martedì 31 gennaio 2012

San Giovanni Bosco




Se vuoi farti buono, pratica queste tre cose e tutto andrà bene: allegria, studio, preghiera. E' questo il grande programma per vivere felice, e fare molto bene all'anima tua e agli altri.

Il migliore consiglio è di fare bene quanto possiamo e poi non aspettarci la ricompensa dal mondo ma da Dio solo.

Tutti hanno bisogno della Comunione: i buoni per mantenersi buoni e i cattivi per farsi buoni.

I due sostegni più forti per sostenervi e camminare per la strada del Cielo sono i Sacramenti della Confessione e Comunione. Perciò guardate come gran nemico dell'anima vostra chiunque cerca di allontanarvi da questi due Sacramenti.

Tutti dobbiamo portare la croce come Gesù, e la nostra croce sono le sofferenze che tutti incontriamo nella vita.

Ricordatevi, che ogni cristiano è tenuto di mostrarsi propositivo verso il prossimo, e che nessuna predica è più vera del buon esempio.






don Bosco


Linguaggio verbale, linguaggio liturgico





Riassunto:
come avviene nel linguaggio verbale, il linguaggio liturgico adopera elementi preesistenti e ne cambia il significato. Il mondo precedente non viene mai totalmente distrutto ma convertito sulla base di nuove esigenze e questo è inevitabile. L'altare cristiano, dunque, è sia ara sacrale del sacrificio della Nuova Alleanza, sia mensa del Regno.




Oggi, da parte di alcuni studiosi e diversi cristiani praticanti, si pensa che la Chiesa dei Padri, quindi quella dei primi secoli, abbia introdotto elementi di rottura sostanziale rispetto all'autentica e ideale "Chiesa delle origini". Conseguentemente, le Chiese storiche attuali esprimerebbero un "Cristianesimo corrotto".

Questo pensiero, largamente diffuso nel mondo protestante, oramai rappresenta più d'una tentazione all'interno delle Chiese antiche. Il passo che segue ne è una chiara testimonianza:

"L'altro giorno Farnes davanti a cinquanta preti diceva: il sacerdozio nel Cristianesimo non esiste, i templi non esistono, gli altari non esistono. Per questo l‟unico altare del mondo tra tutte le religioni che ha tovaglie è il cristiano, perché non è un altare, è una mensa. Anche noi abbiamo fatto nell‟epoca della mescolanza con la religiosità altari di pietra monumentali, anche se poi gli mettevamo le tovagliette. Un altare non può avere tovaglie, perché l‟altare è per fare sacrifici di capre e di vacche” (Kiko Arguello, 1° SCR, p. 54).

Secondo la citazione, dunque, è esistita un'epoca nella quale vigeva la "religiosità naturale" con la quale si edificavano altari monumentali e templi. Ora, combattendo tale "religiosità" la Chiesa ha riscoperto l'altare cristiano che è solo una mensa, il tempio cristiano che sono solo i cristiani.

Riporto tale passo perché, nel suo intercalare, mostra quel modo ideologico tipico di chi tratta, senza conoscerle veramente, le questioni religiose.

Questo procedere per assurde e artificiali opposizioni crea una tale confusione che è necessario realmente partire da zero e fare delle considerazioni di base, offrendo un metodo con considerazioni storiche.

1) Quando il Cristianesimo si diffuse, esistevano attorno a lui, molti altri culti; esisteva una cultura prevalente, quella ellenistica; esistevano usi e costumi di una società generalmente pagana.

2) La prima reazione fu quella della chiusura. Il Cristianesimo non voleva condividere quanto lo circondava ritenendolo "ombra" o, addirittura, frutto demoniaco.

3) La seconda reazione, fu quella d'una prudente apertura con l'assunzione di elementi esterni ma purificati dal loro significato pagano.

Tutto ciò lo notiamo sin dagli inizi: san Pietro tendeva a privilegiare (e forse a chiudersi) nella chiesa dei giudei, san Paolo si apriva alla missione verso i pagani. Il suo discorso sull'Areopago è molto significativo, in tal senso.

Oltre a questa serie d'osservazioni, si deve tenere conto di altre semplici considerazioni: quando una persona abbraccia una fede estranea al suo luogo natìo (pensiamo, ad esempio, a quanti divengono buddisti in Italia) (1), non puo' prescindere da quanto ha imparato fino a poco prima.
Si trova nella condizione di dover adattare la sua lingua e la sua mentalità, alle esigenze della sua fede. E lo farà, evidentemente, cercando di conservare meglio possibile lo spirito religioso appreso.

I cristiani nell'impero romano hanno fatto esattamente questo. Quando hanno utilizzato il termine "logos" per indicare Cristo, non inventarono una parola nuova. Logos, infatti, è un termine lungamente utilizzato nella filosofia ellenistica. Essi presero questo termine (già presente in san Giovanni), e lo investirono d'un significato totalmente nuovo rispetto a quello pagano. Presero il termine, il significante, non lo rifiutarono, al punto d'averlo fatto divenire parte integrante della Rivelazione neotestamentaria: "In principio era il Logos e il Logos era presso Dio e il Logos era Dio" (Gv 1,1).

Qualcosa di analogo si deve dire nei riguardi dell'altare. La liturgia ha un suo linguaggio che, proprio come quello verbale, non s'inventa da zero ma si eredita da altri. Tale linguaggio viene adattato e modificato per obbedire ad esigenze religiose fondamentali.

Tutto ciò riguarda pure l'altare cristiano. L'altare era presente sia nel paganesimo, sia nell'ebraismo. Il Cristianesimo, espandendosi e strutturandosi sempre meglio, prese tale "linguaggio" che lo precedeva e gli attribuì significati differenti. Non poteva davvero fare diversamente, proprio come un buddista italiano odierno non può ragionevolmente prescindere dalla sua lingua materna, se vuole comunicare con i suoi connazionali.

E fu così che, nei riguardi dell'altare cristiano, al significato di ara sacrificale dell'Agnello-Cristo (2), si sovrappose quello di mensa eucaristica (3).
Non un significato opposto all'altro, si badi bene!, ma un significato connesso e conseguente all'altro (4).

Analogamente, la basilica pagana divenne il tempio cristiano, riutilizzando, evidentemente, elementi preesistenti al Cristianesimo stesso. Il tempio cristiano non ha lo stesso significato di quello pagano ma è pur sempre un tempio! L'elemento simbolico significante (il tempio) è stato preso e riutilizzato, non rifiutato!

Il significato patristico dell'altare e del tempio cristiano, finirono per imporsi con un'autorità simile a quella con cui s'impose il significato di "Logos" nel nuovo testamento. E anche questo fu inevitabile ma non fu certo sentito in termini di rottura o di banale contrapposizione con il passato.

Le idee esposte nella citazione, dunque, oltre ad essere pacchianamente ideologiche, finiscono per andare contro la logica elementare e distorcere quanto storicamente si è verificato. Basta solo rifletterci un poco per capire che molte cose non vanno nel senso da loro esposto. Ci si stupisce, dunque, di come tali idee possano diffondersi ed essere accolte quando, in realtà, nel Cristianesimo le si dovrebbero semplicemente ridicolizzare e rifiutare.

Come il termine "Logos" è entrato nella Rivelazione biblica, pur essendo un termine prettamente culturale e legato ad un contesto ben preciso, così gli elementi simbolici della liturgia hanno assunto una pregnanza talmente profonda che solo l'ignoranza dei tempi attuali può permettersi di metterli in discussione. Tale ignoranza non è solo prodotta dall'essersi estromessi dal flusso religioso tradizionale, all'interno del quale certe cose erano scontate, ma dall'essersi estromessi dalla "logica" con la quale si costruisce un linguaggio e lo si diffonde. E questo è molto grave.


__________


1) Quest'esempio puramente indicativo ha un limite: nel caso del buddismo, ci troviamo davanti ad una religione già strutturata e ben definita nelle sue pratiche. Il Cristianesimo dei primordi, invece, doveva strutturare il suo culto e iniziare ad articolare un vocabolario teologico per confutare le eresie che, dall'inizio, tentavano di minarlo. Si trovava, dunque, davanti a pesanti difficoltà culturali. Ma questo spiega. a maggior ragione, il suo urgente bisogno d'assumere elementi dal mondo circostante quali "mattoni" per il suo edificio. In questo senso l'elemento ellenistico-romano divenne una base incancellabile al Cristianesimo stesso.



2) "Appena possibile la semplice mensa lignea, usata nelle case nei secoli della persecuzione, divenne l’altare marmoreo in tutto simile all’ara sia ebraica che pagana, ma eloquente per esprimere ciò che l’Eucarestia era in realtà, il Sacrificio di Cristo" Enrico Finotti, Alle radici dell'altare cristiano, Liturgia, culmen et fons, dicembre-gennaio 2011. Vedi http://www.zenit.org/article-25298?l=italian


3) "Al contempo tale ara monumentale e preziosa non abbandonò la mensa, ma la assunse in sé adattandosi ad accogliere i santi doni conviviali e rivestendosi con una candita tovaglia". Ibid.


4) La prima opposizione in questo campo la fece, epoca moderna, Marin Lutero.






fonte Traditio Liturgica

Te lodiamo AC/DC




di Don Rinaldo Bombardelli


Leggo come tanti in questi giorni, la notizia che sabato 11 febbraio nella chiesa di Albiano (Trento), si terrà una Messa accompagnata da una band che suona l’heavy metal. Non ho le conoscenze precise dell’avvenimento, né le competenze per poter stabilire quanto le norme sulla Musica Sacra saranno o no osservate, mi limito solo a trarre uno spunto di riflessione.

A me pare che queste iniziative talora siano ispirate da un luogo comune diffusissimo nel clero cattolico, la necessità assoluta e improrogabile di “attirare i giovani”.
Ma ci sono solo i giovani nella cura d’anime (scusate l’archeologismo) di un Sacerdote? E i bambini? E i vecchi? E quelli di mezza età a cui nessuno sembra dar peso?

Sono prete da 22 anni e per quindici ho fatto il parroco dedito, come potevo, alla salus animarum, ma ho scoperto sul campo, nonostante avessi il cervello imbottito di giovanilismo e di pastorale giovanile, che la vita di tutti giorni è fatta di persone di ogni età. Dal vecchietto che mi raccontava sempre la stessa storia di guerra, al giovane in crisi con la morosa, alla famiglia che mi invitava a pranzo, al decadimento fisico di malati e moribondi che cercavano in me non l’animatore sociale, ma il Sacerdote che in persona Christi, apriva loro le porte della Misericordia di Dio attraverso la grazia del Viatico.

Cose d’antan? Forse. Ma ero felice. E i miei vecchi e malati pure. E felici vedevo anche (ma questo non ditelo in giro) giovanotti e bambini cantare l’antica musica gregoriana, chè forse di metal ne avevano già assorbito fin troppo.
Ma torniamo ai nostri giovani da attirare.

Credo che si debba anche chiedersi DOVE gli vogliamo attirare.
Nella storia di Pinocchio vi è un personaggio che è il più terrificante e spietato di tutti: l’Omino di burro. Anche lui attirava i ragazzi. Li portava al Paese dei Balocchi e da lì, non tornavano più.

Canticchiava una strofetta a mezza voce: “Tutti dormono… ma io non dormo mai…”.
Che l’aria sia stata heavy metal?

fonte http://www.libertaepersona.org

lunedì 30 gennaio 2012

Motu Proprio Summorum Pontificum: problema o risorsa?




A colloquio con il superiore della "Fraternidad de Cristo Sacerdote y Santa Marìa Reina", Padre Manuel Marìa de Jesùs


di Shawn Tribe




Qualche mese fa in Spagna il superiore della "Fraternidad de Cristo Sacerdote y Santa Marìa Reina", Padre Manuel Marìa de Jesùs, ha pubblicato un libretto dal titolo "Motu Proprio Summorum Pontificum, Problema o Risorsa?", subito tradotto in portoghese, segno dell'interesse che ha suscitato nella penisola iberica.

Il libro va dritto al nocciolo dell'argomento e, in effetti, sta rompendo il silenzio che circondava il permesso da parte di Benedetto XVI di celebrare la Messa tradizionale in Spagna e in Portogallo. Questo grande silenzio è stato quantificato dalle indagini d'opinione condotte in quei Paesi: in Portogallo, secondo l'indagine interattiva Harris del 2010, il 74% dei cattolici non ha mai sentito parlare del Motu Proprio, e in Spagna, secondo l'indagine Ipsos del 2011, la proporzione raggiunge l'81,7%.

L'opera di Padre Manuel è meritoria. E' per questo che proponiamo la seguente intervista al fine di scoprire qual è stato il motivo che lo ha spinto, motivo che ha a che fare con la sua profonda obbedienza al Santo Padre e alla gioia e gratitudine provata per la scoperta della liturgia tradizionale.



I - INTERVISTA CON PADRE MANUEL


1) Padre Manuel, si vuole presentare ai suoi lettori?

