giovedì 31 gennaio 2013

Una Chiesa che "rincorre" perde la profezia
















di Angela Ambrogetti

Ubriachi di webmania? Un po’ il rischio c’è. Da quando in Vaticano si sono scoperti i social (con qualche anno di ritardo) sembra che tutto debba essere fatto solo per via informatica. Ovvio, scontato che si debba usare la rete per entrare in contatto con il mondo. Anche perché la rete è un luogo più che un mezzo. E proprio per questo bisogna capirne a fondo le logiche, anche le regole, che non dovrebbero essere dettate dall’alto, ma devono formarsi dal basso. Questa la sfida che deve affrontare la Chiesa quando entra nella piazza mediatica. Aiutare gli abitanti della rete a creare la loro costituzione, che magari sia meglio di quella europea nata e morta perché nessuno voleva accettare le radici cristiane della nostra cultura.

Il Pontificio Consiglio della Cultura per la plenaria ha scelto di parlare di culture giovanili emergenti nella sua assemblea Plenaria. In effetti i temi in programma non sembrano tanto “emergenti”, piuttosto già un po’ sfruttati. Ma almeno è un inizio.

Essere giovani significa in parte vivere di grandi dualità. Il bianco e il nero sono i colori della gioventù, la scala dei grigi arriva con l’esperienza. Ma davvero pensiamo che i giovani non possano più essere parte della cultura cristiana tramite la parrocchia, la liturgia e i sacramenti? Ad esempio perché sono tanti i giovani nelle esperienze più “tradizionaliste”? Una domanda che in pochi si fanno quando si parla di giovani nella Chiesa. Il Vangelo, la fede sono davvero solo un fatto culturale, una battaglia sociologica? Le domande di fondo dell’uomo, quelle esistenziali sono in definitiva sempre le stesse.

La società dà risposte “di moda”, a secondo dei tempi e degli interessi che vengono coinvolti, ma la Chiesa dovrebbe invece essere oltre le mode e gli interessi, perché la Chiesa è profezia. Quello che invece si vede in questi ultimi anni è spesso un’affannosa ricerca dello “stare al passo” con i tempi, le mode e i modi. Il rischio è quello di perdere appunto la profezia. Quando dalla, filosofia, dalla teologia si passa alla sociologia, il rischio è quello di guardare ai fatti senza valutare le cause. I mali non si curano non con i medicinali sintomatici.

Allora i cristiani vogliano “correre dietro” alle mode, o piuttosto porre traguardi ambiziosi e controcorrente come suggerisce il Vangelo? Ovvio che il linguaggio le tecniche, devono essere adeguati ai tempi, ai luoghi. Il Concilio lo ha chiamato “inculturazione”, non è certo un fatto nuovo.

Anche il cardinale Ravasi riconosce che la Chiesa rischia di lavorare di rincorsa. Ma in fondo i giovani non possono essere analizzati solo con gli schemi freddi della nostra sociologia, con la pastorale “classica”. Il problema è che dopo avere intercettato il livelli culturali “alti” ora si deva arrivare a tutti, alla cultura pop. E ancora non sappiamo bene come fare. La Plenaria sarà un primo passo?


Korazym.org   31 Gennaio 2013

Elogio dell'ingenuità (o dell’obbedienza intelligente)




di Ubaldo Casotto

L'ANNO DELLA FEDE - SAPERE E CREDERE
È considerato uno dei massimi filosofi cattolici viventi. Lui di sé dice: «Sono un cattolico che fa il filosofo». Dialogo con ROBERT SPAEMANN su cosa salva la ragione dall’autodistruzione: la conoscenza e l’amore. Perché «mettere in dubbio Dio vuol dire mettere in dubbio la realtà stessa»

Presentando Fini naturali. Storia e riscoperta del pensiero teleologico, il cardinale Camillo Ruini ha detto: «Considero questo libro, assieme a Persone. Sulla differenza fra “qualcosa” e “qualcuno”, il capolavoro di Robert Spaemann». Per chi volesse conoscere il pensiero di questo ottantacinquenne pensatore tedesco considerato uno dei massimi filosofi cattolici viventi (anche se di sé preferisce dire: «Sono un cattolico che fa il filosofo»), vale la pena menzionare almeno altri due suoi lavori: Natura e ragione. Saggi di antropologia (a cura di Luca F. Tuninetti, Edusc) e Cos’è il naturale: natura, persona, agire morale (a cura di Ugo Perone, Rosenberg & Sellier).
Fini naturali esce in una collana intitolata “La ragionevolezza della fede”, cui il Pontificio Consiglio per la Nuova Evangelizzazione ha concesso l’utilizzo del logo ufficiale dell’Anno della Fede. Spaemann era a Roma nei giorni scorsi. Tracce l’ha incontrato.

Mi sembra significativa la pubblicazione in Italia di questo suo libro durante l’Anno della Fede. Lei denuncia il dualismo del pensiero contemporaneo tra naturalismo e spiritualismo, per Benedetto XVI il problema della cultura positivistica è la frattura tra sapere e credere. La fede non c’entra più con la ragione, quindi con la vita. La fede può aiutare la ragione moderna a rimettere al centro l’uomo, il suo bene e non il suo possesso e il suo uso? 

Effettivamente oggi è la fede cristiana che difende la ragione dalla sua autodistruzione. Già Cartesio lo aveva visto. Lui ha mostrato che, se lo vogliamo, possiamo sempre dubitare del risultato della nostra comprensione razionale, anche di ciò che è evidente: secondo Cartesio, infatti, potrebbe trattarsi dell’inganno di un genio maligno. Oggi non abbiamo bisogno dell’ipotesi di un genio maligno, ma la verità in quanto risultato di una evidenza è soltanto una condizione mentale soggettiva condizionata dal processo evolutivo che, stando alla fede evoluzionistica, ci offre un vantaggio rispetto al resto della natura. Cartesio aveva bisogno dell’idea di Dio per giustificare la fiducia nella ragione umana.

In questo senso Joseph Ratzinger sfida i suoi contemporanei a «vivere come se Dio esistesse»?

Le scienze naturali si limitano a ricostruire la realtà empirica con l’aiuto di simulatori. Ma se la ragione proibisce a se stessa di riflettere sul rapporto che questi modelli hanno con la realtà, il Papa la considera un’automutilazione della ragione. Di fronte al metodico «etsi Deus non daretur» della scienza, egli postula un liberatorio «etsi Deus daretur» che è un rifiuto del dimezzamento della ragione. In questa situazione è la fede cristiana che difende la pretesa elementare della ragione di essere aperta a ciò che “è in verità”, la pretesa di una conoscenza dell’assoluto, di Dio.

Una fede come forma di conoscenza...

Benedetto XVI riprende una concezione anti-fideistica e insiste sul fatto che la fede cristiana non è una fede cieca, un fanatismo, ma una fede che vede, un “rationabile obsequium”. Quando Gesù dice ai suoi discepoli: «Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi», mostra che la discepolanza cristiana non è un’imitazione cieca, ma intelligente obbedienza.

Lei fa vedere come le posizioni della modernità si rovescino spesso nel loro opposto. Il tentativo naturalista di spiegare i gesti umani riconducendoli ai procedimenti fisiologici del cervello finisce per negare l’uomo concreto come essere che agisce. La sua posizione filosofica, invece, è stata definita di «ingenuità istituzionalizzata». Forse è questo il problema di noi moderni, l’incapacità di stupirsi per le cose presenti? 

Sì, è così. In nome della scienza viene tolta all’uomo la sua capacità di agire. Avviene una colonizzazione del nostro mondo vitale. Ma, tornando alla domanda precedente, mettere in dubbio la realtà di Dio vuol dire mettere in dubbio la realtà stessa. Non va mai dimenticato che affermare qualcosa come reale significa affermare tale realtà come verità eterna.

Con la sua “ingenuità” lei rivendica la possibilità di dire quello che sta sotto gli occhi di tutti, l’evidenza del reale. Oggi sembra quasi impossibile. Chesterton diceva: «Tutto sarà negato, fuochi verranno attizzati per testimoniare che due più due fa quattro, spade saranno sguainate per dimostrare che le foglie sono verdi in estate». Si riconosce in questo ruolo di difensore dell’esperienza elementare dell’uomo comune?

Di nuovo, le posso solo dare ragione. Lei cita Chesterton. Io desidero menzionare un altro testimone, Clive S. Lewis con il suo libretto L’abolizione dell’uomo, che fu scritto durante la Seconda Guerra mondiale e che Hans Urs von Balthasar ha tradotto in tedesco. Ne ha scritto anche Joseph Ratzinger, segnalando come il problema dei tempi moderni additato come pericolo mortale da Lewis, cioè il problema morale della nostra epoca, sta nell’essersi separata da quell’evidenza originaria di cui si è detto. Diceva Lewis già nel 1943, usando l’immagine del vecchio patto con il mago: «Dammi l’anima tua, e riceverai in cambio potere. Ma una volta che avremo ceduto l’anima, cioè noi stessi, il potere che ce ne viene in cambio non ci apparterrà più... È nella potestà dell’uomo concepire se stesso come mero “oggetto naturale”... L’obiezione pertinente è questa: l’uomo che vuole concepirsi come materiale grezzo, materiale grezzo diventa».

L’uomo vuole conoscere la realtà, ha l’esigenza della verità. Lo scientismo contemporaneo (con le sue applicazioni sociali e politiche) vuole dominarla per usarla. Questo potere, lei dice, si estende anche sull’uomo. Come mai, nell’epoca che ne esalta i diritti, l’uomo finisce per essere un oggetto programmabile, rifiutabile e alla totale mercé del potere di altri uomini?

