sabato 31 gennaio 2015

Dogmatica, ma non sul dogma






Editoriale "Radicati nella fede" - Anno VIII n° 2 - Febbraio 2015

Dogmatica su ciò che non è dogma, sembra proprio questa la situazione della Chiesa degli ultimi decenni. Mentre si lasciano i teologi e i vari pastoralisti scorrazzare in piena libertà dentro la dottrina cristiana, riformulando pericolosamente le verità di fede fino a trasformarle e sconvolgerle in qualcosa d'altro; mentre si lascia libero corso ad un fiume di predicazione che rischia di non salvaguardare l'interezza del Credo cattolico, si diventa dogmatici, fissisti, autoritari su ciò che invece non è essenziale nella Chiesa, ad esempio sull'organizzazione della pastorale nelle diocesi e nelle parrocchie.

Un tempo, invece, nella Chiesa ci si preoccupava di salvare i dogmi, la verità e le verità contenute nel Vangelo. Un tempo, invece, si era preoccupati di custodire e trasmettere l'integrità della morale cattolica, ripetendo i comandamenti e declinandoli ai fedeli perché si esercitassero ad applicarli alla concretezza della loro vita.

Anche nella disciplina, un tempo severa nella Chiesa, si era tali solo per salvaguardare la sana trasmissione della Grazia di Dio nell'impianto sacramentale. Si era severi nel garantire le condizioni per ricevere con frutto i sacramenti, ma, ci sembra proprio così, non si dogmatizzava sul resto. La storia della Chiesa è storia di libertà, di una grande libertà nel rispondere alla volontà di Dio. Se pensiamo ai santi, ci accorgiamo che non ce n'è uno uguale all'altro; nelle loro vite appare la grande fantasia di Dio e la grande libertà dell'uomo nel compiere il bene. Nello stesso tempo vediamo, nelle diversissime vite dei santi, una uniformità impressionante per quanto riguarda i dogmi, cioè ciò che hanno creduto, l'importanza data ai sacramenti, la centralità della Messa, la vita concepita come partecipazione alla sofferenza redentiva del Signore, l'amore alla Chiesa, la scrupolosità nelle opere di misericordia, le fede nella vita eterna, la decisività della preghiera per i vivi e per i morti, etc. Erano insomma un catechismo vivente: potremmo con frutto fare dottrina partendo dalla vita dei santi di tutte le epoche della cristianità, e giungeremmo a riscrivere sempre lo stesso catechismo.

I santi, la Chiesa, erano uniformi, meglio uniti, nella fede e nella disciplina che ragionevolmente ne discende, e non su tutto il resto.

Oggi, e veniamo al dunque, non è proprio più così: sei controllato su tutto il resto, devi uniformarti ad uno “stile”, quello naturalmente della “Chiesa moderna”. Se non ti uniformi, non appartieni più a questa Chiesa; e se non ti buttano fuori, vivi come nell'ombra: sanno che ci sei, ma fanno di tutto perché tu sia invisibile. Non interessa che tu sia fervente cattolico, che tu custodisca tutta la dottrina della Chiesa di tutti i tempi. No, ai burocrati del clericalismo moderno preoccupa che tu non sia allineato al nuovo stile, allo stile moderno, alla Chiesa rinnovata!

Questo è il nuovo dogma, è il super-dogma intoccabile, che avvolgendo tutti i dogmi di sempre, li neutralizza e li avvelena nella nuova ideologia.

I dogmi, quelli veri, sono le verità rivelate da Dio, che siamo tenuti a credere per l'autorità di Dio che li rivela. La Chiesa ne è la custode, la responsabilità grave dei pastori è trasmetterli perché salvino le anime.

Il super-dogma della modernità invece non viene da Dio, l'hanno inventato gli uomini. E pretendono di reinterpretare tutto secondo questa lapidaria affermazione: “La Chiesa deve mettersi al passo coi tempi, se non vuole restare fuori della storia”.

È una falsità che viene da lontano; la Massoneria ne è diventata la più funesta propagatrice negli ultimi secoli; questa menzogna è entrata pian piano nella Chiesa, oggi sembra aver vinto. All'interno di questo bollettino troverete un bello scritto del P. Emmanuel, dove, parlando del mistero d'iniquità, definisce la Massoneria “la cloaca di tutte le corruzioni dell'umanità”. E cuore dell'opera massonica è questa reinterpretazione globale del cattolicesimo in chiave moderna, per trasformarlo in una inutile religione naturale, fatta di vuote parole di solidarietà umana.

“La Chiesa deve mettersi al passo coi tempi, se non vuole restare fuori della storia”: è una menzogna, per questo non ve la spiegheranno mai, ma ve la imporranno con violenza. Non ve la spiegheranno, perché se lo facessero dimostrerebbero la loro eresia, dimostrerebbero di non venire da Dio.

Da sempre, dagli inizi, la modernità non fu mai la preoccupazione della Chiesa. La sua preoccupazione fu sempre quella di essere fedele al Signore Gesù, alla divina Rivelazione. Pensate ciò che scrive san Paolo nella lettera ai Galati:

“Orbene, se anche noi stessi o un angelo dal cielo vi predicasse un vangelo diverso da quello che vi abbiamo predicato, sia anàtema! L'abbiamo gia detto e ora lo ripeto: se qualcuno vi predica un vangelo diverso da quello che avete ricevuto, sia anàtema!” (Gal 1,8-9).

Impressionante! “Se anche noi stessi o un angelo dal cielo vi predicasse un vangelo diverso”... San Paolo mette in guardia i fedeli... non solo un angelo dal cielo, ma nemmeno lui, il grande apostolo, può cambiare una virgola alla fede, una virgola a quel vangelo che aveva già loro predicato. E chi sono questi teologi- pastoralisti moderni, chi credono di essere, per chiederci di modificare la fede reinterpretandola secondo il super-dogma della modernità... la Chiesa deve adattarsi al mondo di oggi, non può più fare oggi ciò che faceva un tempo?

Eh sì, ti dicono così, non potete fare più ciò che la Chiesa faceva un tempo... dovete adattarvi al mondo moderno. Anche qui però non ti dicono il perché, non ti spiegano.

Perché mai non potremmo vivere la messa come un tempo? Perché mai non potremmo ricevere i sacramenti come un tempo? Perché mai dovremmo stravolgere una prassi consolidata nella Chiesa da secoli per applicare le dubbie ricette ecclesiastiche di oggi? Perché il catechismo chiaro e semplice della tradizione non dovrebbe andare più bene? Perché mai nelle chiese gli uomini di oggi non potrebbero vivere la preghiera come i cristiani di duemila anni? Perché mai dovremmo cambiare le regole per accedere ai sacramenti, se queste nascono dalla verità del Vangelo, se queste custodiscono il dogma?

Loro, i clericali moderni, dicono che dobbiamo cambiare perché gli uomini di oggi non capirebbero. Ma anche questo non te lo spiegano, ti dicono che è così e che non si discute.
A noi sembra invece che sono loro, i clericali ammodernati, a non sopportare la Chiesa, la Chiesa e la sua gloriosa storia di grazia e di santità. Non l'hanno più sopportata, la Chiesa di sempre, perché ne avevano smarrito le ragioni, e per non uscirne hanno lavorato per cambiarla con il dogma della modernità. L’hanno cambiata davvero dove hanno potuto, fino a sfigurarla, provocando la più grande crisi della storia cristiana.
Ma la Chiesa è di Dio, per questo restiamo sereni nella Tradizione, attendendo l'ora della liberazione.





www.radicatinellafede.blogspot.it




Chi non è d’accordo… se ne deve andare







Il più grande teologo di tutti i tempi, San Tommaso d’Aquino, all’inizio delle lezioni mostrava ai suoi allievi una mela dicendo: «Questa è una mela. Chi non è d’accordo, può andar via». Il “Doctor Communis” voleva far capire che non è il pensiero a determinare l’essere, ma è l’essere che determina il pensiero. La superbia infatti fa ritenere che il nostro pensare sia il fondamento dell’essere, mentre invece l’umiltà ci porta ad osservare e argomentare l’essere delle cose, soprattutto in quelle divine.



L’essere determina il pensiero, non viceversa. Chi non è d’accordo, può andar via.
La Chiesa cattolica è la Chiesa di Cristo. Chi non è d’accordo, può andar via.
La Chiesa è gerarchica per divina costituzione. Chi non è d’accordo, può andar via.
La Chiesa non è una ONG filantropica, ma il Corpo mistico di Cristo. Chi non è d’accordo, può andar via.
La missione della Chiesa non è adattare il Vangelo alla mentalità corrente, ma convertire le mentalità di tutte le epoche al Vangelo. Chi non è d’accordo, può andar via.
La missione della Chiesa non è rendere la vita di quaggiù più facile, ma strappare anime al Diavolo affinché possano avere la vita di lassù. Chi non è d’accordo, può andar via.
L’inferno esiste e non è vuoto. Chi non è d’accordo, può andar via.
La sodomia e l’aborto sono peccati che gridano vendetta al Cielo. Chi non è d’accordo, può andar via.
Il matrimonio è indissolubile. Chi non è d’accordo, può andar via.
Chi ha una relazione coniugale con un/a divorziato/a, commette adulterio. Chi non è d’accordo, può andar via.
Il sesso al di fuori del matrimonio è peccaminoso. Chi non è d’accordo, può andar via.
La contraccezione non è mai moralmente lecita. Chi non è d’accordo, può andar via.
Il marxismo è intrinsecamente perverso. Chi non è d’accordo, può andar via.
Non si può dare a Cesare ciò che è Dio. Chi non è d’accordo, può andar via.
Senza pentimento, non c’è remissione dei peccati. Chi non è d’accordo, può andar via.
Solamente i peccatori pentiti e riconciliati possono cibarsi dell’Eucarestia. Chi non è d’accordo, può andar via.
Solo gli uomini – meglio se celibi – possono essere consacrati sacerdoti. Chi non è d’accordo, può andar via.
La Carità procede dalla Verità. Chi non è d’accordo, può andar via.
Non esiste il dialogo fra le religioni, ma con le persone di altre religioni. Chi non è d’accordo, può andar via.
I sacramenti sono per gli uomini, ma non sono degli uomini. Chi non è d’accordo, può andar via.
Il cristiano è in questo mondo, ma non è di questo mondo. Chi non è d’accordo, può andar via.
Per essere discepoli di Gesù, bisogna accettare la Croce. Chi non è d’accordo, può andar via.
Il fine non giustifica i mezzi. Non si può commettere il male neppure a fin di bene. Chi non è d’accordo, può andar via.
La coscienza – rettamente formata – obbedisce alle leggi di Dio, non si mette a legiferare secondo desideri e capricci dell’individuo.
I sacerdoti hanno la missione di convertire i peccatori, non di integrarli. Chi non è d’accordo, può andar via.
Nessuno dei Dieci Comandamenti può essere soggetto a “referendum abrogativo”. Chi non è d’accordo, può andar via.
Il papa e i vescovi sono custodi del depositum fidei, non padroni: non possono aggiungere o togliere neppure una virgola di ciò che hanno ricevuto e che devono trasmettere. Chi non è d’accordo, può andar via.
Passeranno il cielo e la terra, falsi profeti e cattivi maestri, ma non passeranno le parole del Signore. Chi non è d’accordo, può andar via.
Gesù Cristo è lo stesso ieri, oggi e sempre. Chi non è d’accordo, può andar via.