Padre Manuel: Mi chiamo Manuel Folgar Otero - in religione, Padre Manuel Marìa de Jesùs. Sono stato ordinato nel 1988 nella diocesi di Santiago de Compostela, dove per dieci anni sono stato vicario parrocchiale di San Giuseppe di Pontevedra, e inoltre cappellano d'ospedale, direttore della Legione di Maria Curia e direttore spirituale di una associazione di Adoratrici Notturne. Ho insegnato religione nella scuola media per dodici anni, amministratore di alcune parrocchie rurali da quindici anni e finalmente fondatore di una associazione privata, la Fraternità di Cristo Sacerdote e di Santa Maria Regina. Da questa fraternità sono nati i Missionari della Fraternità di Cristo Sacerdote e di Santa Maria Regina, una associazione presbiterale pubblica ancora in formazione, ha la sua base a Toledo e io ne sono superiore dal 2009.



2) Qual è la sua esperienza della forma straordinaria del rito romano e che posto ha il Motu Proprio Summorum Pontificum nella sua vita sacerdotale?

Padre Manuel: Data la mia età, sono nato nel 1962, non ho alcun ricordo nella mia infanzia di aver mai visto una Messa tradizionale, tanto meno nella mia giovinezza o dopo. La prima volta che ho assistito a una celebrazione della Santa Messa secondo quella che oggi è chiamata forma straordinaria, è stato dopo l'anno 2000. E' stao solo nel 2004-2005 che ho conosciuto la liturgia tradizionale nel corso di alcune mie visite al monastero di Le Barroux. Nel 2007 mi fu possibile conoscere il seminario internazionale dell'Istituto di Cristo Re a Gricigliano e, in quella occasione, era presente anche il Cardinale Canizares per il conferimento di ordinazioni sacerdotali. E' stato solo dopo il 2007, l'anno della promulgazione del Motu Proprio Summorum Pontificum, che ho cominciato a celebrare regolarmente secondo la forma straordinaria. Nell'ottobre di quello stesso anno, in un'udienza indimenticabile, il Cardinale Castrillòn Hoyos, presidente della commissione Ecclesia Dei, ci incoraggiò.

Oggi la forma straordinaria è una caratteristica della nostra comunità ed è riconosciuta come tale nei nostri statuti.

La mia esperienza è molto positiva e, in certi aspetti, perfino emozionante. Ho compiuto un cammino di scoperta di tale meraviglioso tesoro che ci era stato nascosto, insieme ai miei fratelli della comunità e ai parrocchiani. Per i più anziani si è trattato di una riscoperta, e per i più giovani di una assoluta novità. Nelle varie parrocchie che dirigo, non ho mai incontrato la minima avversione o resistenza alla Messa tradizionale. Ciò potrà sorprendere, ma è così. Io e i miei fedeli insieme abbiamo vissuto sulla nostra pelle l'esperienza di quel padre di cui parla il vangelo, "il padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche" (Mt. 13,52). Per noi quel padre è stato Sua Santità Benedetto XVI, che ci ha aperto quel meraviglioso tesoro, antico ma sempre rinnovato, che è la liturgia bimillenaria della Chiesa, un autentico monumento di fede e di pietà.

Nella mia vita sacerdotale, essa ha significato un arricchimento a tutti i livelli: nella dottrina, nella preghiera, nell'identificazione con Cristo sacerdote e vittima, ecc. E in tanti altri aspetti, non mi obbliga ad entrare nell'oggi. Approfitto di tale occasione, per far presente un errore. Alcuni riconoscono che la liturgia tradizionale può arricchire il sacerdote che la celebra, ma la giudicano di detrimento per i fedeli, poiché li impoverirebbe spiritualmente,quasi annullando o perfino impedendo la loro partecipazione e comprensione della liturgia. Devo umilmente dire che ciò non corrisponde alla mia esperienza, anzi tutto il contrario.

La celebrazione della liturgia tradizionale costringe il sacerdote a dare maggiore attenzione pastorale ai fedeli, nel senso di dedicare molto più tempo ed energie per la loro formazione dottrinale e spirituale. La formazione permanente si basa sul vero significato di "actuosa participatio": la disposizione interiore di unirsi a Cristo Vittima attraverso la mediazione del sacerdote che, quale ministro di Cristo e della Chiesa, rinnova e offre il Divino Sacrificio. Si fonda pure sulla particolare cura con cui si formano i propri fedeli liturgicamente e mistagogicamente. Che diritto o base abbiamo per sottovalutare la capacità dei laici di partecipare degnamente e fruttuosamente alla liturgia bimillenaria della Chiesa? Vi sono dei laici con un grado di istruzione molto semplice che potrebbero insegnare qualche cosa a quelli che si ritengono dotti. Sono laici che non hanno mai messo piede in una scuola di teologia, ma che conoscono a memoria il contenuto della fede e che vivono il mistero eucaristico in modo incredibilmente intenso e in profonda unione con Cristo Sacerdote. Essi traggono dalla loro partecipazione al Divin Sacrificio, la forza e l'ispirazione per offrire in cambio se stessi nella loro vita quotidiana, come ostie sante e gradite a Dio.

Oggi, grazie a Dio, i fedeli possono leggere e seguire i testi della Santa Messa sui loro messali, associandosi così in modo più perfetto alle Preghiere della Santa Liturgia. Ciò esige una concentrazione e un'attenzione ben più grandi di quelli che si accontentano di ascoltare.

Dietro a molte delle obiezioni al Motu Proprio, troviamo più ideologia che ragioni legittime.



3) Nell'introduzione al suo libro, Lei giustifica il suo scritto con la mancanza di conoscenza del Motu Proprio tra i sacerdoti spagnoli e, in misura ancora maggiore, tra i laici. Per cui, è rimasto sorpreso dal risultato dell'inchiesta Ipsos che "Paix Liturgique" ha commissionato poco prima della Giornata Mondiale della Gioventù, che indica che il 69,5% di cattolici praticanti spagnoli non ne ha mai sentito parlare?

Padre Manuel: Non mi ha sorpreso affatto. Anzi, trovo che il risultato non si avvicini alla realtà. Sono persuaso infatti che la schiacciante maggioranza dei fedeli non sappia nulla del Motu Proprio, e che coloro che ne sanno qualcosa, compresi i preti, non ne conoscono il contenuto. Se ne scrive pochissimo al riguardo. L'idea prevalente, totalmente distorta, è che il Papa ha autorizzato la Messa in latino per i seguaci del vescovo Lefebvre, punto. Sono molti quelli che diffondono questo equivoco allo scopo di minimizzare l'insegnamento del Papa e di ridimensionare l'importanza del Motu Proprio che, tra l'altro, ha forza di legge per la Chiesa universale e, come tale, detta autentici diritti e doveri che tutti devono rispettare.

Purtroppo, molti stanno ai titoli sensazionali che offrono certi mass media che stravolgono la realtà e la verità della notizia riportata.



4) Per questo il suo libro, avvalorato dalla forma e dal contenuto, cerca principalmente di far conoscere il testo del Motu Proprio e il desiderio del Papa. Che accoglienza ha avuto in Spagna?

Padre Manuel: Ho tentato di fare del mio meglio. L'accoglienza tra quelli che il libro voleva raggiungere, è stata ottima, pur con i nostri mezzi limitati. Me lo sono autopubblicato e, oltre ai miei contatti personali, il libro non ha suscitato molta risposta, a parte qualche sito internet.

Per questo tipo di tematica, non puoi contare sugli editori cattolici, non sono interessati, non rientra nella loro linea editoriale... Pensi solo che quando il libro eccezionale del vescovo Schneider, "Dominus est", che si dice sia stato molto apprezzato dal Santo Padre, è stato offerto a diversi editori spagnoli per minimi diritti d'autore, nessuno era disposto a pubblicarlo. Non so come andrebbe oggi... E sto parlando di editori cattolici, alcuni dei quali sono reputati "conservatori". Ancora una volta, prevale l'ideologia. E' come se volessero che la gente non sappia troppo, che non pensi con la propria testa e si inchini al pensiero dominante. Per quanto ciò sia triste, è così. Benedetto XVI ha denunciato spesso la dittatura del relativismo. Beh, potremmo dire allo stesso modo, credo, che c'è una dittatura del pensiero unico che è presente e molto potente in certi circoli.

Perché certuni mostrano di avere tanta paura all'idea che la gente possa conoscere, sperimentare e decidere da sola? Non si è sbandierata da tanti anni la nozione che il laicato ora è adulto? Perché non lasciamo decidere ai fedeli, e smetterla di mettere il bastone tra le ruote nelle decisioni del Santo Padre?



5) Al capitolo 9 del suo libro, Lei insiste sulla necessaria unità delle Chiese locali con Roma. Fino ad oggi, soltanto un prelato spagnolo, il vescovo Urena Pastor, ha celebrato la forma straordinaria nella sua diocesi. Si può sperare che altri vescovi seguano il suo esempio?

Padre Manuel: Ad oggi, sembra che altri due vescovi spagnoli abbiano effettivamente celebrato nella forma straordinaria, anche se l'hanno fatto nella semi-segretezza, durante la Giornata Mondiale della Gioventù. Nessun annuncio, nessuna notizia. Gli unici quasi che vi hanno partecipato, appartengono a gruppi legati alla forma straordinaria. Non so di chi fosse la responsabilità di quella situazione, ma non mi permetto di credere che sia stato fatto in mala fede.

Non mi aspetto che altri vescovi celebrino la Messa tradizionale nelle loro diocesi, soprattutto perché non esiste una significativa richiesta da parte dei fedeli, dei religiosi o dei preti. Eppure, molti sacerdoti ammettono che non osano studiarla o celebrarla per paura incomprensibilmente di essere criticati. In Spagna, siamo ancora alla fase di Nicodemo: impariamo a celebrare in segreto...

Contra facta non valet argomentum. E i fatti ci dicono che spetta ai preti e ai laici più convinti e determinati smuovere le cose. Io non sono a conoscenza dei pensieri più intimi del Santo Padre, ma pare che il Papa, con il Motu Proprio, abbia fatto sì che l'argomento non rientri più nelle decisioni arbitrarie dei vescovi. In questi anni Roma ha coerentemente insistito sul "diritto dei fedeli" di partecipare alla liturgia tradizionale, e non sull diritto dei vescovi di autorizzarla o no. La massima autorità liturgica è il Papa. E' Benedetto XVI che ha promulgato il Motu Proprio e ha colto l'occasione per richiamare che la Messa tradizionale non è stata mai proibita. Ciò mi fa pensare che ogniqualvolta è stata proibita, lo si è fatto a dispetto della legge.

Le Chiese locali sono chiamate a vivere in comunione affettiva ed effettiva con la Madre Chiesa di Roma, e tale comunione si esprime e si manifesta in modo eccellente attraverso la liturgia. Senza alcun dubbio il vescovo, in ogni diocesi, è il supremo responsabile della liturgia, un ufficio che deve compiere in perfetta comunione ed armonia con la Sede Apostolica. Questo è precisamente il motivo per cui il Motu Proprio in nessun moddo diminuisce l'autorità episcopale.

Un'altra tesi assolutamente indegna è quella di sostenere che la coesistenza di differenti forme liturgiche metta a repentaglio la comunione ecclesiale. Si confuta facilmente tale tesi sia da un punto di vista storico che nella realtà concreta. Basti considerare la ricchezza dei diversi riti orientali e latini. Chi può seriamente sostenere che queste diversità mettano a rischio l'unità della Chiesa? Al contrario, l'unità della Chiesa è sotto attacco quando si negano le verità della fede, quando si contesta il Magistero, quando si disobbedisce al Vicario di Cristo o quando qualcuno si appropria della liturgia come se fosse cosa sua, "costruendosela" per sé al di fuori delle leggi ecclesiastiche.

Ci sono poi dei vescovi che spiegano che in realtà non hanno un numero sufficiente di fedeli che richiedono la celebrazione nella forma straordinaria. A volte succede che sia vero, almeno in Spagna. E' anche vero però che non si può chiedere se non si conosce. Ora, sono in molti oggi che ignorano perfino che esista una forma straordinaria, e non possono quindi esprimere liberamente un'opinione.

6) Tornando all'inchiesta Ipsos condotta da "Paix Liturgique", che cosa pensa della cifra del 50,4% dei cattolici praticanti che si dichiarano disponibili a partecipare alla forma straordinaria almeno una volta al mese se fosse celebrata nella loro parrocchia, senza però sostituire la forma ordinaria?


Padre Manuel: Di per sé non mi sorprende. Credo anzi che la percentuale reale sia ancora più alta, poiché constato che dovunque la forma straordinaria viene celebrata - dopo quarant'anni! - i fedeli sono pieni di stupore e chiedono di poter assistere nuovamente. Non capiscono come mai un simile tesoro possa rimanere nascosto dietro a una porta sprangata, e mi riferisco a laici di tutte le età. E' stranissimo vedere come i bambini amino la forma straordinaria. La Messa tradizionale attrae moltissimo i chierichetti, come pure i giovani sono particolarmente sensibili e disponibili alla bellezza, al senso del mistero, all'adorazione e al silenzio contemplativo.

Devo anche dire che si richiede una formazione preliminare e una vera e propria catechesi per riscoprire tutta la ricchezza simbolica, dottrinale e spirituale di questa liturgia.