Viviamo, in un certo senso, in un mondo schizofrenico. Per un verso, la libertà umana dovrebbe emanciparsi da ogni presupposto naturale. E quelli che lo chiedono sono spesso gli stessi che propugnano un’immagine straordinariamente elevata di dignità umana e di libertà. Ma appena un attimo dopo spiegano che l’uomo non è affatto libero e le sue azioni sono processi causali privi di senso guidati dal cervello. La civiltà moderna è imprigionata in una dialettica di naturalismo e spiritualismo.

Lei dice che senza un fine il fenomeno della vita umana non è conoscibile; la ricerca delle cause spiega solo metà del reale. L’uomo percepisce che non può vivere senza uno scopo, senza un senso, allora lo decide lui. Per lei invece il fine è intrinseco, c’è una natura da riconoscere. Come spiegarlo, ad esempio, a chi sostiene la teoria del gender e afferma che la persona si sceglie l’identità sessuale? 

Vivere, dice Aristotele, è «l’essere del vivente», non è una qualità determinata. L’uomo morto non è un uomo che ha perduto una qualità, ma con lui è il soggetto di possibili qualità che è scomparso dal mondo. L’essere del vivente è un processo continuo di assimilazione. Quando questo cessa, cessa l’essere dell’organismo vivente e comincia il processo privo di senso della corruzione. Ma non esiste la “vita” in quanto tale. Ogni vivente appartiene a una specie e la sua tendenza alla conservazione di sé è la tendenza alla conservazione di questa specie. «Ciascuno secondo la sua specie», si dice nel racconto della creazione nel libro della Genesi. La fame, la sete, l’attrazione per l’altro sesso hanno questo fine. L’uomo supera il fine della conservazione grazie all’auto-trascendenza che è a lui propria nella duplice forma della conoscenza e dell’amore. Ci dicono che noi dovremmo scegliere il nostro genere sessuale. Libera scelta, responsabilità, colpa, virtù, punizione, perdono eccetera, sono poi però soltanto finzioni. Ma la nostra vita associata poggia su tali finzioni. Per questa mentalità, dialogare razionalmente intorno alle verità razionali è, appunto, una finzione, la copertura di lotte di potere. Insomma, il nostro vero desiderio non sarebbe conoscere noi stessi e la realtà, ma soltanto una volontà di potenza.

Lo diceva già Nietzsche...

Sì, ma mi sembra più conoscitore dell’uomo Benedetto XVI, che ha indetto un Anno della Fede che è anche un anno della ragione. Oggi è chi ha fede che difende le capacità della ragione. Se trovate qualcuno che afferma con forza la capacità della ragione di raggiungere la verità, allora si può quasi essere certi che si tratti di un cattolico. Ripeto, la ragione ha bisogno di Dio e della fede, perché dove Dio è negato, alla fine anche la ragione è negata.


Tracce N.2, Febbraio 2013

Il valore perenne del confessionale tradizionale






"Il sacramento della Penitenza si celebra in un luogo sacro e privilegiato, e quella sede è fonte della guarigione divina che avviene con la ricezione del perdono di Dio"



di John J. Coughlin, OFM

Almeno dal tempo del Concilio di Trento, il luogo ordinario per la celebrazione del Sacramento della Penitenza è il confessionale situato in una chiesa od oratorio. Nel confessionale tradizionale, il sacerdote e il penitente stanno in compartimenti separati e si parlano attraverso una grata, schermo o reticolo, sovente coperto da un velo. In molti confessionali, il confessore siede fra due compartimenti, ognuno dei quali ha l'inginocchiatoio per il penitente. Il sacerdote chiude lo schermo scorrevole di un compartimento in modo da confessare un penitente alla volta. Il confessionale ha varietà di stili, dal semplice e austero al magnificamente intagliato nel legno. Può essere con o senza le porte, con o senza le cortine. In tutte le sue varie forme, il confessionale ha essenzialmente lo scopo di permettere al penitente l'anonimato. Serve anche per proteggere sia il penitente che il sacerdote da toccamenti impudichi e da false accuse. Inoltre il confessionale tradizionale permette una sorta di sacra intimità, nella quale il penitente confessa a Dio i suoi peccati con la mediazione del sacerdote che agisce "in persona Christi". Il luogo appropriato per ascoltare le confessioni è la chiesa o l'oratorio, ma il diritto canonico prevede che, per una giusta causa, possano essere ascoltate in una grande varietà di luoghi diversi. Per esempio, le confessioni si ascoltano abitualmente negli ospedali, nelle canoniche e, in situazioni militari, perfino sul campo di battaglia. Le diverse opportunità di confessione sacramentale permesse dal diritto canonico, si fondano sul principio della salvezza delle anime, che è la legge suprema della Chiesa (salus animarum est suprema lex).

La forma essenziale del confessionale tradizionale riflette l'antica sollecitudine della Chiesa per la dignità individuale e il bene della comunità. La Chiesa, nella sua saggezza sviluppata lungo i secoli, distingue tra "foro interno" e "foro esterno". Il foro interno attiene a materie di coscienza, e presuppone confidenzialità nelle comunicazioni sacramentali e non sacramentali. Il foro esterno invece attiene a tutte le altre materie pubbliche e verificabili, quale può essere un atto di governo. La confessione del peccato appartiene al foro interno, mentre la questione di colpa per un crimine ecclesiastico concerne generalmente il foro esterno di un processo canonico. La tradizionale distinzione tra foro interno ed esterno riflette l'equilibrio tra il bene comune e il diritto di una persona alla riservatezza e alla buona reputazione. Anche ai primi tempi dello sviluppo storico del Sacramento della Penitenza, che era caratterizzata da atti pubblici e comunitari di penitenza, vi è ragione di credere che i peccati specifici confessati al sacerdote rientrassero nel segreto del foro interno. Oltre a proteggere i diritti della persona alla riservatezza e alla buona reputazione, il sacramento della Penitenza si è sviluppato nella Chiesa con la consapevolezza, acquisita dalla lunga esperienza, che la confessione auricolare segreta aiuti ad evitare scandali inutili e dannosi all'interno della comunità. E proprio il confessionale tradizionale ha da sempre contribuito a rafforzare tali finalità.

Il Codice di Diritto Canonico del 1917 al can. 909, disponeva che il confessionale avesse uno schermo sottile, fisso e perforato tra il penitente e il confessore. Il Concilio Vaticano II ha ordinato la revisione dei riti per la celebrazione del sacramento della Penitenza in accordo con le dimensioni sociali, comunitarie ed ecclesiali dello sviluppo storico attuale del sacramento. La revisione durante gli anni post-conciliari, ha spesso valorizzato la confessione faccia a faccia. Risponde a verità che molti penitenti preferiscono questo metodo per la confessione dei peccati. L'approccio 'de visu' è stato descritto come più personale, meno formale e incute meno soggezione a chi desidera una conversazione col sacerdote. Il Codice di Diritto Canonico del 1983, can. 964, §2, lascia che siano le Conferenze Episcopali nazionali a stabilire le norme per il confessionale, ma esige che "si trovino sempre in luogo aperto i confessionali, provvisti di una grata fissa tra il penitente e il confessore, cosicché i fedeli che lo desiderano possano liberamente servirsene". La Conferenza dei Vescovi Cattolici degli Stati Uniti ha disposto che siano adibite "piccole cappelle o stanze della riconciliazione" che permettano ai penitenti di scegliere tra l'anonimato tradizionale dato da uno schermo e la possibilità di un "incontro de visu" con il confessore.

Tuttavia l'esperienza della Chiesa, nei suoi recenti sviluppi, suggerisce che sia ben giustificato un ritorno degli importanti valori assicurati dal confessionale tradizionale. E' ora di ripensare se la stanza della riconciliazione non presenti più problemi che vantaggi. La crisi degli abusi sessuali ha ricordato dolorosamente a tutti noi la realtà che i preti sono esseri umani come gli altri i quali, a causa del peccato originale e dei propri limiti, possono talvolta cadere nella trasgressione del sesto e del nono comandamento del Decalogo. La separazione nel confessionale tradizionale tra penitente e confessore tende a creare uno spazio sacro che scoraggia dal commettere il peccato. La prima ragione è che le parti non si possono vedere né toccare. La castità della vista e del tatto sono, ovviamente, essenziali per una purezza più profonda che deve caratterizzare l'imitazione di Cristo sia da parte del sacerdote che del penitente. La seconda ragione è che il confessionale tradizionale facilita un'intimità che è tutta orientata alla materia del sacramento della Penitenza. La moderna stanza della riconciliazione incoraggia spesso una conversazione ad ampio raggio che assomiglia più al colloquio pastorale o alla direzione spirituale. Al contrario, il confessionale tradizionale suggerisce alle parti che lo scopo di quello spazio sacro è specifico per confessare i peccati, esprimere contrizione, proporsi di non peccare più, assegnare la penitenza e amministrare l'assoluzione.

