martedì 31 maggio 2011

Avviso ai fedeli della Messa in latino a Pistoia




Avviso
DAL MESE DI GIUGNO La Santa Messa
nella forma straordinaria del Rito Romano



sarà celebrata nella chiesa di
Sant’Ignazio di Loyola (anzichè alla Madonna del Carmine)

in piazza dello Spirito Santo, Pistoia


Tutti i sabati - ore 18,30


Io sono il Pane vivo disceso dal Cielo



Chi mangia il Corpo di Cristo e beve il suo Sangue dimora in Lui, ma chi si accosta all'eucaristica Mensa indegnamente mangia e beve la propria condanna. Se la santa Comunione assimila a Cristo, essa esige uniformità di vita a Colui che si è fatto obbediente fino alla morte. Certamente chi mangia di Cristo "morrà della morte temporale: ma vivrà in eterno, perché Cristo è la vita eterna”.



dai Padri della Chiesa
Commento al Vangelo di San Giovanni - OM 26 - di S. Agostino


Quando nostro Signore Gesù Cristo affermò di essere lui il pane disceso dal cielo, i Giudei cominciarono a mormorare dicendo: «Ma non è costui Gesù, il Figlio di Giuseppe, del quale conosciamo il padre e la madre? Come può dire dunque: Sono disceso dal cielo?» (Gv 6,42). Essi erano lontani da quel pane celeste, ed erano incapaci di sentirne la fame. Avevano la bocca del cuore malata; avevano le orecchie aperte ma erano sordi, vedevano ma erano ciechi. Infatti, questo pane richiede la fame dell'uomo interiore; per cui in altro luogo il Signore dice: «Beati quelli che hanno fame e sete di giustizia, poiché essi saranno saziati» (Mt 5,6). E l'apostolo Paolo dice che la nostra giustizia è Cristo (cf 1 Cor 1,30). Perciò chi ha fame di questo pane, deve sentir fame di giustizia: ma della giustizia che discende dal cielo, della giustizia che Iddio dà, non di quella che l’uomo si fa da sé.

[…] Il Signore, che avrebbe donato lo Spirito Santo, affermò di essere il pane che discende dal cielo, esortandoci a credere in lui. Mangiare il pane vivo, infatti, significa credere in lui. Chi crede, mangia; in modo invisibile è saziato, come in modo altrettanto invisibile rinasce. Egli rinasce di dentro, nel suo intimo diventa un uomo nuovo. Dove viene rinnovellato, lì viene saziato.

[ ... ] «Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue, dimora in me ed io in lui» (Gv 6,57). Mangiare questo cibo e bere questa bevanda vuol dire dimorare in Cristo e avere Cristo sempre in noi. Colui invece che non dimora in Cristo, e nel quale Cristo non dimora, né mangia la sua carne né beve il suo sangue, ma mangia e beve a propria condanna un così sublime sacramento, essendosi accostato col cuore immondo ai misteri di Cristo, che sono ricevuti degnamente solo da chi è puro; come quelli di cui è detto: «Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio» (Mt 5,8). >«Come il Padre, il Vivente, ha mandato me ed io vivo per il Padre, così chi mangia di me vivrà per me» (Gv 6,58). Non dice: Come io mangio del Padre e vivo per il Padre, così anche chi mangia di me vivrà per me. Infatti, il Figlio non diviene migliore partecipando alla vita del Padre, egli che è nato uguale al Padre, come invece diventiamo migliori noi diventando partecipi della vita del Figlio nell'unità del suo corpo e del suo sangue, il che appunto viene significato da questo mangiare e bere.

Noi viviamo, dunque, per mezzo di lui, mangiando lui, cioè ricevendo lui che è la vita eterna, che da noi non avevamo; allo stesso modo che egli vive per il Padre che lo ha mandato, perché annientò se stesso fattosi obbediente fino alla morte di croce (cf Fil 2,8). Se infatti prendiamo l'affermazione io vivo per il Padre nel senso di quest'altra: «Il Padre è più grande di me» (Gv 14,28), possiamo dire che a nostra volta noi viviamo per lui, che è più grande di noi. Tutto ciò deriva dal fatto che egli è stato inviato dal Padre. La sua missione, infatti, vuol dire l'annientamento di se stesso nell'accettazione della forma di servo (salva, s'intende, la sua uguaglianza di natura con il Padre). Il Padre è, sì, più grande del Figlio in quanto uomo; ma in quanto Dio, il Figlio è uguale al Padre, essendo un unico Cristo Gesù, Dio e uomo insieme, Figlio di Dio e Figlio dell'uomo.

Se intendiamo bene le sue parole, egli disse: "Come il Padre, il Vivente, ha mandato me ed io vivo per il Padre, così anche chi mangia di me vivrà per me",volendo farci intendere questo: "Affinché io potessi vivere per il Padre, orientando verso di lui, che è più grande di me, tutta la mia esistenza, fu necessario il mio annientamento, per il quale egli mi ha mandato; a sua volta se uno vuol vivere per me, è necessario che entri in comunione con me mangiando di me; e come io, umiliato, vivo per il Padre, così egli, elevato, vive per me".

Se dice "Io vivo per il Padre", nel senso che il Figlio viene dal Padre e non il Padre da lui, lo può dire senza compromettere in alcun modo l'uguaglianza sua col Padre. Tuttavia, dicendo "così anche chi mangia di me vivrà per me", non vuole indicare una sua uguaglianza con noi, ma vuole mostrare la sua grazia di mediatore. «È questo il pane disceso dal cielo »: mangiando questo pane noi viviamo, dato che da noi non possiamo avere la vita eterna. «Non è - dice - come quello che mangiarono i vostri padri e morirono: chi mangia questo pane vivrà in eterno» (Gv 6,59). Vuol farci capire che essi sono morti nel senso che non hanno conseguito la vita eterna. Infatti, chi mangia di Cristo anch'egli morrà della morte temporale: ma vivrà in eterno, perché Cristo è la vita eterna.

lunedì 30 maggio 2011

La musica sacra deve condurre alla nostalgia del trascendente





Intervista al Cardinale Zenon Grocholewski




ROMA, lunedì, 30 maggio 2011 (ZENIT.org).- La musica sacra ci deve portare a vivere un qualcosa di trascendente, non un optional ma qualcosa di fondamentale, diverso dalla banalità dei canti che non si adattano alla preghiera ma sono semplicemente chiasso.

Sono questi alcuni dei pensieri che il Cardinale Zenon Grocholewski, Prefetto della Congregazione per l’Educazione Cattolica e Gran cancelliere del Pontificio Istituto per la Musica Sacra, ha voluto condividere con ZENIT in apertura del Congresso internazionale tenutosi la scorsa settimana a Roma per il centenario di fondazione del suo Pontificio Istituto.

Come è possibile conciliare la musica sacra con le nuove tendenze?

Cardinale Zenon Grocholewski: Il problema non è facile: occorre infatti unire la tradizione della Chiesa e la sacralità della musica con la possibilità di nuovi contributi nella musica. Pio X fondò l’Istituto proprio per studiare tale problematica. E questo Istituto forma studenti da tutto il mondo e sensibilizza sul ruolo della musica sacra.

In che modo la musica sacra si abbina alla liturgia?

Cardinale Zenon Grocholewski: La musica sacra fa parte integrante della liturgia quindi deve essere una preghiera, deve esprimere questo momento, non è soltanto un accessorio ma qualcosa di essenziale. D’altra parte oggi osserviamo una completa banalità di alcuni canti che non si adattano alla preghiera ma sono semplicemente chiasso. La liturgia necessita anche del silenzio. Il canto e preghiera devono essere coerenti con ciò che si compie durante l’Eucaristia. In realtà in passato grandi musicisti, come Giovanni Pierluigi da Palestrina, hanno composto melodie stupende per le Messe.

Oggi bisognerebbe, forse, avere un po’ più di questa musica sacra nelle chiese?

Cardinale Zenon Grocholewski: Sì, penso di sì. Si dovrebbe rafforzare la comprensione della musica sacra. Ci sono delle nuove composizioni, molte volte le ho sentito in chiesa, cose completamente nuove ma molto belle.

Ci può fare qualche esempio?

Cardinale Zenon Grocholewski: L’anno scorso sono stato a Marsiglia dove ho celebrato per dei giuristi in una chiesa destinata ad essere demolita, perché non c’erano fedeli. E’ venuto un nuovo sacerdote e ora questa chiesa, la domenica, è piena. Tra l’altro grazie ai suoi canto e alla sua preghiera. Le composizioni sono infatti sue. Questo sacerdote prima di entrare in seminario cantava nei cabaret di Parigi, poi c’è stata una conversione ed è diventato sacerdote. E devo dire che ero affascinato dal modo in cui le sue composizioni esprimevano la preghiera. All’uscita ho parlato con le persone e molti mi hanno risposto che venivano anche da lontano “perché qui si prega, il sacerdote fa una predica che possiamo capire e c’è della bella musica”.

Lei ha parlato della sacralità. Che cosa è la sacralità?

Cardinale Zenon Grocholewski: La sacralità viene espressa nella misura in cui si manifesta la preghiera, in quanto è nostalgia per qualche cosa, in quanto esprime una trascendenza. Oggi per esempio alcune musiche moderne che sentiamo, diciamo in televisione, non hanno nulla di trascendentale, sono un divertimento qui sulla terra, non c’è nostalgia di niente. Certo, non è facile definire cosa sia la sacralità, non è una cosa fisica come definire un materiale. Però c’è una sensibilità nella Chiesa che riconosce quel che è sacro da quello che lo è meno.

Un presule ha affermato una volta che la musica nella liturgia ci porta a vivere quello che sarà il paradiso. Che cosa ci offre la musica sacra?

Cardinale Zenon Grocholewski: Molte pagine significative sulla musica sacra le ha scritte Ratzinger, ancora prima di diventare Papa, come si può apprezzare nella sua Opera omnia. E lui sottolinea che la musica sacra deve portarci in un altro mondo, condurci a una nostalgia per qualcosa di trascendente. Non è soltanto chiasso che ci porta fuori strada. Ratzinger afferma che quando si perde questo orizzonte trascendentale della vita umana, tutto si riduce alla terra, anche la musica e la profondità del pensiero. La musica deve aprire questo spazio al trascendente.

C’è un consenso unanime nella Chiesa secondo cui l’organo è lo strumento sacro per eccellenza?

Cardinale Zenon Grocholewski: Penso di sì, quando si va in chiesa l’organo crea una particolare atmosfera, dà una certa pienezza. Ecco perché in alcune chiese moderne, anche importanti, si cerca di conservarlo.

Un qualche consiglio per i parroci, anche per quelli più giovani?

Cardinale Zenon Grocholewski: Penso che sia necessario sensibilizzare la gente alla musica sacra, che è preghiera. Certo non è possibile creare un bel coro in ogni parrocchia, ma devono sensibilizzare la gente sulla sacralità del canto che viene eseguito in chiesa.


Fonte: www.zenit.org

Breviarium Meum: il Breviario tradizionale per l'iPhone




Breviarium Meum è l'App realizzata dai Frati Francescani dell'Immacolata per consentire di pregare e di riscoprire la bellezza del Breviarium Romanum (in vigore nel 1962) in qualsiasi luogo, con uno strumento maneggevole, utile e al passo con i tempi! Basta tirare fuori l’iPhone – o iPod Touch o iPad – scegliere l’Ora da pregare, e cominciare. E' possibile scaricare i dati fino a una settimana in anticipo, cosicché si può pregare anche dove non vi è un'adeguata copertura di rete.


In questa App pregare il Breviario è semplicissimo. Non si devono cercare i testi in un libro, poiché sono già in ordine. Se i caratteri sono troppo piccoli, si possono ingrandire. Vi è pure la possibilità di visualizzare le Ore Canoniche anche in una traduzione a fronte (per ora in inglese, la traduzione in lingua italiana è in fase di preparazione). Infine l’App è gratis, anche se si può effettuare una donazione (all'interno della App stessa o sul sito di supporto) per l'App e le missioni nei paesi poveri dei Frati Francescani dell'Immacolata.


A corredo, nella sezione "Orationes", l'App offre anche alcune delle più belle formule e preghiere latine di uso più comune; le preghiere prima della Messa e quelle dopo la Messa; nonché alcune formule di benedizione tratte dal Rituale Romanum.
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domenica 29 maggio 2011

Il Messale antico: una diga contro le alterazioni della liturgia


Pubblichiamo una lettera del Cardinal J. Ratzinger a padre Matias Augé, nella quale emerge chiaramente il pensiero sulla liturgia del futuro Papa Benedetto XVI, dal quale è scaturito il motu proprio Summorum Pontificum.
Non è una novità, ma... repetita iuvant!


Lettera inedita del 1999 apparsa "Lunedì 20 settembre 2010 1 20 /09 /2010 05:00" sul blog (liturgia-opus-trinitatis.over-blog.it) di un docente dell'Istituto Claretianum con la seguente premessa:

Una lettera del Card. Joseph Ratzinger
Non sono il primo a pubblicare delle lettere ricevute dall’allora Cardinale Joseph Ratzinger. Mi sembra anche un modo di offrire dei documenti che contribuiscono alla conoscenza del periodo storico in cui ci troviamo. La mia lettera, come si evince dal testo qui sotto riprodotto, aveva come oggetto la contestazione rispettosa di alcune affermazioni che il Cardinale aveva fatto in un discorso pronunciato in occasione dei dieci anni del Motu Proprio “Ecclesia Dei”. Alle mie osservazioni il Card. Ratzinger rispose gentilmente qualche mese dopo. Sostanzialmente, la lettera conferma delle posizioni note.




Joseph Cardinal Ratzinger



18 febbraio 1999


Reverendo Padre

P. Prof. Matias Augé, CMF

Istituto “Claretianum”

L.go Lorenzo Mossa, 4

00165 Roma





Reverendo Padre,


ho letto con attenzione la Sua lettera del 16 novembre u.s., nella quale Lei ha formulato alcune critiche alla Conferenza da me tenuta il giorno 24 ottobre 1998, in occasione del 10o anniversario del Motu proprio “Ecclesia Dei”.

Capisco che Lei non condivida le mie opinioni sulla riforma liturgica, la sua attuazione, e la crisi che deriva da talune tendenze in essa nascoste, come la desacralizzazione.

Mi sembra, però, che la sua critica non prenda in considerazione due punti:

1. è il Sommo Pontefice Giovanni Paolo II che ha concesso, con l’Indulto del 1984, l’uso della liturgia anteriore alla riforma paolina, sotto certe condizioni; in seguito lo stesso Pontefice ha pubblicato, nel 1988, il Motu proprio “Ecclesia Dei”, che manifesta la sua volontà di andare incontro ai fedeli, che si sentono attaccati a certe forme della liturgia latina anteriore, e pertanto chiede ai vescovi di concedere “in modo ampio e generoso” l’uso dei libri liturgici del 1962.

2. una parte non piccola dei fedeli cattolici, anzitutto di lingua francese, inglese e tedesca, rimangono fortemente attaccati alla liturgia antica, e il Sommo Pontefice non intende ripetere nei loro confronti ciò che era accaduto nel 1970, dove si imponeva la nuova liturgia in maniera estremamente brusca, con un tempo di passaggio di soli 6 mesi, mentre il prestigioso Istituto liturgico di Treviri, infatti, per tale questione, che tocca in maniera così viva il nervo della fede, giustamente aveva pensato ad un tempo di 10 anni, se non sbaglio.