7) Un commento finale?

Padre Manuel: Vorrei ringraziare 'Paix Liturgique' per questa intervista. Come indica la denominazione, essa cerca di raggiungere la pace liturgica e soprattutto la pace dei cuori, che è frutto della giustizia. E' opera di giustizia rispettare i diritti dei fedeli e dare alla liturgia tradizionale il suo giusto posto! E' quello che ha scritto il nostro amatissimo Papa Benedetto XVI nella lettera di accompagnamento al Motu Proprio Summorum Pontificum: "Ciò che per le generazioni anteriori era sacro, anche per noi resta sacro e grande, e non può essere improvvisamente del tutto proibito o, addirittura, giudicato dannoso. Ci fa bene a tutti conservare le ricchezze che sono cresciute nella fede e nella preghiera della Chiesa, e di dar loro il giusto posto".



fonte: New Liturgical Movement, 19/01/2012
http://www.newliturgicalmovement.org/2012/01/superior-of-spanish-priestly-society-on.html

(trad. it. di d. Giorgio Rizzieri)

Motu proprio e altari: il Vescovo di Albenga-Imperia rimprovera duramente e con parole severe alcuni suoi sacerdoti







S.E. Rev.ma Mons. MARIO OLIVERI , AI SACERDOTI AI DIACONI
Lettera sul Motu Proprio "Summorum Pontificum" del Papa Benedetto XVI
Sulla celebrazione della Santa Messa




Cari Sacerdoti e Diaconi,

è con molta amarezza d'animo che ho dovuto constatare che non pochi di Voi hanno assunto ed espresso una non giusta attitudine di mente e di cuore nei confronti della possibilità, data ai fedeli dal Motu Proprio "Summorum Pontificum" del Papa Benedetto XVI, di avere la celebrazione della Santa Messa "in forma straordinaria", secondo il Messale del beato Giovanni XXIII, promulgato nel 1962.

Nella "Tre Giorni del Clero" del settembre 2007, ho indicato con forza e chiarezza quale sia il valore ed il vero senso del Motu Proprio, come si debba interpretare e come si debba accogliere, con la mente cioè aperta al contenuto magisteriale del Documento e con la volontà pronta ad una convinta obbedienza. La presa di posizione del Vescovo non mancava della sua pacata autorevolezza, avvalorata dalla sua piena concordanza con un atto solenne del Sommo Pontefice. La presa di posizione del Vescovo era fondata dalla ragionevolezza del suo argomentare teologico sulla natura della Divina Liturgia, sulla immutabilità della sostanza nei suoi contenuti soprannaturali, ed era altresì fondata su rilievi di ordine pratico, concreto, di buon senso ecclesiale.

Le reazioni negative al Motu Proprio ed alle indicazioni teologiche e pratiche del Vescovo sono quasi sempre di carattere emotivo e dettate da superficiale ragionamento teologico, cioè da una visione "teologica" piuttosto povera e miope, che non parte e che non raggiunge la vera natura delle cose che riguardano la fede e l'operare sacramentale della Chiesa, che non si nutre della perenne Tradizione della Chiesa, che guarda invece ad aspetti marginali o per lo meno incompleti delle questioni. Non senza ragione, avevo, nella Tre Giorni citata, fatto precedere alle indicazioni operative ed ai principi guida di azione una esposizione dottrinale sulla "Immutabile Natura della Liturgia".

Ho saputo che in alcune zone, da parte di diversi Sacerdoti e Parroci, vi è stata anche la manifestazione quasi di irrisione verso fedeli che hanno chiesto di avvalersi della facoltà, anzi del diritto, di avere la celebrazione della Santa Messa in forma straordinaria; e pure espressione di disistima e quasi di ostilità nei confronti di Confratelli Sacerdoti ben disposti a comprendere ed assecondare le richieste di fedeli. Si è anche opposto un diniego, non molto sereno, pacato e ragionato (ma ben ragionato non poteva essere) di affiggere avviso della celebrazione della Santa Messa in "forma straordinaria" in determinata chiesa, a determinato orario.

Chiedo che sia deposta ogni attitudine non conforme alla comunione ecclesiale, alla disciplina della Chiesa ed alla obbedienza convinta dovuta ad importanti atti di magistero o di governo.

Sono convinto che questo mio richiamo sarà accolto in spirito di filiale rispetto ed obbedienza.

Sempre con riferimento agli interventi del Vescovo in quella 'Tre Giorni del Clero" del 2007, debbo ancora ritornare sulla doverosa applicazione delle indicazioni date dal Vescovo circa la buona disposizione che deve avere tutto ciò che riguarda lo spazio della chiesa che è giustamente chiamato "presbiterio". Le indicazioni "Circa il riordino dei presbiterii e la posizione dell'altare" sono poi state riportate nell'opuscolo "La Divina Liturgia", alle pagine 23-26.

Quelle indicazioni, a più di quattro anni di distanza, non sono state applicate ovunque e da tutti. Erano e sono indicazioni ragionevoli, fondate su buoni principi e criteri di ordine generale, liturgico ed ecclesiale. Ho dato tempo affinché di esse i Sacerdoti e soprattutto i Parroci ragionassero con i Consigli Parrocchiali Pastorali e per gli Affari Economici, e si tenesse anche opportuna catechesi liturgica ai fedeli. Chi avesse ritenuto le indicazioni non opportune o di difficile applicazione, avrebbe potuto facilmente trattarne con il Vescovo, con animo aperto ad una migliore comprensione delle ragioni che hanno spinto il Vescovo a darle, affinché fossero messe in pratica in modo il più omogeneo possibile in tutte le chiese della Diocesi . Esse non sono certamente contrarie alle norme ed anche allo "spirito" della riforma liturgica che si è attuata nel post-Concilio e partendo dal Concilio Vaticano II. Se qualcuno avesse avuto fondati dubbi avrebbe potuto esprimerli con sincerità e con apertura al sereno ragionamento, e con la volontà rivolta all'obbedienza, dopo che la mente avesse avuto maggiore illuminazione.

Stimo che ormai sia trascorso ampio tempo di attesa e di tolleranza, e quindi sia arrivato il momento dell'esecuzione di quelle indicazioni da parte di tutti, in modo da giungere alla prossima Pasqua con tutti i presbiterii riordinati, od almeno con lo studio di riordino decisamente avviato, là dove il riordino richieda qualche difficoltà di applicazione.

Va da sé che la non applicazione delle indicazioni, nel tempo che ho menzionato, non potrebbe che essere considerata come un'esplicita disobbedienza. Ma ho fiducia e speranza che ciò non avvenga.

Mi affligge non poco l'avervi dovuto scrivere questa Lettera, assicurandovi che la riterrò come non scritta, se essa avrà avuto buona accoglienza e positivo effetto.

Lo scritto porta con se tutto il mio desiderio che esso giovi ad un ravvivamento e ad un rafforzamento della nostra comunione ecclesiale e della nostra comune volontà di adempiere al nostro ministero con rinnovata fedeltà a Cristo ed alla sua Chiesa.

Vi chiedo infine molta preghiera per me e per il mio ministero apostolico, e di gran cuore Vi benedico.

Albenga, 1° gennaio 2012 Solennità della Madre di Dio.

Monsignor + Mario Oliveri, vescovo



Fonte (per testo e foto): sito ufficiale della Diocesi di Albenga-Imperia

Il problema della traduzione "per tutti"


Nuovi punti di vista nella discussione sulla formula di consacrazione del calice

di mons. Klaus Gamber



Il problema relativo all'esattezza della traduzione delle parole latine pro vobis et pro multis, appartenenti alla consacrazione del calice, con "per voi e per tutti" - traduzione che si trova in (quasi) tutte le edizioni in lingua volgare del nuovo Messale - non ha ancora trovato una soluzione definitiva. Mentre taluni garantiscono l'assoluta esattezza della traduzione "per tutti", indicandone in primo luogo i fondamenti filologici, altri vi vedono una falsificazione che compromette direttamente la fede. Si tratterebbe dell'eresia risalente a Origene, secondo cui alla fine tutti gli uomini si salvano. I critici non si fermano qui, ma giungono a sostenere che chi falsifica in modo siffatto le parole del Signore, che debbono compiere la conversione delle offerte sacrificali nella carne e nel sangue di Gesù, ponendo sulle sue labbra un'eresia, renderebbe impossibile la consacrazione e pertanto la Messa sarebbe invalida.

In linea di principio sono da tenere distinte qui due cose: da un lato la volontà di Dio di salvare tutti gli uomini, attestata espressamente da Paolo che scrive in 2Cor 5,15: "Cristo è morto per tutti", dall'altro il problema se anche di fatto tutti gli uomini si salvino, vale a dire la differenza essenziale che intercorre tra la redenzione offerta da Dio e la personale acquisizione della grazia redentrice di Cristo da parte dell'uomo. In proposito scrive Giovanni Crisostomo nel suo commento alla lettera agli Ebrei (17,2): "(Cristo) è certamente morto per tutti, per salvare tutti per quanto sta in Lui, poiché la sua morte compensa la corruzione di tutti gli uomini. Ma non ha portato via i peccati di tutti perché gli uomini stessi non vollero".

Dalle due questioni poste in via preliminare, se cioè Gesù sia morto per tutti gli uomini e se anche di fatto tutti raggiungano la salvezza, ne va distinta evidentemente una terza, cioè che cosa si inintende in concreto nella consacrazione del calice del Missale Romanum, con riferimento a Mt 26,28, con le parole: "versato per voi e per molti in remissione dei peccati" (qui pro vobis et pro multis effundetur in remissionem peccatorum). Soltanto di quest'ultimo aspetto si intende trattare nel presente scritto che riguarda il problema liturgico.

In primo luogo ancora una parola sull'argomento filologico chiamato in causa a favore della traduzione "per tutti". Si dice che nel citato Mt 26,28 vi sarebbe un modo di dire semitico in base al quale "i molti" potrebbe significare anche "tutti". Ma nel nostro caso appunto l'articolo determinativo davanti a "molti" manca. E se anche ci fosse, in determinati casi il greco oi polloi significa "i più", ma non "tutti", in tal senso la Grammatik des neutestamentlichen Griechisch di Blass-Debrunner (§ 245) che cita in appoggio Mt 24,12: " ... l'amore dei molti (= dei più) si raffredderà".

Notevole sottolineare come, con riferimento a Mt 26,28, la traduzione "per tutti" non si trova in alcuna antica versione né in alcun racconto dell'Istituzione delle diverse liturgie orientali, e neppure - e ciò è particolarmente significativo - nella nuova traduzione unitaria tedesca della Bibbia [1]. Solo la versione libera apparsa in Die Gute Nachricht (1967) reca: "Das íst mein Blut, das fiir alle Menschen vergossen wird zur Vergebung ihrer Schuld" [= Questo è il mio sangue che è sparso per tutti gli uomini per la remissione della loro colpa] (p. 75). Ecco la vera fonte da cui proviene il "für euch und fiir alle" [ = per voi e per tutti] nel nuovo Messale tedesco! [2].

Dunque dal punto di vista filologico non è possibile dimostrare nulla riguardo alla traduzione "per tutti". Pertanto dobbiamo sforzarci di scoprire l'effettivo significato delle parole di Gesù. In esse attira l'attenzione il fatto che - e tale osservazione ci sembra importante -, a differenza di Mt (analogamente Mc 14,24): "Questo è il sangue dell'Alleanza, che è versato per molti", in Lc 22,20 è detto: "Questo calice è la nuova Alleanza nel mio sangue che è versato per voi". Dunque in Mt. e Mc "per molti", in Lc "per voi". Paolo in 1Cor 11,25 omette del tutto la seconda parte della consacrazione del calice con la frase in questione.

Dalle predette forme della consacrazione del calice che si trovano in Mt e Lc, nel rito romano della Messa si è formata col passare del tempo la seguente formulazione: "Questo è il calice del mio sangue, della nuova ed eterna Alleanza (mistero di fede), che è sparso per voi e per molti per la remissione dei peccati".

La domanda che ci si pone è la seguente: perché in Mt si dice "per molti" e in Lc "per voi"? Che cosa ha detto realmente Gesù all'offerta del calice?

È naturale ritenere che il Signore in concreto intendesse riferirsi soltanto agli apostoli, e che pertanto abbia detto: "... che è versato per voi". Ciò inoltre corrisponderebbe alla consacrazione del pane in Lc 22,19 (cfr. 1Cor 11,23): "Questo è il mio corpo (offerto in sacrificio) per voi". Quindi i due passi sarebbero nel senso che Gesù qui e ora, vale a dire in quel momento nel cenacolo, offrì il suo corpo (come sacrificio) e versò il suo sangue "per la remissione dei peccati". Possiamo andare oltre e dire: come Gesù in quel momento con le parole "versato per voi" ha inteso riferirsi in concreto agli apostoli, così il corrispondente riferimento è ai "molti" comunicanti che nelle epoche successive si accosteranno al calice eucaristico "per la remissione dei peccati" e aí quali verrà in tal modo donata la grazia della redenzione.