IPSE DIXIT
«Oggi celebriamo la memoria di San Tommaso d’Aquino, dottore della Chiesa. La sua dedizione allo studio, favorisca in voi, cari giovani, l’impegno dell’intelligenza e della volontà al servizio del Vangelo; la sua fede aiuti voi, cari ammalati, a rivolgervi al Signore anche nella prova; e la sua mitezza indichi a voi, cari sposi novelli, lo stile dei rapporti tra i coniugi all’interno della famiglia» (Papa Francesco, Udienza generale del  28 gennaio 2015).









L'arcivescovo di Aleppo: morirò con i fedeli





Nei giorni scorsi l’arcivescovo greco-melkita di Aleppo, mons. Jeanbart, ha parlato in Sicilia della situazione che stanno vivendo i cristiani in Siria e in tutto il Medio Oriente, e in particolare in quella che era la città più multiculturale della regione, Aleppo, soffocata dalla morsa dei terroristi e dei ribelli. 








marco tosatti
30/01/2015

Qui trovate il link al suo intervento su "Ora Pro Siria" , di cui ci sono parse particolarmente toccanti alcune frasi che riportiamo:

“Chi sono i cristiani siriani? Sono proprio quelli di cui ci raccontano gli Atti degli Apostoli nel giorno di Pentecoste. Quindi in Siria è presente la Chiesa sin dalle origini, li è nata la Chiesa.» «Questa è la ragione principale per cui noi cristiani (300.000 su una popolazione di 2 milioni) non vogliamo in nessun caso lasciare la Siria, e a questo aggiungo con fermezza, io in quanto pastore di questa Chiesa non lascerò mai questo popolo, morirò ma non lascerò i miei fedeli. Sono infatti convinto che il Signore mi chiederà conto del mio impegno, del mio coraggio e della mia speranza per questa porzione del suo popolo che mi è stato affidato”.

“ Devo ammettere che c’è stato un momento, all’inizio della guerra in cui ho pensato di andare via, ma il Signore mi è stato vicino e oggi a 71 anni mi sento più giovane di almeno 15 anni, non temo la delusione e lo scoraggiamento, so che il Signore si prende cura di me e dei suoi fedeli”. “Aleppo, la più antica città, era il vanto di bellezza cultura e storia di tutta la Siria e per quanto io ne possa parlare con orgoglio non sarà mai abbastanza per quanto essa realmente meriti. La Siria era un mosaico di religioni e riti, più di 15 gruppi di appartenenza religiosa ed etnica che vi hanno convissuto per secoli, e il governo riusciva a garantire a tutti una certa libertà di espressione e condizioni economiche accettabili. Tutte le scuole pubbliche erano gratuite e tutti potevano permettersi una casa. Certo i poveri c’erano ma non c’era la miseria.» «Ad Aleppo c’è l’università statale che contava circa un milione e mezzo di allievi, con più di 150 mila studenti che erano accolti gratuitamente e ben 15 mila alloggiati nella città universitaria al costo di un euro al mese”.

“L’arrivo di quella che i media occidentali hanno insegnato a chiamare la primavera araba, ha distrutto questo equilibrio. E per noi non è stata una primavera che voleva portare la democrazia. Certo anche noi speravamo, visto che vivevamo in un regime semi dittatoriale, in cui il potere era centrato nelle mani del presidente. Ma egli stesso è rimasto travolto nel desiderio di allargare gli spazi di democrazia, ma che i moti rivoluzionari hanno distrutto”.

“La rivoluzione è contro chi? Contro se stessi! Quali sono i costi di questa democrazia? Aleppo era una città abituata a vivere nella convivialità fra tutte le culture. Non c’era il Canale di Suez ma era il porto di Aleppo l’incrocio di tutti gli scambi. C’erano colonie di italiani francesi tedeschi austriaci olandesi e inglesi, e il dialogo e il rispetto reciproco erano alla base delle leggi di convivenza. Adesso è tutto distrutto”. Ad Aleppo le centrali elettriche e di acqua sono in mano ai ribelli, che forniscono acqua alla città un giorno a settimana, e l’elettricità un’ora ogni 48.








LA STAMPA 



venerdì 30 gennaio 2015

I bambini ci guardano: da grande farò il sacerdote...







A che età si manifesta la vocazione alla vita sacerdotale? Chi pensa che non sia spesso letteralmente vero il versetto di Isaia 49,1: "il Signore dal seno materno mi ha chiamato, fin dal grembo di mia madre ha pronunziato il mio nome" dia un'occhiata ai video qui sotto. Ci mostrano un "ecumenismo vocazionale infantile". Bambini russi ortodossi, bambini americani cattolici romani, e chissà in quante altre chiese e parti del mondo, sono affascinati dal prete, dai suoi gesti e dalle sue parole. Percepiscono la sacralità della liturgia e nel gioco - serissima attività dei piccoli! - vogliono a volte ripetere e rivivere in prima persona ciò che vedono fare con serietà e solennità dai grandi in chiesa.

Quello che stupisce in entrambi i video, è quanto i bambini siano attenti ai particolari, ai gesti, alle cose. Per esempio, il piccolo Isaiah a 3 anni non solo ricorda bene parecchie parole della Messa ma, pur non sapendo leggere, non dimentica che serve il messale (per lui va bene un libro di Topolino!). I fratellini russi "celebrano" invece addirittura l'ufficiatura del Mattutino delle solennità, con le benedizioni e le incensazioni, cantando alleluia e ricordando correttamente che, a un certo punto, il sacerdote con un pennello unge di olio profumato la fronte dei fedeli (uno dei bimbi sacerdoti ricorda anche correttamente di dare il bacio sulla mano nel passare il pennello al suo "confratello"...).

Tutto questo ci dice quanto sia importante avviare i piccoli alla conoscenza e al gusto gioioso (e anche giocoso) della liturgia, soprattutto quella reale, a cui possono partecipare - un po' più grandicelli - con il servizio di chierichetti... asilo nido di futuri preti!





video preso da NLM




Cantuale Antonianum    30 gennaio 2015




Sinodo e famiglia, Kampowski: «Il matrimonio cristiano è possibile. Ecco perché»







di Riccardo Cascioli e Lorenzo Bertocchi

«C’è un modo sbagliato di impostare la pastorale nella Chiesa, che è quello di cercare di risolvere i problemi. La pastorale invece dovrebbe avere al centro una proposta positiva, aiutare la gente a vivere una bellezza». A ribaltare la prospettiva con cui anche al recente Sinodo straordinario si è parlato di famiglia è Stephan Kampowski, docente ordinario di Antropologia Filosofica all’Istituto Giovanni Paolo II per gli Studi su Matrimonio e Famiglia, presso la Pontificia Università Lateranense a Roma. Kampowski, oltre ad avere scritto diversi saggi sul tema della famiglia, è anche autore di un libro scritto a quattro mani con Juan Josè Perez-Soba – Il vangelo della famiglia nel dibattito sinodale oltre la proposta Kasper (Cantagalli, 2014) – che ha animato il dibattito prima e durante il Sinodo. Lo incontriamo nel suo piccolo ufficio di docente universitario che condivide con il filosofo polacco Stanislaw Grygiel.

Professor Kampowski, in tante posizioni espresse in occasione del Sinodo sulla famiglia e che ora vengono rilanciate in vista del secondo round a ottobre, si ha l’impressione che anche quando si parla di evangelizzazione si abbia in mente l’idea di come risolvere i problemi del mondo invece che preoccuparsi di portare gli uomini a Dio…

Voi mettete il dito sulla piaga. Oggi c’è un modo di impostare la pastorale della Chiesa che è quello di cercare di risolvere dei problemi. Allora si dice che c’è un problema, si fa un’analisi, poi ci si chiede come possiamo rispondere. Ma con questa impostazione si resta sempre un passo indietro, perché i problemi spesso nascono altrove da dove si manifestano. Nel nostro libro invece noi proponiamo una pastorale che propone un aiuto alle persone per vivere una bellezza. Se ci concentriamo sui problemi ci lasciamo determinare dalle circostanze, invece di proporre qualcosa di positivo, di vero e di bello, che poi come conseguenza risolverà tanti problemi, come ci ha dimostrato Giovanni Paolo II.

Ma lo si capisce anche dall’Instrumentum Laboris che ha preparato il Sinodo, dove si constata che la dottrina della Chiesa su matrimonio e famiglia è largamente sconosciuta, ma si dice anche: “Un buon numero di Conferenze Episcopali nota che, là dove si trasmette in profondità, l’insegnamento della Chiesa con la sua genuina bellezza, umana e cristiana è accettato con entusiasmo da larga parte dei fedeli” (n. 13). Ecco il punto: invece di cercare di rimediare qui e là, proponiamo una visione sull’uomo sana, bella e anche vivibile. Così i problemi si risolvono alla radice.

