
(Foto: Gari Melchers, Public domain, via Wikimedia Commons)
[Articolo pubblicato su “La Bussola mensile” del mese di giugno 2025].
Di Stefano Fontana, 28 ago 2025
Di norma si sente spesso dire che la società nasce dalla famiglia, che ne è la cellula. Ma la famiglia da cosa nasce? Dal matrimonio, e questo non si sente spesso dire. Leone XIII, nelle sue encicliche sociali e soprattutto nella Arcanum divinae sapientiae (come del resto Pio XI nella Casti connubi), ha insegnato che il matrimonio è alla base della famiglia e quindi della società intera. Per matrimonio egli intendeva il matrimonio religioso e sosteneva che pretendere di escludere dal matrimonio la dimensione religiosa comporta inevitabilmente che esso lungo il tempo perda gli stessi suoi caratteri naturali. Per questo quel Papa, reclamava il dovere/diritto della Chiesa di detenere la suprema ed unica potestà legislativa sul matrimonio, rifiutando che questa fosse assunta dallo Stato. Egli diceva questo proprio quando gli Stati moderni e liberali cominciavano ad approvare leggi sul matrimonio civile e sul divorzio. Leone non ammetteva che il matrimonio civile fosse equiparato al matrimonio religioso e sosteneva che tolto il fondamento religioso, anche un presunto matrimonio naturale non sarebbe durato granché. Ed infatti la storia successiva conferma queste sue preoccupazioni. Non ci si è fermati al matrimonio civile, si è passati al divorzio oggi ammesso in (quasi) tutti gli Stati del mondo, quindi si è giunti al riconoscimento delle coppie di fatto eterosessuali e poi delle unioni civili omosessuali e il declino non è ancora giunto al termine.
Cos’è il matrimonio e perché è alla base della società? Il matrimonio è un patto pubblico indissolubile e aperto alla vita tra un uomo e una donna con il quale i due si promettono amore e fedeltà reciproca, si impegnano ad aiutarsi e a santificarsi durante tutta la vita, curando l’allevamento e l’educazione dei figli. Il matrimonio è un patto pubblico e non privato perché da esso nasce la famiglia che è una realtà sociale e sorgono impegni che superano di gran lunga l’ambito privato, come la generazione e l’educazione dei figli. L’esercizio della sessualità e la procreazione sono certamente fatti intimamente personali, ma hanno anche un significato sociale dato che incrementano la società e i figli di oggi saranno i cittadini di domani. Questa natura pubblica del matrimonio giustifica il riconoscimento della sua natura e dei suoi effetti giuridici e politici. Non comporta però che l’autorità politica eserciti un potere assoluto o principale nei confronti della famiglia, significa invece il contrario, ossia che l’autorità politica debba intendersi a servizio della famiglia nata dal matrimonio, difendendola e promuovendola. Le convivenze di fatto non hanno questo significato pubblico, né tantomeno le unioni civili di varia natura. Queste sono relazioni private e temporanee che non possono pretendere riconoscimenti pubblici. Se lo fanno cadono in evidente contraddizione: non si assumono nessun impegno pubblico ma vogliono essere riconosciute pubblicamente.
Il matrimonio, come abbiamo visto sopra, è una unione tra un uomo e una donna. Perché solo tra un uomo e una donna? Perché il matrimonio richiede una complementarità naturale, una integrazione reciproca fondata su una vocazione naturale, ossia indisponibile agli stessi due coniugi. Se così non fosse, il matrimonio non farebbe nascere nessuna “realtà” nuova ma sarebbe un semplice accostamento strumentale, pur con le migliori intenzioni, tra due individui che risulterebbero contigui tra loro ma non veramente uniti. L’espressione detta da Gesù “saranno due in una carne sola” ha un significato soprannaturale ma anche naturale. Nasce qui anche il carattere della indissolubilità. Se tra i due ci fosse solo un accostamento reciproco si potrebbe dire che c’è una “coppia” nel senso di 1 + 1, come quando diciamo “una coppia di arance”, ma non una coppia nel senso di qualcosa di superiore ai due componenti, come invece accade col matrimonio. Questa nuova realtà, essendo indisponibile agli stessi due coniugi, non può essere sciolta una volta istituita, essi non he hanno la capacità perché i due coniugi sono resi tali dal matrimonio, essi non lo hanno nella loro disponibilità operativa perché non i coniugi fanno il matrimonio ma il matrimonio fa i coniugi. La coniugalità è un dono ricevuto e non prodotto.