Dato però che il Signore ha effuso il suo sangue non solo per gli apostoli ovvero per í comunicanti, bensì, come è detto nella consacrazione del giovedì santo, "per la salvezza di tutti" (pro omnium salute), la frase "offerto per voi" alla consacrazione del pane, al pari di "versato per voi" a quella del calice, non può di conseguenza riferirsi direttamente alla morte in Croce. Il sangue di Cristo contenuto nel calice che gli apostoli quella sera bevvero è di per sé quello stesso sangue che il giorno seguente sarà "sparso" sulla Croce (anche se trasfigurato): esso però già da questo momento è dato loro nel sacramento, per loro "versato per la remissione dei peccati". Analogamente il suo corpo sacrificato sul Golgota (e trasfigurato dalla risurrezione) è "dato" ovvero "spezzato", come attestano la maggior parte dei manoscritti di 1Cor 11,24, per loro nel pane eucaristico come cibo spirituale.

In questo contesto bisogna osservare che la morte in Croce di Gesù è il sacrificio dell'Uomo-Dio offerto una volta per tutte "nella pienezza dei tempi" (Eph. 1,10), ma questo sacrificio è sempre davanti a Dio - poiché in Lui "non vi è cambiamento né ombra di variazione" (Gc 1,17), e quindi non vi è neppure tempo poiché tutto per Lui è presente - come atto eterno della dedizione del Figlio di Dio al Padre. Cristo è dunque l'Agnello, come dice 1Petr. 1, 19s., destinato al sacrificio "prima della creazione del mondo". Perciò quando durante l'ultima Cena Gesù invitò i suoi apostoli a bere sacramentalmente il suo sangue, poté riferirsi al sacrificio della Croce anche se esso, nel tempo, sarebbe avvenuto soltanto il giorno seguente. "Nostro Signore", come dice Afrahat il Siro, nel cenacolo "ha dato con le sue proprie mani la sua carne come cibo e, (ancor) prima di essere crocifisso, il suo sangue come bevanda".

Una delle ragioni per cui la consacrazione del calice ha assunto solo un significato relativo all'economia della salvezza e non in primo luogo sacramentale si trova nel fatto che non la si è guardata in connessione con la consacrazione del pane, ove è detto "dato" ovvero "spezzato per voi". In ciò i testi liturgici più antichi avevano una visione molto più chiara. Così nel celebre papiro di Der Balaisa, che ci tramanda ampi stralci di una preghiera eucaristica (forse risalente al sec. III/IV), le due parti del racconto dell'Istituzione, in contrasto con la tradizione biblica, sono formulate in modo pienamente simmetrico: "Prendete e mangiatene tutti: questo è il mio corpo offerto in sacrificio per voi per la remissione dei peccati" - "Prendete, bevetene tutti: questo è il mio sangue versato per voi per la remissione dei peccati" (cfr. Hänngi-Pahl, p. 126). Qualcosa di simile si ha nella maggior parte delle anafore orientali, come dimostra con tutta evidenza lo studio di Fr. Hamm, Die liturgischen Einsetzungsberichte (1928): soltanto in età successiva ebbero luogo ampliamenti.

Possiamo ritenere che l'espressione "per molti", che compare in Mt e Mc nelle preghiere eucaristiche tarde orientali e occidentali in luogo del corrispondente "per voi" di Lc, che è con tutta probabilità originario, come può constatarsi ancora nel papiro di Der Balaisa, risalga alla recitazione delle parole del Signore nella frazione del pane eucaristico che avveniva presso le comunità primitive. Si tratta di un adattamento liturgico il cui risalente impiego nelle celebrazioni delle varie comunità è reso evidente pure dalla formulazione linguistica delle versioni del racconto dell'Istituzione che si trovano nel Nuovo Testamento. Con l'espressione "per molti" invece di "per voi" si doveva fare riferimento ai "molti" partecipanti i quali, come un tempo gli apostoli cui Gesù si era in origine rivolto, bevono tutti al calice eucaristico.

Anche Paolo, 1Cor 10,17, parla dei "molti" in relazione al fatto di ricevere il pane eucaristico: infatti egli dice che "noi, i molti" (cioè coloro che lo riceviamo) in Cristo "formiamo un solo corpo". Anche qui si tratta dell'azione della grazia per coloro che ricevono il corpo di Cristo, e solo indirettamente della redenzione sulla Croce.

L'opinione prevalente secondo cui con le parole "remissione dei peccati" si intende direttamente la redenzione avvenuta sulla Croce - per cui oggi la modifica "per tutti" è ritenuta necessaria - non la grazia che si consegue nel ricevere il santissimo sangue, è stata non da ultimo riaffermata in base alla considerazione che il greco ekchynnómenon ("versato") nella maggior parte dei manoscritti della Vulgata - a differenza che nella maggioranza dei codici della Vetus Latina - viene reso con il futuro effundetur ("sarà versato") in luogo di effunditur ("è versato"). In tal modo viene indicato chiaramente il sacrificio della Croce, mentre il riferimento alla grazia ricevuta con il bere il sangue eucaristico "per la remissione dei peccati" si indebolisce. E la forma effundetur, che non è fondata sull'originario testo greco, è entrata anche nel Missale Romanum, donde ha avuto origine l'intera problematica.

Ma già J. Pascher, in Liturgisches Jahrbuch 10 (1960), p. 99ss., aveva richiamato l'attenzione sul fatto che il greco ekchynnómenon non significa "effondere" [vergiessen] , vale a dire l' "emissione del sangue dalla ferita", bensì "versare" [ausgiessen], come già noi abbiamo tradotto. Nella celebrazione dell'eucaristia il prezioso sangue del Signore viene "versato" dal calice nella bocca dei (molti) fedeli, come anche nel Vecchio Testamento il sacrificio del sangue era da considerarsi compiuto soltanto "mediante l'atto di versare dai vasi".

In relazione a ciò è da ricordare una espressione che compare nei sermoni De sacramentis (IV, 28): "Tutte le volte che il sangue (di Cristo) è versato (effunditur), è sparso (funditur) per la remissione dei peccati". Anche Gregorio Magno riferisce le appendici della consacrazione del pane e del vino direttamente a quanto avviene nella celebrazione eucaristica, scrivendo in Dial. IV, 58: "Se Egli (Cristo) essendo risorto dai morti più non muore - la morte non ha più alcun potere su di Lui - tuttavia, pur vivendo immortale e incorruttibile, viene nuovamente immolato per noi in questo mistero del santo Sacrificio (pro nobis iterum... immolatur)".

Ma in che cosa consiste secondo Gregorio questa "immolazione" del Signore? Sicuramente non, come si potrebbe intendere a una prima lettura, propriamente in una "rinnovazione" del sacrificio della Croce, infatti il testo prosegue: "Qui il suo corpo viene mangiato, la sua carne viene divisa (partitur) per la salvezza del popolo; il suo sangue è versato non più sulla mani degli infedeli, ma nella bocca dei fedeli".

Secondo Gregorio quindi la "immolazione" di Cristo si compie sacramentalmente con la "divisione" del pane consacrato e col "versare" il vino consacrato nella bocca dei fedeli. Così in una antica forma del canone romano della Messa, citata alla lettera nei ricordati sermoni De sacramentis, la consacrazione del pane recita (IV, 21): "Questo è il mio corpo che è spezzato per voi (confringetur)".

Pertanto nella consacrazione del pane e del vino si tratta in primo luogo del ricevere - qui e ora - le specie eucaristiche e delle grazie che ne derivano per coloro che le ricevono, e non direttamente della redenzione sulla Croce. Nel termine confringetur (che viene spezzato) non è possibile individuare un riferimento alla morte dí Gesù in Croce già solamente in quanto nel Vangelo di Giovanni (19,32-33) è affermato in maniera espressa che i soldati non avevano spezzato le ossa al Signore, a differenza degli altri due crocifissi con Lui. L'espressione confringetur quindi può riferirsi soltanto allo spezzare il pane eucaristico, anche se ciò, al pari del versare il calice nella bocca dei comunicanti, è al tempo stesso simbolo della morte cruenta di Gesù sulla Croce.

Da quanto detto consegue che in base a considerazioni di carattere teologico, biblico, filologico e storico-liturgico la traduzione di pro vobis et pro multis con "per voi e per tutti" nella consacrazione del calice, facente parte del racconto liturgico dell'Istituzione, è da rifiutare. Nelle parole pronunziate da Gesù sul calice non vi è alcuna dichiarazione riguardante la volontà di salvezza di Dio. Con "versato per molti" si intende l'azione della grazia del sangue di Cristo per coloro che lo ricevono. Questa è donata loro, come dice Giovanni Damasceno nel suo Sulla fede ortodossa (IV, 13), se "la ricevono degnamente nella fede, per la remissione dei peccati e per la vita eterna".

Analogamente l'autore dei sermoni De sacramentis: "Tutte le volte che tu bevi (di questo calice) ricevi la remissione dei peccati e sei ripieno di Spirito Santo" (V, 17). Nella (antica) formula di oblazione del Missale Romanum manca il riferimento alla "remissione dei peccati": c'è solamente l'augurio in vitam aeternam (per la vita eterna), che compare come aggiunta nella formula bizantina.



(da UVK 16, 1986, 333-338; titolo originale: Die Problematik der Übersetzung "für alle" - Neue Gesichtspunkte im Streit um die Fassung des Kelchwortes. Traduzione italiana di Fabio Marino).


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[1] Cosi è pure per la versione italiana della Bibbia: cfr. La Bibbia concordata, Milano 1982 (Mondadori), vol. III, p. 76 (n.d.r.).

[2] Anche i nuovi Messali italiani hanno sempre " per voi e per tutti " (n.d.r.).



da "Una Voce Notiziario" n° 81-82, 1987, pp. 8-12

sabato 28 gennaio 2012

S.E. Mons. Moraglia, un allievo di Siri a Venezia























di Lorenzo Bertocchi


S.E. Mons. Vincenzo Moraglia, attuale Vescovo di La Spezia, ordinato sacerdote dal Card. Giuseppe Siri, è stato scelto come nuovo Patriarca di Venezia da Papa Benedetto XVI. Riportiamo di seguito ampi stralci del capitolo dedicato al Card. Siri nel libro “Sentinelle nel post-concilio” (Edizioni Cantagalli, 2011).


Da un po’ di tempo nella vita della Chiesa italiana sembra tornato il nome del cardinal Giuseppe Siri. Di lui si parla in convegni, lo ricordano importanti prelati e studiosi, mentre sacerdoti da lui formati e ordinati vengono chiamati a ricoprire posizioni di rilievo. C’è insomma un vero e proprio revival, come se, con qualche tempo di ritardo, si ricoprissero la grandezza e le intuizioni di un uomo che fu universalmente stimato, anche dai molti avversari, per santità di vita e per profondità di dottrina, che ricoprì l’importante carica di presidente della Conferenza Episcopale italiana dal 1959 al 1965, e che fu in due occasioni sul punto di divenire papa. (…)

Siri nasce a Genova, il 20 maggio 1906. Abbracciata la vita sacerdotale, studia a Roma e diviene poi insegnante di teologia dogmatica nel seminario della sua città, nel 1929. Sono anni di forti frizioni tra la Chiesa e il fascismo, tra il suo vescovo, Minoretti, e l’ideologia al potere.

Da giovane sacerdote Siri è già ben cosciente di quanto il fascismo sia incompatibile con la fede, per la sua concezione hegeliana della storia, per il suo nazionalismo e per il suo “panstatismo”. A 38 anni diviene il più giovane vescovo italiano e durante l’occupazione tedesca è costretto a vivere clandestinamente, sull’appennino ligure, ricercato dai tedeschi. Nell’aprile del 1945, dopo aver collaborato con la sua diocesi a soccorrere degli ebrei, procurando loro assistenza e rifugio, è tra coloro che convincono i tedeschi ad abbandonare Genova senza distruggerla, rinunciando a inutili rappresaglie e spargimenti di sangue. Proprio questo suo ruolo, la sua fama di antifascista, le sue grandi opere di carità, anche a favore di reduci e internati, gli ottengono una notevole stima e influenza, presso gli ambienti più diversi.

Ma la caduta del fascismo non pone certo fine alla storia della lotta tra bene e male, come l’ ideologia vorrebbe far credere. C’è, in agguato, il fascino del comunismo, e Siri si trova a vivere in una città particolarmente influenzabile: reagisce mantenendo ferma la barra dell’anticomunismo, cercando la collaborazione degli imprenditori, attentissimo ad essere, nel contempo, il difensore del suo popolo. (…)

Amatissimo da Pio XII, che lo vorrebbe a Roma, come Segretario di Stato, fa di tutto per rimanere nella sua Genova. Nel 1953 viene nominato dal papa cardinale: Siri ha 47 anni ed è il membro più giovane del collegio cardinalizio. (…)

La formazione di Siri è quella solida, romana, tomista: razionalità, prudenza, consapevolezza dei limiti umani e tanta preghiera, per divenire uomini di Dio.