Lei ha citato Giovanni Paolo II che in effetti nella Familiaris Consortio (1981) ha proposto proprio una visione positiva del matrimonio e della famiglia. Ma oggi molti considerano la Familiaris Consortio superata.

Proprio quel passaggio dell’Instrumentum Laboris che le ho citato suggerisce invece che se c’è un problema con la Familiaris Consortio, riguarda il fatto che in tanti luoghi non è stata presentata e implementata. Dove i suoi insegnamenti sono stati osservati, si può testimoniare come essi portano frutti abbondanti. Certo, è vero che il documento, pubblicato più di 30 anni fa, non ha trattato alcuni problemi che oggi sono ormai diventati grandi sfide, come le unioni omosessuali o la sfida dell’ideologia del gender. Però questi nuovi argomenti non invalidano la sostanza del documento, che continua ad essere la magna carta dell’insegnamento della Chiesa sul matrimonio e sulla famiglia.

Nel vostro libro voi valorizzate un’affermazione di Kasper, quando dice che deve essere fatta vedere la bellezza della famiglia, perché la bellezza attrae. Però si ha l’impressione che il seguito di questa affermazione sia che allora fare battaglie per difendere la famiglia sia inutile, perché se uno testimonia la bellezza gli altri si accorgono e seguono….

Però non è così. Il titolo dell’intervento di Kasper al Concistoro è buono: «La famiglia è una buona novella». Ma proprio perché è una buona novella, allora va proposta e anche difesa laddove viene sfidata. Ma c’è un’altra contraddizione nel discorso di Kasper al Concistoro.

Prego.

Prima dice che la famiglia è una buona novella, che il legame indissolubile è una buona novella. Poi però alla fine parla di peso insopportabile che i chierici mettono sulle spalle dei fedeli, come se fosse un’invenzione del Papa l’indissolubilità del matrimonio. Ma è un dono che abbiamo ricevuto dal Signore, non dai chierici. La consapevolezza della nostra debolezza, della nostra fragilità non toglie nulla alla bellezza dell’indissolubilità.

Forse bisogna chiarirsi sul significato dell’indissolubilità.

In un matrimonio le cose a un certo punto possono anche andare male, uno dei due può prendere una cattiva strada, fare cose brutte. Prendiamo un esempio: l’uomo comincia a picchiare i figli, la moglie non sa cosa fare. Dice al marito di smetterla, ma quello continua, allora la donna dice: io prendo i miei figli prima che accada qualcosa di irreparabile e me ne vado. Ma il matrimonio è rotto per questo? No. Che il matrimonio sia indissolubile non vuol dire che ogni matrimonio deve essere il paradiso sulla terra. Ci possono essere situazioni tragiche, molto dolorose. Ma legame indissolubile, la bellezza di questo legame, vuol dire che gli sposi sono più felici, la loro vita è più bella se rimangono fedeli l’uno all’altro anche se la convivenza al momento non è possibile. La vita è più bella se non provo a sposarmi di nuovo. Vuol dire: lascio sempre aperta la porta per te, tu sei sempre il mio amore unico, una luce è sempre accesa nella mia stanza, il letto è vuoto, sono solo perché manchi tu, e ti penso e ti voglio e prego per te che torni. Questo è bello: non smettere mai di sperare. Il cardinale Kasper parla di un matrimonio “definitivamente fallito”. Ma chi lo dice che sia definitivamente fallito? Solo se uno dei due entra in una nuova relazione con nuovi impegni, allora poi certo che la situazione diventa paradossale, senza via d’uscita: impegni qui impegni lì, figli qui figli là.

Ecco, quando si parla di bellezza del matrimonio si immagina una coppia che va sempre d’accordo, dove tutto funziona a meraviglia, i figli sono bravi e così via. Invece lei sta dicendo che la bellezza è un’altra cosa.

Certo, pensate ad esempio alla bellezza del perdono. Ebbene, questa presuppone la bruttezza del male che si è compiuto, la fragilità umana. C’è chi obietta: voi proponete un ideale, ma noi dobbiamo vivere nella realtà. Chi dice questo però non penso che abbia letto le catechesi di Giovanni Paolo II sull’amore umano dove parla di tutta la fragilità dell’uomo che pecca, che desidera in modo cattivo, che commette adulterio nel cuore e nella carne; ma un uomo che comunque viene invitato ad essere rialzato dalla grazia, un uomo che può ricevere il perdono. Perdono di Dio e perdono della sposa e dello sposo.

Eppure alcuni padri sinodali hanno messo in dubbio che questo sia veramente possibile.

Certo che è possibile questo, e io lo posso dire perché i miei genitori sono una testimonianza forte al riguardo. Hanno vissuto grandi difficoltà e stavano per separarsi; ma proprio quando tutto sembrava irreparabile è intervenuta la grazia di Dio e ha cambiato le cose: si sono riconciliati. È stato un cambiamento improvviso, ma poi c’è tutto il cammino da fare. Sono stati ancora sette anni insieme, prima che mio padre morisse, e mia madre diceva «Il più bel periodo del nostro matrimonio sono stati gli ultimi 7 anni». Ma era un matrimonio che aveva visto le tempeste, aveva visto le sofferenze, aveva visto tante difficoltà. È qui che c’è la bellezza: si vive insieme queste cose, ci si è fedeli anche se le circostanze e le nostre emozioni ci sono contrarie. Ma ci si fida di Dio, ci si fida della grazia che ci viene offerta, così è possibile un cammino di perdono, di riconciliazione, ricominciare di nuovo. Può accadere anche alla fine della vita: abbiamo lottato, possiamo gustare i frutti di un albero; poi saremo separati per un po’ quindi ci ritroveremo nella casa del Padre. Questo è un bel matrimonio, non quello dove tutto funziona bene.

Arriviamo allora al punto che tante frizioni ha provocato nel Sinodo: la Comunione ai divorziati risposati, anche se a certe condizioni. Anche queste eccezioni contraddicono l’indissolubilità del matrimonio?

Sì, sono convinto che una tale pratica cosiddetta pastorale contraddica l’insegnamento sull’indissolubilità che abbiamo ricevuto dal Signore stesso.

L’indissolubilità non è un’idea astratta: gli sposi nel giorno del matrimonio si promettono di essersi fedeli per tutta la vita. Cosa vuol dire questa fedeltà? Come abbiamo detto ci possono anche essere circostanze in cui diventa impossibile la convivenza, ma l’impegno alla fedeltà resta. Fedeltà per tutta la vita significa l’esclusività sessuale, si dice “tu sei il mio unico, la mia unica”. Può capitare, anche se si vive in una situazione matrimoniale stabile, che si possa peccare; ma si cade e ci si rialza. Dobbiamo vivere con le conseguenze ma si possono confessare questi singoli atti e riconciliarsi con la Chiesa e il Signore. Ma se invece si intreccia una relazione stabile con un’altra donna o un altro uomo, come se fosse la sposa o lo sposo, qui allora si entra in una relazione stabile che contraddice l’impegno di esclusività sessuale, contraddice l’indissolubilità del matrimonio.

Il cardinale Kasper afferma di non voler mettere in discussione l’indissolubilità del matrimonio.

Già, ma non vedo come possa conciliare questa affermazione con la pretesa che la Chiesa debba riconoscere in qualche modo uno stato di vita dove si hanno rapporti abituali extramatrimoniali. Chiedere di ammettere i divorziati e civilmente risposati alla comunione significa chiedere il riconoscimento ecclesiale di unioni extramatrimoniali. E allora chiediamoci perché non riconoscere altre unioni extramatrimoniali, ad esempio i rapporti prematrimoniali, le unioni dello stesso sesso, e così via. E poi dove ci fermiamo? Ma a parte la questione del dove ci fermiamo, la Chiesa ha sempre insistito che il luogo giusto, bello e vero, che corrisponde alla verità dell’uomo, per l’esercizio delle facoltà sessuali è solo dentro al matrimonio.

Si invoca la misericordia per situazioni tanto difficili, che sembrano troppo dure per le persone.

Però, se leggiamo le Sacre Scritture e consultiamo la tradizione della Chiesa, non viene mai proposto come soluzione al peccato un cambiamento dei comandamenti (non uccidere, non rubare, non commettere adulterio…). La soluzione è piuttosto la conversione, alla quale la grazia divina ci invita. È questa la vera misericordia di Dio: Dio chiama il peccatore a rivedersi e a cambiare vita. Così ci sarà la possibilità della riconciliazione con Dio e con i propri cari.

Nel vostro libro affermate: "La questione più importante per la pastorale della famiglia oggi è come assicurare che i matrimoni siano contratti validamente e non come trovare nuove soluzioni per ammettere alla comunione i divorziati risposati che non desiderano seguire il percorso già designato dalla Chiesa". Può spiegarci questo passaggio?

Il dibattito sinodale ha dedicato tanto pensiero su come facilitare il processo di nullità per risolvere il problema dei divorziati risposati civilmente che vogliono ricevere la comunione. Talvolta si è avuta quasi l’impressione che le cause di nullità siano una cosa utile, quasi buona per poter risolvere, tramite la sentenza di nullità, i problemi pastorali sorti dopo la celebrazione del matrimonio. Noi volevamo dire che le cause di nullità non risolvono nessun problema, ma che esse stesse sono un grande problema. Se è vero che un gran numero di matrimoni non è contratto validamente, allora questa non è una soluzione al problema dei divorziati risposati civilmente, ma piuttosto un problema più grande e più urgente da affrontare di quello dei divorziati risposati. Invece di chiederci “come possiamo accelerare i processi che arrivano ad una dichiarazione di nullità?”, dovremmo chiederci: “Come possiamo aiutare le persone a contrarre matrimoni validi?”.