Sono dunque questi due punti, cioè l’autorità del Sommo Pontefice regnante e il suo atteggiamento pastorale e rispettoso verso i fedeli tradizionalisti, che sarebbero da prendere in considerazione.

Mi permetta, pertanto, di aggiungere alcune risposte alle Sue critiche circa il mio intervento.

1. Quanto al Concilio di Trento non ho mai detto che esso avrebbe riformato i libri liturgici, al contrario ho sempre sottolineato che la riforma postridentina, situandosi pienamente nella continuità della storia della liturgia, non ha voluto abolire le altre liturgie latine ortodosse (i cui testi esistevano da più di 200 anni) e neppure imporre una uniformità liturgica.

Quando ho detto che anche i fedeli, che fanno uso dell’Indulto del 1984, devono seguire gli ordinamenti del Concilio, volevo mostrare che le decisioni fondamentali del Vaticano II sono il punto d’incontro di tutte le tendenze liturgiche e che quindi sono anche il ponte per la riconciliazione in campo liturgico. Gli ascoltatori presenti hanno, in realtà, capito le mie parole come un invito all’apertura al Concilio, all’incontro con la riforma liturgica. Penso che chi difende la necessità ed il valore della riforma, dovrebbe essere pienamente d’accordo con questo modo di avvicinare i “tradizionalisti” al Concilio.

2. La citazione di Newman vuole significare che l’autorità della Chiesa non ha mai abolito nella sua storia con un mandato giuridico una liturgia ortodossa. Si è verificato invece il fenomeno di una liturgia che scompare, e poi appartiene alla storia, non al presente.

3. Non vorrei entrare in tutti i dettagli della Sua lettera, anche se non sarebbe difficile rispondere alle Sue diverse critiche dei miei argomenti. Mi sta però a cuore quello che riguarda l’unità del Rito Romano. Questa unità oggi non è minacciata dalle piccole comunità che fanno uso dell’Indulto e si trovano spesso trattati come lebbrosi, come persone che fanno qualcosa di indecoroso, anzi di immorale; no, l’unità del Rito Romano è minacciata dalla creatività selvaggia, spesso incoraggiata da liturgisti (per esempio in Germania si fa la propaganda del progetto “Missale 2000”, dicendo, che il Messale di Paolo VI sarebbe già superato). Ripeto quanto ho detto nel mio intervento, che la differenza tra il Messale del 1962 e la messa fedelmente celebrata secondo il Messale di Paolo VI è molto minore che la differenza fra le diverse applicazioni cosiddette “creative” del Messale di Paolo VI. In questa situazione la presenza del Messale precedente può divenire una diga contro le alterazioni della liturgia purtroppo frequenti, ed essere così un appoggio della riforma autentica. Opporsi all’uso dell’Indulto del 1984 (1988) in nome dell’unità del Rito Romano è, secondo la mia esperienza, un atteggiamento molto lontano dalla realtà. Del resto mi rincresce un po’, che Lei non abbia percepito, nel mio intervento, l’invito rivolto ai “tradizionalisti” ad aprirsi al Concilio, a venirsi incontro verso la riconciliazione, nella speranza di superare, col tempo, la spaccatura tra i due Messali.

Tuttavia, La ringrazio per la Sua parresia, che mi ha permesso di discutere francamente su una realtà che ci sta ugualmente a cuore.

Con sentimenti di gratitudine per il lavoro che Lei svolge nella formazione dei futuri sacerdoti, La saluto

Suo nel Signore

+ Joseph Card. Ratzinger


Fonte:J. Ratzinger's Fan Club

sabato 28 maggio 2011

Essere cattolici significa essere mariani


Il Papa alla Congregazione mariana di Ratisbona: essere cattolici significa essere mariani. Le confidenze del Santo Padre sul suo legame con Maria ed il ricordo dei "tempi bui" della guerra


Benedetto XVI ha ricevuto, stamani, in Vaticano alcuni membri della Congregazione mariana maschile di Ratisbona. Un’udienza che ha offerto al Papa l’occasione di soffermarsi sul suo profondo legame con Maria. Il Papa ha ricordato che, all’età di 14 anni, fu accolto dalla Congregazione negli anni bui in cui Hitler dominava su gran parte dell’Europa e sembrava in forse il futuro del Cristianesimo nel continente. Il servizio di Alessandro Gisotti:

Un incontro nel segno di Maria, contraddistinto da toccanti ricordi personali.
Benedetto XVI ha rammentato innanzitutto in quale contesto, 70 anni fa, fu accolto dalla Congregazione mariana di Traunstein. Erano “tempi bui”, ha rammentato, “c’era la guerra”. Hitler, ha detto il Papa, “aveva sottomesso uno dopo l’altro la Polonia, la Danimarca, gli Stati del Benelux, la Francia” e proprio in questo periodo, 70 anni fa, aveva occupato la Jugoslavia e la Grecia. “Sembrava – ha osservato il Pontefice – che il continente fosse nelle mani di questo potere che poneva in forse il futuro del cristianesimo”. Ha così confidato che, poco dopo essere stato accolto in seminario, era iniziata la guerra contro la Russia e dunque la Congregazione era stata “dispersa ai quattro venti”.
Essa, ha affermato, è però scomparsa solo esteriormente, ma è rimasta “come data interiore della vita”. E ciò, ha ribadito Benedetto XVI, “perché da sempre è stato chiaro che la cattolicità non può esistere senza un atteggiamento mariano, che essere cattolici significa essere mariani, che l’amore per la Madre significa che nella Madre e per la Madre troviamo il Signore”.

Proseguendo sul filo dei ricordi, il Papa ha quindi rivelato che dopo la guerra, “la mariologia che si insegnava nelle università tedesche era un po’ aspra e sobria”. Una situazione, ha aggiunto, che credo “non sia cambiata molto”.

Ma ha poi indicato quale è l’essenziale quando ci riferiamo a Maria: la sua fede. “Beata te che hai creduto!”, con le parole di Elisabetta il Papa ha sottolineato che Maria “è la grande credente”, “ha concretizzato la fede di Abramo nella fede in Gesù Cristo, indicando così a noi tutti la via della fede”. Maria, ha soggiunto, “ci ha indicato il coraggio di affidarci a quel Dio che si dà nelle nostre mani, la gioia di essere suoi testimoni”. Né ha mancato di riferirsi alla “determinazione” della Madre “a rimanere salda quando tutti sono fuggiti”, il suo “coraggio di stare dalla parte del Signore quando egli sembrava perduto e proprio così rendere quella testimonianza che ha portato alla Pasqua”.

Il Papa ha affermato che, specie durante le visite “ad limina” dei vescovi, ha potuto sperimentare come le persone si affidino a Maria, la amino e attraverso di Lei “imparano a conoscere, a comprendere e ad amare Cristo”.
Imparano, ha detto ancora, a capire che Maria continua “ a mettere al mondo il Signore”, a portare Cristo nel mondo. Il Papa si è infine compiaciuto di sentire che ancora oggi, nella sua Baviera, ci sono 40 mila persone che fanno parte di Congregazioni mariane che “rendono testimonianza al Signore nelle ore difficili e in quelle felici”.
Con questa testimonianza, ha concluso il Papa, dimostrate che “la fede non appartiene al passato, ma che sempre apre ad un oggi” e “soprattutto ad un domani”.

© Copyright Radio Vaticana

Recensione di un libro sull’Eucarestia di mons. Giampietro







Mons. Nicola Giampietro è un sacerdote della diocesi di Sulmona che lavora presso la Congregazione del Culto divino come Officiale, ed è noto agli specialisti della liturgia cattolica per vari suoi studi scientifici, pubblicati su riviste specialistiche e tradotti in molte lingue, soprattutto poi il suo corposo saggio sul Cardinale Ferdinando Antonelli e la riforma liturgica post-conciliare (pubblicato nel 1998).

Ora ci presenta uno studio interessante e che farà discutere su altri aspetti della svolta liturgica iniziata sotto Pio XII e proseguita negli anni ‘60 e ‘70 del secolo scorso (cfr. N. Giampietro, La concelebrazione eucaristica e la comunione sotto le due specie nella storia della Liturgia, Fede e Cultura, Verona 2011, euro 30,00).

Il saggio si apre con una prefazione elogiativa del card. Antonio Cañizares Llovera, attuale Prefetto del Culto divino, il quale all’interno della storia della concelebrazione ripercorsa dall’Autore, nota che «lo studio di mons. Giampietro è essenziale per comprendere alcuni punti essenziali piuttosto dimenticati, che meritano d’essere messi in risalto affinché le questioni rituali ricevano soluzioni adeguate» (p. 6). «Ad esempio, prosegue il prelato, non si può dimenticare che l’actio Christi nella Messa ha il suo punto centrale nella consacrazione e che la consacrazione deve essere validamente compiuta» (p. 6). Due verità forse banali ma che hanno rischiato di essere travolte dall’aggiornamento liturgico intempestivo e disordinato di questi decenni, aggiornamento che non metteva affatto al centro del Culto cattolico la persona di Cristo vivo presente sull’altare del sacrificio, bensì il Testo Sacro o il Popolo con-celebrante! Il Card. Llovera sottolinea poi che la concelebrazione, prassi molto antica in verità, ma riservata a rari casi prima del Vaticano II, anche oggi, «non è obbligatoria e (…) ogni sacerdote ha il diritto di celebrare la messa individualmente» (p. 7). Questa libertà del clero è stata negli ultimi anni disprezzata e misconosciuta da non pochi Ordinari e in molte congregazioni religiose con gravissimi danni sia alla spiritualità del presbitero, che alla comunità dei fedeli e all’onore di Dio. Persino recentemente un vescovo italiano ha vietato alle comunità religiose della sua diocesi di celebrare pubblicamente più di una Messa al giorno, anche in presenza di molti sacerdoti!

In tale difficile contesto viene giustamente ricordato il fatto che la concelebrazione nella mens conciliare doveva favorire l’unione simbolica, affettiva ed effettiva del sacerdozio cattolico, senza però dar luogo a Messe in cui i celebranti fossero quasi più numerosi degli assistenti, anche perché quando molti preti sono attorno al sacro altare ed anzi alcuni risultino discosti da esso c’è un rischio di invalidità. «La non ottemperanza di tale principio [della prossimità reale tra sacerdote e ostie], secondo il grande studioso della liturgia Klaus Gamber, dopo la riforma liturgica avrebbe fatto aumentare considerevolmente il numero delle Messe invalide» (p. 7). Cosa non certo di poco conto! Il testo dopo una sintetica «storia della Concelebrazione» (pp. 15-24) e dei cenni importanti sul movimento liturgico di primo Novecento (pp. 25-40), si concentra sul Concilio e il nuovo rito della concelebrazione (pp. 41-118). Un capitolo importante è dedicato al nuovo rito della Comunione sotto le due specie (pp. 144-176), senza ometterne i rischi e i pericoli già individuati in passato, per esempio al Concilio di Trento e dai Padri conservatori al Vaticano II, come Ottaviani, Ruffini e altri (cfr. pp. 147-149). In Appendice sono riportati i documenti ufficiali circa i temi trattati nel testo (pp. 184-329). Di sicuro si tratta di un’opera che mancava, importante, indirizzata soprattutto agli studiosi di liturgia, gli addetti ai lavori e i laici di buona cultura teologica.


Fonte: CR n.1193 del 28/5/2011

Il Papa vuole una Caritas pienamente cattolica













di Andrea Tornielli

Il Papa vuole che una Caritas pienamente cattolica, che sia «nel cuore della Chiesa» e che parli e agisca «in suo nome». È quanto si legge nel discorso che Benedetto XVI ha fatto ieri ai rappresentanti di Caritas internationalis, riuniti per una settimana a Roma.

Caritas internationalis è un’organismo vatissimo. Coordina 165 diverse Caritas nazionali, ciascuna delle quali a sua volta coordina le associazioni umanitarie cattoliche che raggiungono con i loro aiuti e la loro assistenza milioni di persone, impiegando 440mila salariati e oltre 600mila volontari. Il badget complessivo sfiora i quattro miliardi di euro.

Il Papa, come ha sintetizzato il vaticanista di Le Figaro, Jean-Marie Guenois, ha chiesto che nell’azione umanitaria della Caritas «la Chiesa cattolica non sia considerata una specie di partner, privilegiato ma tra gli altri», bensì sia essenziale e la fede cattolica sia il significato, la ragione dell’agire sociale dell’organizzazione. L’azione sociale della Chiesa non può infatti essere scollegata dal cuore stesso della fede cattolica e dunque anche l’azione sociale deve essere chiaramente identificata come cattolica.

L’intervento papale giunge alla fine di mesi piuttosto constrastati, che hanno visto contrapporsi il cardinale honduregno Oscar Rodriguez Maradiaga, presidente riconfermato di Caritas internationalis (col beneplacito vaticano), e il Segretario di Stato Tarcisio Bertone, che a nome del Pontefice all’inizio dell’anno non ha concesso il nulla osta per la riconferma della direttrice generale Lesley-Ann Knight, considerata non in linea con la prospettiva voluta dalla Santa Sede, ma pubblicamente difesa da Maradiaga anche nei giorni scorsi. Si tratta di un epilogo che – dietro le quinte – ha visto confrontarsi negli ultimi anni lo stesso Maradiaga e un altro cardinale, molto vicino al Papa, il tedesco Paul Cordes, presidente emerito di Cor Unum.

Ecco alcuni passaggi del discorso di Benedetto XVI:

«Per noi cristiani, Dio stesso è la fonte della carità, e la carità è intesa non solo come una generica filantropia, ma come dono di sé, anche fino al sacrificio della propria vita in favore degli altri, ad imitazione dell’esempio di Gesù Cristo. La Chiesa prolunga nel tempo e nello spazio la missione salvifica di Cristo: essa vuole raggiungere ogni essere umano, mossa dal desiderio che ciascun individuo giunga a conoscere che nulla può separarci dall’amore di Cristo»

«Caritas Internationalis è diversa da altre agenzie sociali perché è un organismo ecclesiale, che condivide la missione della Chiesa. Questo è ciò che i Pontefici hanno sempre voluto e questo è ciò che la vostra Assemblea Generale è chiamata a riaffermare con forza».

«A differenza di tante istituzioni e associazioni ecclesiali dedite alla carità, le Caritas hanno un tratto distintivo: pur nella varietà delle forme canoniche assunte dalle Caritas nazionali, tutte costituiscono un aiuto privilegiato per i Vescovi nel loro esercizio pastorale della carità. Ciò comporta una speciale responsabilità ecclesiale: quella di lasciarsi guidare dai Pastori della Chiesa. Dal momento poi che Caritas Internationalis ha un profilo universale ed è dotata di personalità giuridica canonica pubblica, la Santa Sede ha il compito di seguire la sua attività e di vigilare affinché tanto la sua azione umanitaria e di carità, come il contenuto dei documenti diffusi, siano in piena sintonia con la Sede Apostolica e con il Magistero della Chiesa, e affinché essa sia amministrata con competenza ed in modo trasparente».