Siri è anche grande amico del cardinal Alfredo Ottaviani, di cui condivide le posizioni, ed è ben lontano dal sentire di alcuni uomini che saranno protagonisti del Concilio, come i cardinali Suenens e Dőpfner, che smaniano per rinnovare la Chiesa, ma che nel contempo pensano di poterlo fare senza l’aiuto di Dio, tanto che chiedono sin dal principio al papa di annullare la Messa prima delle sedute conciliari, per allungare il tempo delle discussioni.

Siri sarà spesso chiamato a consulto dai papi, cui non di rado, con umiltà, esprime il proprio parere, trovandosi anche in disaccordo, come Paolo con Pietro, con Giovanni XXIII, ad esempio sulle persecuzioni a padre Pio, che non comprende, o con Paolo VI, sulle sue aperture politiche (al centro sinistra), e dottrinali.

Il periodo sicuramente più travagliato della sua vita è però quello del Concilio e del post Concilio. Siri è uno dei tanti principi della Chiesa che accolgono con forte contrarietà l’indizione del Concilio: il momento non gli appare opportuno, ed anche l’ottimismo di Giovanni XXIII sui segni dei tempi lo lascia perplesso. “Ho capito poco del discorso del papa- scriverà alludendo all’apertura del concilio e alla celebre frase sui “profeti di sventura”-, in quel poco ho subito avuto modo di fare un grande atto di obbedienza mentale”.

Siri è inoltre indignato per lo spirito di non pochi padri conciliari, per la verbosità dei documenti, in cui gli sembra che alcune proposizioni possano risultare “incerte”, ambigue; per le “pillole democratiche” ingerite dai padri che vogliono limitare l’autorità papale a vantaggio dell’assemblea; per l’avversione incauta di alcuni alla Tradizione; per tante idee sull’ecumenismo che gli sembrano sconfinare nell’indifferentismo e nel sincretismo; per la nuova concezione della “libertà religiosa”, sostituita alla più tradizionale “tolleranza religiosa”. (…)”. Il 19 novembre 1964 Siri arriva addirittura ad affermare che “se la Chiesa non fosse divina questo Concilio l’avrebbe seppellita”. (…)

Abbandonata la presidenza della Cei, rinunciato ai mandati di presidente delle Settimane Sociali dei Cattolici italiani e della Commissione arcivescovile di vigilanza per le Federazioni del Clero, Siri, che disapprova anche la scelta di Paolo VI, nell’aprile 1965, di appoggiare il governo di centro sinistra (che porterà a divorzio ed aborto, di lì a pochi anni), decide di “ritirarsi” nella sua Genova, o meglio nella sua Liguria, dove cerca di fare della propria diocesi un argine, un luogo di resistenza a quelle innovazioni da lui ritenute ingiuste, affrettate o inopportune. Come scrive nel suo Diario, il 20 ottobre 1964, incomincia ad occuparsi di “organizzare la ripresa cattolica dopo il Concilio, cercando di creare un fronte, il quale sia molto netto contro i difetti rivelatisi in Concilio e dal Concilio”.

In verità è sempre più emarginato e il suo tentativo di “veicolare una lettura dei documenti finali del concilio nel segno della massima continuità possibile” e di attingere alla Tradizione laddove il Concilio abbia lasciato ambiguità, confusione o nodi irrisolti, vede l’avversione di buona parte del mondo cattolico, dei teologi e della gerarchia stessa, che marciano agguerriti verso l’aggiornamento permanente, senza accorgersi della crescente anemia del cattolicesimo italiano e mondiale. (…)

…pur emarginato all’interno della gerarchia, insegna ai suoi sacerdoti la bellezza del gregoriano, l’importanza del latino nella liturgia, la necessità di dare all’Eucaristia la giusta centralità; si oppone alla comunione sulle mani, all’ecumenismo come indifferentismo e come dialogo teologico, all’apertura a sinistra, alla crisi della famiglia… E porta avanti una battaglia teologica attraverso la rivista Renovatio, agendo sempre, come ricorda un vecchio collaboratore della rivista suddetta, Piero Vassallo, cercando di coniugare “l’intransigentissima verità con la tollerantissima carità”. (…)

Nel conclave del 1978, quello che segue alla morte di Paolo VI, Siri è protagonista: sembra che abbia sfiorato l’elezione, contendendola da principio al cardinale di Venezia Albino Luciani. Ma la morte prematura di Giovanni Paolo I riporta al voto i cardinali, nello stesso 1978. Siri è dato ancora una volta come papabile, ma stavolta è forse la stampa a bruciare la sua candidatura. (…)

Gli ultimi anni dell’esistenza di Siri sono all’insegna della Tradizione, soprattutto nell’ambito della liturgia, che egli considera “il grande respiro vitale della Chiesa in cui tutti rimangono singoli, ma tutti i singoli diventano uno e hanno il respiro del Cristo…”.

Infatti ordina che nella sua diocesi anche le nuove chiese siano provviste di balaustre; vieta gli altari a forma di semplice tavola; chiede di ricevere la comunione in ginocchio; si oppone alla comunione nelle mani; bandisce le cerimonie interconfessionali e sincretiste…anticipando quindi quel ritorno alla sacralità della liturgia favorito da Benedetto XVI.

Siri lascia la guida della diocesi di Genova nel luglio del 1987: è ormai un emarginato, nella Chiesa, ma è molto amato dal suo popolo e da buona parte del suo clero. Si spegne il 2 maggio 1989.


Libertà e Persona 27 gen 2012

"No" del Consiglio d'Europa all'eutanasia. Commenti di mons. Giordano e Carlo Casini







"Una pagina di riferimento per la difesa della vita e della sua dignità”. Così l’osservatore permanente della Santa Sede presso il Consiglio d’Europa, mons. Aldo Giordano, valuta il “no” all’eutanasia espresso giovedì dall’assemblea del Consiglio d’Europa. Massimiliano Menichetti ha raccolto ili commento del presule:

R. – Ciò che in questo testo è molto positiva è un’affermazione che si è riusciti a introdurre: l’eutanasia intesa come uccisione volontaria per atto, oppure omissione, di un essere umano in condizioni di dipendenza, a suo presunto beneficio, deve essere sempre proibita. Quindi, affronta un problema molto complicato, molto complesso, e anche il testo in questione non è esente da qualche ambiguità. Tuttavia, l’avere inserito chiaramente l'affermazione che l’eutanasia deve essere sempre proibita mi sembra di grande importanza nel contesto giuridico culturale europeo. Per questo, dobbiamo certamente ringraziare i parlamentari che si sono impegnati nel proporre certi emendamenti, di diversi gruppi politici, specialmente del gruppo dei Popolari presieduto dal parlamentare italiano Luca Volontè. Quindi, in questo senso, questa affermazione diventa un riferimento importante per la difesa della vita e per la difesa della dignità della vita.

D. – Un’altra espressione presente è che, in caso di dubbio, bisogna sempre preservare la vita e prolungarla…

R. - Credo che questa affermazione rispecchi una sapienza secolare, un principio della nostra storia. Adesso, abbiamo la speranza che questo testo sia autorevole, sia tenuto in conto per le decisioni che si prendono a livello europeo e a livello nazionale in questo ambito così delicato, così complicato. In particolare, speriamo che questa affermazione che proibisce l’eutanasia sia un riferimento per le corti e anche per la Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo.

D. – Eccellenza, quando si parla di Europa spesso si presenta un’Europa lontana dal cristianesimo, contro la vita. Non sembra, dunque, essere così...

R. – Un altro segnale che esiste è che sta prendendo la parola un’Europa che vuole recuperare con serietà il senso del mistero della vita e anche del mistero della morte e quindi il fatto che noi non possiamo essere proprietari della vita e proprietari della morte, perché sono realtà talmente grandi e talmente misteriose che non possono essere affidate al nostro libero arbitrio. E’ falso citare la libertà per andare contro la vita, per disprezzare la vita o addirittura per eliminare la vita. Questa non è libertà: la libertà è sempre la libertà di rispettare un bene. Interpreto questo come un segnale positivo a livello di cultura, anche di una certa cultura che si ritiene dominante e che invece non lo è: perché quando l’Europa parla, allora è un’Europa nel suo insieme che cerca i valori, cerca il rispetto di ciò che è più importante per l’esistenza degli uomini.

D. – L’auspicio, dunque, è che si stia andando verso un certo risveglio dell’Europa, che va contro il concetto dominante di libertà?

R. – Quando l’Europa più complessa, più ricca, prende la parola, allora c’è un’altra realtà più profonda che viene probabilmente da radici più lontane, che esprimono invece un’altra visione dell’umanità e soprattutto un’altra visione della libertà: cioè, una libertà che fa riferimento a un bene da cercare, a un bello e a un vero, perché sono il bello, il vero, l’amore e il bene che rispondono ai veri desideri dell’uomo. Io sento anche che c’è un po’ di stanchezza e un po’ di tristezza verso una certa cultura che ha dimenticato l’esistenza del bene, del bello e del vero. Si comincia a sentire questa tristezza e ciò forse dà più coraggio alle voci che invece vogliono ritornare a una scoperta o a una nuova scoperta di questa profondità dell’uomo che è radicata seriamente nel Vangelo, nel cristianesimo. (bf)



Di provvedimento molto importante parla anche il presidente del Movimento per la Vita, Carlo Casini, che presenta però alcune ombre. In Italia, rimarca, serve una legge che metta ordine, interpreti correttamente la decisione dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa e freni le derive eutanasiche. Massimiliano Menichetti lo ha intervistato:

R. – Il fatto che si dica in modo formale e solenne ancora una volta – per la verità, in sede assembleare era già successo anche al parlamento europeo, negli anni Novanta – è positivo. Ed è positivo che il voto netto sia il "no" all’eutanasia, sia attiva sia passiva: passiva dovrebbe voler dire anche non fare niente per evitare la morte.

D. – Questo documento contiene però anche delle ombre, perché si parla di testamento biologico, di disposizioni anticipate di trattamento e si chiede agli Stati con forza di allinearsi…

R. – Nella seconda parte, con molta forza si insiste sulla necessità di legiferare sul testamento biologico da parte dei Paesi che ancora non hanno legiferato, equiparando le normative: quindi, disposizione anticipata di trattamento, testamento biologico, nomina permanente di un rappresentante… Insomma, tutte cose che chiedono gli avversari in Italia. L’equiparazione al testamento biologico è assai pericolosa.

D. – In sostanza: un conto è parlare di dichiarazioni anticipate di trattamento, un’altra è parlare di testamento biologico oppure di “direttive”, che è il termine usato dall’Assemblea del Consiglio d’Europa …

R. – Nel caso in cui una persona perda la capacità di intendere e di volere, mancando l’attualità del suo dissenso, non si sa che cosa direbbe se fosse cosciente, e quindi non hanno valore obbligatorio tutte le parole che la persona ha detto prima. Ecco il motivo per cui noi parliamo di “dichiarazioni” anticipate, che hanno anche loro un loro peso ma che non sono vincolanti per il medico, che deve sempre scegliere per la vita. Invece, questo testo – purtroppo – è un testo che nella sua parte finale parla di direttive anticipate (in francese: "directives anticipées"), di testamento biologico e di procure definitive, che implicano un valore vincolante, obbligatorio per il medico anche quando il paziente ha perso la coscienza. Ora, questo è – secondo me – assai pericoloso, perché se non c’è una chiarificazione diventa una spinta ad approvare qualcosa di simile al testamento biologico. In Italia, non poche proposte che chiedono il testamento biologico cominciano con un articolo nel quale si dice: “Noi siamo contro l’eutanasia”. Non basta essere contro l’eutanasia: bisogna anche disciplinare correttamente la situazione in cui un soggetto abbia perso la capacità di intendere e di volere.

D. - Perché altrimenti si dice: “Non siamo contro l’eutanasia”, ma nella sostanza si va in quella direzione…

R. – Nella sostanza, nella condizione in cui il paziente ha perso la conoscenza, le sue dichiarazioni precedenti sono vincolanti per il medico. Se il paziente ha detto: "Non voglio essere curato", bisogna che il medico si adegui, che non lo curi e lo lasci morire. E questa è esattamente una forma di eutanasia passiva ed è certamente grave.

D. – In Italia, si dibatte sulla necessità di una legge che metta ordine. Quali sono i punti principali di una normativa che tuteli la vita e non vada incontro alla morte?

R. – La dichiarazione anticipata di trattamento – è importante la parola "dichiarazione" – non vuol dire "disposizione", questo è il primo punto. La disposizione è un atto di volontà: io voglio che si faccia così. La dichiarazione è, invece, una manifestazione di desiderio: io preferisco, io vorrei, io indico qual è il mio pensiero. Cosa che avviene sempre: quando un malato viene visitato dal medico ed è pienamente cosciente, il medico non impone la cura, ne parla insieme col paziente. Certamente, il medico non può fare niente se il paziente non è d’accordo. Quando il paziente ha perso la coscienza, questo dialogo medico-paziente, che si chiama "alleanza terapeutica", non può più avvenire. Allora, il problema qual è? Noi non sappiamo cosa sarebbe successo se il paziente fosse stato cosciente, se avesse conosciuto la situazione reale nel momento in cui avrebbe dovuto ricevere le cure possibili. Quindi, è giusto tenere in considerazione i desideri espressi dal paziente, ma non debbono essere vincolanti. Allora, la differenza fondamentale tra le dichiarazioni anticipate di trattamento – che secondo il giudizio mio e della stessa Chiesa sono lecite – e il testamento biologico è questa: che il testamento biologico è obbligatorio, quindi ha un effetto vincolante. Se il paziente dice: "Lasciatemi morire, voglio morire", questo è un impegno che va rispettato. Dunque, ciò che fa la differenza è il carattere vincolante o non vincolante per il medico: se il medico mantiene la sua libertà terapeutica oppure no.