I recenti sviluppi indicano inoltre che il confessionale tradizionale può svolgere importanti funzioni legali e sociali. Esso infatti contribuisce a proteggere il sacerdote dalle false accuse. Nelle chiese e negli oratori aperti al pubblico, chiunque può entrare nella stanza della riconciliazione e successivamente lanciare un'accusa contro il confessore. La crisi degli abusi sessuali ha prodotto un clima psicologico tale per cui la presunzione d'innocenza per un atto criminale è spesso abrogata. Un prete, appena viene accusato di abuso sessuale, è visto come colpevole. Quando un sacerdote è solo con un'altra persona, soprattutto se quella persona è un minore, è vulnerabile. La separazione fisica garantita dal confessionale tradizionale rende le accuse di sguardi o toccamenti inappropriati fortemente dubbi. I sacerdoti non devono avere paura nell'offrire il loro umile servizio ai fedeli, ma devono anche essere prudenti per evitare qualsiasi situazione che potrebbe causare scandalo.

Oltre a tutto questo, la crisi degli abusi ha sollevato questioni circa il valore del segreto confessionale. In genere, la legge protegge i confessori e gli altri ministri religiosi dall'obbligo di divulgare informazioni ricevute da un penitente. Nella società laica non sono pochi coloro che sono propensi a discutere l'esenzione di cui gode il confessore in virtù della legge, chiedendosi perché egli dovrebbe essere esente dal dovere di riferire allo Stato su dei fatti criminali appresi nel sacramento della Penitenza. L'anonimato assicurato dal confessionale tradizionale significa che il sacerdote spesso non conosce la persona che sta confessando. Per quanto a volte sia possibile riconoscere una persona dalla voce, in realtà il confessore, seduto in un compartimento separato e dietro al velo del confessionale tradizionale, il più delle volte non ha la minima idea dell'identità del penitente. Se il sacerdote non conosce l'identità del penitente o se non ha certezza della sua identità, non può giustamente essere ritenuto idoneo a riferire fatti di abuso o altro tipo di crimine.

Il confessionale tradizionale serve pertanto a salvaguardare l'inviolabilità del sigillo del sacramento della Penitenza. Il sigillo del sacramento è tale perché i fedeli possano confessare liberamente i propri peccati e ricevere il perdono di Dio, senza il pericolo di rivelazione pubblica da parte del confessore. Infine, il confessionale tradizionale trasmette un messaggio importante alla Chiesa e alla società in genere, cioè che il sacramento della Penitenza si celebra in un luogo sacro e privilegiato, e che in quella sede non è possibile commettere peccati, ma che esso è fonte della guarigione divina che avviene con la ricezione del perdono di Dio. Mi auguro che gli architetti ecclesiastici, nel progettare nuove chiese od oratori e nel restauro di strutture già esistenti, facciano buon uso della loro competenza per affermare i valori perenni protetti dal confessionale tradizionale.



The Institute for Sacred Architecture, vol. 20 - Autunno 2011

http://www.sacredarchitecture.org/articles/the_perennial_value_of_the_traditional_confessional/


Trad. it. a cura di d. G. Rizzieri


http://www.diocesiportosantarufina.it

mercoledì 30 gennaio 2013

Pietra viva: la bellezza dell'altare liturgico






"Le cose belle manifestano la forza attraente della Verità"


di Randy Stice

Tu sei bellezza ... Tu sei bellezza! esclamava di Dio San Francesco d'Assisi. Dio che è bellezza è anche Essere, colui che ha creato e sostiene ogni cosa (cfr. Col. 1,16-17). La bellezza perciò è una categoria dell'essere e ogni bellezza partecipa in qualche misura della bellezza di Dio, come insegna il Concilio Vaticano II: "Per loro natura, le belle arti hanno relazione con l'infinita bellezza divina che deve essere in qualche modo espressa dalle opere dell'uomo" (Sacrosanctum Concilium, n.122). Poiché la bellezza è una categoria dell'essere, nel determinare la bellezza di qualcosa, si deve prima conoscere la sua natura essenziale. Jacques Maritain lo chiamava "segreto ontologico", da lui definito "l'intimo essere" e "l'essenza spirituale". Il segreto ontologico delle cose è "l'invisibile realtà spirituale del loro essere oggetti di comprensione".

La Costituzione sulla Sacra Liturgia offre la chiave per il segreto ontologico delle cose in uso nella sacra liturgia: "le cose appartenenti al culto sacro splendano veramente per dignità, decoro e bellezza, per significare e simbolizzare le realtà soprannaturali" (Sacrosanctum Concilium, n.122). Ecco il loro segreto ontologico: significati e simboli delle realtà soprannaturali. Per questa ragione, lo scopo ultimo è "una nobile bellezza piuttosto che una mera sontuosità" (n. 124). Ecco perché, se si vuole giudicare la bellezza dell'altare liturgico, occorre determinare quanto esso sia segno e simbolo delle realtà soprannaturali, e lo stesso occorre ancor prima determinare per l'edificio chiesa.

Prima di considerare la questione dell'ontologia, dobbiamo specificare la nostra metodologia estetica. A questo scopo ci rivolgiamo a San Tommaso d'Aquino. Egli insegna che le cose belle possiedono tre qualità: 'integritas, consonantia et claritas'. L'integritas si riferisce alla completezza e alla perfezione: nulla di essenziale manca, nulla di estraneo è presente. La consonantia è la qualità della proporzionalità in relazione a un fine, quello che Dio predispone. La claritas, il terzo elemento, è il potere di un oggetto di rivelare la sua realtà ontologica. Umberto Eco la descrive come "la comunicabilità fondamentale della forma, che si realizza in chi guarda o vede l'oggetto". Una cosa per essere veramente bella, deve avere tutti e tre gli elementi costitutivi (integritas), proporzionata al suo fine ultimo (consonantia), e manifestare la propria realtà essenziale (claritas).

Parlando del consonante, Umberto Eco descrive pure la differenza importante che esiste tra cose differenti ma interconnesse, che formano quello che egli chiama "una densa rete di relazioni... Infatti siamo liberi di considerare la relazione di tre, quattro o un'infinità di cose proporzionate tra loro e proporzionate anche rispetto a un intero unificante". "In breve, si tratta di una duplice relazione delle parti tra loro e con l'intero di cui sono parte". Applicato a un edificio ecclesiale e alle sue suppellettili, ciò descrive una moltitudine di relazioni: dal presbiterio alla navata, dall'altare al persbiterio, dall'altare al tabernacolo, dall'ambone alla cattedra del celebrante, e così via.

Chiarita la metodologia, passiamo ora alla questione del segreto ontologico dell'edificio chiesa e dell'altare. L'ontologia dell'edificio ecclesiale deriva dall'ontologia della Chiesa. La Lumen Gentium descrive la Chiesa come segue: "Questo edificio viene chiamato in varie maniere: casa di Dio, nella quale cioè abita la sua famiglia, la dimora di Dio nello Spirito, la dimora di Dio con gli uomini, e soprattutto tempio santo, il quale, rappresentato da santuari di pietra, è l'oggetto della lode dei santi Padri ed è paragonato a giusto titolo dalla liturgia alla Città santa, la nuova Gerusalemme" (Lumen Gentium, n.6).

Notare come la frase leghi la natura della Chiesa alla natura dell'edificio chiesa, leghi le immagini bibliche che descrivono la dimora di Dio con il suo popolo ai luoghi di culto di pietra che sono "paragonati dalla liturgia alla Città santa, la nuova Gerusalemme". Ontologicamente quindi, l'edificio chiesa è un'immagine del Tempio, e la Città santa immagine della nuova Gerusalemme descritta nel libro dell'Apocalisse.

Figura centrale nella nuova Gerusalemme è l'Agnello (cfr. Ap. 21, 22-23; 22,1.3), che offre il contesto per l'ontologia dell'altare liturgico. Esso è simbolo del Cristo, centro del ringraziamento attualizzato nell'Eucaristia, l'altare del sacrificio e mensa del Signore. Per prima cosa, l'altare è simbolo di Cristo, come affermava Sant'Ambrogio nel IV secolo: "L'altare è l'immagine del corpo di Cristo e il corpo di Cristo sta sull'altare". Il Catechismo della Chiesa Cattolica riassume tale importante simbolismo: "l'altare cristiano è il simbolo di Cristo stesso, presente in mezzo all'assemblea dei suoi fedeli sia come la vittima offerta per la nostra riconciliazione, sia come alimento celeste che si dona a noi" (1383).

Se l'altare è il simbolo di Cristo, deve per forza anche essere "il centro dell'assemblea, al quale si deve la massima venerazione" (Eucharisticum Mysterium). L'Istruzione Generale riafferma l'insegnamento dell'Eucharisticum Mysterium, quando lo descrive come "il centro del rendimento di grazie compiuto nell'Eucaristia". Terzo, l'altare è "il luogo nel quale si compiono i misteri salvifici", l'altare del sacrificio. E' il luogo, dice l'Istruzione Generale al Messale Romano, "sul quale si rende efficace il Sacrificio della Croce attualizzato nei segni sacramentali". Quarto, è la mensa della cena sacrificale, "la mensa del Signore alla quale è convocato il Popolo di Dio per partecipare alla Messa". Unendo questi due ultimi aspetti, il Catechismo dice: "l'altare, attorno al quale la Chiesa è riunita nella celebrazione dell'Eucaristia, rappresenta i due aspetti di uno stesso mistero: l'altare del sacrificio e la mensa del Signore" (n.1383). Un altare che "serva con la sua dignità e bellezza al decoro del culto" (Sacrosanctum Concilium n.122), rivelerà questa quadruplice ontologia.