«Senza un fondamento trascendente, senza un riferimento a Dio Creatore, senza la considerazione del nostro destino eterno, rischiamo di cadere in preda ad ideologie dannose. Tutto ciò che dite e fate, la testimonianza della vostra vita e delle vostre attività, sono importanti e contribuiscono a promuovere il bene integrale della persona umana».

«Caritas Internationalis … è chiamata ad offrire il proprio contributo per portare il messaggio della Chiesa nella vita politica e sociale sul piano internazionale. Nella sfera politica – e in tutte quelle aree che toccano direttamente la vita dei poveri – i fedeli, specialmente i laici, godono di un’ampia libertà di azione. Nessuno può, in materie aperte alla libera discussione, pretendere di parlare “ufficialmente” a nome dell’intero laicato o di tutti i cattolici (cfr Conc. Ecum. Vat. II, Gaudium et Spes, 43; 88). D’altro canto, ciascun cattolico, anzi, in verità, ogni uomo, è chiamato ad agire con coscienza purificata e con cuore generoso per promuovere in maniera decisa quei valori che spesso ho definito come “non negoziabili”».

Fonte: Sacri Palazzi - 28/05/2011

giovedì 26 maggio 2011

Conferenza a Pistoia del rev. prof. Nicola Bux sulla Sacrosanctum Concilium


Giovedì 2 giugno 2011 alle ore 21, nella chiesa di Sant’Ignazio di Loyola, in piazza dello Spirito Santo a Pistoia, si terrà la conferenza del rev. prof. Nicola Bux sul tema: «La Sacrosanctum Concilium e la sua esecuzione postconciliare: dagli adattamenti all'inosservanza dello ius divinum nella liturgia».

Nicola Bux è un noto liturgista, professore di teologia sacramentaria alla Facoltà teologica di Bari, è tra i più stimati collaboratori del Santo Padre Benedetto XVI, Consultore in Vaticano alle Congregazioni per la dottrina della Fede, dei Santi e dell’Ufficio delle celebrazioni pontificie, è stato perito al Sinodo sull’Eucaristia del 2005 ed a quello sul Medio Oriente. Autore di numerose pubblicazioni di teologia dogmatica e liturgica, ha ultimamente dato alle stampe La riforma di Benedetto XVI. La liturgia tra innovazione e tradizione, Piemme, II ed. 2009; Gesù il Salvatore. Luoghi e tempi della Sua venuta nella storia, Cantagalli, II ed. 2010; Come andare a Messa e non perdere la fede, Piemme, 2010.

Come Benedetto XVI, ritiene che la crisi attuale della Chiesa sia dovuta in gran parte al crollo della liturgia, dalla quale si esce ricomprendendo la natura divina della liturgia e rispettando la sua parte immutabile. Pensa che sia oggi indispensabile un nuovo movimento liturgico, che ha definito “riforma della riforma della liturgia”, con l’obiettivo di far fruttificare il vero patrimonio del Concilio Vaticano II nell’odierna situazione della Chiesa. Purtroppo certe innovazioni postconciliari hanno talvolta offuscato la sacralità del rito: nel nome della partecipazione si sono abbandonati certi segni e si è modificato il rito, perdendo così il senso della presenza del divino, mentre si è dimenticato che la prima partecipazione è adorare Dio. La riforma della liturgia è tuttavia un restauro paziente e non radicale, in continuità con la Tradizione, come dimostra il Motu proprio Summorum Pontificum con il quale Benedetto XVI ha restituito alla chiesa universale e a tutti i fedeli il tesoro della Messa in Rito Romano antico.

La conferenza è organizzata dalla parrocchia dello Spirito Santo e dall’Associazione Madonna dell’Umiltà, costituita da fedeli che hanno promosso a Pistoia la Messa nella forma straordinaria del Rito Romano, che dallo scorso ottobre, viene celebrata nella chiesa della Madonna del Carmine, tutti i sabati alle 18,30, in latino, con il canto gregoriano e l’organo.

Maggiore importanza al rito 'straordinario'




di Giuseppe Di Leo


Stavolta ci tocca un po’ di latino (ecclesiastico). Lo richiede l’argomento: la liturgia.

Papa Benedetto XVI ha approvato l’Istruzione Universae Ecclesiae con cui si dà applicazione pratica al Motu Proprio Summorum Pontificum del sette luglio 2007, grazie al quale Benedetto XVI ha fatto sì che “Romanae Liturgiae divitias reddiderunt propiores”.

Cosa stabilisce la nuova Istruzione, firmata dal cardinale Levada in data trenta aprile (giorno in cui si venera san Pio V, un Papa protagonista della storia liturgica di Santa Romana Chiesa) ma approvata dal Pontefice l’otto dello stesso mese?

Per prima cosa il Papa riafferma anche in materia liturgica che “unaquaeque Ecclesia particularis concordare debet cum universali Ecclesia” non solo riguardo alla dottrina della fede e ai sacramenti “sed etiam quoad usus universaliter acceptos ab apostolica et continua traditione”.

Nel testo dell’Istruzione si fa memoria storica del Messale Romano, fino al Messale di Giovanni XXIII del 1962 e a quello di Paolo VI del 1970, e si ricorda riguardo a questi ultimi due che “respective ordinaria et extraordinaria nuncupantur: agitur nempe de duobus unius Ritus Romani usibus, qui ad invicem iuxta ponuntur”. Infatti, “utraque forma est expressio unicae Ecclesiae legis orandi”.


La Lettera Apostolica Summorum Pontificum ha tre scopi: il primo “Liturgiam Romanam in Antiquiori Usu (...) omnibus largire fidelibus”; il secondo “Usum eiusdem Liturgiae iis re vera certum facere, qui id petunt (...), il terzo “reconciliationi in sinu Ecclesiae favere”.

Proprio questa terza finalità, che deve esser assolutamente preservata, ha indotto il Pontefice a prescrivere che “Christifideles celebrationem secundum formam extraordinariam postulantes, auxilium ne ferant neque nomen dent consociationibus, quae validitatem vel legitimatem Sanctae Missae Sacrificii et Sacramentorum secundum formam ordinaria impugnent, vel Romano Pontifici, Universale Ecclesiae Pastori quoquo modo sit infensae”.

Importante il concetto di “coetus fidelium”: esso è costituito da persone di una determinata parrocchia che “ratione venerationis Liturgiae in Antiquiore Usu, poscentibus ut in ecclesia paroeciali vel in aliquo oratorio vel sacello Antiquior Usu celebretur”; ma può essere costituito anche “a personis ex pluribus paroeciis aut dioecesibus convenientibus et qui una concurrunt ad ecclesiam paroecialem aut oratorium ad finem... assequendum”.

Il documento papale prevede i compiti e i poteri della Pontificia Commissione Ecclesia Dei, in particolare “circa sedulam observantiam et vigilantiam in exsequendas dispositiones in Litteris Apostolicis Summorum Pontificum contentas”. Inoltre, spetta alla “Pontificiae Commissionis Ecclesia Dei (...) curare de edendis libris liturgicis ad formam extraordinariam Ritus Romani pertinentibus”.

Ovvio che una sfida importante per la Chiesa sarà la formazione dei futuri sacerdoti nei seminari “in quibus providebitur ut sacrorum alumni convenienter instituantur, Latinum discendo sermonem et (...) ipsam Ritus Romani formam extraordinariam”.

E’ importante questo punto affinché possa trovare facile esecuzione quanto stabilito subito dopo: “Libri liturgici formae extraordinariae adhibeantur ut prostant. Omnes qui secundum extraordinariam formam Ritus Romani celebrare exoptant, tenentur rubricas relativas scire easque in celebrationibus recte exsequi”.

Come ha rilevato padre Federico Lombardi, direttore della Sala Stampa della Santa Sede, in una nota di sintesi distribuita ai giornalisti “a lettura compiuta, rimane l’impressione di un testo di grande equilibrio, che intende favorire –secondo l’intenzione del Papa- il sereno uso della liturgia precedente alla riforma da parte di sacerdoti e fedeli che ne sentano il sincero desiderio per il loro bene spirituale”.

Queste disposizioni liturgiche di Benedetto XVI intendono andare incontro all’esigenza di interpretare il concilio Vaticano II come evento ecclesiale che, innovando nella liturgia quello che c’è da innovare, non dimentichi di valorizzare la grande Tradizione accumulata in duemila anni di storia.



fonte: http://www.ilconsulentere.it/articolo.php?id=784

La Chiesa punta ancora sul latino




La messa in latino, dice il Vaticano, non è mai stata cancellata dal Concilio Vaticano II


Nei seminari si ritornerà a studiarlo come si faceva un tempo


di Marco Bertoncini

Curiosamente, tre eventi si sono accavallati nei medesimi giorni con riferimenti al latino. L'Università cattolica ha celebrato a Milano un convegno dedicato alla presenza classica, per verificare quale possa essere il senso dello studio delle lingue antiche fuori degli specialisti. La Pontificia commissione Ecclesia Dei ha emanato un'istruzione (per applicare la lettera apostolica Summorum pontificum) nella quale alcuni punti sono dedicati alla conoscenza del latino da parte dei sacerdoti.

Infine, organizzato da un'associazione che si richiama a «Giovani e Tradizione», si è svolto nella capitale un convegno sulla Summorum pontificum, in cui il latino ha avuto non secondaria presenza, fino alla celebrazione, in San Pietro, della messa pontificale in «rito romano antico».

Per capirci, la Summorum pontificum è la lettera apostolica motu proprio data da Benedetto XVI, che ha riconosciuto l'esistenza di due forme del medesimo rito romano: una ordinaria, ed è quella celebrata col messale di Paolo VI, l'altra straordinaria, ed è quella col messale di Giovanni XXIII.
L'istruzione testé emanata dalla S. Sede conferma che il papa procede lungo la strada intrapresa timidamente da Giovanni Paolo II: poiché nessuno ha cancellato la messa riordinata da Pio V e rimasta fino a Giovanni XXIII, è opportuno che essa sia celebrata ovunque ve ne sia richiesta.

Pare che siano soprattutto taluni vescovi a frapporre ostacoli di vario tipo a tali celebrazioni.
A rodersi il fegato è il variegato mondo progressista, che non teme di cadere in contraddizione con sé stesso, con la brama di dissolvimento dell'autorità pontificia che sempre l'anima e con la ricerca di esperimenti sempre nuovi nella liturgia.
Un'ottima sintesi di queste reazioni si legge nell'acido e bavoso commento di Giancarlo Zizola su la Repubblica, contro la chiesa di Ratzinger che sarebbe «liquida, se non babelica» (l'esatto opposto di quel che di solito si lamenta) e ora consentirebbe «procedure tipicamente anarchiste per scompigliare l'ordine gerarchico nelle diocesi e nelle parrocchie».

Veniamo al latino. Nonostante i testi scritti e dispositivi della Chiesa, partendo dalla Veterum sapientia di Giovanni XXIII per passare agli stessi documenti conciliari e postconciliari (diversamente da quanto si potrebbe credere), abbiano sempre circondato la lingua latina di rispetto e culto, obbligandone allo studio, di fatto la conoscenza di quella che è ancora la lingua ufficiale della S. Sede è andata scemando nel campo ecclesiastico.

Quando si diventava sacerdoti passando esclusivamente dagli studi classici, la questione non si poneva. Oggi, però, che ci sono preti che sono ragionieri o geometri o diplomati in un istituto professionale, diventa arduo rimediare ai buchi dell'istruzione. Bene ha fatto, quindi, l'istruzione dell'Ecclesia Dei a ricordare che i sacerdoti che seguano il rito che fu della Chiesa da Pio V a Giovanni XXIII a disporre di una «conoscenza basilare» della lingua latina. Ma soprattutto è lodevole il suo intervento sui seminari, «dove si dovrà provvedere alla formazione conveniente dei futuri sacerdoti con lo studio del latino».

La classe dirigente europea, almeno sino alla prima guerra mondiale, era abbastanza omogenea quanto a conoscenza delle lingue classiche. Il fatto che sul Times apparissero citazioni in alfabeto greco indica come, nell'età vittoriana, il lettore medio fosse capace d'intenderle, e la presenza del latino trova conferma, per esempio, nelle pagine che hanno come protagonista Sherlock Holmes. Progressivamente, dall'insegnamento sono scomparsi, prima il greco, poi il latino. Una botta tremenda, in Italia, è costituita dalla legge n. 910 del 1969, demagogica e populistica, che parificò l'accesso all'istruzione superiore per tutti i diplomati. Oggi la maggioranza dei laureati non è capace di comprendere due parole latine.

Non che all'estero stiano meglio: basti citare l'invito degli organi di giustizia europei agli avvocati affinché non usino espressioni mutuate dal diritto romano, essendo incomprensibili a molti giudici. All'Università cattolica si è, giustamente, ricordato che il latino non è solo la lingua degli antichi romani. E non è solo la lingua della tradizione cristiana, pur se la Chiesa cattolica (le chiese protestanti e anglicane avevano già provveduto da secoli) negli ultimi decenni le ha inferto colpi durissimi. Il latino fu pure la lingua di cultura per l'intero Medioevo, nel Rinascimento e ancora, almeno in parte, nell'età moderna. Diplomazia e scienza si espressero in latino ben oltre i termini temporali della produzione di lettere latine originali. La decadenza del latino (lasciamo stare il greco, lingua che è ancor oggi la base della terminologia medica e latamente scientifica e che ha alimentato la più alta delle letterature) si paga con un impoverimento culturale e anche linguistico.

© Copyright Italia Oggi, 26 maggio 2011

mercoledì 25 maggio 2011

La lotta di Giacobbe: chi si lascia benedire da Dio, rende benedetto il mondo



Nell’Udienza Generale di questa mattina il Papa ha continuato il ciclo di catechesi sulla preghiera, incentrando la sua meditazione sulla figura di Giacobbe, nel Libro della Genesi.




Cari fratelli e sorelle!

oggi vorrei riflettere con voi su un testo del Libro della Genesi che narra un episodio un po’ particolare della storia del Patriarca Giacobbe.

È un brano di non facile interpretazione, ma importante per la nostra vita di fede e di preghiera; si tratta del racconto della lotta con Dio al guado dello Yabboq, del quale abbiamo ascoltato un brano.

Come ricorderete, Giacobbe aveva sottratto al suo gemello Esaù la primogenitura in cambio di un piatto di lenticchie e aveva poi carpito con l’inganno la benedizione del padre Isacco, ormai molto anziano, approfittando della sua cecità. Sfuggito all’ira di Esaù, si era rifugiato presso un parente, Labano; si era sposato, si era arricchito e ora stava tornando nella terra natale, pronto ad affrontare il fratello dopo aver messo in opera alcuni prudenti accorgimenti. Ma quando è tutto pronto per questo incontro, dopo aver fatto attraversare a coloro che erano con lui il guado del torrente che delimitava il territorio di Esaù, Giacobbe, rimasto solo, viene aggredito improvvisamente da uno sconosciuto con il quale lotta per tutta una notte. Proprio questo combattimento corpo a corpo - che troviamo nel capitolo 32 del Libro della Genesi - diventa per lui una singolare esperienza di Dio.

La notte è il tempo favorevole per agire nel nascondimento, il tempo migliore, dunque, per Giacobbe, per entrare nel territorio del fratello senza essere visto e forse con l’illusione di prendere Esaù alla sprovvista.