D. – Questa risoluzione del Consiglio d’Europa contiene dunque una deriva verso il testamento biologico?

R. – Sì. Tanto più che si parla di direttive anticipate: direttive, non dichiarazioni, che potremmo ancora interpretare come manifestazione di desiderio. Ma le si mettono accanto al testamento biologico senza fare la differenza: questa è l’ombra. Allora noi dobbiamo interpretare questa parola "direttiva" nel senso di dichiarazione anticipata. Ecco perché – insisto – bisogna che questa legge italiana sia presto approvata, in modo da dare un senso positivo anche a questa parte oscura del testo approvato dal Consiglio d’Europa. (gf)

Radio Vaticana

venerdì 27 gennaio 2012

PAPA: IN DIALOGO ECUMENICO NO A FALSO IRENISMO E INDIFFERENTISMO




di Salvatore Izzo



Benedetto XVI ha denunciato oggi il "rischio di un falso irenismo e di un indifferentismo, del tutto alieno alla mente del Concilio Vaticano II, che esige la nostra vigilanza". Parlando alla Congregazione della Dottrina della Fede, il Papa ha lodato i "frutti buoni arrecati dai dialoghi ecumenici", ma ha aggiunto che va diffondndosi al contempo un "indifferentismo causato dalla opinione sempre piu’ diffusa che la verita’ non sarebbe accessibile all’uomo; sarebbe quindi necessario limitarsi a trovare regole per una prassi in grado di migliorare il mondo". "Cosi’ - ha aggiunto - la fede sarebbe sostituita da un moralismo senza fondamento profondo".

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giovedì 26 gennaio 2012

Le monizioni nel Messale di Paolo VI. Alcune considerazioni del card. Joseph Ratzinger



(a cura di Fabio Bertamini)



Un compito «prioritario » oggi, secondo J.Ratzinger, è quello di tornare ad un rito non condizionato dall’arbitrio e dall’inventiva del sacerdote o delle comunità locali. Una celebrazione connotata da elementi soggettivi, infatti, porta inevitabilmente a misconoscere quale sia il vero Soggetto nell’azione liturgica e la natura del culto che è essenzialmente adorazione della Maestà divina.

Il primo passo per superare questo stato di precarietà è quello di prendere coscienza che l’ordinamento della sacra liturgia spetta unicamente all’autorità della Chiesa come ricorda il dettato conciliare al n. 22 della Sacrosanctum Concilium. Il secondo passo, è la necessaria revisione e rettifica di alcune formule presenti nello stesso Messale che tendono a legittimare una certa ambiguità: «sacerdos dicit sic vel simili modo - il sacerdote si rivolge ai fedeli con queste parole o in modo simile…». «Queste formule del Messale uff icializzano in effetti la creatività; il sacerdote si sente quasi obbligato a cambiare un po’ le parole, a dimostrare che egli è creativo, che rende questa liturgia attuale per la sua comunità; e con questa falsa libertà che trasforma la liturgia in una catechesi per questa comunità, si distrugge l’unità liturgica e l’ecclesialità della liturgia». (cf. J. RATZINGER, Opera omnia, XI, pp. 757-758).

Se infarcita di monizioni, la liturgia perde i suoi connotati e si risolve in una didattica sterile dove paradossalmente, il Mistero che si vuole celebrare, rischia di venire oscurato: «Purtroppo si deve dire che nella prassi post-conciliare il carattere di ammaestramento è diventato quasi dappertutto eccessivo, dando alla liturgia addirittura un’impronta scolastica». Ci si è dimenticati che «l’epifania del sacro che si manifesta in segni e parole, è già di per sé “istruzione”». Il Concilio aveva ammonito che i riti dovevano essere per sé chiari e tali di non aver bisogno di molte spiegazioni (cf. Sacrosanctum Concilium, 34).

Lo stesso Concilio «aveva però anche spiegato che si sarebbero potuto inserire nella liturgia delle “ammonizioni” come aiuto alla comprensione. Ma benché avesse raccomandato esplicitamente di essere brevi e di attenersi per lo più ai testi prescritti, ha aperto con ciò una diga dalla quale si sono riversati veri e propri fiumi di parole» (J. RATZINGER, Opera omnia, XI, pp. 779-780).

Ratzinger, inoltre, precisa che «l’accessibilità della liturgia non va confusa con la comprensibilità immediata di ciò che è banale». «E non la si può neppure produrre semplicemente con traduzioni migliori e gesti più comprensibili. La si acquista soltanto mediante un cammino interiore - essa richiede “eruditio”, apertura d’animo, grazie alla quale le dimensioni superiori della ragione si schiudono e si svolge un processo in cui si impara a vedere ed ad ascoltare in modo nuovo (....)».

«La liturgia non può essere trasformata in una lezione di religione e non la si può salvare con la banalizzazione. Ci vuole una formazione liturgica o piuttosto, in generale, una formazione spirituale (...). Gran parte dei cristiani di oggi si trova de facto nello stato catecumenale e noi dobbiamo prendere f inalmente questo dato sul serio nella
prassi» (J. RATZINGER, Opera omnia, XI, p. 783).


Articolo completo su LITURGIA - CULMEN ET FONS
- Dicembre 2011 - Anno 4 n. 4 -

mercoledì 25 gennaio 2012

La liturgia fonte di vita, di preghiera e di catechesi







di don Mauro Gagliardi*

I nn. 1071-1075 del Catechismo della Chiesa Cattolica (CCC) trattano della sacra liturgia in quanto fonte di vita, nonché della sua relazione con la preghiera e con la catechesi. La liturgia è fonte di vita innanzitutto perché è «opera di Cristo» (CCC, 1071). In secondo luogo, perché «è anche un’azione della sua Chiesa» (ibid.). Ma, tra questi due aspetti, qual è quello preminente? E inoltre, cosa significa in questo contesto la parola «vita»?

Risponde il Concilio Vaticano II: «Dalla liturgia, dunque, e particolarmente dall’Eucaristia, deriva in noi, come da una fonte, la grazia, e si ottiene con la massima efficacia quella santificazione degli uomini in Cristo e quella glorificazione di Dio, alla quale tendono, come a loro fine, tutte le altre attività della Chiesa» (Sacrosanctum Concilium [SC], 10). Si comprende così che, quando si chiama la liturgia fonte di vita, si intende dire che da essa sgorga la grazia. Con questo, si è già risposto anche alla prima domanda: la liturgia è fonte di vita principalmente perché è opera di Cristo, Autore della grazia.

Un principio classico del cattolicesimo, tuttavia, afferma che la grazia non toglie la natura, bensì la suppone e la perfeziona (cf. san Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I, 1, 8 ad 2 ecc.). Perciò anche l’uomo coopera al culto liturgico, che è azione sacerdotale del «Cristo tutto intero», ossia il Capo, che è Gesù, e le membra, che sono i battezzati. Così la liturgia è fonte di vita anche in quanto azione della Chiesa. Proprio in quanto opera di Cristo e della Chiesa, la liturgia è «azione sacra per eccellenza» (SC, 7), dona ai fedeli la vita di Cristo e richiede la loro partecipazione consapevole, attiva e fruttuosa (cf. SC, 11). Qui si comprende anche il legame della sacra liturgia con la vita di fede: potremmo dire «dalla Vita alla vita». La grazia che ci è donata da Cristo nella liturgia chiama ad un coinvolgimento vitale: «La sacra liturgia non esaurisce tutta l’azione della Chiesa» (SC, 9), infatti «essa deve essere preceduta dall’evangelizzazione, dalla fede e dalla conversione; allora è in grado di portare i suoi frutti nella vita dei fedeli» (CCC, 1072).

Non a caso, al momento di raccogliere gli scritti liturgici di J. Ratzinger in un unico volume, dal titolo Teologia della liturgia, si è pensato di esprimere una delle intuizioni fondamentali dell’autore aggiungendo il sottotitolo: La fondazione sacramentale dell’esistenza cristiana. È una traduzione in termini teologici di ciò che Gesù ha detto nel Vangelo con le parole: «Senza di me, non potete fare nulla» (Gv 15,5). Nella sacra liturgia noi riceviamo il dono di quella vita divina di Cristo senza la quale non possiamo fare nulla di valido per la salvezza. Perciò la vita del cristiano non è altro che una continuazione, o il frutto, della grazia che si riceve nel culto divino, in particolare in quello eucaristico.

In secondo luogo, la liturgia ha una stretta relazione con la preghiera. Di nuovo, il fulcro di comprensione di questo rapporto è il Signore: «La liturgia è anche partecipazione alla preghiera di Cristo, rivolta al Padre nello Spirito Santo. In essa ogni preghiera cristiana trova la sua sorgente e il suo termine» (CCC, 1073). La liturgia è dunque anche fonte di preghiera. Da essa impariamo a pregare nel modo giusto.

Siccome la liturgia è la preghiera sacerdotale di Gesù, cosa possiamo imparare da essa per la nostra preghiera personale? In cosa consisteva la preghiera del Signore? «Per comprendere Gesù sono fondamentali gli accenni ricorrenti al fatto che Egli si ritirava “sul monte” e lì pregava per notti intere, “da solo” con il Padre. [...] Questo “pregare” di Gesù è il parlare del Figlio con il Padre in cui vengono coinvolte la coscienza e la volontà umane, l’anima umana di Gesù, di modo che la “preghiera” dell’uomo possa divenire partecipazione alla comunione del Figlio con il Padre» (J. Ratzinger/Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, I, Rizzoli, Milano 2007, pp. 27-28). In Gesù, la preghiera “personale” non è distinta dalla sua preghiera sacerdotale: secondo la Lettera agli Ebrei, la preghiera sofferta di Gesù durante la Passione «costituisce la messa in atto del sommo sacerdozio di Gesù. Proprio nel suo gridare, piangere e pregare Gesù fa ciò che è proprio del sommo sacerdote: Egli porta il travaglio dell’essere uomini in alto verso Dio. Porta l’uomo davanti a Dio» (ibid., II, LEV, Città del Vaticano 2010, p. 184).

In una parola, la preghiera di Gesù è una preghiera di colloquio, una preghiera svolta alla presenza di Dio. Gesù ci insegna questo tipo di preghiera: «È necessario tenere sempre desta questa relazione e ricondurvi in continuazione gli avvenimenti quotidiani. Pregheremo tanto meglio quanto più nel profondo della nostra anima è presente l’orientamento verso Dio» (ibid., I, p. 159). La liturgia, dunque, ci insegna a pregare perché ci riorienta costantemente verso Dio: «In alto i nostri cuori – sono rivolti al Signore!». La preghiera è essere rivolti al Signore – e questo è anche il senso profondo della partecipazione attiva alla liturgia.

Infine, la preghiera è «luogo privilegiato della catechesi [...] in quanto procede dal visibile all’invisibile» (CCC, 1074-1075). Ciò implica che i testi, i segni, i riti, i gesti e gli elementi ornamentali della liturgia devono essere tali da trasmettere davvero il Mistero che significano e possano così essere utilmente spiegati all’interno della catechesi mistagogica.



*Don Mauro Gagliardi è Professore ordinario presso l’Ateneo Pontificio “Regina Apostolorum”, Professore incaricato presso l’Università Europea di Roma, Consultore dell’Ufficio delle Celebrazioni Liturgiche del Sommo Pontefice e della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti.


ZENIT - 25 gennaio 2012

L'eloquenza dei segni




In questo blog [Traditio Liturgica] ho spesso segnalato come il linguaggio nella liturgia sia importante e nulla è affidato al caso.

L'orientamento tradizionale, quello "conservatore" e, infine, quello "progressista" sono ben riconoscibili e ognuno ha un messaggio differente da dare.

Inutile rimarcare che nella liturgia cristiana ha senso solo l'orientamento tradizionale, dal momento che gli altri due alla fine non sono che un "gioco" con la realtà del sacro, per quanto motivato da vari ragioni più o meno apparentemente sostenibili e serie.

Nella foto ho voluto porre un esempio di disposizione "progressista" che obbedisce, nello specifico, ai bisogni di un particolare movimento cattolico. Soluzioni simili, però, si possono trovare anche in altri ambiti ecclesiali cattolici.

La mia analisi vuole aiutare i lettori ad "interpretare" il messaggio che si riceve quando si entra in un tempio.

Osservando la foto, l'insieme dona apparentemente una certa sensazione di eleganza e armonia. Dobbiamo notare, tuttavia, molti elementi anti-tradizionali che finiscono per infondere inquietudine.