Benché i documenti del Magistero non usino la terminologia dell'Aquinate, mostrano di conoscere implicitamente i suoi tre elementi. Riguardo alle specificazioni dell'altare, i documenti della Chiesa parlano dei suoi vari elementi, della sua 'integritas', la sua interezza o completezza. L'Istruzione Generale al Messale Romano sottolinea la centralità dell'altare: "l'altare sia collocato in un luogo che veramente sia il centro verso il quale l'attenzione dell'intera assemblea dei fedeli si volge in modo naturale". Il libro della Conferenza Episcopale Americana "Built of Living Stones", fa riferimento ad altri due elementi, l'altare del sacrificio e la mensa del pasto sacrificale: "la forma e la dimensione devono riflettere la natura dell'altare come luogo del sacrificio e la mensa attorno alla quale Cristo riunisce la comunità per nutrirla". Ciascuno di questi passaggi si riferisce all'integritas dell'Aquinate.

Il concetto di consonantia, proporzionalità a un fine, trova riscontro allo stesso modo nei documenti del Magistero. L'Introduzione all'Ordine della Messa stabilisce che "dimensione e proporzioni dell'altare devono essere adeguati alla normale celebrazione eucaristica festiva per ospitare le patene, le pissidi e i calici per la Comunione dei fedeli". Anche la consonantia come "densa rete di relazioni" è presente. Ad esempio l'Esortazione 'Eucharisticum Mysterium' dice: "I Pastori siano consapevoli che la disposizione della chiesa contribuisce grandemente a una degna celebrazione e a un'attiva partecipazione dei fedeli". Fa eco 'Built of Living Stones': "Considerando le dimensioni dell'altare, i parroci si assicurino che le principali suppellettili nel presbiterio siano armonicamente propozionate all'altare ... L'altare sia collocato centralmente nel presbiterio e sia al centro dell'attenzione nella chiesa". Un altare che abbia consonantia sarà appropriato alla funzione liturgica e in armonia con le altre suppellettili sacre.

Il terzo elemento dell'Aquinate, claritas, si riferisce al potere di un oggetto di rivelare la sua realtà ontologica. Una cosa può possedere consonantia e integritas, ma se non si rendono percepibili, non sarà bella. E' quanto dice l'Istruzione Generale quando specifica che "la natura e la bellezza del luogo e delle suppellettili favoriscano la devozione ed esprimano visivamente la santità dei misteri ivi celebrati". Secondo l'Eucharisticum Mysterium, l'altare sia "collocato e costruito in modo tale che sia sempre visto segno di Cristo stesso". Un aspetto chiave dell'altare come simbolo di Cristo è l'altare di pietra. L'Istruzione Generale dispone che "vi sia un altare fisso in ogni chiesa, affinché sia più chiaramente e permanentemente significato Gesù Cristo, la pietra viva (1 Pt. 2,4; Ef. 2,20)". Benché negli Stati Uniti gli altari di legno siano permessi, un altare "con la mensa di pietra naturale" rafforzerà la 'claritas' dell'altare, "poiché rappresenta Cristo Gesù, la Pietra Viva". Da questi riferimenti, risulta bene come l'altare debba mostrare chiaramente la sua realtà ontologica.

Le cose belle rivelano più facilmente e completamente la loro realtà ontologica e manifestano la forza attraente della Verità. La bellezza di un edificio chiesa rifletterà la sua ontologia come Tempio e nuova Gerusalemme, e un bell'altare mostrerà la sua realtà di immagine di Cristo stesso, l'altare del sacrificio, la tavola del banchetto celeste e del ringraziamento. I tre elementi costitutivi della bellezza secondo San Tommaso d'Aquino - integritas, consonantia, claritas - costituiscono una utile metodologia per far sì che quanto è destinato alla sacra liturgia sia degno, bello e in grado di far volgere le menti con devozione verso Dio. La fedeltà alle realtà ontologiche produrranno un edificio chiesa che sarà "veicolo per portare la presenza del Trascendente" (Evdokimov), in cui "ogni altare...dal più grande al più piccolo, sia illuminato dall'altare d'oro del Cielo (Ap. 8,3), e divenga la sua replica sulla terra, la rappresentazione di Cristo stesso" (G. Webb).



The Institute for Sacred Architecture, n. 21 - Primavera 2012
http://www.sacredarchitecture.org/articles/living_stone_the_beauty_of_the_liturgical_altar/
trad. it. di d. Giorgio Rizzieri


http://www.diocesiportosantarufina.it/29/01/2013

Il senso della preghiera





di Padre Giovanni Cavalcoli, OP

Una della conseguenze della concezione luterana della giustificazione è lo svuotamento del senso e della stima per la preghiera. Lutero certo pregava, e anche fervorosamente, ma più che altro per quel poco di infanzia evangelica che, nonostante tutto, è rimasta in lui e sotto la spinta della sua precedente abitudine di cattolico o, si potrebbe dire, più per forza di inerzia, che per un’intima convinzione fondata sulla sua nuova concezione della salvezza.

Infatti, in questa visuale, come è noto, la fede di essere perdonati garantisce il fatto di essere effettivamente perdonati, al di là e nonostante qualunque rimorso o rimprovero possa venire dalla coscienza. Infatti, prendere in considerazione questi stati della coscienza sarebbe, per Lutero, mancanza di fede.
Il che vuol dire che Lutero confonde la coscienza della colpa, che è un principio di salvezza in quanto dispone a ricevere il perdono di Dio, con quello che i maestri classici chiamano “scrupolo”e nel linguaggio psicanalitico freudiano si chiama “senso di colpa”. Ora, siccome già nell’ascetica classica lo scrupolo dev’essere semplicemente eliminato, così Lutero non dà alcuna importanza salvifica al rimprovero della coscienza per aver commesso un peccato.

Questo dunque vuol dire che il peccatore, per Lutero, non deve chiedere a Dio di giustificarlo, perché è già giustificato e salvo nel momento in cui crede di essere già stato giustificato. Ma allora, se è già giustificato, che bisogno c’è di pregare Dio per chiedere di essere giustificato? Ecco dunque annullata la preghiera come richiesta di aiuto in una situazione di bisogno o di sofferenza.

Nella visione di Lutero restano indubbiamente alcuni valori fondamentali della vita cristiana: la fede in Dio e nella sua Parola, che è Cristo stesso; la redenzione ad opera del Crocifisso; il desiderio della salvezza, la coscienza del peccato, la grazia che giustifica. Manca invece la fiducia nelle opere e nel libero arbitrio.
In tal modo nella giustificazione il solo agente motore, l’unico attore è Dio, senza che vi sia collaborazione da parte dell’uomo. Non si dà quindi un moto dell’uomo verso Dio mediante le opere, qui, nella fattispecie, la preghiera. Ma si dà solo la precedente elezione o predestinazione divina alla salvezza dell’uomo, oggetto della fede. L’uomo resta peccatore, per cui la grazia resta al di fuori del peccatore come grazia di Cristo (“extra nos”). Eppure il peccatore è giustificato con la stessa grazia di Cristo (“simul iustus et peccator”).
Si ha così il paradosso di un Dio che è da una parte salvatore trascendente, perché la grazia non è nel peccatore, ma è la grazia di Cristo e il peccatore non è evidentemente Cristo. Ma d’altra parte il peccatore è giustificato per la grazia stessa di Cristo (“giustificazione forense”: essere “contato come giusto”), per cui Dio vede nel peccatore Cristo stesso. Ora lo sguardo divino vale ben più dello sguardo umano, del peccatore che vede sé come peccatore.

Ma per Lutero non importa: basta credere di essere salvo per esser salvo, per cui se il peccatore, secondo la testimonianza della sua coscienza, e quindi allo “sguardo umano” resta peccatore, in base invece alla sua coscienza di fede, cioè nello “sguardo di Dio”, si sente identificato a Cristo agli occhi di Dio, e quindi si sente salvo. Cioè per Lutero la fede dice il contrario di ciò che dice la ragione. E questa, secondo lui, è la vera fede.

Questo sentirsi intimamente uguale a Cristo era già comparso due secoli prima con Meister Eckhart, il quale, tuttavia, intendeva solo enfatizzare in modo mistico ed entusiasta la soprannaturalità della vita di grazia (la “divinizzazione”), mentre si guardava bene, formato com’era alla scuola di S.Tommaso, dal concepire la grazia come semplice imputazione dall’esterno e non, come risulta dal dogma cattolico, come accidente o qualità dell’anima intrinseca o inerente all’anima stessa. Per il cattolicesimo la grazia è trascendente nella sua essenza divina, ma intimamente aderente all’anima nel suo modo di essere nell’anima stessa.

Gli sviluppi seguenti del luteranesimo porteranno per logica conseguenza ad un ulteriore dissesto dell’organismo spirituale cristiano, secondo due aspetti diversi. Innanzitutto si accentuerà l’opposizione, nell’opera della salvezza, tra l’opera dell’uomo, d’ora innanzi chiamata “religione”, dove rientra la preghiera, e la “fede”, che sarebbe invece la visione di ciò che Dio opera nell’uomo.

Il primo aspetto apparirà più evidente nel protestantesimo ecclesiale dei secoli seguenti fino ai nostri giorni. Un esponente di questa impostazione nel sec.XX è Dietrich Bonhöffer, il quale, nello sforzo di integrare nella vita cristiana la moderna secolarità dell’uomo che ha coscienza della propria autonomia, rifiuta di vedere in Dio colui che colma le lacune dell’uomo e lo soccorre nei propri bisogni e nelle proprie sofferenze. “Con e al cospetto di Dio, dice stranamente il Bonhöffer, noi viviamo senza Dio”: noi crediamo in Dio, sembra dire l’autore, ma ci arrangiamo da soli. Sarebbe questo il vero rapporto con Dio? Come il ritratto del nonno nella stanza da pranzo?