Ma è invece lui che viene sorpreso da un attacco imprevisto, per il quale non era preparato. Aveva usato la sua astuzia per tentare di sottrarsi a una situazione pericolosa, pensava di riuscire ad avere tutto sotto controllo, e invece si trova ora ad affrontare una lotta misteriosa che lo coglie nella solitudine e senza dargli la possibilità di organizzare una difesa adeguata. Inerme, nella notte, il Patriarca Giacobbe combatte con qualcuno.

Il testo non specifica l’identità dell’aggressore; usa un termine ebraico che indica “un uomo” in modo generico, “uno, qualcuno”; si tratta quindi di una definizione vaga, indeterminata, che volutamente mantiene l’assalitore nel mistero. È buio, Giacobbe non riesce a vedere distintamente il suo contendente e anche per il lettore, per noi, esso rimane ignoto; qualcuno sta opponendosi al Patriarca, è questo l’unico dato certo fornito dal narratore. Solo alla fine, quando la lotta sarà ormai terminata e quel “qualcuno” sarà sparito, solo allora Giacobbe lo nominerà e potrà dire di aver lottato con Dio.

L’episodio si svolge dunque nell’oscurità ed è difficile percepire non solo l’identità dell’assalitore di Giacobbe, ma anche quale sia l’andamento della lotta. Leggendo il brano, risulta difficoltoso stabilire chi dei due contendenti riesca ad avere la meglio; i verbi utilizzati sono spesso senza soggetto esplicito, e le azioni si svolgono in modo quasi contraddittorio, così che quando si pensa che sia uno dei due a prevalere, l’azione successiva subito smentisce e presenta l’altro come vincitore. All’inizio infatti Giacobbe sembra essere il più forte, e l’avversario – dice il testo – «non riusciva a vincerlo» (v. 26); eppure colpisce Giacobbe all’articolazione del femore, provocandone la slogatura. Si dovrebbe allora pensare che Giacobbe debba soccombere, ma invece è l’altro a chiedergli di lasciarlo andare; e il Patriarca rifiuta, ponendo una condizione: «Non ti lascerò, se non mi avrai benedetto» (v. 27). Colui che con l’inganno aveva defraudato il fratello della benedizione del primogenito, ora la pretende dallo sconosciuto, di cui forse comincia a intravedere i connotati divini, ma senza poterlo ancora veramente riconoscere.

Il rivale, che sembrava trattenuto e dunque sconfitto da Giacobbe, invece di piegarsi alla richiesta del Patriarca, gli chiede il nome: “Come ti chiami?”. E il patriarca risponde: “Giacobbe” (v. 28). Qui la lotta subisce una svolta importante. Conoscere il nome di qualcuno, infatti, implica una sorta di potere sulla persona, perché il nome, nella mentalità biblica, contiene la realtà più profonda dell’individuo, ne svela il segreto e il destino.

Conoscere il nome vuol dire allora conoscere la verità dell’altro e questo consente di poterlo dominare. Quando dunque, alla richiesta dello sconosciuto, Giacobbe rivela il proprio nome, si sta mettendo nelle mani del suo oppositore, è una forma di resa, di consegna totale di sé all’altro.

Ma in questo gesto di arrendersi anche Giacobbe paradossalmente risulta vincitore, perché riceve un nome nuovo, insieme al riconoscimento di vittoria da parte dell’avversario, che gli dice: «Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele, perché hai combattuto con Dio e con gli uomini e hai vinto» (v. 29).

“Giacobbe” era un nome che richiamava l’origine problematica del Patriarca; in ebraico, infatti, ricorda il termine “calcagno”, e rimanda il lettore al momento della nascita di Giacobbe, quando, uscendo dal grembo materno, teneva con la mano il calcagno del fratello gemello (cfr Gen 25,26), quasi prefigurando lo scavalcamento ai danni del fratello che avrebbe consumato in età adulta; ma il nome Giacobbe richiama anche il verbo “ingannare, soppiantare”. Ebbene, ora, nella lotta, il Patriarca rivela al suo oppositore, in un gesto di consegna e di resa, la propria realtà di ingannatore, di soppiantatore; ma l’altro, che è Dio, trasforma questa realtà negativa in positiva: Giacobbe l’ingannatore diventa Israele, gli viene dato un nome nuovo che segna una nuova identità. Ma anche qui, il racconto mantiene la sua voluta duplicità, perché il significato più probabile del nome Israele è “Dio è forte, Dio vince”.

Dunque Giacobbe ha prevalso, ha vinto - è l’avversario stesso ad affermarlo - ma la sua nuova identità, ricevuta dallo stesso avversario, afferma e testimonia la vittoria di Dio. E quando Giacobbe chiederà a sua volta il nome al suo contendente, questi rifiuterà di dirlo, ma si rivelerà in un gesto inequivocabile, donando la benedizione. Quella benedizione che il Patriarca aveva chiesto all’inizio della lotta gli viene ora concessa. E non è la benedizione ghermita con inganno, ma quella gratuitamente donata da Dio, che Giacobbe può ricevere perché ormai solo, senza protezione, senza astuzie e raggiri, si consegna inerme, accetta di arrendersi e confessa la verità su se stesso.

Così, al termine della lotta, ricevuta la benedizione, il Patriarca può finalmente riconoscere l’altro, il Dio della benedizione: «Davvero – disse – ho visto Dio faccia a faccia, eppure la mia vita è rimasta salva» (v. 31), e può ora attraversare il guado, portatore di un nome nuovo ma “vinto” da Dio e segnato per sempre, zoppicante per la ferita ricevuta.

Le spiegazioni che l’esegesi biblica può dare riguardo a questo brano sono molteplici; in particolare, gli studiosi riconoscono in esso intenti e componenti letterari di vario genere, come pure riferimenti a qualche racconto popolare. Ma quando questi elementi vengono assunti dagli autori sacri e inglobati nel racconto biblico, essi cambiano di significato e il testo si apre a dimensioni più ampie. L’episodio della lotta allo Yabboq si offre così al credente come testo paradigmatico in cui il popolo di Israele parla della propria origine e delinea i tratti di una particolare relazione tra Dio e l’uomo. Per questo, come affermato anche nel Catechismo della Chiesa Cattolica, «la tradizione spirituale della Chiesa ha visto in questo racconto il simbolo della preghiera come combattimento della fede e vittoria della perseveranza» (n. 2573). Il testo biblico ci parla della lunga notte della ricerca di Dio, della lotta per conoscerne il nome e vederne il volto; è la notte della preghiera che con tenacia e perseveranza chiede a Dio la benedizione e un nome nuovo, una nuova realtà frutto di conversione e di perdono.

La notte di Giacobbe al guado dello Yabboq diventa così per il credente un punto di riferimento per capire la relazione con Dio che nella preghiera trova la sua massima espressione. La preghiera richiede fiducia, vicinanza, quasi in un corpo a corpo simbolico non con un Dio avversario e nemico, ma con un Signore benedicente che rimane sempre misterioso, che appare irraggiungibile. Per questo l’autore sacro utilizza il simbolo della lotta, che implica forza d’animo, perseveranza, tenacia nel raggiungere ciò che si desidera. E se l’oggetto del desiderio è il rapporto con Dio, la sua benedizione e il suo amore, allora la lotta non potrà che culminare nel dono di se stessi a Dio, nel riconoscere la propria debolezza, che vince proprio quando giunge a consegnarsi nelle mani misericordiose di Dio.

Cari fratelli e sorelle, tutta la nostra vita è come questa lunga notte di lotta e di preghiera, da consumare nel desiderio e nella richiesta di una benedizione di Dio che non può essere strappata o vinta contando sulle nostre forze, ma deve essere ricevuta con umiltà da Lui, come dono gratuito che permette, infine, di riconoscere il volto del Signore.

E quando questo avviene, tutta la nostra realtà cambia, riceviamo un nome nuovo e la benedizione di Dio. Ma ancora di più: Giacobbe, che riceve un nome nuovo, diventa Israele, dà un nome nuovo anche al luogo in cui ha lottato con Dio, lo ha pregato, lo rinomina Penuel, che significa “Volto di Dio”. Con questo nome riconosce quel luogo colmo della presenza del Signore, rende sacra quella terra imprimendovi quasi la memoria di quel misterioso incontro con Dio. Colui che si lascia benedire da Dio, si abbandona a Lui, si lascia trasformare da Lui, rende benedetto il mondo. Che il Signore ci aiuti a combattere la buona battaglia della fede (cfr 1Tm 6,12; 2Tm 4,7) e a chiedere, nella nostra preghiera, la sua benedizione, perché ci rinnovi nell’attesa di vedere il suo Volto. Grazie!

Fonte: Libreria Editrice Vaticana - 25.05.2011

Pensieri sparsi su "Universae Ecclesiae"



Testo preso da: Cantuale Antonianum http://www.cantualeantonianum.com/






Inizio - e a Dio piacendo continuerò a pubblicare - una serie di post che vertono sull'Istruzione vaticana di recente pubblicazione "Universae Ecclesiae", concernente l'applicazione del Motu Proprio "Summorum Pontificum", documento papale che ha liberalizzato la celebrazione della Messa secondo il rito romano vigente nel 1962.
Li chiamo "pensieri sparsi" perchè non seguiranno una scaletta rigorosa, ma saranno il frutto di meditazioni estemporanee sui singoli numeri che più mi colpiscono.


Innanzitutto il num. 2 dell'Istruzione, in latino recita: "Hisce Litteris Motu Proprio datis Summus Pontifex Benedictus XVI legem universalem Ecclesiae tulit ut regulis nostris temporibus aptioribus quoad usum Romanae Liturgiae anno 1962 vigentem provideret".
La versione italiana traduce: Con tale Motu Proprio il Sommo Pontefice Benedetto XVI ha promulgato una legge universale per la Chiesa con l’intento di dare una nuova normativa all’uso della Liturgia Romana in vigore nel 1962.
Faccio però notare che si perde per strada l'attributo di questa presunta "nuova normativa", che in realtà - leggendo il testo originale - si riferisce a regole più adatte ai nostri tempi, non tanto "rinnovare", ma semplicemente "riadattare" ai nostri tempi l'antica liturgia Romana.
Ma questo è l'intento dello stesso Concilio Vaticano II. Sacrosanctum Concilium, n. 62 dice in termini generali: "Cum autem, successu temporum, quaedam in Sacramentorum et Sacramentalium ritus irrepserint, quibus eorum natura et finis nostris temporibus minus eluceant, atque adeo opus sit quaedam in eis ad nostrae aetatis necessitates accommodare, Sacrosanctum Concilium ea quae sequuntur de eorum recognitione decernit.". Già il proemio della Costituzione affermava con chiarezza: "Sacrosanctum Concilium, cum sibi proponat vitam christianam inter fideles in dies augere; eas institutiones quae mutationibus obnoxiae sunt, ad nostrae aetatis necessitates melius accommodare"


E' quindi piuttosto chiaro che nell'Istruzione si intende asserire: "stiamo continuando la riforma liturgica conciliare, sistemando per i nostri tempi quello che si deve sistemare". Non "novità", ma "nuovamente": "non nova, sed noviter".


Il num. 7 dell'Istruzione "Universae Ecclesiae" esplicita il motivo della necessità di dare una nuova legislazione per la Messa antica, dice infatti: "Increscentibus magis magisque in dies fidelibus expostulantibus celebrationem formae extraordinariae", ovvero: "crescendo sempre più di giorno in giorno i fedeli che richiedono la celebrazione della forma extraordinaria", il Papa ha pensato perciò al Motu Proprio, per colmare una lacuna lasciata dai suoi predecessori, i quali avevano solo fornito indulti e indicazioni frammentarie in materia. Summorum Pontificum, invece "costituisce una rilevante espressione del Magistero del Romano Pontefice e del munus a Lui proprio di regolare e ordinare la Sacra Liturgia della Chiesa e manifesta la Sua sollecitudine di Vicario di Cristo e Pastore della Chiesa Universale". Deve essere chiaro a tutti che il Rito Romano, come afferma il Concilio Vaticano II (SC 22), è regolato primariamente dalla Sede Apostolica. I Vescovi sono chiamati a vigilare e a far rispettare la normativa liturgica, ma non sono essi i depositari del munus (cioè il diritto-dovere) di legiferare sulla forma o riforma della liturgia per la Chiesa universale (Cf. anche Codice di Diritto Canonico, c. 838 §1. Regolare la sacra liturgia dipende unicamente dall'autorità della Chiesa: ciò compete propriamente alla Sede Apostolica e, a norma del diritto, al Vescovo diocesano.
§2. È di competenza della Sede Apostolica ordinare la sacra liturgia della Chiesa universale, pubblicare i libri liturgici e autorizzarne le versioni nelle lingue correnti, nonché vigilare perché le norme liturgiche siano osservate fedelmente ovunque. §4. Al Vescovo diocesano nella Chiesa a lui affidata spetta, entro i limiti della sua competenza, dare norme in materia liturgica, alle quali tutti sono tenuti).



Il primo obiettivo della normativa data dal Papa nel Motu Proprio è ribadito dall'Istruzione con limpidezza cristallina, in modo da non poter essere più equivocato da nessuno:
a) Liturgiam Romanam in Antiquiori Usu, prout pretiosum thesaurum servandum, omnibus largire fidelibus;
offrire a tutti i fedeli la Liturgia Romana nell’Usus Antiquior, considerata tesoro prezioso da conservare.
Non a qualche gruppo, non ai nostalgici, non ai maniaci delle cose sorpassate, ma a TUTTI i fedeli è offerto un TESORO prezioso da conservare. Non c'è altro da aggiungere.







La forma Ordinaria e la forma Extra-ordinaria del Rito Romano sono dette, dall'Istruzione "Universae Ecclesiae": "giustapposte", messe fianco a fianco:
Num. 6: "...duae expressiones Liturgiae Romanae exstant, quae respective ordinaria et extraordinaria nuncupantur: agitur nempe de duobus unius Ritus Romani usibus, qui ad invicem iuxta ponuntur".
Non si dà quindi contrapposizione, ma giustapposizione: "L’una e l’altra forma sono espressione della stessa lex orandi della Chiesa. Per il suo uso venerabile e antico, la forma extraordinaria deve essere conservata con il debito onore" (Cf. n. 6).
Il prof. Andrea Grillo così si è espresso: "Il parallelismo ufficiale di due diverse forme del medesimo rito - di cui la più recente è sorta per emendare e superare le distorsioni e le lacune della precedente - non ti pare che di fatto relativizzi e metta come "sotto embargo" la condivisione universale della scelta della "riforma liturgica"?". E arriva perfino a scagliarsi conto il Motu Proprio "Summorum Pontificum", con parole che non esito a definire "temerarie", perchè rivolte ad un atto del magistero ordinario del Papa, e dice: "attraverso i provvedimenti che dal 2007 sono stati adottati in questo ambito, venga introdotta nel corpo ecclesiale una tensione sempre maggiore tra due forme di esperienza del rito che, come tali, non sono affatto compatibili, ma rispondono a diversi paradigmi ecclesiali, affettivi e testimoniali".
Grillo vede solo "contrapposizione", e non condivide affatto i presupposti di Benedetto XVI, il quale cerca la "pace liturgica", offrendo libertà e pluralismo nel recupero della tradizione celebrativa della Chiesa romana.
A Grillo pare una "mostruosità" che esistano due "Ordines Missae" per una stessa Chiesa "rituale". Ma da sempre nella Chiesa latina esistono riti diversi, anche molto diversi, tra loro: il romano, l'ambrosiano, il bracarense, il mozarabico, il rito domenicano e carmelitano.... Calendari parzialmente diversi, santorali molto diversi, ordinario della messa con variazioni di grande rilievo: eppure convivevano e convivono pacificamente.