La nuova Bussola Quotidiana    30 gennaio 2015


giovedì 29 gennaio 2015

Non esisterà mai un Papa liberale



 


di Ettore Gotti Tedeschi

In un suo scritto domenicale su Repubblica, domenica 18 gennaio, Eugenio Scalfari si domanda se Papa Francesco sia liberale. Si domanda se un uomo di fede possa esserlo e risponde di sì, rilevando però che un pontefice liberale, nella Chiesa di Roma, non c’è mai stato prima. Ma io credo che non possa esserci neppure ora. Cercherò di spiegare il perché.

Liberalismo è una dottrina che si oppone ad assolutismo e si coniuga con relativismo, agnosticismo, scetticismo, ecc. Il cristianesimo, invece, afferma valori di verità assoluta, trascendenti e soprannaturali, in Cristo, Verbo di Dio incarnato. Questa verità viene affermata e difesa dalla dottrina cristiana fin dalle origini, e questa stessa verità, che si è tradotta in etica comportamentale, si è, finora, opposta alla cultura liberale e immanentista del pensiero moderno, appunto relativistico. E per opporsi ha lavorato parecchio nei secoli.

La Chiesa ha affrontato la Riforma protestante quando affermava in campo religioso l’individualismo liberale (il libero esame). Ha affrontato la Rinascenza che affermava l’equivalenza di tutte le religioni positive svalutando in tal modo il cristianesimo verso le altre religioni più umanistiche, più celebrative dell’uomo e della natura-ambiente. Ha affrontato l’illuminismo che costituì il liberalismo quale concezione immanentistica e prassi di comportamento, confondendo il significato di libertà, uguaglianza e fraternità e, per di più, cercando di tacciare la morale cattolica di superstizione e togliendo al concetto di rivelazione ogni valore teoretico. Questo spiega perché finora, il cattolicesimo, consapevole della assolutezza dei valori umani e divini rifiuta il liberalismo, sia come dottrina filosofica che quale prassi politica. Ma è anche il liberalismo politico (formulato nella dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789) che nega se stesso e produce antinomia individuo-Stato. Risulta difficile accettare la tesi liberale che l’individuo è considerato unico valore e fine, ma la somma degli individui (attuato con il concetto di maggioranza) è superiore al singolo individuo.

Il liberalismo come dottrina fu condannato da vari Papi. A cominciare da Gregorio XVI (Enciclica Mirari vos, del 1832), da Pio IX (Enciclica Quanta cura del 1864 e nel Syllabus), da Leone XIII (Enciclica Immortale Dei del 1885). E tutto ciò senza negare la (supposta) laicità dello Stato. Ora, poiché il liberalismo ha prodotto uno stato “democratico”, fondato su concetti di rappresentanza e maggioranza, agnostico, non si può spogliare la Chiesa della direzione delle coscienze che produce la vera etica comportamentale da cui la società dovrebbe non volersi mai privare, per il bene degli stessi agnostici, laici e liberali, che l’abbiano capito o meno. Persino Voltaire lo aveva capito, continuando a combattere la religione e la Chiesa, ma auspicando, al fine di non esser tradito, ucciso e derubato, moglie, medico e cameriere religiosi.






La nuova Bussola Quotidiana     29 gennaio 2015



mercoledì 28 gennaio 2015

Avviso dalla Parrocchia di Paperino (Prato)


La Santa Messa 
in Rito Romano antico

di 
domenica 1 febbraio 2015 
delle ore 16 

nella Chiesa di San Martino a Paperino (Prato)

è anticipata 

alle 
ore 9:00.





Ritrovata una nuova “Vita” di S. Francesco d’Assisi attribuibile a Tommaso da Celano








mercoledì 28 gennaio 2015


Nella memoria di S. Pietro Nolasco e seconda di S. Agnese, rilancio una notizia che è stata trascurata da molti blog cattolici. Si tratta della notizia di una scoperta di un nuovo testo di Tommaso da Celano; notizia che non mancherà di riempire di gioia i veri estimatori del grande Santo d'Assisi, oggi tra i più incompresi, deformati e falsificati della storia della santità della Chiesa.
Indubbiamente questa scoperta senz'altro getterà ulteriore luce sulla figura del Poverello, contribuendo a rimuovere quella patina di uomo irenista, pacifista, pauperista, buonista, animalista ante litteram, ...; aggettivi questi che non possono in alcun modo attribuirsi allo Stigmatizzato de La Verna, come messo in luce dalla storiografia più recente (v. qui).


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Un nuovo manoscritto sulla vita di san Francesco, l'eccezionale scoperta che ci riempie di gioia


di Felice Acrocca
Storico
La notizia della scoperta di una nuova vita di san Francesco certo fa fare salti di gioia. Un articolo su Le Monde, sabato 24, e un altro (non privo di inesattezze) del medesimo tenore sul Corriere della sera, domenica 25 gennaio, hanno diffuso la notizia che Jacques Dalarun ha rintracciato, in un manoscritto proveniente da una collezione privata e ora – grazie all’interessamento dello stesso Dalarun – acquisito per 60.000 euro dalla Biblioteca Nazionale di Parigi, una nuova vita del Santo che sarebbe stata scritta da Tommaso da Celano, dopo che l’agiografo abruzzese aveva redatto, tra il 1228 e il 1229, la sua prima opera (la Vita beati Francisci, più conosciuta come Vita prima), e prima che mettesse mano a scrivere il Memoriale (meglio noto come Vita secunda, circa 1247).

Jacques Dalarun ha infatti reso noto che nel settembre 2014 ricevette una mail da Sean L. Field, che gli segnalava la notizia di un manoscritto posto all’asta nel sito Les Enlumineurs, una delle migliori gallerie sul Medio Evo e il Rinascimento: un manoscritto che prometteva di rivelarsi interessante! Quando ha potuto trascrivere il Prologo del testo, Dalarun si è reso conto che il codice trasmetteva un’opera del primo agiografo di san Francesco, il quale si rivolgeva a frate Elia, allora ministro generale, dichiarando che alcuni frati lamentavano il fatto che la sua opera (la Vita beati Francisci, appunto) fosse troppo lunga e gli chiedevano di farne un compendio. Nello stesso Prologo, Tommaso riconosceva che proprio Elia (ministro generale tra il 1232 e il 1239) gli aveva fornito le informazioni necessarie per scrivere l’opera precedente.

Secondo Dalarun non solo l’opera è stata scritta da Tommaso negli anni Trenta del Duecento, ma il manoscritto stesso, di origine centro italica, risale a quegli anni, ciò che rende il tutto davvero molto interessante. Infatti, il codice, 122 fogli di piccola dimensione (120 x 82 mm), contiene diversi florilegi, delle collezioni di sermoni, le Ammonizioni di san Francesco, un commento al Padre Nostro. Ora, se davvero il codice è stato scritto negli anni Trenta, vale a dire pochi anni dopo la morte del Santo, ci troveremmo di fronte al testo più antico delle Ammonizioni; inoltre, che rapporto c’è tra il commento al Padre Nostro e la Preghiera sul Padre Nostro (così l’intitola l’ultimo editore) che compare tra gli scritti di Francesco? E tra i sermoni in questione potrebbe forse trovarsi quello pronunciato da Gregorio IX in occasione della canonizzazione dell’Assisiate, che sappiamo traeva esordio dal versetto biblico Quasi stella matutina e di cui finora si è persa ogni traccia? Forse sto sognando, ma sognare – almeno fino a che non si avrà la possibilità di studiare il codice – non costa nulla.

Certo, è ben difficile che in epoca posteriore qualcuno si mettesse a copiare un’opera che nel Prologo dava un tale risalto a frate Elia, vittima, dopo la sua deposizione dal governo dell’Ordine (1239) di una efficacissima damnatio memoriae. Anche sull’origine centro italica mi pare di poter concordare, a partire però dalla sola foto (certo non di qualità) pubblicata dal Corriere della sera.

La nuova Vita produce qualcosa di nuovo in merito alla conoscenza di Francesco oppure si limita ad abbreviare la precedente opera di Tommaso? Per ora, nulla può dirsi di preciso, finché non si avrà a disposizione il testo. Resta il fatto che l’eccezionale scoperta ci riempie di gioia e infonde fiducia che non tutti i giochi son fatti: vale a dire che altre scoperte sono ancora possibili, come testimonia il fatto che nemmeno quarant’anni or sono Giovanni Boccali ritrovò un brano poetico indirizzato da Francesco a Chiara e alle sue sorelle (si tratta dell’Audite poverelle).

Anche per questo il nostro grazie a Jacques Dalarun, tra gli studiosi di francescanesimo uno tra quelli maggiormente impegnati nello studio delle opere agiografiche su san Francesco d’Assisi, non può che essere spontaneo, grande e sincero.







Fonte: sanfrancesco, 27.1.2015







«Hanno portato via il Signore». Le chiese senza Cristo



Se questa è una chiesa…



«Hanno portato via il mio Signore».Si potrebbero usare le stesse parole di Maria di Magdala, quando trovò vuoto il sepolcro di Cristo, per definire alcuni cambiamenti nella liturgia ecclesiale e nell’arredo nelle chiese. Come la scomparsa del crocefisso dagli altari e il tabernacolo con il Santissimo Sacramento.



di Luisella Scrosati

L’Arcidiocesi di Cebu, nelle Filippine, lo scorso 17 dicembre ha emanato una circolare con alcune direttive sulla disposizione dell’arredo liturgico nelle chiese (clicca qui). La circolare richiama continuamente a una non ben precisata Conferenza liturgica della Commissione sulla Liturgia della Conferenza Episcopale delle Filippine. Le indicazioni relative ad altare, ambone, candele, etc. si situano chiaramente in una linea che, potremmo chiamare, minimalista. Basti pensare a quella che riguarda la presenza del crocefisso sull’altare: in barba alla raccomandazione di Benedetto XVI ed al suo esempio, «il crocefisso», dice la circolare, «può essere messo vicino all’altare… Non si esorta a porre un piccolo crocefisso sull’altare, se c’è già un crocefisso visibile nella chiesa o cappella. Se invece non c’è un crocefisso nella chiesa o cappella, allora si può mettere un piccolo crocefisso sull’altare, con il corpo rivolto verso i fedeli e non verso il sacerdote».