Come si esprime un teologo cattolico filoprotestante a suo riguardo: “Per Bonhöffer un Dio che rappresenta semplicemente il limite della nostre capacità o l’Oltre che invochiamo quando le nostre forze vengono meno, non è Dio. E’ un puro ‘tappabuchi’; è il deus ex machina della religione. … Occorre riscoprire la dimensione non-religiosa di Cristo. Nel Cristo crocifisso, Dio si manifesta come colui che ha abbandonato l’uomo a se stesso e al suo mondo. … La fede cristiana è il superamento della religione e della religiosità”, e quindi della preghiera come richiesta di aiuto e di soccorso.

L’uomo, sembra dire Bonhöffer, deve vivere la sua croce, ossia la sua tragedia senza chiedere nulla a Dio, perché la stessa tragedia dell’uomo vissuta nella fede è già salvezza, è già “vivere davanti a Dio”. Ma non bisogna far niente contro il peccato? Dio non toglie i peccati? Se tutto si riduce ad accettare la vita com’è con tutte le sue miserie, che differenza passa tra la vita mondana e quella cristiana?

L’uomo dunque, per Bonhöffer, è salvo anche senza le opere, nel caso senza la preghiera, il culto, la religione, opere nelle quali sotto un’apparente umiltà l’uomo pretende ancora di elevarsi a Dio. Occorre invece ricordare che è Dio che salva per mezzo della croce. L’uomo non può far nulla per la propria salvezza, se non credere di essere salvo. E’ ancora Lutero che funziona.

In Lutero resta l’istanza cristiana della salvezza, anzi questa istanza occupa tutto il campo della teologia, lasciando in ombra l’orientamento contemplativo ed adorante del cristianesimo. Nel luteranesimo non esiste alcuna adorazione eucaristica, perché la “Cena del Signore”, il rito protestante, è soltanto la memoria di un pasto conviviale di addio a Cristo che sta per salire sulla croce ed un ricordo del suo sacrificio.
Senonché siamo daccapo: per Lutero non si tratta di chiedere a Dio di salvarci, ma semplicemente di prender atto nella fede che siamo già salvi: Dio è con noi, Gott mit uns, come diranno poi quattro secoli dopo i nazisti. Il panteismo idealista è la conseguenza estrema dello interiorismo luterano che è a sua volta un’adulterazione immanentistica dell’interiorismo agostiniano.

Si capisce allora come il protestantesimo, a partire dal sec.XVII, dopo aver già abbandonato con Lutero la scolastica tomista, assumerà come referente filosofico il falso interiorismo cartesiano, che, per il suo idealismo, si rivelava più consono al soggettivismo ed immanentismo protestante.

Il secondo aspetto è caratterizzato dall’aumento del contrasto fra l’io peccatore e l’io divinizzato dalla grazia. Il primo nell’idealismo tedesco diventerà l’“io empirico”, il secondo, l’“Io trascendentale o assoluto”. Tale aspetto apparirà nello sviluppo immanentistico ed idealistico del protestantesimo a partire dal sec.XIX con Fichte sino ad Hegel, per sfociare in un sistema panteista preannunciato da Kant, che quasi nulla conserva dell’originale dogmatica luterana, improntata al realismo biblico ed alla trascendenza divina, residui in Lutero del suo precedente cattolicesimo.

Elementi invece del luteranesimo originario si ritroveranno in Kierkegaard, vivacemente sensibile alla dialettica tra l’io peccatore e il Tu divino contro il panlogismo hegeliano per una rivalutazione dell’esistenza della persona singola, come hanno illustrato efficacemente gli studi di Cornelio Fabro che tra l’altro ha mostrato anche una certa affinità del luterano danese con Tommaso d’Aquino. Kierkegaard, col suo “stadio religioso” del “cavaliere della fede” sembra recuperare in qualche modo il concetto cattolico della vita religiosa e quindi della preghiera.

Bisogna dire, in conclusione, che la preghiera, come risulta dalla stessa religione naturale e come è costantemente inculcato dalla Bibbia, è radicalmente ed innanzitutto richiesta di aiuto e di salvezza fatta a Dio, da parte dell’uomo sofferente o in pericolo di morte.

Il rifiuto della preghiera così da parte protestante per sostituirla con un atto di “fede” nella propria salvezza, può sembrare un atteggiamento disinteressato e sublime, ma in realtà, così come si mostra nell’esito panteistico dell’idealismo trascendentale tedesco, ricorda curiosamente la meditazione trascendentale del buddismo e dell’induismo, per la quale tutto il problema della vita e della salvezza non stanno nella richiesta di soccorso fatta a un Dio onnipotente e misericordioso da parte di una creatura fragile e peccatrice, quanto piuttosto nella presa di coscienza che il proprio io empirico non è che una parvenza di essere ex parte hominis, la quale si mostra come divina se vista come trasparenza dell’Assoluto ex parte Dei. Quindi la soluzione del problema del male si configura come sua serena accettazione per la quale il male viene assorbito spinozisticamente nell’infinita positività del Tutto e dell’Essere.

Ma una visione del genere rivela ad un esame oggettivo tutta la sua inconsistenza ed illusorietà. La salvezza è possibile, ci dice il vero Vangelo, ma solo a patto che l’uomo peccatore si riconosca bisognoso di questa salvezza, si converta e non creda di esserne già in possesso, ma al contrario si adoperi per ottenerla con la preghiera e l’esercizio delle buone opere, che non costituiscono affatto la pretesa dell’uomo di salire a Dio e di gloriarsi davanti a lui con i propri meriti, ma al contrario sono e devono essere la risposta d’amore a un Dio che ci ha amati per primo e giustamente vuole che noi facciamo la nostra parte, senza la quale non possiamo salvarci, come avverte il sommo Agostino: “chi ti ha creato senza di te, non ti salva senza di te”, un Dio che al termine de nostro faticoso e accidentato cammino troviamo già presente in noi all’alba della nostra coscienza ad aspettarci e che ci dice amichevolmente: “finalmente sei giunto; era da tempo che ti attendevo!”


Libertà e Persona   30 gennaio 2013



martedì 29 gennaio 2013

"Per molti" vince su "per tutti". Ma c'è chi non si arrende



La nuova traduzione delle parole della consacrazione voluta dal papa sta per arrivare anche in Italia. Ma già sono state annunciate proteste e disobbedienze

di Sandro Magister





ROMA, 29 gennaio 2013 – Mentre si avvicina alla conclusione la "recognitio" vaticana della nuova versione italiana del messale romano, la disputa sulla traduzione del "pro multis" nella formula della consacrazione eucaristica ha registrato nuove battute.

L'ultima ha per autore il teologo e vescovo Bruno Forte.

In un articolo su "Avvenire" del 19 gennaio 2013 Forte si è di nuovo schierato con decisione per tradurre "pro multis" con "per molti", invece che con "per tutti" come si fa da più di quarant'anni in Italia e come analogamente si è fatto in molti altri paesi.

"Per molti" è la traduzione che lo stesso Benedetto XVI esige che venga adottata nelle varie lingue, come ha spiegato in una lettera ai vescovi tedeschi dell'aprile del 2012.

Da qualche tempo, in effetti, la traduzione "per molti" sta tornando in uso in varie lingue e paesi, sotto la spinta delle autorità vaticane e del papa in persona.

Ma si registrano anche delle resistenze.

È stato segnalato, ad esempio, che a Londra, a Canterbury e in altre località inglesi vari sacerdoti modifichino intenzionalmente il "for many" della nuova versione inglese del messale, approvata dal Vaticano, e dicano: "for many and many".

In Italia la nuova versione non è ancora entrata in vigore. Ma quando anche qui il "per molti" diventerà legge – come sicuramente avverrà –, sono state già annunciate proteste e disobbedienze.

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Difendendo a spada tratta la versione "per molti" voluta dal papa, il vescovo-teologo Forte si è consapevolmente contrapposto alla posizione largamente prevalente non solo tra i teologi e i liturgisti ma tra gli stessi vescovi italiani.

Nel 2010, infatti, i vescovi italiani riuniti in assemblea generale votarono quasi all'unanimità il mantenimento del "per tutti" nella formula della consacrazione.

In quell'occasione, stando agli atti ufficiali della conferenza episcopale italiana, anche Forte si era pronunciato a favore del "per tutti".

Ma ora egli spiega che quelle sue parole non esprimevano il suo vero pensiero.

Forte ricorda che in un precedente incontro ristretto – col solo direttivo della CEI – aveva espresso la sua preferenza per il "per molti". E se poi, nell'assemblea generale, era parso ripiegare sul mantenimento del "per tutti", era perché aveva messo in primo piano le "difficoltà pastorali" che un cambio di traduzione avrebbe prodotto, seminando nei fedeli il timore che la salvezza di Cristo non fosse offerta, appunto, "per tutti".

Già membro della commissione teologica internazionale e ordinato vescovo nel 2004 dall'allora cardinale Joseph Ratzinger, Forte è oggi arcivescovo di Chieti-Vasto. Ma è indicato da anni come in corsa per sedi cardinalizie di alto livello: da ultimo a Palermo e Bologna, i cui attuali arcivescovi andranno in scadenza nel 2013.

Non solo. Si vocifera anche di una sua chiamata a segretario della congregazione vaticana per la dottrina della fede, in sostituzione dell'attuale titolare Luis Francisco Ladaria Ferrer, destinato a una grande diocesi di Spagna.