Guardiamo in casa d'altri. Probabilmente non vale per noi, ma non possiamo esimerci dal costatare che la liturgia bizantina offre da sempre una forte duplicità rituale, attraverso le liturgie di San Giovanni Crisostomo (ordinaria, nel senso che è celebrata più spesso) e quella di San Basilio Magno (straordinaria, solo perchè più rara) - alle quali, per la verità, si dovrebbe anche aggiungere la rarissima Liturgia di San Giacomo (da cui le precedenti derivano). Certo non sono "fasi evolutive" dello stesso rito, eppure sono liturgie diverse, pur dello stesso ceppo, e convivono pacificamente.
Ma che dire, invece, dei nostri "fratelli" anglicani e luterani. La Chiesa d'Inghilterra ha avuto anche lei, dopo la nostra, una riforma liturgica dell'"Ordo Missae", con il risultato di aver ora "giustapposti" nel suo libro liturgico per la Holy Communion due "Orders": quello nuovo, con un linguaggio moderno, con varie preghiere eucaristiche, in tutto simile alla messa romana di Paolo VI, e quello "antico", cioè del Book of Common prayer, con il suo linguaggio seicentesco e la sua struttura "anglicanamente" tradizionale.
Lo stesso dicasi per i Luterani. Hanno un rito "nuovo", ma non per questo hanno ripudiato la Deutsche Messe che rimonta al loro stesso capostipite riformatore: Martin Lutero (il quale, prima della versione in tedesco, aveva riformato la "santa cena" in lingua latina!).


Possiamo perciò dire che, buoni ultimi, siamo arrivati anche noi cattolici d'Occidente a cogliere nella pluralità dei testi per la celebrazione eucaristica, una occasione per osservare il mistero inesauribile da più punti di vista. Quelli più "moderni", che ci aprono ad una visione discendente della liturgica, e quelli più antichi, che conservano il senso "ascendente" del sacrificio conviviale. Tenendoli insieme abbiamo un arricchimento. Chi vede contrapposizione e parla di "rito non più vigente" che sarebbe stato rianimato, purtroppo, non riesce a cogliere che: "Non c’è nessuna contraddizione tra l’una e l’altra edizione del Messale Romano. Nella storia della liturgia c’è crescita e progresso, ma nessuna rottura. Ciò che per le generazioni anteriori era sacro, anche per noi resta sacro e grande, e non può essere improvvisamente del tutto proibito o, addirittura, giudicato dannoso". Queste righe del "Summorum Pontificum" di Papa Benedetto sono la bussola che deve guidare la riflessione e l'approccio al Messale del 1962.
Il rito "tridentino" non è obbligatorio, ma non per questo non è "vigente", visto che la Suprema Autorità della Chiesa così ha stabilito, ricollocandolo come "forma extra-ordinaria" accanto alla vigente forma ordinaria.

martedì 24 maggio 2011

Muti: no a canzonette in chiesa


di Pierachille Dolfini

La "esse" non la pronuncia ancora bene. Ma è cosa da poco. «Devo ringraziare il Padre Eterno che mi ha salvato perché nel modo in cui sono caduto, adesso potevo essere su una sedia a rotelle oppure non parlare». Riccardo Muti se l’è vista davvero brutta lo scorso 3 febbraio quando, in prova con la Chicago symphony, ebbe uno svenimento e cadde dal podio. Tanta paura. Un’operazione chirurgica. E l’annullamento dei concerti americani. Quattro mesi dopo, il direttore d’orchestra rilegge con occhi diversi quell’episodio.

Lo fa a Trieste dove ieri il sindaco Roberto Dipiazza gli ha conferito la cittadinanza onoraria. Per ringraziarlo di essere stato «protagonista con il suo prestigioso talento di un evento di pace destinato a segnare la storia e il futuro della città». L’evento è il concerto delle Vie dell’Amicizia diretto da Muti il 13 luglio dello scorso anno a Trieste quando seduti uno a fianco all’altro in piazza Unità d’Italia c’erano il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, il capo di Stato sloveno Danilo Turk e quello croato Ivo Josipovic.

Un momento di riappacificazione. Una serata che, per il maestro, «ha dimostrato come culture e religioni diverse possano convivere nel nome della fratellanza e della bellezza». Sul leggio c’era il Requiem in do minore di Luigi Cherubini. Ricordandolo, Muti ne ha approfittato per parlare di musica sacra.

Ringraziando Papa Benedetto XVI per l’auspicio, espresso più volte, che «nelle chiese si torni al grande patrimonio musicale. Bisogna dire basta – ha detto il direttore d’orchestra – a canzonette o strimpellate di chitarra su testi inutili e insulsi».

Muti ha spiegato che «la grande storia della musica è dovuta proprio a quello che la Chiesa ha fatto. Non capisco perché una volta c’erano Mozart e Bach mentre ora si va avanti a canzonette: così non si ha rispetto per l’intelligenza delle persone. Anche l’uomo più semplice e lontano, sentendo l’<+corsivo>Ave verum <+tondo>può essere trasportato verso una dimensione spirituale, ma se sente le canzonette è come stare in un altro posto». Muti se l’è presa poi anche con i «flautini infami usati nell’educazione musicale nelle scuole».

Ed è tornato sulla situazione della musica in Italia, dopo aver contribuito con le sue pressioni sul ministro Tremonti al reintegro del Fondo unico per lo spettacolo. «Il problema della cultura va affrontato in maniera massiccia, non solo dando dei soldi, ma mettendo tutta l’attività culturale in condizione di poter vivere e non sopravvivere». Perché, e qui l’affondo al clima politico di questi giorni, «siamo un Paese strepitoso, ma portiamo dentro di noi una voglia di controversia continua per cui invece di risolvere i problemi perdiamo tanto tempo ad accapigliarci».

Fonte: Avvenire

L'alleanza scienza-fede, secondo Benedetto XVI



Intervista al professor Giuseppe Tanzella-Nitti*

* Direttore del Centro di Documentazione Interdisicplinare di Scienza e Fede, e Ordinario di Teologia fondamentale nella Pontificia Università della Santa Croce, Tanzella-Nitti partecipa insieme al DISF Working Group all'organizzazione di un convegno sull'argomento, che si terrà il 28 maggio, e che vedrà la partecipazione delCardinale Camillo Ruini,Presidente del Comitato per il progetto Culturale della CEI.
Al termine della conferenza avrà luogo la presentazione del volume di J. Ratzinger - Benedetto XVI, “Fede e Scienza. Un dialogo necessario”, un’antologia di scritti a cura di Umberto Casale della Facoltà di Teologia di Torino, edito da LINDAU.




La scienza e la fede vivono “un rapporto sempre in costruzione” al quale Benedetto XVI sta offrendo un contributo decisivo, spiega a ZENIT il professor Giuseppe Tanzella-Nitti.

L'esempio più visivo di questo contributo del Papa è stata la conversazione con gli astronauti della Stazione Spaziale Internazionale, in occasione dell'ultima missione dello Shuttle Endeavour, sabato scorso.

Il rapporto tra fede e ragione è stato uno dei temi più trattati da Benedetto XVI fin dall’inizio del suo pontificato. Ad esso ha dedicato importanti discorsi, spesso intrecciati con il tema della ricerca della verità e la critica al relativismo. Nota qualche elemento di novità rispetto agli insegnamenti di Giovanni Paolo II sullo stesso tema?

Professor Tanzella-Nitti: Fra il magistero di Giovanni Paolo II e quello di Bendetto XVI c’è grande continuità, ma al tempo stesso vi sono delle enfasi diverse che arricchiscono il quadro generale. Non potrebbe non esservi continuità in quanto Joseph Ratzinger, come ben sappiamo, è stato uno dei principali collaboratori del pontificato del nuovo Beato. Al tempo stesso Govanni Paolo II era stato professore di etica, mentre Benedeto XVI aveva insegnato soprattutto teologia fondamentale e poi dogmatica. Giovanni Paolo II era preoccupato della verità nell’agire morale e di come tale verità fosse in grado di recuperare il meglio della grande riflessione etico-filosofica sull’uomo, che egli ha sempre indicato come la strada maestra che la Chiesa doveva percorrere per far comprendere a tutti il suo messaggio salvifico. Benedetto XVI ha una prospettiva principalmente teologico-fondamentale e gnoseologica. La sua è una difesa della ragione umana, perché immagine di Dio e capace di portare a Dio, pur con tutti i limiti derivanti dai limiti e dagli errori della condizione umana. E anche lui, come Giovanni Paolo II, in questo cammino intende recuperare il meglio della riflessione filosofica. Una ragione debole non interessa alla fede. Per quanto diversa possa essere l’impressione data da alcune voci critiche, la fede cristiana si consolida proprio mediante il superamento dell’idolatria e della superstizione, due mali che la ragione debole, oggi predominante, sembra invece allegramente sottostimare.

In molti suoi discorsi Benedetto XVI parla volentieri del Logos creatore. E parla anche della ragione umana come immagine di Dio in sintonia con questo Logos, e quindi capace di conoscere la natura. In questo contesto si è anche riferito più volte alla matematica. Cosa intende dire in particolare?

Professor Tanzella-Nitti: In un’epoca, come la nostra, dove mancano certezze e punti di riferimento, dove nelle decisioni importanti si tende a riportare tutto alla convenzione o al parere della maggiornaza numerica, Benedetto XVI vuole indicare che può esserci un sapere condiviso al quale tutti, credenti e non credenti, possono accedere. Questo sapere può costruirsi pazientemente solo partendo dal riconoscimento della nostra creaturalità, della nostra condizione di dipendenza da un Creatore causa del mondo in cui viviamo e delle leggi di natura. E, come tale, questo Creatore è depositario anche della nostra verità. Questa conoscenza, ancora una volta, può innestarsi in una tradizione filosofica che ha sempre riconosciuto la presenza di un Logos che custodisce e rivela il progetto del mondo e dell’uomo, un Logos che la ragione intravede, intuisce, e al quale può aprirsi con stupore e riverenza. Il riferimento alla matematica, che d’altronde non va neanche troppo enfatizzato al di là delle intenzioni esemplificative del Pontefice, vuole probabilmente mettere in luce che anche il sapere scientifico è aperto al riconoscimento di questo Logos e che la nostra intelligenza, nel rendersene conto, si comprende ragionevoelmete come Sua immagine.

A proposito di sapere scientifico, lei da molti anni lavora nel campo del dialogo tra scienza e fede e dirige un importante Portale web su questo tema. Rapresenta la scienza un campo importante per la Nuova Evangelizzazione ed è anche alla scienza che deve oggi guardare il rapporto fra fede e ragione?

Professor Tanzella-Nitti: Sull’importanza della cultura scientifica nella società contemporanea e sul suo influsso sul modo di pensare di tutti non ci sono romai dubbi. Ed è logico che questa grande influenza debba interessare anche alla teologia e all’evangelizzazione, che si preoccupano di rendere il messaggio cristiano sempre più intelligibile agli uomni e alle donne del loro tempo. Operare, nella Chiesa o nel lavoro teologico, trascurando questo campo, vorrebbe dire condannarsi all’inefficacia, al fideismo di una doppia verità, e, credo, anche tradire in buona parte lo spirito del Concilio Vaticano II. Sono stato molto soddisfatto nel vedere fra i cinque grandi ambiti di Nuova Evangelizzazione previsti dai Lineamenta del prossimo Sinodo, dedicato proprio a questo tema, un esplicito riferimento al mondo della ricerca scientifica e tecnologica, citato accanto agli altri tradizionali ambiti dell’evangelizzazione, come ad esempio la comunicazione, la vita socio-economica o i flussi migratori. Occorre però, a mio avviso, che nella formazione del clero si tributi oggi una maggiore attenzione alla preparazione dei futuri pastori e teologi in questo specifico campo, adeguata alla missione di una Chiesa nell’era scientifica, quella che stiamo ormai già vivendo. Nelle Università ecclesiastiche e nei circoli culturali di ispirazione cristiana vi sono finalmente dei significativi fermenti in questo senso. E vi sono anche dei servizi di documentazione e di approfondimento disponibili in rete, come il Portale http://www.disf.org, al quale lei si riferiva. Le oltre 120.000 pagine consultate ogni mese da tutto il mondo dimostrano che vi è un diffuso interesse per conoscere la posizione della Chiesa cattolica su tali argomenti e le sintesi che la teologia sta producendo al riguardo.

Un recente libro che si occupa del rapporto fra tede e scienza in Benedetto XVI (J. Ratzinger - Benedetto XVI, Fede e scienza. Un dialogo necessario, Antologia a cura di U. Casale, Lindau, Torino 2010) sarà presentato a Roma sabato prossimo 28 maggio in occasione di un Working Group organizzato dal Portale DISF, presente anche il cardinale Camillo Ruini. Quali sono gli elementi salienti del volume ed in cosa consiste questo Working Group?

Professor Tanzella-Nitti: Il volume raccoglie prima una serie di articoli di Joseph Ratzinger su fede e scienza e poi alcuni discorsi di Benedetto XVI che fanno riferimento al pensiero scientifico o trattano del rapporto fra fede e ragione. Come mette in luce il commento del curatore, don Umberto Casale, l’interesse per le scienze si innestava con naturalezza nel lavoro teologico del prof. Ratzinger, che ha sempre insistito sulla conoscenza scientifica come impresa di verità, e per questo capace di dialogare con la teologia, provocandola e lasciandosi provocare, se necessario. Una provocazione utile soprattutto per la teologia, come ironicamente segnalava lo stesso Benedetto XVI nell’introduzione al celebre discorso di Ratisbona, quando ricordava che da giovane docente, incontrando colleghi di altre Facoltà nel campus dell’Università, questi lo osservavano con curiosità, trattandosi di un professore di una Facoltà, quella di Teologia, che si occupava di un oggetto, Dio, che per molti di loro non esisteva. Quando la teologia cessa di suscitare questa curiosità vuol dire che è divenuta tristemente autoreferenziale, cioè si parla addosso ma non parla più al mondo. E quando le scienze perdono anch’esse la curiosità di interrogarsi su Dio, attorno al Fondamento di tutte le cose, vuol dire che hanno perso il loro afflato verso la verità, hanno smarrito la loro capacità di stupirsi di fronte al mistero del mondo. Il Working Group che gravita intorno al Portale DISF riunisce giovani laureati in materie scientifiche, impegnati nella ricerca in diverse Università o laboratori italiani, che non intendono perdere questo afflato e questo stupore, dando vita ad un Seminario Permanente lungo tutto l’anno. E proprio per questo ascoltano volentieri quanto la filosofia e la teologia hanno da dire. Tanto il magistero del Beato Giovanni Paolo II, quanto quello odierno di Benedetto XVI, hanno reso questo lavoro più facile, e ogni giorno più attraente.