Questa direttiva sembra ignorare, se non addirittura rigettare, l’insegnamento e la prassi ripresa da Benedetto XVI. L’Ufficio delle Celebrazioni Liturgiche del Sommo Pontefice, spiegò in illo tempore le ragioni della scelta del Pontefice di porre il crocefisso al centro dell’altare (clicca qui). Non si trattava di avere da qualche parte del santuario un’immagine di Gesù crocefisso, quanto piuttosto di ridare un centro alla liturgia, ri-orientarla, a motivo della grande diffusione degli altari “verso il popolo”. Il Maestro delle Celebrazioni Pontificie, mons. Guido Marini, si premurava di spiegare che «la posizione del sacerdote “verso il popolo”, pur non essendo obbligatoria, è divenuta il modo più comune di celebrare Messa. Stando così le cose, Joseph Ratzinger propose, anche in questi casi, di non perdere il significato antico di preghiera “orientata” e suggerì di ovviare alle difficoltà ponendo al centro dell’altare il segno di Cristo crocefisso (cf. Teologia della Liturgia, p. 88). Sposando questa proposta, aggiunsi a mia volta il suggerimento che le dimensioni del segno devono essere tali da renderlo ben visibile, pena la sua scarsa efficacia».

Come non detto. Fa certamente impressione come, da un po’ di tempo a questa parte, la fine di un pontificato per certe persone significhi l’archiviazione dell’insegnamento di quel Pontefice. Si veda come si sta liquidando senza troppi scrupoli, il magistero di Giovanni Paolo II sulla famiglia. Quello però che più colpisce è l’indicazione relativa alla posizione del tabernacolo per la custodia delle Sacre Specie: «nella costruzione delle nuove chiese, il posto del tabernacolo non dovrebbe trovarsi all’interno del santuario, ma a fianco, vicino al santuario o in una cappella separata». La storia della custodia eucaristica è certamente complessa e non uniforme, ma essa mostra che c’è una direzione chiara e progressiva che guida i vari cambiamenti relativi al posto dove custodire il Santissimo Sacramento (clicca qui). Per i primi secoli c’è qualche indicazione sulla custodia nelle case dei fedeli; già le Costituzioni apostoliche, però, databili verso la fine del IV secolo, indicano il passaggio della custodia delle Sacre Specie nelle chiese, in appositi luoghi, chiamati Pastophoria. Gradualmente scomparve l’uso di conservare il Santissimo nelle case private e si affermò quello di custodirlo nelle chiese.

Nel periodo carolingio, la custodia nelle chiese divenne l’unica prassi e si stabilizzò in diverse forme: la colomba eucaristica (soprattutto in Francia e Gran Bretagna), il propitiatorium, i tabernacoli a muro, la riserva nelle sacristie o anche le “casette del sacramento” (Sakramentshäuschen), che erano in realtà delle torri interne alle chiese. A determinare questo passaggio dalle case alle chiese e poi, nelle chiese, verso modalità sempre più curate, non semplicemente funzionali alla custodia dell’Eucaristia per la Comunione degli ammalati, fu il progressivo approfondimento del grande mistero dell’Eucaristia, spinto anche dalle controversie medievali (si pensi a quella tra Pascasio Radberto e Ratramno di Corbie); non ultimo, la grande massa di popolazioni barbariche che si stavano convertendo al cristianesimo consigliò maggiore cura nella custodia dell’Eucaristia, per evitare profanazioni. L’altro grande punto di svolta si situa alla metà del XVI secolo quando, recependo probabilmente un’indicazione dell’allora vescovo di Verona, la diocesi di Milano ordinò di posizionare il tabernacolo sopra l’altare maggiore. La prassi si diffuse gradualmente, sotto la spinta del grande San Carlo Borromeo.


Se questo è un tempio cattolico...
Se questo è un tempio cattolico…

Anche in questo caso è importante capire le cause che favorirono questo cambiamento: la crisi protestante comportò una diffusa messa in discussione della dottrina sulla presenza sostanziale di Cristo nell’Eucaristia. La Chiesa si trovò quindi in dovere di promuovere una più profonda pietà eucaristica; e più di ogni catechesi – occorre ricordarlo anche per la pastorale contemporanea – furono i gesti a plasmare la fede e la pietà: portare il tabernacolo sull’altare maggiore comunicava ai fedeli, più di tante parole, la realtà della presenza di Cristo anche al di fuori dell’azione liturgica. Dopo il Concilio Vaticano II si sono susseguiti molti documenti e interventi, non sempre felici.

E, in effetti, il risultato è sotto gli occhi di tutti: la pietà eucaristica è sempre più in diminuzione, come già si faceva notare nell’Instrumentum Laboris del Sinodo del 2005: «Sarebbe da verificare se la rimozione del tabernacolo dal centro dell’area presbiterale ad un angolo non evidente e degno o in una cappella appartata […] non possa in qualche modo contribuire alla diminuzione della fede nella presenza reale» (n. 41). È quanto di più logico ci possa essere. Come si può pensare che le persone mettano l’Eucaristia al centro della propria vita, se poi non la trovano al centro delle proprie chiese? Anzi, non la trovano nemmeno nella chiesa? E che le cose stiano proprio così, lo dimostra l’esortazione post-sinodale Sacramentum Caritatis (2007), che al n. 69 afferma: «La sua corretta posizione [del tabernacolo, n.d.r.], infatti, aiuta a riconoscere la presenza reale di Cristo nel Santissimo Sacramento. È necessario pertanto che il luogo in cui vengono conservate le specie eucaristiche sia facilmente individuabile, grazie anche alla lampada perenne, da chiunque entri in chiesa. A tale fine, occorre tenere conto della disposizione architettonica dell’edificio sacro: nelle chiese in cui non esiste la cappella del Santissimo Sacramento e permane l’altare maggiore con il tabernacolo, è opportuno continuare ad avvalersi di tale struttura per la conservazione ed adorazione dell’Eucaristia, evitando di collocarvi innanzi la sede del celebrante. Nelle nuove chiese è bene predisporre la cappella del Santissimo in prossimità del presbiterio; ove ciò non sia possibile, è preferibile situare il tabernacolo nel presbiterio, in luogo sufficientemente elevato, al centro della zona absidale, oppure in altro punto ove sia ugualmente ben visibile». Le parole sono chiare; e la disobbedienza della Commissione Liturgica filippina pure.

Nel 1846, il beato cardinale Newman, ancora anglicano, in visita a Milano (si noti che a Milano tutte le chiese avevano il portone centrale spalancato) ebbe a dire: «È davvero stupendo vedere questa divina Presenza che dalle varie chiese quasi guarda fuori nelle strade aperte, così che a S. Lorenzo abbiamo veduto che la gente si levava il cappello dall’altra parte della strada quando passava». Se tornasse oggi, e non solo a Cebu, piangerebbe come la Maddalena: «Hanno portato via il mio Signore»!







L’ aborto è il nuovo olocausto

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Federico Catani

L’ aborto ha fatto almeno 6 milioni di vittime, soltanto in Italia. Il 27 gennaio è la Giornata della Memoria. Quando si ricorda il genocidio degli ebrei per mano dei nazisti, la commemorazione offre ogni anno lo spunto per qualche riflessione sul valore della vita.

Per evitare di cadere nel retorico, nel banale e nel politicamente corretto, è opportuno trascorrere questo giorno riprendendo e meditando le parole di Papa Giovanni Paolo II. Si badi bene, qui non si tratta di discorsi confessionali e accettabili dai soli cattolici, ma di ragionamenti che ogni uomo e donna di buona volontà può condividere. E non si tratta nemmeno di argomentazioni estremiste e offensive, perché le ha fatte un Pontefice aperto al dialogo, che ha lottato contro ogni forma di violenza e oppressione. Oltretutto, ci si vuole riferire non a un testo magisteriale, ma ad un libro edito dalla laicissima Rizzoli e pubblicato nel 2005, proprio dieci anni fa: Memoria e Identità. 

Nel testo, dopo aver accennato agli orrori del nazismo e del comunismo, che hanno sconvolto il XX secolo (pensiamo ai gulag (1919 – 1989) e ai lager (1938 – 1945), Karol Wojtyla scrisse che, nonostante la caduta di quei regimi totalitari,“permane tuttavia lo sterminio legale degli esseri umani concepiti e non ancora nati. E questa volta si tratta di uno sterminio deciso addirittura da Parlamenti eletti democraticamente, nei quali ci si appella al progresso civile delle società e dell’intera umanità. Né mancano altre gravi forme di violazione della Legge di Dio. Penso, ad esempio, alle forti pressioni del Parlamento europeo perché le unioni omosessuali siano riconosciute come una forma alternativa di famiglia, a cui competerebbe anche il diritto di adozione. È lecito e anzi doveroso porsi la domanda se qui non operi ancora una nuova ideologia del male, forse più subdola e celata, che tenta di sfruttare, contro l’uomo e contro la famiglia, perfino i diritti dell’uomo”.

Con lucidità e chiarezza, Giovanni Paolo II affermò pure che la deriva morale in cui versa l’Occidente, e che si mostra attraverso “i divorzi, l’amore libero, l’aborto, l’anticoncezione, la lotta contro la vita nella fase iniziale come in quella del tramonto, la sua manipolazione”, agisce attraverso
enormi mezzi finanziari, non soltanto nelle singole nazioni, ma anche su scala mondiale. Può infatti disporre di grandi centri di potere economico, mediante i quali tenta di imporre le proprie condizioni ai Paesi in via di sviluppo. Dinanzi a tutto ciò, ci si può legittimamente domandare se non sia questa un’altra forma di totalitarismo, subdolamente celato sotto le apparenze della democrazia”.

