanno in gran parte nelle mani della gente di fede. Purché però la gente di fede sia a sua volta fedele a ciò che ha incontrato. È il caso in tale prospettiva di riandare a un documento oggi perciò quanto mai attuale: il discorso di Benedetto XVI ai partecipanti al congresso della Commissione degli Episcopati della Comunità Europea riunita a Roma il 24 marzo 2007 alla vigilia del 50° anniversario dei trattati istitutivi delle prime organizzazioni europee. Dopo aver messo in luce gli aspetti positivi del processo allora avviatosi Benedetto XVI osservava però che l’Europa sta «di fatto perdendo fiducia nel proprio avvenire. (…) Il processo stesso di unificazione europea si rivela non da tutti condiviso, per l’impressione diffusa che vari “capitoli” del progetto europeo siano stati “scritti” senza tener adeguato conto delle attese dei cittadini».

«Da tutto ciò emerge chiaramente», continuava Benedetto XVI,
«che non si può pensare di edificare un’autentica “casa comune” europea trascurando l’identità propria dei popoli di questo nostro Continente. Si tratta, infatti, di un’identità storica, culturale e morale, prima ancora che geografica, economica o politica; un’identità costituita da un insieme di valori universali, che il Cristianesimo ha contribuito a forgiare, acquisendo così un ruolo non soltanto storico, ma fondativo nei confronti dell’Europa. Tali valori, che costituiscono l’anima del Continente, devono restare nell’Europa del terzo millennio come “fermento” di civiltà. Se infatti essi dovessero venir meno, come potrebbe il “vecchio” Continente continuare a svolgere la funzione di “lievito” per il mondo intero? Se, in occasione del 50.mo dei Trattati di Roma, i Governi dell’Unione desiderano “avvicinarsi” ai loro cittadini, come potrebbero escludere un elemento essenziale dell’identità europea qual è il Cristianesimo, in cui una vasta maggioranza di loro continua a identificarsi?».

«Non è motivo di sorpresa che l’Europa odierna»,
continua Ratzinger, «mentre ambisce di porsi come una comunità di valori, sembri sempre più spesso contestare che ci siano valori universali ed assoluti? Questa singolare forma di “apostasia” da se stessa, prima ancora che da Dio, non la induce forse a dubitare della sua stessa identità? (….) Una comunità che si costruisce senza rispettare l’autentica dignità dell’essere umano, dimenticando che ogni persona è creata ad immagine di Dio, finisce per non fare il bene di nessuno (…). Nell’attuale momento storico e di fronte alle molte sfide che lo segnano, l’Unione Europea per essere valida garante dello stato di diritto ed efficace promotrice di valori universali, non può non riconoscere con chiarezza l’esistenza certa di una natura umana stabile e permanente, fonte di diritti comuni a tutti gli individui, compresi coloro stessi che li negano. In tale contesto, va salvaguardato il diritto all’obiezione di coscienza, ogniqualvolta i diritti umani fondamentali fossero violati».

Sembra poi più che mai rivolto a ciascuno di noi oggi l’invito
e l’incoraggiamento con cui il discorso si concludeva: «so quanto difficile sia per i cristiani difendere strenuamente questa verità dell’uomo. Non stancatevi però e non scoraggiatevi! Voi sapete di avere il compito di contribuire a edificare con l’aiuto di Dio una nuova Europa, realistica ma non cinica, ricca d’ideali e libera da ingenue illusioni, ispirata alla perenne e vivificante verità del Vangelo. Per questo siate presenti in modo attivo nel dibattito pubblico a livello europeo, consapevoli che esso fa ormai parte integrante di quello nazionale, e affiancate a tale impegno un’efficace azione culturale. Non piegatevi alla logica del potere fine a se stesso! Vi sia di costante stimolo e sostegno l’ammonimento di Cristo: se il sale perde il suo sapore a null’altro serve che ad essere buttato via e calpestato (cfr Mt 5,13)».

Sono urgenze – osserviamo infine -- già al centro delle riflessioni che l’allora cardinale Joseph Ratzinger aveva affidato nel 1992 a un libro Svolta per l’Europa: Chiesa e modernità nell’Europa dei rivolgimenti (Edizioni Paoline, Milano, 1992) oggi tutto da riscoprire.








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