1) L'assenza di presbiterio. Qui non esiste un luogo "eletto" dove vengono celebrati i divini misteri. La presenza dei laici è ovunque e si mescola e confonde con quella dei chierici. Laici e chierici circondano, dunque, la mensa sulla quale si celebra l'Eucarestia. Questo è un elemento talmente contrario alla tradizione che, perfino nella basilica di Aquileia (IV secolo), nell'aula in cui si celebravano i divini misteri, gli spazi tra chierici e laici erano distinti e ben delimitati. Ancora oggi esiste, tra i mosaici, il segno lasciato dalle balaustre di legno che separavano presibiterio da navata.

Questo non vuole solo evidenziare funzioni diverse, ma sottolineare aree con simbologie differenti. Purtroppo oggi tutto ciò sfugge, visto che non si conoscono più le antiche mistagogie patristiche.

2) La mensa sulla quale si celebra l'Eucarestia non è un il luogo più elevato, al punto che chi si trova nel cerchio di sedili più periferici sta più in alto. Questa scelta è contraria a quella tradizionale per cui l'altare rappresenta il "monte elevato" verso il quale convergono gli occhi di TUTTI gli astanti. Qui quanto viene celebrato sembra sgorgare dal basso, non scendere come dono dall'alto. La scelta differente dei simboli non è mai lasciata al caso ed è una muta permanente catechesi!

3) La mensa dell'Eucarestia non pare essere un vero altare. Ad esso mancano tovaglie, candelieri, croce. Tutto fa pensare che si tratta di un supporto utile alla celebrazione e nulla più. Si perde, dunque, il valore pregnante dell'altare (come ho specificato in un altra discussione).

4) Le grandi iconografie di sfondo utilizzano un linguaggio cromatico alterato. Un esempio: il nero in luogo del blu o del verde. Anche la scelta del nero, nell'universo dell'iconografia, non è indifferente; rappresenta qualcosa di nichilistico, di tombale. Inoltre, tali iconografie travisano il vero significato dell'icona che, in Oriente, è sempre una finestra aperta all'infinito, da incontrare e baciare, non da porre sulla testa di tutti con dimensioni esagerate. Qui l'icona si trasforma da elemento simbolico, a puro arredo estetico.

Per questo genere di caratteristiche, tale luogo come altri di simile genere, è totalmente inadatto alla celebrazione di un culto tradizionale (che sia latino, bizantino, copto o altro).

Trattasi di una realizzazione in palese rottura con tutto il mondo liturgico precedente. La rottura, d'altronde, non ha mai contraddistinto la Chiesa, animata da sempre da venerazione per le tradizioni, bensì quanto le è contrario.


Fonte: Traditio Liturgica 24 gennaio 2012

martedì 24 gennaio 2012

LA DOLCEZZA VERSO IL PROSSIMO E IL RIMEDIO CONTRO L’IRA







di San Francesco di Sales, (Filotea, Capitolo VIII)

Il sacro crisma che, per tradizione apostolica, la Chiesa usa nelle confermazioni e nelle benedizioni, è composto di olio di oliva e balsamo: questi due elementi ricordano, tra l’altro, le due meravigliose virtù che risplendevano in modo particolare nella persona di Nostro Signore. Egli ce le ha raccomandate personalmente, quasi che, per mezzo di esse soltanto, il nostro cuore possa essere consacrato al suo servizio e trascinato ad imitarlo: Imparate da me, dice, che sono mite e umile di cuore.

L’umiltà ci fa crescere in perfezione davanti a Dio e la dolcezza davanti al prossimo. Il balsamo che, come ho detto sopra, scende sempre a fondo, raffigura l’umiltà, e l’olio di oliva, che rimane sempre in superficie, raffigura la dolcezza e la bonomia, che superano tutte le virtù ed eccellono quali splendidi fiori della carità che, stando a s. Bernardo, raggiunge la perfezione quando non è soltanto paziente, ma anche dolce e affabile.

Fa attenzione, Filotea: questo mistico crisma composto di dolcezza e di umiltà deve trovarsi dentro al tuo cuore; l’abile inganno del nemico, infatti, è quello di far sì che molti si fermino alle parole ed agli atteggiamenti esterni di queste due virtù, per cui, nella loro imperdonabile superficialità, pensano di essere umili e dolci, mentre non lo sono affatto; e si tradiscono perché, nonostante la loro cerimoniosa dolcezza e umiltà, alla minima parola leggermente scortese, alla più piccola ingiuria, scattano con un’arroganza inaspettata.

Si dice che coloro i quali si sono immunizzati per mezzo del controveleno chiamato comunemente "la grazia di S. Paolo", se vengono punti o morsicati d una vipera, non si gonfiano, a condizione che "la grazia" fosse di prima qualità. Quando l’umiltà e la dolcezza sono vere e sincere capita la stessa cosa: ci difendono dal gonfiore e dal bruciore che le ingiurie abitualmente provocano nei nostri cuori. Ne consegue che se reagisci mostrandoti orgogliosa, gonfia d’ira, indispettita, allorché sei punta e morsicata dalle male lingue, vuole dire che la tua umiltà e la tua dolcezza non sono profonde e sincere ma soltanto superficiali ed epidermiche.

Il santo ed illustre Patriarca Giuseppe, quando dall’Egitto rispedì i fratelli a casa del padre, diede loro un consiglio: Per via, non adiratevi.
A te dico la stessa cosa, Filotea. Questa vita terrena è soltanto un cammino versa quella beata, non adiriamoci dunque per la strada gli uni contro gli altri; camminiamo tranquillamente e in pace con i fratelli e i compagni di viaggio.
Con chiarezza, e senza eccezioni, ti dico: Se ti è possibile, non inquietarti affatto, non deve esistere alcun pretesto perché tu apra la porta del cuore all’ira. S. Giacomo, senza tanti giri di parole, dice chiaramente: L’ira dell’uomo non opera la giustizia di Dio.

Bisogna resistere seriamente al male e reprimere i vizi di coloro di cui abbiamo la responsabilità, con costanza e con decisione, ma sempre con dolcezza e serenità. Niente calma un elefante infuriato come la vista di un agnellino e nulla attenua la violenza delle cannonate come la lana.

La correzione dettata dalla passione, anche quando ha basi ragionevoli, ha molto meno efficacia di quella che viene unicamente dalla ragione; questo perché l’anima ragionevole sa cedere alla ragione, ma rifiuta di piegarsi alla passione ed alla tirannia. Di modo che la ragione accompagnata dalla passione è odiosa, perché la sua giusta autorità è avvilita dall’alleanza con la tirannia.

I Principi, quando fanno visita con un seguito di pace, onorano e danno gioia ai popoli; ma quando arrivano con i soldati, anche se è per il bene pubblico, la loro visita è sempre sgradita e apportatrice di danni; perché, anche qualora riescano a far osservare rigorosamente la disciplina ai loro soldati, non potranno mai riuscire ad impedire che scoppi qualche disordine, in cui il civile ha la peggio e viene oppresso.

Allo stesso modo, quando domina la ragione e distribuisce pacificamente castighi, correzioni, rimproveri, anche se lo fa con rigore e severità, tutti le vogliono bene ugualmente e approvano il suo operato; ma se porta con sé l’ira, la collera, la stizza, che, dice S. Agostino, sono i suoi soldati, da amabile diventa piuttosto temibile e il cuore ne esce sempre maltrattato e calpestato. Dice sempre S. Agostino, scrivendo a Profuturo: E’ meglio chiudere la porta all’ira giusta e imparziale, anche se di minime proporzioni, perché, una volta entrata, è molto difficile farla uscire, poiché entra come un piccolo germoglio, e in brevissimo tempo, cresce e diventa un albero.

Che se poi giunge fino alla notte e il sole tramonta sulla nostra ira, ciò che l’Apostolo proibisce, si tramuta in odio e non te ne liberi più. Perché essa si nutre di mille false convinzioni. Non si è mai trovato un uomo adirato il quale fosse convinto che la sua ira era ingiusta.

Meglio imparare a vivere senza collera, che volersi servire con moderazione e saggezza della collera, e quando, a causa della nostra imperfezione e debolezza, ci coglie di sorpresa, è meglio respingerla immediatamente che voler entrare in trattativa con essa. E sai perché? Per poco che tu le conceda, diventa subito padrona della piazza e fa come il serpente che, dove riesce a far passare la testa, fa passare tutto il corpo.

Ma come faccio a respingerla? Dirai. Semplicissimo, ti rispondo. Al primo allarme raccogli tutte le tue forze, non con precipitazione e violenza, ma con dolcezza, tuttavia con serio impegno. Hai notato quello che accade nelle sedute di molti senati e parlamenti? Gli uscieri che gridano: zitti là o zitti qui, fanno più confusione di quelli che vorrebbero far tacere. Allo stesso modo, può capitarci che quando con forza vogliamo reprimere la collera, provochiamo più agitazione nel nostro cuore di quanta non ne avrebbe causata la collera; il cuore così agitato non riesce più ad essere padrone di se stesso.

Dopo questo sforzo compiuto con calma, segui il consiglio che S. Agostino, già vecchio, diede al giovane Vescovo Ausilio: Fa ciò che deve fare un uomo; e se ti capita ciò che l’uomo di Dio dice nel Salmo: Il mio occhio è turbato da grande collera, ricorri a Dio e grida: Abbi misericordia di me, Signore; e così egli stenderà la sua mano destra e reprimerà la tua collera.

Voglio dire che bisogna invocare l’aiuto di Dio, quando ci sentiamo agitati dalla collera, ad imitazione degli Apostoli, sballottati sul mare dal vento e dalla tempesta: comanderà alle nostre passioni e subentrerà una grande calma. Ma non mi stancherò mai di ripeterti che l’orazione che si fa contro la collera in atto che ci sta travolgendo, deve essere fatta con dolcezza, tranquillità, non con violenza. E’ una norma generale per tutti i rimedi contro questo male.

Di più, appena ti accorgi che ti sei lasciata andare a qualche atto di collera, rimedia con un atto di dolcezza, nei confronti della stessa persona con cui ti sei irritata.

Rimedio sovrano contro la menzogna, è correggerla subito, appena uno
si accorge di averla detta; per la collera bisogna agire nello stesso modo: appena ti accorgi di esserci caduta, ripara subito con un atto contrario di dolcezza. C’è un detto che fa al caso nostro: la piaga recente si cura meglio.

Fa qualche cosa di più: quando sei calma e senza alcun motivo di collera, fa rifornimento di dolcezza e di affabilità, parlando e agendo, nelle tue azioni piccole e grandi, nel modo più cortese che ti sarà possibile, ricordandoti che la Sposa, nel Cantico dei Cantici, non soltanto ha il miele sulle labbra e sulla lingua, ma anche nel petto, ove non c’è soltanto miele, ma anche latte. Perché non basta avere la parola dolce nei confronti del prossimo, bisogna averla anche nel petto, ossia nell’intimo della nostra anima. Non basta nemmeno avere la dolcezza del miele, che è aromatico e profumato, e raffigura la dolcezza della conversazione educata con gli estranei, ma bisogna avere anche la dolcezza del latte verso i familiari e i vicini: in questo mancano seriamente quelli che sono angeli per la strada e diavoli in casa.

La croce, l'altare ed il modo giusto di pregare









Un richiamo ai rituali e alle rubriche del passato che mantengono ancor oggi il loro significato


di p. Stefan Heid

Nella basilica di San Pietro in Vaticano e nelle basiliche pontificie di Roma (un tempo chiamate "basiliche patriarcali"), è entrata recentemente in vigore la norma di installare una croce al centro di ogni altare maggiore o altare mobile. Non si specifica il tipo e la dimensione della croce. In genere, la norma è stata ben applicata: una grande croce con il Gesù crocifisso installata di fronte al celebrante, in modo che egli sia in grado di osservarlo. Tale norma, che regola una realtà che dovrebbe essere scontata, può invece sorprendere. Da molti anni infatti a Roma era invalsa la cattiva abitudine di spostare la croce all'angolo dell'altare, così da non "disturbare", facilitando una liturgia più "televisiva", soprattutto per le Messe papali.

La croce è il punto focale della salvezza e dell'azione liturgica, deve armonizzarsi in stile e proporzione con l'altare e mai essere piccola. La croce deve disturbare! Il sacerdote non può guardarla "di sfuggita"! Talvolta si obietta che la croce crea una barriera tra il clero e il popolo, qualcosa di simile a una iconostasis (quella parete di icone nelle chiese di rito orientale che separa la navata dal presbiterio). Ma è un argomento specioso, visto che neanche l'enorme croce nella Basilica di San Pietro impedisce di vedere l'altare. Dopo tutto, sono pochissime quelle chiese in cui i fedeli stanno immediatamente dinanzi all'altare; è più comune che vedano l'altare da una prospettiva laterale, guardando il celebrante al di là della croce. Inoltre, più in alto sta la croce, meno probabile sarà che ostacoli la vista alla gente, divenendo per tutti un forte richiamo spirituale (se è veramente posta in alto). Infine, si obietta ancora che una croce d'altare crea un raddoppio di crocifissi, nel caso in cui una croce sia già sospesa sopra l'altare o dietro all'altare. Ma la croce sull'altare con Gesù crocifisso sta davanti al sacerdote, mentre i fedeli guardano la croce sopra l'altare.