Infine, prendendo come spunto l’ascesa al potere di Hitler (avvenuta democraticamente) e la realizzazione della “soluzione finale” per gli ebrei (permessa dal Parlamento tedesco che aveva conferito i pieni poteri al Führer), Giovanni Paolo II si interrogò sulle leggi abortiste attuali:
“Quando un parlamento autorizza l’interruzione della gravidanza, consentendo la soppressione del nascituro, commette un grave sopruso nei confronti di un essere umano innocente e privo, oltre tutto, di qualsiasi capacità di autodifesa. I parlamenti che approvano e promulgano simili leggi devono essere consapevoli di spingersi oltre le proprie competenze e di porsi in palese conflitto con la Legge di Dio e con la legge di natura”.

Crediamo non ci sia bisogno di alcun commento a queste asserzioni. Se crediamo realmente che l’aborto è l’omicidio di un innocente, non possiamo che sottoscrivere quel che ha scritto Giovanni Paolo II. Accostare l’aborto all’Olocausto non è irrispettoso né sacrilego, ma un’operazione salutare per le nostre coscienze intorpidite e inebetite dalla “cultura” dominante.








Notizie Pro Vita 


martedì 27 gennaio 2015

Cardinal Müller: il buon Pastore protegge il gregge "dall'erba del diavolo", cioè dalle eresie




La natura teologica delle Commissioni Dottrinali e il compito dei Vescovi come maestri della fede



Relazione del Card. Gerhard L. Müller
 (Esztergom, 13 gennaio 2015)

Carissimi confratelli nell’episcopato!

Sono lieto di incontrarvi in questa terra così ricca di storia e di vita! Come non pensare al bel fiume Danubio che l’attraversa dividendola idealmente in due parti. Proprio nel mezzo troviamo la capitale, Budapest, a sua volta frazionata in due dal Danubio: da una parte vi è Pest, la città bassa, commerciale, frenetica di attività; dall’altra Buda, la città alta, residenziale, elegante ed affascinante, nella quale la presenza della Cattedrale di Santo Stefano ci richiama l’anima cattolica di questa terra.
Sempre sulle rive del Danubio troviamo Esztergom, il cuore storico dell’Ungheria, città nella quale oggi ci troviamo, adagiata sulle colline che spalleggiano il fiume, e nella quale risalta subito l’imponenza della Co-cattedrale, dedicata a Nostra Signora e Sant’Adalberto. Entrambe queste belle Chiese cattedrali costituiscono un ideale e permanente slancio verso l’alto di questi territori, che la presenza del Danubio ricollega a tanta parte della nostra Europa.

In fondo, questi luoghi sono la metafora della vita di noi tutti, una vita spesso divisa in due parti, l’una sbilanciata verso la terra e l’altra proiettata verso il cielo. Noi vorremmo che questa parte, quella che ci sospinge verso l’alto, sia l’orizzonte e la direzione di tutto ciò che succede nella nostra esistenza più legata alla terra. È un po’ quello che accade anche a noi Vescovi, spesso indaffarati in mezzo a mille incombenze e questioni pratiche, eppure chiamati a sospingere tutto ciò che facciamo verso l’alto e, così facendo, a trascinare verso l’alto anche tutto il popolo di Dio affidato alle nostre povere forze. Considero perciò provvidenziale l’esserci ritrovati proprio qui per incontrare le Commissioni Dottrinali delle Conferenze Episcopali Europee. Vorrei sin d’ora ringraziare il Cardinale Péter Erdő, Arcivescovo di Esztergom-Budapest e Presidente del Consiglio delle Conferenze Episcopali d’Europa (CCEE), per la sua generosa ospitalità.

La dottrina della fede, lungi dall’essere un sistema astratto e cristallizzato di idee e di norme, è anzitutto al servizio della vita, della vita buona che viene da Dio, della vita pienamente umana, al servizio della vita della Chiesa e di una vita più degna per l’uomo. Essa ci è data per sospingere tutto ciò che è legato alla terra verso l’alto.

Vogliamo così ritrovarci per lasciare che di nuovo, e con più slancio, siamo innalzati verso quelle altezze che la dottrina ci indica con certezza, e che ritroviamo vive e fresche nell’esistenza quotidiana del Popolo di Dio, chiamato ad essere nello stesso tempo fedele a Dio ed a questa terra che ha ricevuto in dono, per costruire la città di Dio nella città dell’uomo. È questo il grande compito affidato al nostro munus episcopale e di cui le Commissioni Dottrinali si rendono interpreti con un servizio del tutto particolare.

Per cominciare il nostro incontro, vorremmo in primo luogo fare memoria del cammino già percorso fino ad oggi con l’istituzione delle Commissioni Dottrinali in seno alle varie Conferenze Episcopali. Con l’Istruzione del 23 febbraio 1967 la Congregazione per la Dottrina della Fede chiedeva alle Conferenze Episcopali di costituire al loro interno una Commissione Dottrinale che “vigilerà sugli scritti che vengono editi, favorirà l’autentica scienza religiosa [e] darà la sua collaborazione ai Vescovi nel giudicare i libri”. Successivamente, con la lettera circolare del 10 luglio 1968 proponeva alcune ulteriori indicazioni per una migliore attività delle stesse Commissioni Dottrinali. Infine, nella sua lettera del 23 novembre 1990 ai Presidenti delle Conferenze Episcopali, la Congregazione è tornata sull’argomento per richiamare e precisare alcuni aspetti al riguardo.

Sulla scia di questi documenti ufficiali, vi propongo ora alcune considerazioni circa la natura teologica delle Commissioni Dottrinali e il compito dei Vescovi come maestri della fede. Per rispondere alla problematica contenuta in questa tematica, cercherò di riflettere in primo luogo sul senso teologico del Magistero in relazione alla verità e alla salvezza (I), al compito dei Vescovi circa il munus docendi (II) e, infine, alla natura specifica delle Commissioni Dottrinali (III).

I. Il senso teologico della funzione dottrinale nella Chiesa

A fondamento del Magistero sta un servizio, che è riflesso e partecipazione specifica al ministero salvifico di Gesù Cristo, Servitore e Redentore (cf. Lc 22, 27). Nel quarto Vangelo Gesù riassume la sua missione con queste parole: “Io sono nato per questo e per questo sono venuto al mondo: per rendere testimonianza alla verità” (Gv 18, 37). Tale testimonianza è inscindibilmente una attestazione irrefragabile della verità rivelata come Parola veramente divina (cf. 1 Ts 2, 13; Eb 1, 1-2) e l’evento salvifico definitivo. Il nesso intimo fra verità e salvezza è affermato dall’apostolo Paolo quando scrive che Dio “vuole che tutti gli uomini si salvino e arrivino alla conoscenza della verità” (1 Tm 2, 4). Altrove l’Apostolo rende grazie a Dio per i credenti, perché Dio li “ha scelti fin da principio per la salvezza nella santificazione dello Spirito e nella fede della verità” (2 Ts 2, 13). Nel contempo, l’Autore sacro non esita a parlare nel versetto precedente della condanna di “tutti quelli che non hanno creduto alla verità” (2 Ts 2, 12). Possiamo dire in tal senso che la rivelazione della verità divina in Gesù Cristo sollecita da parte dell’uomo una opzione spirituale decisiva, dalla quale dipende la sua sorte eterna.

Dopo aver evidenziato, almeno schematicamente, il nesso fra la salvezza e la conoscenza della verità rivelata, nonché l’adesione personale ad essa, appare più chiaramente la necessaria funzione del Magistero. Proprio perché Dio vuole che gli uomini siano salvati mediante l’adesione intima alla verità rivelata, e quindi al Figlio di Dio stesso (cf. Gv 14, 6), il Signore Gesù ha dotato la sua Chiesa di un organo specifico in grado di garantire la sua permanenza nella fede salvifica trasmessa dagli Apostoli e destinata a tutti i popoli di tutti i tempi. Per questo, Cristo, che è la Verità, ha voluto rendere la sua Chiesa partecipe della propria infallibilità. L’infallibilità partecipata della Chiesa in materia di fede e di costumi consegue dal fatto che il suo capo invisibile è Cristo stesso, unico Maestro di tutti (cf. Mt 23, 8). Bisogna ribadire qui che la teologia, poiché vive della fede, non deve considerare “il Magistero del Papa e dei Vescovi in comunione con lui come qualcosa di estrinseco, un limite alla sua libertà, ma, al contrario, come uno dei suoi momenti interni, costitutivi, in quanto il Magistero assicura il contatto con la fonte originaria, e offre dunque la certezza di attingere alla Parola di Cristo nella sua integrità”[1].

In questo contesto pare evidente la dimensione eminentemente pastorale della custodia della retta fede. Una cura pastorale che vuole veramente essere al servizio della salvezza eterna delle persone suppone una vigilanza costante circa la purezza della fede. Altrimenti, non sarebbe più un’autentica cura animarum, ma una pastorale del “wellness” o del comfort, con qualche supplemento in termini di “senso” o di “valori”, ma senza un reale impegno cristiano. Se i fedeli hanno diritto di ricevere un kerigma ortodosso da parte dei loro pastori, è perché da questo dipende la loro salvezza. Un Vangelo adulterato non salva nessuno. Al riguardo, è interessante osservare che, parlando del suo insegnamento a Corinto, San Paolo dice ai Corinzi che ricevono la salvezza dal Vangelo solo “se lo ritenete nei termini con cui ve l’ho annunziato; altrimenti avreste creduto invano” (1 Cor 15, 2).

II. La funzione dottrinale dei Vescovi

L’infallibilità partecipata della Chiesa si traduce concretamente nell’esistenza di una funzione specifica in essa, ovvero quella del Magistero, che la rende capace di attingere con certezza alle divine Scritture e alla Sacra Tradizione, le quali formano insieme la “regola suprema della propria fede”[2]. Il Catechismo della Chiesa cattolica insegna al riguardo: “La missione del Magistero è legata al carattere definitivo dell’Alleanza che Dio in Cristo ha stretto con il suo popolo; deve salvaguardarlo dalle deviazioni e dai cedimenti, e garantirgli la possibilità oggettiva di professare senza errore l’autentica fede. Il compito pastorale del Magistero è quindi ordinato a vigilare affinché il popolo di Dio rimanga nella verità che libera. Per compiere questo servizio, Cristo ha dotato i Pastori del carisma dell’infallibilità in materia di fede e di costumi”[3]. L’esercizio di questo carisma tuttavia è diversificato per quanto riguarda sia le modalità, sia le persone che lo esercitano.