Visto in questo modo realistico e naturale, il matrimonio non può esserci tra due persone dello stesso sesso. Queste mancano della complementarità, ossia del completarsi a vicenda secondo un progetto indisponibile agli stessi due, oltre a mancare della apertura alla vita su cui tornerò tra poco. La diversità fisica e sessuata dell’uomo e della donna non è qualcosa di strumentale e diversamente utilizzabile. Il corpo è un linguaggio e la diversità sessuata esprime un progetto che nel caso dell’eterosessualità è di completamento reciproco, mentre nel caso dell’omosessualità è di somma ripetitiva. È drammatico che oggi non si riesca più a vedere nella diversità/polarità fisica maschio/femmina un progetto naturale sulle persone e sulla vita relazionale. Il corpo, così, viene considerato uno strumento a disposizione dei nostri usi, qualsiasi essi siano, con la qual cosa, però, non si può più dire che noi siamo (anche) il nostro corpo, ma solo che abbiamo un corpo. Questa visione non corrisponde alla corretta antropologia naturale e cristiana. Sul piano naturale l’antropologia filosofica ci dice che siamo anime incarnate, quindi il corpo fa parte del nostro essere e non è solo uno strumento, sul piano soprannaturale l’antropologia teologica ci dice che il nostro corpo è destinato alla gloria, e quindi non può essere uno strumento che si adopera indifferentemente.
La relazione tra due persone omosessuali non è procreativa. Già questo dice quanto essa sia innaturale. A meno di sostenere che l’apertura alla vita non sia una condizione perché si abbia un vero matrimonio. Anche molti teologi cattolici oggi sostengono che il fine del matrimonio è l’unità dei coniugi e non la procreazione. Se passa questa idea, allora anche due persone omosessuali possono essere ritenute adatte al matrimonio. Bisogna quindi tenere per fermo che l’apertura alla vita è indispensabile per il matrimonio. Il motivo è che senza questo elemento anche quelli della complementarità, dell’unità e della cura reciproca vengono meno. Senza apertura alla vita l’attività sessuale diventa una strumentalizzazione reciproca, anche se consensuale. Bisogna allora recuperare il tradizionale insegnamento che il primo fine del matrimonio sono i figli, da questo dipende anche l’altro fine dell’unità tra i coniugi. Qui si entra, tra l’altro, nel campo etico della contraccezione. L’uso di strumenti contraccettivi trasforma la relazione sessuale da vocazione a strumentalizzazione, dato che l’intenzione è focalizzata non sul bene dell’azione in sé ma sui suoi effetti, in questo caso per impedirli.
Tornando al matrimonio e alla famiglia come cellula della società, bisogna dire che il matrimonio produce società e socialità. Che produca società dipende dal fatto che è aperto alla vita e con la procreazione fa nascere nuovi componenti della società, appunto i figli. Se ci fossero solo coppie omosessuali, la società si estinguerebbe. Che produce socialità significa che crea relazione, accoglienza, solidarietà, rispetto reciproco, capacità di vivere insieme in modo non conflittuale.. La socialità ha origine nel matrimonio, nella prima accoglienza reciproca non motivata dall’utile ma dalla gratuità tra due persone complementari capaci di arricchirsi a vicenda secondo una regola indisponibile. Se la socialità non fosse presente in questo primo momento come potrebbe poi esserlo nella più ampia vita sociale?
Alla base della società non stanno le persone, stanno le famiglie e la prima famiglia è quella dei due coniugi arricchita poi dalla prole. Il personalismo, anche cattolico, a questo proposito, ha un po’ intorbidito le acque. Ha detto che il “principio” della società è la persona umana. Il riferimento, con ogni probabilità, è alla natura sociale della persona e questo è giusto. Se la persona non avesse una natura sociale non avremmo una società. Ma, in senso stretto, con una persona non ho ancora la società e forse nemmeno con due, dato che potrebbero essere in lotta fra loro o comunque considerarsi due individui giustapposti al di fuori di ogni regola. La società si ha quando un uomo e una donna si uniscono in matrimonio. Il personalismo ha confuso le cose proponendo una persona che non sia anche dentro una famiglia, cosa di per sé impossibile. Si può dire che la famiglia precede la persona, perché pensare a delle persone/individui fuori di un contesto familiare diventa impossibile. Ciò non toglie, come già detto, che sia anche importante parlare della natura sociale della persona.
La famiglia è strettamente necessaria per il bene comune. Si pensa talvolta che il bene comune sia davanti a noi, come un fine da realizzare. Questo è vero perché ognuno deve sentirsi impegnato a raggiungere il proprio bene personale e insieme il bene di tutti e di ciascuno. Però per promuovere il bene comune bisogna conoscerlo. Per questo si deve dire che il bene comune ci sta anche dietro ed è dato dall’ordine naturale finalistico della società e in particolare dal bene comune familiare. Noi nasciamo già dentro un bene comune, ne facciamo una esperienza originaria in famiglia. Se però essa viene intesa non come una vera famiglia, ma come un accostamento di due o più individui (con il “poliamore” oggi anche questo è possibile purtroppo) non rappresenta alcun bene comune perché quanto è innaturale non può essere un bene e nemmeno comune.
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