E c'è chi collega queste attese di promozione all'insistenza con cui Forte difende il "per molti" voluto fermamente dal papa.

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Ma tornando alla polemica sul "pro multis", nel suo articolo su "Avvenire" Forte si dice contrario anche alle traduzioni suggerite nei mesi scorsi da due biblisti e liturgisti italiani, Silvio Barbaglia e Francesco Pieri, ricalcate sulla versione "pour la multitude" in uso nella Chiesa di Francia: "per moltitudini immense" o "per una moltitudine".

Gli argomenti di questi due studiosi – entrambi inizialmente favorevoli a mantenere la versione "per tutti" – sono stati riassunti la scorsa estate da www.chiesa in un servizio che sottolineava il loro avvicinarsi alle posizioni di Benedetto XVI.

Ma il secondo dei due, Francesco Pieri, sacerdote della diocesi di Bologna e docente di liturgia, di greco biblico e di storia della Chiesa antica, ha contestato tale interpretazione. Nega di volersi accostare alle posizioni del papa. Continua a giudicare "cattiva" e "falsamente fedele" la versione "per molti". E spiega di aver proposto la versione "per una moltitudine" come unica alternativa accettabile all'ormai "irreversibile" abbandono del "per tutti" deciso dalle autorità vaticane.

Anzi, nella seconda delle due note sul tema da lui pubblicate nel 2012 su "Il Regno", Pieri si è spinto molto più in là.

Ha scritto che gli studiosi ai quali Benedetto XVI ha fatto riferimento a proprio sostegno nella sua lettera ai vescovi tedeschi non solo sono "pochissimi" ma neppure sono affidabili: "Non sono esegeti di professione e per giunta risentono di una mentalità apertamente tradizionalista, pregiudizialmente assai critica nei confronti della riforma liturgica promossa dal Vaticano II".

Ma soprattutto ha chiuso la nota con una esplicita minaccia di insubordinazione, condita da un sarcastico richiamo alla liberalizzazione del rito romano antico della messa:

"Stante la già annunciata tensione che deriverebbe dall’entrata in vigore della traduzione 'per molti', non è affatto remoto il rischio che non pochi celebranti ne aggirerebbero l’ostacolo con adattamenti oppure continuando ad attenersi alla formula precedente. Con quale credibilità, con quale speranza di accoglienza, si potrebbe allora invocare il principio dell’unità pastorale, proprio nella strana stagione ecclesiale che ha visto inopinatamente tornare in vigore una forma del rito romano già sostituita dalla sua riforma e perciò giuridicamente 'obrogata'? Oppure dovremo invocare un motu proprio che consenta di utilizzare un’ulteriore forma straordinaria del rito romano in favore di quanti – come il sottoscritto e una moltitudine di altri – ritengono di non poter accettare in coscienza la traduzione 'per molti'? Sarebbe quanto mai opportuno che fedeli e pastori della Chiesa italiana, non da ultimi i teologi e le persone di cultura, manifestassero con più franchezza, in tutte le sedi in grado di alimentare un dibattito pubblico quanto più ampio possibile, le loro riserve nei confronti di questa paventata scelta di traduzione".

Curiosamente, quest'ultimo appello ai dissenzienti è diventato realtà proprio sulla stessa pagina di "Avvenire" – il giornale della conferenza episcopale italiana – nella quale Forte ha perorato la causa del "per molti".

A fianco dell'articolo del vescovo-teologo c'era infatti un intervento di segno opposto a firma del teologo Severino Dianich, vicario episcopale della diocesi di Pisa per la pastorale della cultura e dell’università, che così terminava:

"A questo punto mi domando se non sia giusto preoccuparsi di una cosa sola, cioè del riscontro di un eventuale cambiamento sui fedeli, soprattutto sui meno dotti, sui più poveri, su coloro che accolgono le cose più con la sensibilità che attraverso il ragionamento, che inevitabilmente resterebbero turbati dal cambiamento. Se non è indispensabile, perché creare dei problemi? Diversi vescovi hanno colto benissimo la questione pastorale, proponendo con buon senso che tutto resti come prima e non si cambino le grandi parole, che da quarant’anni risuonano nelle nostre chiese, proclamando che il sangue di Cristo è stato 'versato' per tutti'".

Dianich è anche l'autore della prefazione al libro nel quale Pieri ha argomentato le sue tesi:

F. Pieri, "Per una moltitudine. Sulla traduzione delle parole eucaristiche", Dehoniana Libri, Bologna, 2012.

Mentre questo è l'ultimo articolo pubblicato da Pieri su "Il Regno":

La traduzione del "pro multis". Il tema è la salvezza

E questi sono gli interventi di Bruno Forte e Severino Dianich su "Avvenire" del 19 gennaio 2013:

La salvezza di Cristo dono offerto a tutti



http://chiesa.espresso.repubblica.it/


La bomba ad orologeria dell’ideologia del “gender”







Sabato 26 gennaio, nella Sala della Camera di Commercio di Trieste, è stato presentato il “Quarto Rapporto sulla Dottrina sociale della Chiesa nel mondo” (Cantagalli 2012) a cura dell’Osservatorio Cardinale Van Thuân sulla Dottrina sociale della Chiesa, incentrato quest’anno sulla “Colonizzazione della natura umana”. Relatrice di punta è stata la Prof.ssa Assuntina Morresi, dell’Università di Perugia e membro del Comitato Nazionale di Bioetica, oltre che nota editorialista di “Avvenire”.



di Assuntina Morresi

Professoressa Morresi, prima di tutto: cosa si intende per "ideologia del gender"?

Sinteticamente: è quell’ideologia secondo la quale non è il corpo sessuato con cui ognuno di noi è nato a determinare l’essere maschio o femmina di ogni essere umano, ma una scelta personale alla quale contribuiscono anche le condizioni della società in cui si vive. Uomo o donna non si nasce, insomma, ma si diventa, magari per scelta, e non irreversibile.

Il Rapporto dell'Osservatorio Van Thuân dice che è una "bomba ad orologeria" dal grande potere distruttivo. concorda con questa diagnosi impietosa?

Purtroppo sì, e le nuove tecniche della fecondazione assistita, anche se apparentemente non hanno niente a che fare con questa ideologia, contribuiscono a concretizzarla, poiché rendono possibile progettare reti familiari e parentali che non sono quelle naturali, basate sul rapporto fra un uomo e una donna, ma consentono per esempio la “multi genitorialità”, dove ci sono più genitori biologici (fino a quattro) distinti dai sociali (altri due), in una frammentazione in cui la coppia padre-madre è sempre meno centrale, e nella quale sono i desideri dei singoli individui a contare. In questo modo è più facile simulare “gravidanze” all’interno di coppie omosessuali, per esempio, o “figli di donne sole”: finzioni, appunto, che vanno nella direzione tracciata da questa ideologia, in cui si “sceglie” chi essere, e il dato di realtà della sessualità è accessorio.

Le pressioni per il riconoscimento giuridico delle coppie omosessuali ("matrimonio" omosessuale, "famiglia" omosessuale) è una tappa nel percorso dell'ideologia del gender? E di quale importanza?

Sono un passo, direi, automatico: se si sceglie chi essere – uomo o donna - il resto vien da sé, e le conseguenze sulla famiglia sono inevitabili. Purtroppo la tecnologia ha reso possibili conseguenze che la teoria del gender, di per sé, non avrebbe potuto realizzare.

Su Vita Nuova il Vescovo Crepaldi ha parlato di una "gender persecution" che graverà sempre di più su chi contesta questa corrente di pensiero ... la ritiene una preoccupazione realistica?

Già vediamo la difficoltà di giudicare tutto ciò che attiene al mondo omosessuale: l’accusa di omofobia è dietro l’angolo, e le leggi che spesso si propongono, quelle contro l’omofobia, troppo spesso implicherebbero la totale impossibilità di un giudizio morale dei comportamenti omosessuali. La sempre maggiore difficoltà di giudicare pubblicamente fatti ed opinioni, la difficoltà da parte di noi genitori, di poter educare i nostri figli in questo senso – penso al problema di tante iniziative scolastiche sempre più a senso unico, di fronte alle quali difficilmente ci si può sottrarre – che cosa sono, se non i segni di un regime ideologico sempre più pervasivo che si sta imponendo?

Ritiene possibile una collaborazione tra cattolici e laici su questi temi?

Certo, già c’è stata. In Italia al Family Day, per esempio, nel 2007, e l’abbiamo vista addirittura nella laicissima Francia, qualche settimana fa, quando alla manifestazione contro il matrimonio gay c’erano pure associazioni omosessuali…..più laici di così!

I cattolici stessi, però, non sembrano sufficientemente avvertiti della pericolosità del problema, nonostante i frequenti appelli del Papa (da ultimo il discorso alla Curia romana del 21 dicembre 2012). Come giudica questo fatto?