A livello della Chiesa universale, occorre menzionare innanzitutto la missione specifica del Successore di Pietro di confermare i suoi fratelli nella fede (cf. Lc 22, 32). Non è qui il luogo di trattare della dottrina dell’infallibilità pontificia, ma di sottolineare la responsabilità peculiare e suprema del Romano Pontefice circa la custodia della sana dottrina. Nelle sue “Considerazioni” del 1998 sul primato del Successore di Pietro, la Congregazione per la Dottrina della Fede afferma che “il Romano Pontefice è — come tutti i fedeli — sottomesso alla Parola di Dio, alla fede cattolica ed è garante dell'obbedienza della Chiesa e, in questo senso, servus servorum. Egli non decide secondo il proprio arbitrio, ma dà voce alla volontà del Signore, che parla all'uomo nella Scrittura vissuta ed interpretata dalla Tradizione; in altri termini, la episkopè del Primato ha i limiti che procedono dalla legge divina e dall'inviolabile costituzione divina della Chiesa contenuta nella Rivelazione.  Il Successore di Pietro è la roccia che, contro l’arbitrarietà e il conformismo, garantisce una rigorosa fedeltà alla Parola di Dio: ne segue anche il carattere martirologico del suo Primato”[4]. Con queste parole viene espressa nuovamente la dimensione ministeriale del Magistero. Esso, si legge nella Dei Verbum, “non è superiore alla Parola di Dio ma la serve, insegnando soltanto ciò che è stato trasmesso, in quanto, per divino mandato e con l’assistenza dello Spirito Santo, piamente ascolta, santamente custodisce e fedelmente espone quella parola, e da questo unico deposito della fede attinge tutto ciò che propone a credere come rivelato da Dio”[5].

Per tali motivi, se da una parte è vero che “per il carattere supremo della potestà del Primato, non v'è alcuna istanza cui il Romano Pontefice debba rispondere giuridicamente dell'esercizio del dono ricevuto: «prima sedes a nemine iudicatur»”, dall’altra,  tuttavia, ciò non significa che il Papa abbia un potere assoluto[6]. In tal senso è corretto parlare del Magistero come di un’ancilla Verbi Dei, un servizio parimenti reso alla verità della divina Rivelazione, cioè il deposito della fede, che il Magistero ha per compito di custodire gelosamente e di esporre fedelmente[7], con vigile opera e mediante mezzi convenienti[8]. In effetti, “non abbiamo alcun potere contro la verità, ma per la verità”, come afferma lo stesso apostolo Paolo (2 Cor 13, 8).

Il Dicastero che ho l’onore e l’onere di dirigere fornisce un aiuto speciale alla missione petrina per ciò che riguarda la dottrina sulla fede e sulla morale. “Ne consegue che i documenti di questa Congregazione approvati espressamente dal Papa partecipano al magistero ordinario del successore di Pietro”[9]. Ma il compito della Congregazione, sancito istituzionalmente, non è soltanto di assistere il Vescovo di Roma nel suo compito di Supremo Pastore della Chiesa universale. La Congregazione, si legge nella Costituzione apostolica Pastor bonus, “è di aiuto ai Vescovi, sia singoli che riuniti nei loro organismi, nell’esercizio del compito per cui sono costituiti come autentici maestri e dottori della fede e per cui sono tenuti a custodire e a promuovere l’integrità della medesima fede”[10]. In realtà, né il ministero petrino né il ruolo specifico svolto dalla Congregazione per la Dottrina della fede devono essere isolati dal munus docendi affidato sia a ogni singolo Vescovo, sia al Collegio episcopale nel suo insieme. “Tutti i Vescovi, infatti, devono promuovere e difendere l’unità della fede e la disciplina comune a tutta la Chiesa […], e promuovere ogni attività comune a tutta la Chiesa, specialmente nel procurare che la fede cresca e sorga per tutti gli uomini la luce della piena verità”, così la Costituzione dogmatica Lumen gentium[11]. Il motivo di fondo è che “la cura di annunziare il Vangelo in ogni parte della terra appartiene al corpo dei pastori, ai quali tutti, in comune, Cristo diede il mandato, imponendo un comune dovere”[12]. Nessuno come l’apostolo Paolo ha parlato e vissuto con intensità tale “preoccupazione per tutte le Chiese”, che deve animare ogni successore degli apostoli (cf. 2 Cor 11, 28).

Se è vero che “tutti i Vescovi sono partecipi, in gerarchica comunione, della sollecitudine della Chiesa universale”[13], tale affermazione vale in particolare nell’ambito dell’insegnamento, il primo compito affidato ai Pastori. Si potrebbero citare numerosi testi circa la responsabilità dei Vescovi in materia dottrinale[14]. La vigilanza per la fede e la morale dei fedeli è una fondamentale preoccupazione pastorale ed essa concerne tutti i Pastori della Chiesa. In effetti, “nelle Chiese particolari spetta al vescovo custodire ed interpretare la Parola di Dio e giudicare con autorità ciò che le è conforme o meno. L’insegnamento di ogni vescovo, preso singolarmente, si esercita in comunione con quello del Pontefice Romano, Pastore della Chiesa universale, e con gli altri vescovi dispersi per il mondo o riuniti in Concilio ecumenico. Questa comunione è condizione della sua autenticità”[15]. Nelle sue lettere, sant’Ignazio di Antiochia offre a tal proposito un magnifico esempio della episkopè del buon Pastore che sa anche mettere in guardia il suo gregge davanti alle piante velenose, cioè le eresie, che egli chiama anche “l’erba del diavolo”[16]. Sembra ovvio del resto che parlare di un diritto del Popolo di Dio a ricevere il messaggio del Vangelo nella sua purezza e nella sua integralità ha senso soltanto se esiste un corrispondente dovere da parte dei Pastori. Al riguardo, afferma Papa Francesco, è tramite il dono della successione apostolica che “risulta garantita la continuità della memoria della Chiesa ed è possibile attingere con certezza alla fonte pura da cui la fede sorge. La garanzia della connessione con l’origine è data dunque da persone vive, e ciò corrisponde alla fede viva che la Chiesa trasmette. Essa poggia sulla fedeltà dei testimoni che sono stati scelti dal Signore per tale compito. Per questo il Magistero parla sempre in obbedienza alla Parola originaria su cui si basa la fede ed è affidabile perché si affida alla Parola che ascolta, custodisce ed espone”[17].


III. La natura specifica delle Commissioni Dottrinali

Il Concilio Vaticano II ha riconosciuto l’opportunità e la fecondità di raggruppamenti, organicamente congiunti, fra i Vescovi di una stessa nazione o regione[18]. Nel 1966, Papa Paolo VI, con il Motu proprio Ecclesiae Sanctae, impose successivamente la costituzione delle Conferenze Episcopali laddove non esistevano ancora. Essendo le Commissioni Dottrinali delle commissioni appartenenti alle Conferenze dei Vescovi, bisogna partire da queste ultime per inquadrare correttamente le Commissioni Dottrinali dal punto di vista teologico ed ecclesiologico. La Costituzione Lumen gentium ha visto nelle Conferenze Episcopali una concreta applicazione dell’“affetto collegiale” (collegialis affectus) che deve segnare la collaborazione nel seno del Collegio Episcopale[19].
In questo contesto va tematizzato l’auspicio espresso dal Santo Padre nell’Esortazione Apostolica Evangelii gaudium, cioè che sia esplicitato maggiormente “uno statuto delle Conferenze Episcopali che le concepisca come soggetti di attribuzioni concrete, includendo anche qualche autentica autorità dottrinale”[20]. Per essere compreso correttamente, tale auspicio deve essere considerato e approfondito alla luce dell’ecclesiologia cattolica, ed in particolare dei documenti del Magistero nei quali la tematica delle Conferenze Episcopali è stata trattata in modo specifico. Fra questi, si pensa specialmente al Motu proprio Apostolos suos di Papa Giovanni Paolo II, al quale rinvia d’altronde lo stesso testo appena citato dellaEvangelii gaudium (cf. nota 37).

Nel Motu proprio Apostolos suos Papa Giovanni Paolo II ha voluto chiarire la natura teologica e giuridica delle Conferenze dei Vescovi. Questo testo distingue in particolare l’azione collegiale del corpo dei Vescovi nel suo insieme, quale espressione dell’unità dell’Episcopato e della sua sollecitudine per tutta la Chiesa, e l’azione a livello di singole Chiese particolari e dei loro raggruppamenti. Sebbene l’esercizio congiunto di certe funzioni pastorali a livello regionale, nazionale ed internazionale sia animato da uno spirito collegiale, “tuttavia esso non assume mai la natura collegiale caratteristica degli atti dell’ordine dei Vescovi in quanto soggetto della suprema potestà su tutta la Chiesa. È ben diverso, infatti, il rapporto dei singoli Vescovi rispetto al Collegio episcopale dal loro rapporto rispetto agli organismi formati per il suddetto esercizio congiunto di alcune funzioni pastorali”[21]. Tenendo conto del fatto che il Collegio esiste per volontà del Signore[22], mentre i raggruppamenti di Chiese particolari sono di istituzione ecclesiastica, soltanto la relazione di ogni Vescovo col Collegio episcopale è di diritto divino. Tutto questo implica che, mentre le Conferenze Episcopali e le commissioni che ne fanno parte possiedono una natura giuridica e organizzativa propria, la loro rilevanza teologica ed ecclesiologica, e quindi anche la loro autorità, provengono non da queste stesse strutture, ma dal fatto che sono costituite da Vescovi, membri dell’unico Collegio episcopale.