Non c'è dubbio che ci saranno dei contrasti nelle commissioni liturgiche quando i parroci, scegliendo di seguire la tradizione romana, cominceranno a tirar fuori dagli armadi le croci d'altare. Prevedendo reazioni affrettate nelle future polemiche, vorremmo definire il contesto più ampio del dibattito. Ci sono diverse pratiche liturgiche che sono scomparse da secoli, ma se non si studiano attentamente quei rituali, potrebbe benissimo succedere che perfino la più bella delle direttive liturgiche si ridurrebbe a formalismo insignificante.

L'azione sacrificale dell'Eucaristia ha luogo sull'altare all'interno di una continua corrente di preghiera: dalla orazione sui doni, attraverso la Preghiera Eucaristica, fino al Padre Nostro. A questo riguardo, l'azione eucaristica è notevolmente diversa dalla Liturgia della Parola che la precede. L'ambone, di per sé, non è un luogo di preghiera; l'orazione d'ingresso è più appropriata alla sede del celebrante. Nell'usus antiquior, il sacerdote sta sempre in piedi all'altare e quasi sempre in preghiera! Le preghiere silenziose non sono né private né semplici riempitivi (horror vacui= paura del vuoto), piuttosto fanno dell'altare un luogo di incessante preghiera.

Una volta riconosciuto questo aspetto, si comprende che il sacerdote assume sull'altare un atteggiamento o forma mentis ben diversi da ogni altro evento quotidiano. Qui sta, innanzitutto, come uno che prega. Tutti i cristiani riconoscono questa postura orante ben distinta, nella quale il sacerdote alza le mani e gli occhi. Alzare gli occhi e le mani al cielo sono gesti che risalgono alla primitiva preghiera cristiana, la stessa che praticava Gesù nella tradizione ebraica. Anche lo stare in piedi fa parte di tale tradizione, è la postura fondamentale per pregare; come pure il levare gli occhi e le mani stando in ginocchio, si ritrova nella primitiva cristianità. Fin dal Medio Evo però, questa postura per l'orazione, con mani e occhi levati in alto, si è alquanto affievolita. Attualmente, soltanto il sacerdote alza le mani (e gli occhi solo per brevissimi attimi) in quanto legge le preghiere. Guarda verso l'alto, ad esempio, nel Canone Romano al momento della consacrazione, pronunciando le parole: "et elevatis oculis in coelum". Pertanto, Gesù inaugura l'Eucaristia "alzando gli occhi al cielo".

Anche nell'ordo novus, la rubrica a questo punto recita: "Il celebrante alza gli occhi". Ma dove esattamente il sacerdote deve guardare, al soffitto della chiesa? Per cui, quando il celebrante, a quel punto della preghiera, ha il dovere di guardare verso l'alto, invece che fissare uno spazio vuoto, lo rivolge al punto focale più naturale: la grande croce sull'altare maggiore.

Ovviamente, la croce sull'altare dinanzi al sacerdote non serve solo per isolati momenti, ma ha uno scopo più generale: egli sta in piedi all'altare in incessante preghiera verso Dio, guardando fisso il Figlio di Dio, attraverso il quale indirizza ogni sua invocazione e ogni sua parola di lode.

Per il fatto che Dio è creatore, il mondo non è caotico, ma un universo divinamente plasmato e provvidenzialmente ordinato. Esiste un "lassù" e un "quaggiù", o in termini scritturistici, il cielo è il suo trono e la terra sgabello ai suoi piedi. Già i primi Padri della Chiesa osservavano che i cristiani stanno eretti nel pregare da libere creature di Dio, tenendo alta la testa e guardando in alto verso Colui che guarda in basso verso di loro dal suo trono celeste. Pregare è conversare con Dio. Non è educato non guardare la persona con cui stiamo dialogando. L'atto di guardare in alto quando preghiamo è, perciò, espressione dell'intera teologia della creazione sia del Vecchio che del Nuovo Testamento.

L'uomo peccatore tenta di nascondersi da Dio, come Adamo ed Eva si nascondevano dietro ai cespugli. L'uomo redento, invece, non abbassa più la testa per la vergogna, libero e felice egli può guardare Dio in faccia, e osare dire: "Padre Nostro, che sei nei cieli". Egli osa perché Gesù Cristo è veramente Dio in sostanza, lui solo può dire "Padre", mentre noi, mediante la grazia, possiamo godere della stessa relazione, invitati così a questo atto di filiale fiducia. Noi siamo solo creature, ma i battezzati sono creature privilegiate perché, uomini e donne, siamo in Cristo gli amati figli e figlie dello stesso Padre celeste.

Era proprio questo che la Chiesa primitiva voleva manifestare con la postura orante che aveva adottato. Quando parliamo con Dio nella preghiera, abbracciamo la nostra identità filiale. Ma dal momento che nello spazio fisico della chiesa, lo sguardo verso il trono di Dio era bloccato dalle pareti, si fece di tutto per aprire una via virtuale di visione del cielo. L'abside venne spesso dipinta o arricchita di mosaici, riservando una zona del dipinto al cielo stellato. Ciò spalancò il soffitto della chiesa verso il cielo.

I sacerdoti e i fedeli, pregando, potevano così alzare lo sguardo verso l'abside e vedere il cielo, per così dire. Lo sguardo dei fedeli non era più incentrato sull'altare e sul celebrante, ma al di sopra di essi. L'edificio stesso della chiesa doveva sempre essere "orientato" ad oriente a questa arte celeste così luminosamente dipinta. L'orientamento geografico verso oriente, in quanto tale, era di secondaria importanza.

Fu chiaro fin dall'inizio che la preghiera cristiana non era diretta solo verso Dio, ma al Padre celeste attraverso Gesù Cristo. E' precisamente in questo contesto che la croce diventa il punto focale. Perciò, nella Chiesa primitiva non soltanto il cielo ma anche la croce veniva dipinta sull'abside, o per lo meno collocata in un punto elevato dell'abside. Nessuno quindi, pregando, poteva fare a meno di guardare la croce. L'esempio più eloquente di tale disposizione lo abbiamo nell'abside della chiesa di Sant'Apollinare in Classe a Ravenna, risalente al VI secolo.

La consuetudine della Chiesa di porre sull'altare una croce elevata, cosa normale fino a qualche decennio fa, era ben fondata sia liturgicamente che teologicamente. Anche dopo il Concilio Vaticano II, non vi era alcuna buona ragione di relegare i crocifissi agli altari laterali usati sempre più raramente. L'altare è il luogo della preghiera: la croce ne fa parte, tanto più quando è all'altare maggiore. E' il luogo in cui si alzano le mani, la mente e gli occhi per "guardare colui che hanno trafitto". Lì, il cielo si aprì allorquando le tenebre coprirono la terra: il Sole di Giustizia sulla croce fu innalzato al centro della terra, trasformando le nostre tenebre in luce.

Nella miriade di pubblicazioni sulla postura della preghiera, raramente si trovano riferimenti alle mani alzate. Gli autori ritengono sempre che la prima postura dei "normali" credenti, quando pregano, sia quella di congiungere le mani. In effetti, tenere le mani giunte è una pratica antica di parecchi secoli. Eppure, si tace sempre che la "vera" postura di preghiera (ancor oggi) è quella del sacerdote quando celebra la Messa. Ogni volta che egli dice: "Preghiamo", alza le braccia appena inizia a recitare l'orazione. Nella Chiesa primitiva e in quella medievale, quando il sacerdote annunciava: "Preghiamo", l'assemblea si alzava in piedi e levava in alto le braccia. Nei tempi moderni, invece, le posture di preghiera di celebrante e fedeli divergono; infatti, essi si inginocchiano o rimangono in piedi congiungendo le mani. Così la primitiva postura cristiana di preghiera, mani e occhi rivolti al cielo, è stata completamente dimenticata, e non la si capisce nemmeno più come gesto di preghiera, anzi la si considera un rituale di origine oscura riservato ai sacerdoti.

Tale grande divergenza e discontinuità della pratica non aiuta i fedeli a capire il significato delle mani alzate del sacerdote e cosa ha a che fare questo con la preghiera, soprattutto quando l'assemblea non usa tale postura. Gli stessi sacerdoti sembrano non avere alcuna idea del perché fanno quello che fanno, dal momento che ognuno lo fa in modo diverso. Attualmente, non c'è una pratica concorde sulla postura di preghiera. A me pare che qui manchi qualcosa. Dopo tutto, la fede cristiana, a motivo dell'Incarnazione, ha un rapporto molto più stretto e più consapevole con il corpo di qualsiasi altra religione. La preghiera non è mera interiorità, ma si deve incarnare in particolari posture.

La cosa più importante a tale riguardo è quella che abbiamo trattato a proposito dell'alzare lo sguardo. I primi cristiani sottolineavano in modo esplicito che l'uomo non è come gli animali che camminano a quattro zampe; l'uomo sta in posizione eretta e, in un certo senso, si avvicina al cielo con la struttura del proprio corpo. L'uomo può riconoscere Dio e parlargli, ecco perché sta eretto, alza le braccia e gli occhi al cielo. Chiunque prega dovrebbe adottare questa postura, non solo il prete.

I cristiani assunsero quella comune postura di preghiera dalla tarda antichità, rimarcando ancora più fortemente la sua continuità. Anche per essi Dio era in cielo. Naturalmente, per loro c'era un solo Dio che ha creato il cielo e la terra. Ma l'accettazione dei cristiani di tale postura di preghiera, che era comune sia agli ebrei che ai pagani, è stata assoluta. Per essi era importante alzare gli occhi e le mani, perché Dio ha il suo trono in cielo.

Ancora più importante è un'altra pratica che i cristiani adottarono dall'antichità: la purificazione delle mani. Lavare le mani e il viso prima del rituale di preghiera, non è un'invenzione dei musulmani. I credenti islamici la adottarono nel VII secolo basandosi sulle pratiche degli oranti cristiani. I cristiani infatti si lavavano almeno le mani prima di pregare. Sul sagrato delle chiese c'era una fontana d'acqua proprio per tale scopo. Nell'atrio di San Pietro a Roma, c'era la famosa fontana di pietra a forma di pino. Su un sarcofago ravennate è raffigurato il catino per l'acqua delle abluzioni: un cantharus (catino profondo) adornato di pavoni.

Il lavacro determinava un atteggiamento di purità ed integrità nella preghiera. Le mani dovevano essere pure proprio perché venivano alzate al cielo durante l'orazione. Il credente voleva essere visto da Dio, per cui chi pregava, mostrava le sue mani monde come segno che non erano macchiate di sangue. Per i cristiani, le mani monde erano l'espressione che si entrava alla presenza di Dio con una coscienza pura. "Chi ha mani innocenti e cuore puro" (Salmo 24,4) può salire la montagna del Signore, recitava un salmo cantato da coloro che si recavano pellegrini al tempio di Gerusalemme.

Ciò spiega questa postura di preghiera nella Chiesa primitiva: si tenevano le mani relativamente vicine al volto con le palme verso l'esterno, come è ancora in uso oggi nel rito domenicano. Era come dire: "Ecco, o Dio, guarda le mie mani! Non vi sono tracce di sangue né d'ingiustizia su di esse. E solo così, io oso pregare e levare la mia voce fino a Te". San Giovanni Crisostomo diceva ai suoi fedeli che non era sufficiente alzare mani pure verso Dio, perché le mani devono essere anche rese sante con le opere di carità. Ecco perché sul sagrato della chiesa, non solo si andava alla fontana per lavarsi le mani, ma si coglieva l'occasione per fare l'elemosina ai poveri che stazionavano sul sagrato.

Il rituale dell'abluzione delle mani, un tempo praticato da tutti i fedeli, oggi lo compie soltanto il sacerdote prima della Preghiera Eucaristica. I fedeli laici non si lavano più le mani perché non le alzano più quando pregano. In sostituzione, si benedicono con l'acqua santa entrando in chiesa, facendo così memoria del proprio battesimo.

I rituali del passato mantengono il loro significato anche oggi. La preghiera cristiana presuppone "mani pure". Chi pecca contro il prossimo pecca anche contro Dio, e se rifiuta di riconciliarsi, non deve accostarsi all'altare di Dio. L'atto di fede non cancella automaticamente tutti i peccati passati e futuri. Le nostre azioni e comportamenti peccaminosi creano degli ostacoli sul nostro cammino verso Dio, e indeboliscono l'efficacia della nostra preghiera.

Il sacerdote fa memoria della propria inadeguatezza ogni volta che alza le mani. Questo gesto rituale deve provocare nel suo spirito un serio esame di coscienza: tu solo puoi alzare le mani in preghiera; ne sei degno? Hai fatto tutto ciò che è in tuo potere, con mani pure e trasparenza di spirito, per arrivare davanti a Dio e portargli i doni e le preghiere del popolo?





fonte: Homiletic & pastoral review, 01/01/2012
http://www.hprweb.com/2012/01/cross-altar-and-the-right-way-of-praying/

trad. it. a cura di d. Giorgio Rizzieri