Fonte: Zenit - 23 maggio 2011

Il Papa invita tutti i fedeli del mondo a partecipare alla Giornata di preghiera per la Chiesa in Cina


Oggi, 24 maggio, nella memoria liturgica di Maria Ausiliatrice, tutti i fedeli cattolici sono stati invitati dal Papa a unirsi nella Giornata di preghiera per la Chiesa che è in Cina. L’appello è stato lanciato mercoledì scorso da Benedetto XVI durante l’udienza generale. Maria Ausiliatrice è venerata con grande devozione dai fedeli cinesi nel Santuario mariano di Sheshan, a circa 50 km da Shanghai.



“Cristo risorto dai morti, vincitore della morte e del peccato” è “vivo e presente nella vita della Chiesa e nelle vicende del mondo” – ha affermato il Pontefice mercoledì scorso: l’Amore di Dio “si espande incessantemente fino agli estremi confini della terra e, al tempo stesso, incontra rifiuto ed ostacoli in tutte le parti del mondo”. “Come allora, ancora oggi, dalla Croce alla Risurrezione”. Per questo, nel giorno della Vergine Maria, Aiuto dei cristiani, “tutta la Chiesa” si unirà in preghiera “con la Chiesa che è in Cina”:

“Là, come altrove, Cristo vive la sua passione. Mentre aumenta il numero di quanti Lo accolgono come il loro Signore, da altri Cristo è rifiutato, ignorato o perseguitato”.

“La Chiesa in Cina, soprattutto in questo momento, - ha detto il Papa - ha bisogno della preghiera della Chiesa universale”. L’invito è rivolto in primo luogo ai cattolici cinesi, ma anche a tutti i cattolici del mondo:

“…pregare per la Chiesa che è in Cina deve essere un impegno: quei fedeli hanno diritto alla nostra preghiera, hanno bisogno della nostra preghiera”.

“Quando Pietro era in carcere - ha ricordato il Santo Padre - tutti hanno pregato con forza e hanno ottenuto che un angelo lo liberasse”: “Anche noi facciamo lo stesso: preghiamo intensamente, tutti assieme, per questa Chiesa, fiduciosi che, con la preghiera, possiamo fare qualcosa di molto reale per essa”.

Se “i cattolici cinesi hanno detto molte volte di volere “l’unità con la Chiesa universale”, e “con il Successore di Pietro”, pregando – ha sollecitato il Papa - possiamo ottenere “per la Chiesa in Cina di rimanere una, santa e cattolica, fedele e ferma nella dottrina e nella disciplina ecclesiale”: “Essa merita tutto il nostro affetto”.

Ai vescovi, che “soffrono e sono sotto pressione nell’esercizio del loro ministero episcopale”, “ai sacerdoti e a tutti i cattolici che incontrano difficoltà nella libera professione di fede” il Papa ha espresso la sua “vicinanza”: “Con la nostra preghiera possiamo aiutarli a trovare la strada per mantenere viva la fede, forte la speranza, ardente la carità verso tutti”.

Il Papa ha chiesto pure di scongiurare un rischio presente: “Con la preghiera possiamo ottenere che il loro desiderio di stare nella Chiesa una e universale superi la tentazione di un cammino indipendente da Pietro”.

Infine, l’invocazione alla Madonna: “A Maria chiedo di illuminare quelli che sono nel dubbio, di richiamare gli smarriti, di consolare gli afflitti, di rafforzare quanti sono irretiti dalle lusinghe dell’opportunismo”.


Fonte: Radio Vaticana

BAGNASCO: MESSA IN LATINO E' PATRIMONIO DI RISCOPRIRE






di Salvatore Izzo

(AGI) - CdV, 23 mag.

I vescovi italiani daranno piena attuazione all'istruzione "Universae Ecclesiae" volta a dare una corretta applicazione del motu proprio "Summorum Pontificum" (documento che liberalizza l'uso dell'antico messale in latino) del 7 luglio 2007.
Lo ha assicurato il cardinale Angelo Bagnasco che in apertura della 63esima Assemblea Generale dell'Episcopato Italiano ha ricordato l'intento perseguito da due documenti che mirano "al recupero piu' impegnativo e armonioso nell'ambito delle singole Diocesi dell'intero patrimonio liturgico della Chiesa universale".
"In sostanza - ha aggiunto il cardinale - a non ferire mai la concordia di ogni Chiesa particolare con la Chiesa universale, operando piuttosto per unire tutte le forze e restituire alla liturgia il suo possente incanto".

© Copyright (AGI)

lunedì 23 maggio 2011


CATECHESI
nella Chiesa della Madonna del Carmine
p.zza del Carmine - Pistoia


venerdì 27 maggio 2011

ore 21


Padre Clario Salatin:

“Il credo”

Le icone mariane: una finestra sull’alba


di p. Angelo Maria Geiger, FI


Tutte le immagini della Madonna col Bambino sono riconducibili, in un certo qual modo, alle icone dell’antica Chiesa orientale che conservano, come ancora oggi, la Tradizione apostolica in forma visiva. In Occidente abbiamo molto da imparare dai nostri fratelli orientali per quanto riguarda la Madonna nell'arte. Le icone mariane non sono soltanto rappresentazioni della Vergine, ma vere finestre sull'alba della Rivelazione cristiana, depositarie dei misteri di Dio.

Ci sono tre maggiori prototipi iconografici della Madre di Dio: la Madre della Tenerezza, Colei che indica la Via e la Madre di Dio Orante.

L'icona della Madre della Tenerezza o Eleousa mostra la Madonna col Bambino, in un amabile abbraccio nel quale le due facce sono in stretta prossimità, e le loro forme sono racchiuse nella realtà umana di una madre in relazione col figlio. Il prototipo esprime la realtà storica ed umana dell'Incarnazione, e allo stesso tempo suggerisce la compassione di Maria Santissima per le sofferenze del Figlio. L'icona della Madonna del Perpetuo Soccorso è di questo tipo e rende molto esplicita la compassione materna di Maria. L'intimità della Madre e del Figlio nei misteri dell'Incarnazione e della Redenzione suggerisce l’elemento della cooperazione umana nel piano di Dio. Infatti, san Giovanni Damasceno, un Padre orientale, dice che «il nome Theotokos (Madre di Dio) contiene tutta la storia della divina economia nel mondo».

L'icona di Colei che indica la Via o Odighitria, mostra un atteggiamento diverso nella relazione tra la Madonna e il Bambino. Nostro Signore siede in trono sul braccio della Vergine Maria il cui sguardo è diretto all'osservatore. É maestosa e dominante nel suo gesto di indicare "la Via" con la sua mano destra. Il Signore risponde in un modo che è suggestivo di benedizione e riconoscimento per la presenza di sua Madre. Ora siamo invitati a partecipare alla relazione della Madonna col Bambino. Questo prototipo sembra essere trans-storico e riassume la nostra comprensione dogmatica del posto dell'Immacolata Vergine nei misteri della Fede. La spiritualità di san Luigi Grignion de Montfort, «a Gesù per Maria», trova qui la sua antica espressione popolare a cui noi facciamo pure riferimento come l'universale Mediazione di Maria. Anche l'immagine della Vergine Salus Populi Romani in Santa Maria Maggiore, Roma, e l'immagine della Madonna di Czestochowa, è un'icona Odighitria.

Il terzo prototipo della Madonna col Bambino nell’iconografia è la Madre di Dio Orante o Oranta, approvata come autentica espressione di fede dopo il Concilio di Efeso nel 1431, nel quale fu definito il dogma della Divina Maternità di Maria e la Madonna fu appellata col titolo di Theotokos, Madre di Dio. In questa immagine le mani della Madonna sono in un atteggiamento di preghiera, ritte in un gesto di supplica. Una delle versioni più comuni di questo prototipo è la Madonna del Segno o Panaghia. In questa icona il Bambino Gesù, in atteggiamento di benedizione, si mostra in una mandorla sull'addome della Vergine, ovvero, un circolo concentrico che simbolizza un luogo o uno stato di gloria. La Chiesa ortodossa ha dato a quest'immagine un'espressione poetica: «Tu, che l'universo è così piccolo da contenerti / hai confinato Te stesso nel grembo di una Vergine / e l'hai resa più spaziosa dei cieli». Lei è Vergine nel concepimento e nel parto e diventa il grande segno profetizzato da Isaia: "Ecco: la Vergine concepirà e partorirà un figlio, che chiamerà Emmanuele, che significa Dio con noi” (cf 7, 14). Costei è la Madonna quale realizzazione del Vangelo, o se possiamo tradurlo nella teologia occidentale del Concilio Vaticano II, la Madonna quale personificazione e archetipo della Chiesa.

Queste icone mariane sono davvero delle finestre sull'alba. Come la stella mattutina, la Madonna riflette la luce di Cristo su di noi tramite queste finestre. La verità sulla Vergine Maria è scritta su questi oggetti sacramentali in un modo semplice e bello, facile per noi da capire. Attraverso queste finestre possiamo entrare nel luogo dove si sono realizzati i misteri della fede e dove sono connessi misticamente con la persona dell'Immacolata Vergine. L'icona non è giusto un segno ma, in un certo modo, fa che la presenza della Madonna sia immediata ed effettiva. Attraverso di esse comprendiamo e rispondiamo alla sua cooperazione nel mistero della Redenzione, alla sua compassione per le sofferenze di Cristo e alla sua presenza nella Chiesa come Madre e Maestra.

Fonte: Il Settimanale di Padre Pio, n. 19, 15/05/2011

sabato 21 maggio 2011

La dura battaglia della chiesa per la castità


Pubblichiamo il testo della lezione tenuta martedì 10 maggio 2011 dal cardinale prefetto della congregazione per il Clero alla Facoltà teologica dell’Italia settentrionale di Torino su invito dei seminaristi di tutte le diocesi piemontesi alla presenza dell’episcopato della regione, dei formatori e dei docenti.


di Mauro Piacenza


Cari confratelli, carissimi seminaristi,

Sono particolarmente lieto di essere tra voi quest’oggi, in occasione della Giornata regionale dei seminaristi piemontesi e vi ringrazio per il cordiale invito. Il tema che mi avete proposto è quanto mai attuale e ritengo debba caratterizzare, in maniera sostanziale, ogni percorso formativo al sacerdozio ministeriale, poiché l’educazione della sfera affettiva non è mai separata, né separabile, dagli altri ambiti della formazione intellettuale, spirituale e pastorale. Svolgerò questa mia relazione in due punti fondamentali e cercherò di trarre delle conclusioni dall’analisi condotta.

La situazione attuale

Sarebbe quanto meno imprudente approcciare l’importante tema della formazione affettiva, senza considerare la vera e propria rivoluzione accaduta nella società occidentale e, per letale contagio, un po’ in tutto il mondo, dagli anni Settanta in poi. L’aver separato, all’interno della sessualità, l’aspetto unitivo da quello fecondo, e aver, pertanto, ridotto uno degli atti antropologicamente più rilevanti al suo aspetto meramente istintivo, ha prodotto conseguenze devastanti, non soltanto sul piano morale – il che già sarebbe di inaudita gravità –, ma, con il passare dei decenni, anche sul piano psicoantropologico.

E’ impensabile affrontare il tema della formazione affettiva in seminario, senza partire dalla lucida consapevolezza che, anche indipendentemente dalla loro volontà, tutti coloro che sono nati dopo gli anni Settanta-Ottanta, sono cresciuti in un clima culturale pansessualista e ipereroticizzato, nel quale i poteri forti del mondo, che intendono piegare la libertà degli uomini a vari indecorosi interessi, non hanno risparmiato alcun mezzo, inclusi i messaggi subliminali, instillati fin dalla più tenera età, perfino in taluni cartoni animati, per ottenere la “destrutturazione” dell’aspetto psicoaffettivo della personalità umana e, con essa, la sottomissione dell’uomo ai propri istinti. A quella che potremmo chiamare la rivoluzione sessuale post sessantottina, deve essere sommata, poi, l’invadenza dei mezzi di comunicazione sociale, soprattutto la televisione e, più recentemente, Internet, i quali hanno portato in ogni casa, anzi in ogni stanza e luogo, immagini prima mai visibili che rimangono impresse, fin dalla più tenera età, nella memoria, nella fantasia e perfino nell’inconscio delle persone, le quali si ritrovano ad agire in maniera molto più difficilmente controllata e controllabile.

Se il peccato delle origini ha reso sempre particolarmente fragile la dimensione psicosessuale dell’uomo, tali recenti gravi mutazioni ne hanno determinato il vero e proprio stravolgimento, inserendosi non più soltanto nella sfera privata o della tentazione, ma divenendo costume diffuso, perfino cultura condivisa, al punto da far apparire come “estraneo” al giudizio comune ogni altro comportamento. Tale situazione, che potrebbe, a un primo impatto, apparire come “apocalittica”, descrive, in realtà, non tanto gli atteggiamenti morali, quanto piuttosto la reale situazione culturale, nella quale, anche coloro che sentono la chiamata al celibato e al sacerdozio ministeriale, sono profondamente immersi e dalla quale, in fondo, provengono.

Ancora, in tale contesto socioculturale, è purtroppo necessario riconoscere quella che definirei la “caduta di significato” della affettività, in generale, e della sessualità, in particolare. Mi spiego. L’aver artificialmente svincolato l’aspetto unitivo da quello fecondo, ha irrimediabilmente ridotto l’ampia sfera dell’affettività al solo esercizio della genitalità, privandola di quel contesto di definitività che le è proprio e, per conseguenza, ne ha prima, semplicemente, “alleggerito” l’importanza e oggi, ormai, l’ha decisamente banalizzata. Tale situazione è riscontrabile soprattutto nella superficialità con cui, non di rado, vengono compiuti determinati atti o gesti, i quali, per loro natura, presupporrebbero una maturità e una definitività che, nella stragrande maggioranza dei casi, non sono riscontrabili, e ciò senza il ben che minimo turbamento delle coscienze. Non è un mistero che, in taluni ambiti, alcuni giovani vivano un esercizio completo della genitalità, con la disinvoltura con cui ci si può stringere una mano, presentandosi!

Emerge con chiarezza come una tale situazione culturale esiga l’attento discernimento dei formatori, i quali sono chiamati a distinguere, in maniera netta, tra chi proviene da un’educazione tradizionalmente cristiana e consapevolmente impegnata, nella retta comprensione dell’affettività e della sessualità, e chi, invece, proviene dal mondo-mondo, vi è totalmente immerso, e perciò non è immaginabile, pur con l’aiuto della Grazia, che improvvisi atteggiamenti radicalmente diversi.

Tale giudizio non implica necessariamente la creazione di percorsi formativi differenziati, né comporta l’impossibilità di giungere a quello stabile equilibrio richiesto dall’impegno celibatario, previo alla sacra Ordinazione, ma certamente domanda una progressiva e radicale assunzione di consapevolezza, sia da parte del candidato, sia da parte dei formatori, non disgiunta da una buona dose di umile realismo e da un cammino quanto mai serio e impegnato, poiché non si tratta soltanto di vincere dei vizi e di acquisire delle virtù, ma di combattere e vincere, in se stessi, quella che è una struttura antropologica mutuata dalla cultura dominante e da essa continuamente riproposta. Bisogna essere veramente liberi! Si crea una situazione di osmosi con tale cultura dominante e, se non si è vigili si finisce con l’essere anestetizzati attraverso una sorta di flebo che “goccia-goccia” mondanizza.
Un tale contesto disorientato e disorientante non ha conseguenze unicamente nella sfera psicosessuale, ma investe l’intero ambito relazionale delle persone. Il crescere in un contesto iper eroticizzato, nel quale, quasi inconsciamente, si respira una sessualità disordinata, ha conseguenze anche sull’agire quotidiano delle persone e sul loro ordinario relazionarsi.