I principi non negoziabili (se li si comprendesse fino in fondo si capirebbe meglio tanto di quello che sta accadendo intorno a noi) sono troppo spesso erroneamente percepiti come un elenco avulso dalla realtà, come se vita, famiglia, libertà di educazione fossero le parole d’ordine con cui un cattolico si deve rendere riconoscibile all’inizio di un discorso, per poi passare alla “vita concreta”. Non si capisce invece che sono questi principi a disegnare il quadro dentro il quale poi si progetta l’economia, si ipotizza un welfare, si fanno politiche per la famiglia. Su quest’ultimo punto, per esempio, la confusione è totale: come si può pensare di salvare la famiglia basata sul matrimonio pensando solamente a diminuire le tasse? Si è mai evitato un divorzio perché sono aumentate le detrazioni familiari? Come si fa a prendere a modello la Francia, per le politiche familiari, quando in quel paese più della metà dei bambini nasce fuori dal matrimonio? Potrà mai essere coesa e solidale una nazione in cui più della metà dei giovani è cresciuta senza aver mai fatto esperienza di una famiglia solida? Potremmo fare molti altri esempi. C’è ancora tanto da lavorare per noi cattolici, che dobbiamo innanzitutto ripartire dal magistero della Chiesa e capirne i nessi e le conseguenze nei duri tempi che viviamo.


http://www.vanthuanobservatory.org/   28-01-2013

"Bene et firmiter". Breve storia della custodia dell'Eucaristia

 





 

 

di dom Cassian Folsom, OSB


Nell'intento di discernere i grandi cambiamenti avvenuti lungo i secoli nella dottrina e nella prassi della custodia del Santissimo Sacramento, dividerò la storia del tabernacolo in quattro sezioni: dal periodo patristico fino al tempo carolingio, dal periodo carolingio fino al Concilio di Trento, dal Concilio di Trento al Vaticano II, e dal Vaticano II ad oggi.


Dal periodo Patristico fino al tempo Carolingio

Nel primo periodo storico si riscontrano due generi di custodia del Santissimo Sacramento: 1) la custodia privata dell'Eucaristia nelle case dei fedeli, e 2) la custodia dell'Eucaristia in chiesa per portarla ai malati o ai morenti. Nella prima categoria, le case dei fedeli, non abbiamo quasi informazioni su dove e come l'Eucaristia fosse custodita, sappiamo solo da alcune fonti che essa veniva devotamente avvolta in un telo di lino bianco o posta in una apposita cassetta o contenitore. Nel caso di riserva del Santissimo Sacramento nelle chiese, le Costituzioni Apostoliche al cap. VIII n. 13, indicano che i diaconi dovevano mettere ciò che avanzava delle specie eucaristiche consacrate durante la Messa in una stanza particolare chiamata 'Pastoforio', che nelle chiese orientali si trovava nella parte sud dell'altare. In occidente, era denominata 'secretarium' o 'sacrarium'. Il diacono, avendo l'incarico di amministrare l'Eucaristia, ne teneva le chiavi. Nella stanza vi era un'apposita credenza o cassetta chiamata 'conditorium'. Ne sono un esempio i mosaici del mausoleo di Galla Placidia del V secolo a Ravenna. Riguardo al tempo pre-carolingio, non si ha conoscenza dell'uso dell'altare come luogo per la riserva dell'Eucaristia.

Dal IX secolo, la riserva in chiesa del Santissimo Sacramento diviene la norma, mentre scompare la prassi di conservare l'Eucaristia nelle case. E' uno di quei cambiamenti fondamentali che merita maggiore attenzione. Giambattista Rapisarda offre tre ragioni per un cambiamento così significativo nella prassi eucaristica: 1) il sorgere delle grandi dispute eucaristiche sulla natura della presenza di Cristo, a partire da Pascasio Radberto (+859) e Ratramno (+868); 2) la diffusione di una diversa spiritualità che consisteva in un nuovo genere di preghiere apologetiche che manifestavano enorme rispetto per l'Eucaristia e un senso di profonda indegnità dinanzi a un così grande mistero; e 3) la conversione in massa dei popoli barbari con il pericolo di profanazione dell'Eucaristia da una parte, e di superstizione dall'altra.


Dal periodo carolingio al Concilio di Trento

I sei o sette secoli di questo secondo periodo vedono notevoli sviluppi nella teologia e nella prassi eucaristica. E' il tempo della controversia eucaristica che infuriò intorno a Berengario (+1088); dello sviluppo di una nuova pietà eucaristica che esprimeva il desiderio di vedere l'Ostia, per cui venne introdotta, nella consacrazione del pane e del vino nella Messa, prima l'elevazione dell'Ostia e poi quella del Calice; delle precisazioni scolastiche circa la transustanziazione; dell'istituzione della festa del Corpus Domini; del declino della ricezione della Comunione, e così via. Alcuni di questi fattori contribuiscono al formarsi di nuovi modi per custodire l'Eucaristia (le torri sacramentali, per esempio). In altri momenti, è la forza della consuetudine che mantiene le forme più tradizionali.

Righetti distingue cinque modi principali di custodia del Santissimo Sacramento durante questo periodo: 1) Propitiatorium: contenitore o cassetta posta sull'altare, una sorta di tabernacolo portatile. Il Concilio Laterano IV (1215-1216) prescriveva che dovesse restare chiuso a chiave e messo al sicuro. Un sistema assai diffuso in Italia nei secoli XIII e XIV; 2) Sacrestia: In molti luoghi, l'Eucaristia era conservata in sacrestia, in una sorta di apposita cassetta o credenza. Una prassi che durò fino al Concilio di Trento; 3) Colomba eucaristica: sistema usato attorno al secolo XI. Colomba di metallo (simboleggiante lo Spirito Santo), concava, di modeste proporzioni, che dal ciborio (se c'era) pendeva sull'altare o era posata su un tavolino accanto all'altare. Di uso frequente in Francia e Inghilterra, ma raramente usato in Italia; 4) Tabernacoli murati: il sistema più comunemente usato a partire dal XIII secolo, soprattutto in Italia e Germania, perché più pratico e sicuro. Dalla parte dell'altare su cui era posto il Vangelo, si incastonava alla parete un tabernacolo. Un fine esempio di tabernacolo simile è ancora visibile nella chiesa di San Clemente a Roma (XIII secolo). Dal XVII secolo, con lo sviluppo del tabernacolo sull'altare, i tabernacoli murati serviranno a custodire gli oli sacri; 5) 'Sakramentshaeuschen' o torri sacramentali: dal XIV al XVII secolo, era una caratteristica dei Paesi del nord Europa (Germania, Olanda e Francia settentrionale). Il tabernacolo, generalmente a forma di torre, costruito vicino all'altare, custodiva l'ostia consacrata in un contenitore di vetro protetto da una grata di qualche metallo. Rispondeva ai sentimenti della pietà popolare del tempo, che desiderava vedere l'ostia. Le torri erano in realtà quasi degli ostensori, che permettevano una sorta di esposizione permanente del Santissimo Sacramento. Ve ne era una grande varietà a seconda del luogo e del tempo. All'epoca, non vi era una prassi uniforme per la Chiesa universale.


Dal Concilio di Trento al Vaticano II

In questo terzo periodo, ciò che cambiò radicalmente la prassi cattolica fu la negazione protestante della presenza reale di Cristo nell'Eucaristia, e la risposta della contro-riforma a tale sfida. Il Concilio di Trento afferma contro i riformatori, che il Santissimo Sacramento deve essere custodito, ma il canone in questione non è molto specifico (sess. 13, can. 7), accennando appena al 'sacrarium' come luogo di custodia. Saranno la pietà popolare e due vescovi ad avere un ruolo importante nello stabilire una nuova forma di riserva eucaristica. Nel secolo XVI, ancor prima del Concilio di Trento, il vescovo Gian Matteo Giberti di Verona (+1543) disponeva che l'Eucaristia si custodisse in un tabernacolo posto sull'altare maggiore: "Il tabernacolo sia collocato sull'altare maggiore e installato permanentemente ("bene et firmiter"), affinché non venga assolutamente asportato da mani sacrileghe". Divenne normativo nella diocesi confinante di Milano, tanto che nel 1565, al primo sinodo provinciale di Milano, venne decretato che: "il vescovo vigili che nella cattedrale, nelle chiese collegiate, nelle parrocchie e in tutte le altre chiese, dove la Santissima Eucaristia è o dovrebbe essere generalmente custodita, essa sia collocata sull'altare maggiore, salvo parere diverso del Vescovo, per ragioni serie o necessarie". Nel 1576, un altro sinodo di Milano proibì i tabernacoli murati, ordinandone la distruzione. San Carlo Borromeo gettò su questa nuova prassi tutto il peso della sua autorità morale e spirituale. Nel duomo di Milano, egli fece trasferire il Santissimo Sacramento dalla sacrestia, dove fino ad allora era conservato, all'altare maggiore. Nel 1577 fu pubblicato il libro 'Instructionum Fabricae et Supellectilis Ecclesiasticae Libri II' del Cardinale Borromeo, che ebbe enorme influenza per i progetti architetturali delle chiese nei secoli a venire. Egli detta le norme per i tabernacoli in forma autoritativa, senza fornire giustificazioni. Partendo dal decreto del sinodo provinciale di Milano del 1565 sull'ubicazione del tabernacolo possibilmente sull'altare maggiore, San Carlo dispone che si ponga in vigore tale prassi, dando istruzioni sui materiali da usare, sullo stile, sui motivi decorativi, sulle dimensioni, ecc.

Il 'Rituale Romanum' del 1614 incorporò tale prassi nei "praenotanda", nella sezione del Santissimo Sacramento dell'Eucaristia (Titulus IV, c.1, par.6), il che fece sì la riserva del Santissimo nel tabernacolo sull'altare prendesse il nome di "tradizione romana". La collocazione sull'altare maggiore non era tuttavia assoluta, nel caso in cui si prevedesse che un altro altare potesse essere più dignitoso o più adatto. Il Rituale non era obbligatorio, per questo la "tradizione romana" del tabernacolo sull'altare maggiore si diffuse solo gradualmente, mentre gli altri Paesi europei continuarono a conservare le loro usanze, a volte per secoli. Ma la parte delle 'Instructiones' di San Carlo Borromeo dedicata al tabernacolo, ebbe un influsso superiore a tutte le altri parti della sua opera, tanto che dal XVII al XVIII secolo quasi ovunque i tabernacoli d'altare saranno tutti secondo le istruzioni di San Carlo Borromeo.