Il vero dramma, poi, in questo contesto è costituito dal fatto che anche gli stessi soggetti, vittime, consapevoli o meno, della generale deriva psicoaffettiva, vivono in una radicale insoddisfazione, unicamente determinata proprio dalla distonia tra ciò per cui l’uomo è stato creato, con il conseguente profondo significato della sua affettività, e quanto egli attualmente vive.

Il cuore dell’uomo è fatto per la definitività. Qualunque sia la vocazione, verginale o sponsale, a cui Dio lo chiama, è unicamente la definitività a determinarne il reale appagamento. Immagine e somiglianza di Dio Amore infinito, l’uomo avverte, tra i propri bisogni elementari, quello della verità, della libertà, della bellezza, della giustizia, dell’amore e, sintesi di tutti – oggi così poco adeguatamente compreso, anche se tentativamente cercato, e talora perfino preteso –, quello della felicità! Ciascuno percepisce come il soddisfacimento di questi bisogni domandi, anzi postuli, la totalità. Nessuno accetterebbe, serenamente e supinamente, di essere “un po’” giusto, o “un po’” libero. Ciascuno domanda che tali bisogni antropologici universali abbiano compimento pieno, sia esperienzialmente, sia cronologicamente parlando; tale pienezza è ciò che, nel linguaggio condiviso, si descrive con il termine “definitività”. La Scrittura ci insegna a resistere “saldi nella fede” a colui che “come leone ruggente va in giro, cercando chi divorare” (1Pt 5,8-9), anche quando tale esperienza fosse quella del nostro uomo vecchio. La fragilità, talvolta estrema, delle unioni matrimoniali e l’incapacità di tanti giovani ad assumere decisioni definitive, non hanno radici differenti dalla difficoltà a vivere un’affettività ordinata e a maturare l’accoglienza serena della Vocazione verginale. Se, in ogni epoca, è stato complesso vivere la perfetta continenza per il Regno dei Cieli e il conseguente celibato, a causa della fragilità della natura umana, paradossalmente, nella nostra epoca, appare particolarmente arduo, poiché la rete delle comunicazioni veicola un pansessualismo violento, capace di distorcere la percezione stessa della sfera affettiva, sessuale e relazionale.

La formazione affettiva al sacro celibato

Come immaginare un percorso formativo efficace per candidati al sacerdozio, che giungano da un tale contesto culturale? Da dove partire e verso dove andare per evitare, per quanto sia umanamente possibile, errori, che potrebbero rivelarsi drammaticamente fatali per il futuro sacerdote? Dopo una premessa di metodo, articolerò questo secondo punto della conferenza, che è quello centrale del tema assegnatomi, in tre sottopunti, dinamicamente integrati tra loro, ma che, per efficacia didattica, preferisco distinguere, per poi mostrarne l’intima relazione. Prenderemo in esame, successivamente, le dimensioni: 1. della purificazione della memoria, 2. dell’educazione del presente vissuto affettivo e, infine, 3. dell’attesa orante del dono del sacerdozio e della relativa grazia di stato da esso derivante, così essenziale per vivere il sacro celibato. Quanto fin qui detto, se ancora ce ne fosse bisogno, ci ricorda l’importanza della formazione affettiva e la radicale serietà con la quale essa domanda di essere affrontata.

Non è tollerabile che, nel tempo della formazione, si censuri o si affronti, solo tangenzialmente e superficialmente, la questione affettiva. Nel rispetto più rigoroso della necessaria e canonicamente riconosciuta distinzione tra foro interno e foro esterno, è necessario che la dimensione affettiva sia messa a tema esplicitamente con i superiori del seminario e, nel caso ciò non avvenga spontaneamente, dai superiori del seminario. Certamente ciò implica che essi siano persone affettivamente mature, riconciliate con se stesse e con la propria dimensione psicoaffettiva, non frustrate e, perciò, almeno non tendenti a proiettare sugli altri i propri nodi non risolti. E’ necessario che abbiano integrato i propri eventuali problemi psicoaffettivi, per poter accompagnare gli altri in questo cammino di maturità. Pertanto, è necessario che la scelta dei formatori sia particolarmente ponderata e tenga conto, non solo, delle competenze teologiche e pastorali, ma anche, e forse soprattutto, della maturità psicoaffettiva e dell’equilibrio armonico generale della persona.

Pur nel riconoscimento dell’indispensabile dimensione della responsabilità personale nel percorso educativo, è sempre necessario mantenere chiara la distinzione tra educatori ed educandi, tra coloro ai quali è stato chiesto, dal Vescovo, di occuparsi della formazione dei futuri sacerdoti, e i candidati all’ordinazione. Ogni equivoco, in tale ambito, sarebbe foriero di gravi conseguenze, non da ultime, l’inefficacia della stessa azione educativa.

La purificazione della memoria

Accennavo, prima, a come sia indispensabile distinguere, tra i candidati, coloro che provengono da una formazione motivatamente cristiana, e dunque sono stati presumibilmente educati al reale significato dell’affettività umana, e quelli che, totalmente immersi nel mondo e nelle sue abitudini affettivo sessuali, si sono convertiti, sono stati chiamati e hanno bussato alla porta del seminario. Per entrambi, è tuttavia necessario compiere un veritiero e integrale percorso di purificazione della memoria, sia dal punto di vista spirituale, sia sotto il profilo morale e psicologico.

Non è possibile purificare la memoria, senza “fare memoria”. Evitando il rischio di rimanere impantanati nelle paludi dei ricordi e delle conseguenti reazioni sensibili a essi, è necessaria, almeno nel foro interno, una disarmata narrazione della propria storia affettiva, per presentarla a Dio, nella sua bellezza e nella sua problematicità, nei suoi frutti e nelle sue cadute, nei suoi errori sporadici e accidentali, o nei suoi limiti strutturali e reiterati. “Fare memoria” significa favorire quel sano realismo, senza il quale è semplicemente impossibile ogni autentico cammino di guarigione! “Fare memoria” significa permettere, almeno al superiore di foro interno – il direttore spirituale –, di conoscere realmente la storia personale del candidato, di raccogliere quanti più elementi possibile sul suo percorso, per poter impostare un cammino spirituale davvero efficace, cioè capace di accompagnare a una sufficiente integrazione della dimensione affettiva e ad una presumibile fedeltà all’impegno celibatario. Cari amici, piuttosto che tacere aspetti fondamentali e rilevanti delle proprie esperienze affettive, è meglio parlarne con qualcuno, anche di esterno al seminario, con i cosiddetti confessori invitati o con un sacerdote di propria fiducia, i quali, se necessario, possano progressivamente aiutare a mettere a tema, eventualmente, fosse opportuno esplicitare, onde evitare che l’aver taciuto su elementi essenziali, arrivi ad inficiare la stessa rettitudine di intenzione.

La purificazione della memoria, che ha una sua fase iniziale e fondamentale nel tempo della formazione seminaristica, ma che dura per l’intera esistenza terrena, domanda e, in certo modo, implica una radicale umiltà. Sant’Ignazio di Loyola, nei suoi Esercizi spirituali, ci è maestro nell’arte del discernimento degli spiriti, intimamente legata alla purificazione della memoria. Ciascuno può fare esperienza di come la fragilità della natura umana e il limite della memoria possano permettere, talvolta perfino in maniera ostinata, il permanere di immagini e di ricordi, che, anche se sottoposti al “potere delle chiavi” e alla divina Misericordia, e perciò distrutti da Dio, continuano a insidiare e talvolta ad assediare la vita spirituale.

La cultura contemporanea, poi – come detto – tende letteralmente a “imbottire” i giovani di immagini, e dunque di “memorie” un tempo inimmaginabili. E’ sufficiente passeggiare per le vie di qualunque città, per essere sottoposti a un vero e proprio linciaggio di immagini, per non parlare, poi, della televisione e, ancor più, di Internet. Dall’esperienza dello studio delle tristi cause di dispensa dagli oneri decorrenti dall’ordinazione, mi pare di poter evincere che, nel cattivo uso per mezz’ora di Internet, si possa vedere ciò che, in passato, nemmeno in un’intera esistenza, era dato di incontrare! Se i candidati al sacerdozio provengono da questo tipo di esperienza, è indispensabile che essi stessi scelgano e siano aiutati a compiere un taglio davvero radicale, ma che è indispensabile, anche solo per immaginare la possibilità di una fedeltà all’impegno celibatario. Tutte le memorie non purificate nel tempo della formazione e le cattive abitudini non vinte, tornano al pettine, determinando seri problemi di equilibrio psicoaffettivo e, talvolta, dolorosissime situazioni spirituali, morali e psicologiche.

La purificazione della memoria potrebbe apparire, così, un’opera impossibile, ma noi sappiamo, cari amici, che nulla è impossibile a Dio! In tal senso, l’opera essenziale di tale purificazione, compiuta e fermamente perseguita dall’intelligenza, dalla libertà e dalla volontà umane, è perfezionata dalla grazia soprannaturale, che giunge a noi specialmente attraverso un’intensa vita spirituale e sacramentale. Ciò che potrebbe apparire impossibile ai nostri occhi, è reso possibile dall’intervento costante ed efficace di Dio, il Quale, se cava dei figli di Abramo anche dalle pietre, può plasmare uomini equilibrati, integrati, riconciliati con la memoria del proprio passato e casti, anche in questo tempo, così disorientato e disorientante dal punto di vista psico-affettivo!

Educazione del presente vissuto affettivo

L’Esortazione apostolica “Pastores dabo vobis”, al n. 44, afferma: “Poiché il carisma del celibato, anche quando è autentico e provato, lascia intatte le inclinazioni dell’affettività e le pulsioni dell’istinto, i candidati al sacerdozio hanno bisogno di una maturità affettiva capace di prudenza, di rinuncia a tutto ciò che può insidiarla, di vigilanza sul corpo e sullo spirito, di stima e di rispetto nelle relazioni interpersonali con uomini e donne”. Con un linguaggio straordinariamente realistico e, per certi versi, “nuovo” ai documenti pontifici, il Beato Giovanni Paolo II ci ha consegnato un pilastro della formazione affettiva al celibato. Le inclinazioni dell’affettività e le pulsioni dell’istinto non vengono cancellate o modificate dal carisma del celibato, il quale – afferma il testo – le lascia intatte! E’ pertanto necessario educare il proprio presente affettivo, sia nella dimensione delle inclinazioni, sia in quella delle pulsioni, perché non accada di immaginare un futuro sacerdotale che, sotto il profilo psicoaffettivo-sessuale, sia radicalmente differente dal proprio presente seminaristico. E’ necessario perciò comprendere come l’importantissimo tempo del seminario sia dato anche per lavorare sul proprio equilibrio psicoaffettivo, per integrarne inclinazioni e pulsioni, e per scegliere e affilare quelle “armi” essenziali alla lotta, che dura tutta la vita. La consapevolezza che il carisma del celibato è un dono soprannaturale dello Spirito, impone che, nella formazione a esso, si riconosca il primato assoluto della grazia.
Se è necessario riconoscere e prudentemente utilizzare gli apporti delle scienze umane, in particolare la psicologia, a patto che facciano riferimento a una concezione antropologica veramente cristiana, è doveroso ammettere non pochi errori compiuti, in tale ambito, nei decenni passati.

Si è talvolta pensato di poter delegare alla scienze umane ciò che, invece, competeva ai formatori, essenziali mediatori dell’azione misteriosa e soprannaturale di Dio; si è pensato che la psicologia potesse essere la panacea di “tutti” i mali per “tutti” i candidati al sacerdozio, imponendo, talora senza discernimento, indiscriminatamente a tutti, di farvi ricorso, senza la doverosa distinzione tra le cosiddette nevrosi fisiologiche – che tutti abbiamo – e quelle patologiche, che domandano un intervento di carattere clinico; si è creduto di poter far internalizzare i valori evangelici, incluso il celibato, non grazie all’incontro personale, affascinante e vivificante con Cristo – come è ovvio –, ma attraverso vari processi di destrutturazione della personalità e presunte, mal riuscite sue ristrutturazioni, inclusive dei supposti menzionati valori…
Le cause di dispensa dagli oneri derivanti dalla sacra Ordinazione, incluso il celibato, documentano questi tragici errori nell’abuso o nell’uso errato delle scienze umane, nella formazione al sacerdozio ministeriale. Se usate con i dovuti criteri e laddove si mostrasse utile, allora tali scienze umane risulterebbero provvide.

Il dono del carisma celibatario fiorisce, è progressivamente accolto e matura, fino a definire la stessa personalità psicologica del sacerdote, unicamente nel rapporto intimo, prolungato, reale e interpersonale con Gesù di Nazaret, Signore e Cristo! Solo l’intimità orante con il Signore, la progressiva immedesimazione con la Sua Vita, con le Sue parole, con i Suoi pensieri – “Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù” (Fil 2,5) – permette di accogliere e di vivere il celibato, non come un elemento estraneo alla propria persona, da sopportare faticosamente, ma come la ridefinizione di sé, che nasce dall’incontro con Cristo e dal cambiamento e dalla vita nuova, che tale incontro genera.

Il celibato è, per eccellenza, quel nuovo orizzonte, che forse mai prima avevamo immaginato, e che l’incontro con Cristo ha radicalmente disvelato.
Tra l’altro – tutti ne facciamo esperienza – alla vocazione sacerdotale corrisponde, misteriosamente ma realmente, una straordinaria fioritura dell’umano. Che cosa sarebbe, infatti, la nostra umanità senza Cristo, senza la vocazione che Egli ci ha donato? Insieme alla chiamata al sacerdozio ministeriale, il Signore permette una fioritura della nostra umanità, una sua purificazione, un’inattesa e straordinaria dilatazione, perché essa diventi progressivamente capace di accogliere, definitivamente, un tale straordinario carisma e di viverlo come suprema testimonianza a Cristo, nella quotidianità dell’esistenza ministeriale.

Il mondo – anche nel tempo drammatico degli scandali, vergognosi e contro i quali è necessario agire con tutte le nostre forze, sia dal punto di vista della formazione, che sotto il profilo della penitenza e preghiera riparatoria, come pure e seriamente sotto il profilo disciplinare e penale – non attacca il nostro agire “sociale”, né le nostre opere caritative; esso non può tollerare la testimonianza della castità per il Regno dei Cieli e la conseguente azione educativa, che da essa scaturisce.

Se sempre ricca di fascino è, poi, la vita monastica, quando è veramente tale, non dimentichiamo mai, cari amici, che, paradossalmente, la testimonianza di un sacerdote secolare, cioè immerso nel suo tempo e nella sua società, per certi aspetti può essere ancora più dirompente. Noi non siamo monaci separati dal mondo, ai quali guardare con occhio sentimentalista, siamo uomini pienamente inseriti nel nostro tempo, “nel” mondo ma non “del” mondo, e testimoniamo, con la nostra scelta celibataria, che Dio c’è, che chiama a Sé gli uomini, che può dare significato all’intera esistenza e che vale la pena spendere, per Lui, la nostra vita!

L’intimità divina, condizione imprescindibile della formazione celibataria, si coltiva, innanzitutto – dicevo – nella orazione, nella quale dobbiamo essere totalmente immersi; “Conversatio nostra in Coelis est”; diversamente in terra ci si agita ma si realizza nulla! Formarsi a una radicale fedeltà alla santa Messa quotidiana, all’Ufficio divino, all’adorazione eucaristica, all’orazione mentale anch’essa quotidiana, alla preghiera del santo Rosario, che quotidianamente affida a Maria il proprio sacerdozio, è il “quoziente minimo” per poter anche solo sperare di vivere il celibato. Un sacerdote che non preghi, che non avverta l’urgenza di celebrare quotidianamente l’Eucaristia, superando le infondate teorie del “digiuno eucaristico” e gli scandalosi “giorni liberi”, nei quali pare di essere liberi anche dal rapporto con Cristo – che cosa triste per un sacerdote liberarsi da Cristo! –, ben difficilmente potrà vivere serenamente ed efficacemente il proprio celibato. Nel tempo del seminario è necessario formarsi a queste dimensioni indispensabili della vita presbiterale, domandando alla grazia soprannaturale che esse non siano soltanto delle buone e virtuose abitudini, ma divengano vera e propria struttura psico-antropologico-spirituale, nella quale la stessa identità personale è definita.

Il sacerdote non solo celebra la santa Messa, ma in essa si identifica, poiché, progressivamente ma realmente, la santa Messa diviene la sua vita, ed egli “è” la santa Messa che celebra! In questa dimensione chiaramente soprannaturale, alla quale progressivamente ci si educa e si viene educati, ogni pensiero, ogni parola e, ovviamente, ogni atto in distonia con la grandezza della propria vocazione, devono essere evitati, certamente, per la loro valenza peccaminosa, ma anche – e direi soprattutto – per l’infelicità che generano nella loro totale inadeguatezza alla verità, sia del sacerdozio, sia delle azioni ministeriali che il sacerdote compie.

Le scienze umane possono costituire un valido aiuto per conoscere, almeno a grandi linee, le fondamentali dinamiche della psiche e dell’affettività, ma il più bravo degli psicologi può dire quali problemi ci sono, può prestare un aiuto veramente prezioso, ma certamente non può risolverli. Solo Cristo salva l’uomo nella sua interezza!
Due elementi mi paiono ancora essenziali nell’educazione del proprio presente affettivo: il rapporto con il mondo e il ruolo della formazione intellettuale.

Nel rapporto col mondo – già ampiamente descritto nel primo punto della presente relazione –, appare con preoccupante evidenza come, troppo spesso, nella formazione seminaristica si verifichino impressionanti ingenuità. Se negli anni Cinquanta-Sessanta era, per certi versi e per taluni, necessario aprirsi al mondo o, per lo meno, mostrare nuovamente, in modo comprensibile al mondo, tutta la bellezza del cristianesimo, oggi si è immersi nel rischio diametralmente opposto: quello di essere totalmente immersi nel mondo.

Ritengo che, nelle attuali circostanze, sia semplicemente impossibile percorrere un serio e impegnato cammino di formazione alla perfetta castità per il Regno dei Cieli, se non si è capaci di vivere quel taglio radicale con il mondo, che è, soprattutto e innanzitutto, un taglio con la sua mentalità. Del resto solo così si può servire la società. Può un seminarista avere le stesse identiche abitudini di quando era un giovane animatore della parrocchia o un giovane universitario nel mondo? Può, in quelle fughe che a volte diventano i tirocini pastorali, frequentare gli stessi luoghi, con gli stessi atteggiamenti?

Non si tratta, qui, carissimi amici, di irrigidirsi in atteggiamenti bacchettoni o incapaci di autentiche relazioni interpersonali; si tratta semplicemente di fuggire le occasioni prossime di peccato e di non esporre sistematicamente e reiteratamente la propria psiche, la propria emotività e il proprio corpo a situazioni che, inevitabilmente, rendono ancora più difficile la perfetta continenza per il Regno dei Cieli.

L’ultimo aspetto riguarda l’importanza della formazione teologica, anche nel cammino di educazione al celibato sacerdotale. Una sana cristologia, fedele al dato scritturistico, alla Tradizione e al Magistero ininterrotto, deve porre in luce la straordinarietà dell’umanità di Gesù Cristo e la bellezza dell’essere configurati a Lui, e quindi anche alla Sua umanità perfettamente casta, con l’Ordinazione sacerdotale. Una ecclesiologia che non voglia tradire la verità, non può ridurre i sacerdoti a “funzionari di Dio”, ma deve riconoscerne, all’interno di un contesto tutto soprannaturale, il misterioso e necessario compito distinto, essenzialmente e non soltanto per grado, da quello battesimale e in relazione alla promozione di questo.

Sono profondamente persuaso che una certa fragilità teologica, diffusa in non pochi ambiti accademici, abbia ben gravi responsabilità, anche nella tenuta delle Vocazioni sacerdotali, le quali, senza adeguate ragioni – come è logico –, non reggono l’urto violento e persistente del mondo.

E concludo questo approfondimento sull’educazione del presente vissuto affettivo, sottolineando ancora una volta il primato assoluto e incontrovertibile della grazia nella formazione al celibato. Guardiamo alla Misericordia, compresa, celebrata nel sacramento della Riconciliazione e continuamente invocata. Essa è la prima “medicina” per guarire dai limiti della concupiscenza e vivere, in modo progressivamente sempre più perfetto, quella continenza per il Regno dei Cieli, così strettamente legata al ministero presbiterale, tanto da indurre la chiesa a scegliere i suoi sacerdoti solo tra coloro che ne hanno ricevuto il carisma. Ciò che appare impossibile alle sole forze umane, è reso sperimentalmente possibile dalla grazia, alla quale continuamente senza limiti, è necessario affidarsi.

L’attesa orante del dono del sacerdozio

La comunità del seminario ha il suo modello supremo nel Cenacolo di Gerusalemme, nel quale gli Apostoli, fatta l’esperienza di Gesù Risorto e stretti intorno a Lui, vivono in attesa orante del dono dello Spirito, uniti alla Beata Vergine Maria. Se il momento dell’Ordinazione sacerdotale è l’effusione dello Spirito, che rende capaci di parlare lingue nuove, di annunciare il Regno efficacemente, di guarire con la potestà sacramentale e di compiere ogni altro atto di Ministero autentico, allora il Seminario vive, si nutre, cammina e cresce come vero e proprio Cenacolo. Come, nel Cenacolo, tutti gli Apostoli hanno fatto l’esperienza di un rapporto personale con Gesù e Lo hanno visto Risorto, così ciascun seminario deve essere una comunità di uomini che hanno incontrato Gesù Cristo e la cui vita è stata cambiata da quell’incontro; uomini che hanno fatto l’esperienza del Risorto, che vivono la chiesa come il popolo eletto da Dio e come il Suo vero Corpo, che oggi cammina nel tempo e nella storia.

Quel gigante di santità e anche di sapienza umana che è San Benedetto, nella sua Regola, invita, senza dubbio alcuno, ad allontanare dal monastero chiunque vi entrasse per ragioni diverse dalla ricerca di Dio. Credo che la stessa chiarezza e fermezza debba essere utilizzata nel discernimento sull’ingresso e sulla permanenza nella comunità del Cenacolo che è il seminario.
Tutti i limiti possono essere abbracciati, sopportati e supportati dalla comunità del seminario, che è, per sua natura, una comunità formativa e di transizione – anche gli Apostoli non sono rimasti tutta la vita nel Cenacolo –, ma la mancanza di retta intenzione e il permanere in seminario per ragioni differenti da quella di cercare e servire Dio e la sua chiesa, non può essere tollerata, perché impedisce ogni autentico cammino di conversione e reale formazione. La comunità del Cenacolo, e quindi il seminario, è una comunità orante. Il sacerdote è e deve essere un uomo orante! Una comunità seminaristica che non avesse al proprio centro la dimensione della preghiera, ben difficilmente riuscirebbe ad assolvere al proprio compito.

La preghiera non è un’interruzione delle cose da fare, ma, al contrario, si interrompe talvolta la preghiera per fare delle cose, e anche nelle altre opere è necessario custodire uno spirito orante. La riforma del clero, da più parti auspicata, non potrà che essere frutto della radicale riscoperta della dimensione soprannaturale del Ministero e del conseguente primato del rapporto orante con Dio. Primato che, nella stessa preghiera ufficiale del seminario, deve trasparire chiaramente: per la fedeltà alla Liturgia, così come la chiesa determina che venga celebrata, per la cura di ogni gesto, atteggiamento. In ciò non ci può essere nulla di formalistico. La giusta forma, inoltre, aiuta la custodia e la veicolazione della sostanza.

Accanto alla preghiera della chiesa, costituita non solo dalla santa Messa e dall’Ufficio divino, ma anche dall’Adorazione eucaristica, dal santo Rosario e da ogni pio esercizio, che sostenga e alimenti la fede, la comunità del seminario è chiamata a educare i futuri sacerdoti anche alla preghiera personale, al silenzio, alla meditazione e agli spazi di reale intimità divina.
Trattandosi di una “educazione”, essa non può essere lasciata unicamente alla responsabilità o alla creatività personali, ma devono essere proposti momenti di silenzio e di Adorazione eucaristica, che, pur conservando il carattere della libertà, in ordine all’adesione, sono sistematicamente inseriti nel cammino quotidiano o ebdomadario. La mia personale esperienza è che l’inserimento di un’ora di adorazione eucaristica quotidiana nel percorso formativo, ha straordinari effetti sul cammino dei seminaristi, crea una consuetudine con il Signore che, nel tempo del ministero, sostiene e aiuta ad avvertire la nostalgia dello “stare con Gesù”, sospingendo la libertà a ricercare costantemente tali momenti.

L’attesa orante del dono del sacerdozio, poi, orienta l’intera preghiera. Non si prega indipendentemente dalla vocazione ricevuta, ma, partendo da essa, ci si pone davanti al signore quasi pregustando le dolcezze del ministero. Pregustando la celebrazione della santa Messa, l’amministrazione della divina Misericordia, pregustando quell’intimità divina che, con l’ordinazione presbiterale, diviene ontologica e alla quale siete chiamati a prepararvi interiormente. Dal punto di vista umano nulla s’improvvisa e dal punto di vista divino nulla si anticipa. In tal senso devono essere superati quei timori, anch’essi datati anni Settanta, di eccessiva “prossimità” alle cose di Dio. E’ necessario svegliarsi, la storia è andata avanti! Se oggi c’è un autentico problema, da tenere sempre ben presente, è quello della fragilità e dell’identità sacerdotale che, anche a causa di non poche fluttuazioni teologiche, non è sufficientemente delineata e, soprattutto, solo raramente coincide con la stessa identità psicologica del candidato.

San Giovanni Maria Vianney, modello dei sacerdoti, che abbiamo imparato a conoscere meglio anche grazie all’Anno Sacerdotale, è esemplare proprio per la totale immedesimazione con il proprio ministero. Condizione – questa – dell’efficacia apostolica, ma anche della pace interiore, della serenità e, soprattutto, del senso di piena realizzazione del sacerdote, al servizio di Dio, della chiesa e degli uomini.

Conclusioni

Al termine di questo lungo percorso, possiamo trarre alcune conclusioni, che, sebbene non definitive, possono orientare il percorso della formazione affettiva nel tempo del seminario. Per semplicità e chiarezza, le delineerò a mo’ di elenco.

1. La memoria tematizzata del proprio concreto vissuto psicoaffettivo e sessuale, costituisce un elemento fondamentale di un cammino, che voglia realmente essere fruttuoso, soprattutto nella coscienza vigilante e costruttivamente critica della contemporanea, problematica situazione culturale, nella quale lo spostamento dall’oggettività della conoscenza al più arbitrario soggettivismo, con il relativismo che ne deriva, è all’ordine del giorno.

2. Nella formazione affettiva, è necessario riconoscere il primato assoluto della Grazia, senza la quale non è nemmeno immaginabile una vita realmente casta. Tale primato si riconosce e si vive nel primato della dimensione spirituale, fatta di preghiera e di vita sacramentale, e nella progressiva delineazione, anche psicologica, della personalità presbiterale.

3. E’ necessario che la comunità del seminario trovi il giusto equilibrio tra l’anelito missionario, che non deve trasformarla in una comunità centrifuga, e l’essere realmente, come il Cenacolo di Gerusalemme, stretta intorno a Gesù, con Maria, in attesa del dono dello Spirito per la missione, ma mai chiusa su se stessa.

4. L’identificazione, fin dal tempo del seminario, con il Ministero che, a suo tempo, verrà affidato, favorisce il giusto orientamento della formazione affettiva. A differenza delle epoche precedenti, oggi il seminarista è la figura giuridicamente più fragile dell’intero corpo ecclesiale, poiché non è chierico fino al diaconato – per una giusta salvaguardia della sua libertà –, pur vivendo tutti i doveri di disciplina e obbedienza propri dello stato clericale. Tale debolezza giuridica non deve determinare una situazione d’incertezza, come se l’essere seminaristi non coincidesse già, in maniera prospettica, con un determinato stato di vita, impegnato, per lo meno, a rendere testimonianza a Cristo con l’impegno di formazione e di offerta della propria vita, nella perfetta continenza per il Regno dei Cieli.

5. La formazione teologica, ha un ruolo fondamentale anche nella formazione affettiva. Deve evitare di perdersi tra le opinioni dei vari teologi, restando fedele a quanto chiesto da Sapientia christiana, nella quale si indica lo studio delle Sacre Scritture, della Tradizione bimillenaria della chiesa e dell’ininterrotto Magistero, come ossatura irrinunciabile del ciclo istituzionale. Evitare il relativismo teologico e proporre la dottrina certa, contribuisce in modo determinante alla configurazione di una stabile personalità presbiterale e, con essa, a una motivata formazione affettiva.

Anche la corretta ermeneutica dei testi del Concilio Vaticano II, secondo quella riforma nella continuità, più volte indicata sia dal Beato Giovanni Paolo II, sia dal Santo Padre Benedetto XVI, è indispensabile fattore per una crescita ecclesiale serena e autentica, capace di superare, eliminandoli sul nascere, i motivi delle contrapposizioni (tutte mondane e politiche) tra “innovatori” e “conservatori”, che tanta infezione hanno portato e portano al corpo ecclesiale.

6. Il seminarista di oggi sarà il sacerdote di domani! Se è vero che, dal giorno dell’Ordinazione sacerdotale in poi, si impara a essere e a vivere da sacerdoti, è altrettanto vero che, soprattutto dal punto di vista della formazione affettiva, nulla può essere improvvisato. E’ più prudente, e moralmente esigibile da se stessi, attendere qualche tempo in più per domandare l’Ordinazione presbiterale, piuttosto che attentare a essa, senza aver risolto questioni fondamentali della propria affettività. In questo campo, come in quello dottrinale, occorre provata maturazione e non semplicemente assenza di impedimenti. Affido alla Beata Vergine Maria, Madre tenerissima dei sacerdoti, queste riflessioni, nella sicura speranza che, guardando a Lei, esempio sublime di affettività riconciliata, capace di autentico, profondo e fecondo amore, nella perfetta castità, possiamo camminare nella via splendida del Sacerdozio, che ci fa, a titolo del tutto speciale, suoi figli.


Fonte: Il Foglio - 16/05/2011