Il cambiamento estremamente importante che si verificò dopo il Concilio di Trento può essere spiegato da un numero di fattori: 1) la negazione protestante sulla custodia del Santissimo Sacramento e l'affermazione nel modo più chiaro possibile della Chiesa di porre il tabernacolo al centro dell'altare maggiore; 2) il conseguente accentuarsi delle devozioni eucaristiche, quali l'adorazione e l'esposizione del Santissimo; 3) il fiorire dell'architettura barocca, soprattutto a Roma, che comunica una esasperata fierezza ed entusiasmo nella fede cattolica della presenza eucaristica; 4) la standardizzazione dei libri liturgici (in questo caso il Rituale Romano) e di conseguenza, il graduale uniformarsi della prassi liturgica.


Dal Vaticano II ad oggi

I cinquanta anni trascorsi dal Concilio Vaticano II sono stati caratterizzati da enormi cambiamenti nella teologia liturgica e nella sua prassi. L'ubicazione del tabernacolo rispetto all'altare è stato un tema di animato dibattito. Ciò che era normativo nel periodo post-tridentino è stato largamente respinto nel periodo post-Vaticano II. Se c'è stato un consenso generale circa dove il tabernacolo non deve stare (sull'altare maggiore), nessun consenso invece circa a dove dovrebbe stare. Il disaccordo teologico su tali temi ha condotto ad una prassi pastorale quanto mai confusa e talvolta contraddittoria. Tali cambiamenti verranno presentati in dettaglio nella seconda sezione sulle norme liturgiche del prossimo numero di 'Sacred Architecture".

Due sono le ragioni principali che hanno determinato l'attuale enorme cambiamento. 1) La motivazione teologica tendeva a mettere al centro dell'attenzione l'altare e l'azione eucaristica della Messa, opposta all'adorazione e al culto del Sacramento nel tabernacolo (una sorta di dicotomia tra l'Eucaristia intesa come sacrificio e l'Eucaristia intesa come sacramento). Nella prassi, la conseguenza è stata il declino della devozione eucaristica. 2) La motivazione pastorale tendeva a promuovere la partecipazione attiva ponendo l'altare 'versus populum'. Nelle chiese antiche, la soluzione più comune è stata di collocare un nuovo altare di fronte a quello vecchio, causando però un certo conflitto interiore nel fedele, almeno a livello di subconscio. Il dilemma su dove porre il tabernacolo per il Santissimo Sacramento è stato frequentemente risolto creando una cappella laterale.

Se questa è stata la prassi plurisecolare delle grandi Basiliche e Cattedrali e rimane eminentemente appropriata nelle medesime situazioni, molte innovazioni moderne sono state meno che riuscite, e le cappelle del Santissimo Sacramento, piccole e affollate, possono sembrare inadeguate e perfino irriverenti. Le Istruzioni Generali riviste del Messale Romano del 2002, tentano di risolvere alcuni di questi dilemmi proponendo un nuovo modello.


The Institute of Sacred Architecture, vol. 22 - autunno 2012

http://www.sacredarchitecture.org/articles/ibene_et_firmiter/

trad. it. a cura di d. G. Rizzieri


http://www.diocesiportosantarufina.it/home/news_det.php?neid=2399

 

CELIBATO E SACERDOZIO

 


Il libro di don Arturo Cattaneo fornisce 30 domande e riposte sull'argomento


John Flynn, LC


Perché i sacerdoti non possono sposarsi? È una domanda che spesso la gente pone e il requisito del celibato è anche stato tacciato come una delle cause degli abusi sessuali da parte del clero.

Recentemente tradotto in inglese, il libro a cura di don Arturo Cattaneo, Preti sposati? (Elledici, 2011) affronta la tematica attraverso lo schema del botta-e-risposta. Il testo è stato realizzato con il contributo di vari allievi.

Siamo di fronte a un grande sfida educativa, nella spiegazione della dottrina della Chiesa sul celibato sacerdotale, ha dichiarato il cardinale Mauro Piacenza, prefetto della Congregazione per il Clero.

Il porporato collega il tema del celibato a quello del matrimonio: “La logica sottostante del celibato sacerdotale è la stessa che incontriamo nel matrimonio cristiano: il dono totale di ogni cosa in eterno nell’amore”.

Da un punto di vista storico, il libro osserva che Cristo scelse il celibato per se stesso, nonostante tra gli Ebrei questo stato di vita fosse visto come un’umiliazione. Gesù non generò fisicamente figli ma amò i propri discepoli come confratelli e condivise la vita con loro.

Il modo in cui Gesù ha trasmesso la vita non è attraverso la generazione fisica ma spirituale. Perciò il celibato di coloro che seguono Gesù nel sacerdozio deve essere compreso nella prospettiva della sua trasmissione spirituale della vita eterna.

Una delle domande riguarda l’affermazione secondo la quale il sacerdozio non divenne obbligatorio prima del Medioevo. In primo luogo, si legge nella risposta, sia nei Vangeli che nelle lettere di San Paolo, c’è una considerevole prova Biblica di sostegno al celibato come segno di testimonianza.

Se da un lato è vero che nei primi secoli venivano ordinati uomini sposati, dopo l’ordinazione essi erano tenuti a praticare la castità e a coloro che erano celibi o vedovi, dopo l’ordinazione non era più permesso di sposarsi, essendo ormai dei sacerdoti.

Tutti i diaconi, i sacerdoti e i vescovi, prosegue la riposta, dovevano astenersi dalla sessualità dal giorno dell’ordinazione. “Nella Chiesa non è mai stato dimostrato che un chierico sposato abbia legittimamente generato figli dopo la sua ordinazione”.

Nel tempo la Chiesa ha compreso che la castità per i chierici sposati era problematica per via della sacramentalità del matrimonio, pertanto durante il Medio Evo si arrivò alla decisione che gli aspiranti sacerdoti dovessero essere celibi.

Vocazioni

Perché non consentire ai preti di sposarsi in modo da incrementare le vocazioni? Questo, si legge nel libro di don Cattaneo, è uno degli argomenti più frequenti riguardo al celibato. Non c’è nessuna prova, tuttavia, “che richiedere meno sacrifici agli aspiranti sacerdoti, ne incrementerebbe il numero”, si legge nella risposta al quesito.

“L’esperienza dimostra invece il contrario: le vocazioni al sacerdozio fioriscono e si moltiplicano quando la radicalità del messaggio del vangelo è accolta in modo consistente e non apologetico”.

Il requisito del celibato non è un dogma, ammette l’autore, ma ciò non significa che si tratti di una mera misura disciplinare. Il celibato significa che il sacerdote deve essere simile a Cristo e vivere come Lui.

Gesù definisce se stesso lo “sposo” dell’intera comunità di credenti. La spiegazione fa riferimento alla lettera di Paolo agli Efesini (Ef 5,21-33) che usa l’immagine del matrimonio come unione tra Cristo e la Chiesa.

È forse il celibato innaturale e causa della crisi del sacerdozio? La risposta a tale domanda, fornita dallo psichiatra Manfred Lütz, spiega che la questione è basata su una premessa errata. Tutte le persone non sposate, dunque, dovrebbero essere ‘innaturali’?

Il celibato diventa innaturale solo quando il vivere da soli, isola la persona nell’egoismo e nel narcisismo, osserva Lütz.

Vita spirituale

In forza della sua esperienza di terapista, Lütz afferma che la crisi del sacerdozio non deriva dal celibato ma, piuttosto, dall’inaridimento della vita spirituale.

Una domanda successiva affronta ancora questo tema di equilibrio psicologico. La risposta viene fornita da André-Marie Jerumanis, sacerdote e medico.

Il celibato, spiega lo studioso, non è dannoso né per l’equilibrio, né per la maturità, se teniamo conto che si tratta di una scelta libera di una persona psicologicamente matura.

L’essere umano non è un mero fardello di istinti. Egli è, piuttosto, essendo dotato di intelletto, una volontà e una libera scelta, che rende possibile il controllo di sé.

“Più una persona è umanamente e spiritualmente matura, più perfettamente essa praticherà la castità ad un livello psicologico non di frustrazione ma come una perfetta libertà esercitata nel controllo di sé e nella completa disponibilità alla propria personale missione”, spiega Jerumanis.

In un’altra domanda Jerumanis affronta l’accusa al sacerdozio di essere una causa di abuso sessuale. Sarebbe temerario arrivare a tale conclusione, afferma, così come sarebbe temerario concludere che le crisi coniugali sono dovute al fatto che il matrimonio è indissolubile.

Un altro dei coautori osserva che nessuno arriverebbe a incolpare l’istituzione del matrimonio di responsabilità per abusi sessuali sui bambini da parte di un genitore. Inoltre l’abuso sessuale, si legge nel libro, è non meno frequente nelle chiese che consentono ai sacerdoti di sposarsi e di gran lunga maggiori sono i casi di abuso sessuale che si verificano in famiglia.

Queste spiegazioni ed altre domande e risposte rendono il libro di don Cattaneo una valida risorsa in un tempo in cui ferve il dibattito sul celibato sacerdotale.


Fonte Zenit.org


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