Tali precisazioni e distinzioni non impediscono di riconoscere l’utilità di un esercizio congiunto del ministero episcopale a livello delle Conferenze dei Vescovi, in particolare nell’ambito dottrinale. In effetti, “la voce concorde dei Vescovi di un determinato territorio, quando, in comunione col Romano Pontefice, proclamano congiuntamente la verità cattolica in materia di fede e di morale, può giungere al loro popolo con maggiore efficacia e rendere più agevole l’adesione dei loro fedeli col religioso ossequio dello spirito a tale magistero”[23].

Per raggiungere meglio questo scopo, a livello di raggruppamento di Chiese locali, occorrono strumenti adeguati. A quel punto si intravede senza difficoltà la natura delle Commissioni Dottrinali e la loro importanza. Esse “agiscono su incarico e per mandato delle Conferenze Episcopali, e costituiscono un organo consultivo istituzionalizzato di aiuto alle medesime Conferenze Episcopali ed ai singoli Vescovi, nella loro sollecitudine per la dottrina della fede”[24]. Il legame stretto delle Commissioni Dottrinali con il magistero ordinario dei Vescovi in quanto maestri della fede spiega perché la Congregazione per la Dottrina della Fede ha sempre chiesto, dal 1967 in poi, che i membri veri e propri delle Commissioni Dottrinali siano dei Vescovi. Nella lettera del 23 novembre 1990 si è precisato al proposito: “Sono membri della Commissione Dottrinale i Vescovi eletti dalla Conferenza Episcopale. Esperti possono essere consultati di volta in volta, ma il loro ruolo deve essere distinto da quello dei Vescovi, che sono i soli responsabili di eventuali pronunciamenti della Commissione, poiché si tratta di una Commissione Episcopale”[25].

L’articolazione fra il compito delle Commissioni Dottrinali e quello della Congregazione per la Dottrina della Fede è basato sul principio di una sana sussidiarietà. San Paolo paragona la Chiesa con il corpo umano nel quale ogni membro, invece di sostituirsi agli altri, agisce secondo la sua natura e collabora armoniosamente con le altre membra in vista del bene vicendevole (cf. 1 Cor 12, 12-30). È più consono alla natura comunionale della Chiesa che le questioni dottrinali sorte in qualche regione, ed in particolare il problema del dissenso, vengano affrontate – nella misura del possibile – a livello locale o regionale, ovviamente sempre in accordo con l’insegnamento magisteriale della Chiesa universale. A tale proposito le Commissioni Dottrinali possono offrire un prezioso aiuto agli Episcopati. Non sarebbe onesto rimproverare ai Dicasteri della Curia Romana un loro eccessivo centralismo e al contempo non intraprendere iniziative opportune a livello delle Conferenze Episcopali. Esiste qui l’opportunità per una giusta decentralizzazione, come auspicata dal Santo Padre[26]. Di fatto, “un’eccessiva centralizzazione, anziché aiutare, complica la vita della Chiesa e la sua dinamica missionaria” [27].

Non è indifferente che, per rafforzare la collaborazione fra la Congregazione per la Dottrina della Fede e le Commissioni Dottrinali, l’allora Cardinale Ratzinger abbia preso l’iniziativa di riunire regolarmente i Presidenti di dette Commissioni a livello continentale, ormai più di trent’anni fa. Il primo incontro si svolse a Bogotá nel 1984; seguirono gli incontri a Kinshasha (1987), a Vienna (1989), a Hong-Kong (1993), a Guadalajara (1996), a San Francisco (1999) e a Dar es Salaam (2009). Il Cardinale Ratzinger e poi il Cardinale Levada hanno presieduto personalmente tali incontri, offrendovi interventi lungimiranti sulle sfide contemporanee in campo dottrinale. Questi incontri manifestano la volontà da parte della Congregazione di sostenere gli Episcopati locali nel loro impegno per la diffusione e la tutela della sana dottrina. Una delle caratteristiche originali di questi incontri consiste nel fatto che sono i Superiori della Congregazione a spostarsi nei vari Continenti. Si vuol sottolineare in questo modo l’importanza delle istanze locali e regionali e la loro responsabilità nell’affrontare le questioni dottrinali.

Esiste innegabilmente una certa connaturalità fra la Congregazione per la Dottrina della Fede e le Commissioni Dottrinali, per quanto riguarda la loro finalità. Anche se operano in modo e su scale diversi, ambedue sono strumenti di cui la Chiesa si è dotata lungo i secoli per svolgere con maggiore efficacia la missione di annunciare il Vangelo a tutti. È vero tuttavia che l’autorità specifica di cui gode la Congregazione e la dimensione universale del suo magistero partecipato la distinguono essenzialmente dalle Commissioni Dottrinali. Queste ultime “non hanno l’autorità di porre atti di magistero autentico né a nome proprio né a nome della Conferenza neppure per incarico di questa”[28]. Inoltre, “la Commissione Dottrinale non può pronunciarsi pubblicamente a nome di tutta la Conferenza, se non ne ha avuto l’autorizzazione esplicita”[29]. In effetti, “la natura stessa della funzione dottrinale dei Vescovi richiede che, se la esercitano congiuntamente riuniti nella Conferenza Episcopale, ciò avvenga nella riunione plenaria”[30]. Infine, “perché le dichiarazioni dottrinali della Conferenza dei Vescovi […] costituiscano un magistero autentico e possano essere pubblicate a nome della Conferenza stessa, è necessario che siano approvate all’unanimità dai membri Vescovi oppure che, approvate nella riunione plenaria almeno dai due terzi dei Presuli che appartengono alla Conferenza con voto deliberativo, ottengano la revisione (recognitio) della Sede Apostolica”[31]. Detto questo, bisogna comunque sottolineare le similitudini che devono segnare il rapporto fra la Congregazione e le Commissioni Dottrinali. Ad esempio, una delle funzioni della Congregazione è quella di verificare i documenti pubblicati dagli altri Dicasteri della Curia Romana per quanto riguarda la fede e i costumi[32]. In modo analogo, “le Commissioni Dottrinali […] collaborano con le altre Commissioni delle Conferenze Episcopali, specialmente con quelle investite di responsabilità nel settore educativo (seminari, università e scuole), catechistico, liturgico ed ecumenico, esprimendo il proprio competente parere su tutto ciò che ha rilevanza dottrinale. Le altre Commissioni, di norma, non dovrebbero pubblicare documenti importanti senza aver ricevuto anche il parere della Commissione Dottrinale, per quanto è di sua competenza”[33].

Concludendo, vorrei richiamare due aspetti fondamentali per il nostro essere ecclesiale: il nostro essere “comunione” ed insieme “Popolo di Dio”. Nulla come la communio, che identifica la Chiesa fin nelle sue radici, aiuta a comprendere la natura di questo Popolo che tutti noi siamo. Anzi, il concetto di “comunione”, lungi dall’oscurare quello di Popolo di Dio, mostra il volto autentico di questo Popolo, che raccoglie in unità la legittima diversità. La parola “comunione” dice che la nostra unità non può fare a meno della ricchezza plurale, come ci richiama ormai da tempo Papa Francesco, a cui è cara la figura del “poliedro”, nel quale le tante facce si compongono in armoniosa unità. È per questo che un’azione ecclesiale fedele alla comunione, rispettosa della natura profonda del Popolo di Dio, non può che esprimersi in termini di “sinergia”. Sinergia significa forza di un’opera comune, un’opera che vive della ricchezza di tutti i doni che ciascuno apporta, una ricchezza convergente nell’unità. Questa mi sembra infatti l’icona che meglio descrive ogni rapporto nella Chiesa ed anche i rapporti fra la Congregazione per la Dottrina della Fede e le Commissioni di cui siete i Presidenti o i Rappresentanti. I compiti propositivi assegnati alle Commissioni Dottrinali aprono un vasto campo per molteplici iniziative, che, se messe in atto, gioveranno all’intera Chiesa. Si può pensare alla divulgazione e al commento dei documenti del Magistero, alla preparazione di testi di valore scientifico e dottrinalmente sicuri, alla compilazione di una lista di libri approvati per l’insegnamento, alla stimolazione del lavoro teologico scientifico, coltivando a questo scopo mutue relazioni con i teologi e gli insegnanti delle Università e dei Seminari, o all’aiuto offerto ai singoli Vescovi nel compito di seguire e discernere la produzione teologica del proprio territorio, indicando loro una lista di esperti per l’esame dei libri. Tutto ciò ha l’unico scopo di aiutare ciascun Vescovo ad esercitare, con maggiore efficacia, l’affascinante ed oneroso compito di essere maestro della fede. Lasciamoci condurre sempre da Colui che è il nostro vero Maestro, Gesù Cristo, il “Testimone fedele e verace” (Ap 3, 14), Colui che suscita continuamente la nostra fede e la porta a compimento (cf. Eb 12, 2), per il bene del gregge a noi affidato da Cristo, buon Pastore.




[1] Francesco, Lettera enciclica Lumen fidei (29 giugno 2013), n. 36.
[2] Concilio Vaticano II, Costituzione dogmatica Dei Verbum, n. 21.
[3] Catechismo della Chiesa cattolica, n. 890.
[4] Congregazione per la Dottrina della Fede, Il Primato del Successore di Pietro nel mistero della Chiesa (31 ottobre 1998), n. 7.
[5] Concilio Vaticano II, Costituzione dogmatica Dei Verbum, n. 10.
[6] Congregazione per la Dottrina della Fede, Il Primato del Successore di Pietro nel mistero della Chiesa (31 ottobre 1998), n. 10.
[7] Cf. Concilio Vaticano I, Costituzione dogmatica Pastor aeternus, cap. 4: DH 3070.
[8] Cf. Concilio Vaticano II, Costituzione dogmatica Lumen gentium, n. 25.
[9] Congregazione per la Dottrina della Fede, Istruzione Donum veritatis (24 maggio 1990), n. 18.
[10] Giovanni Paolo II, Costituzione apostolica Pastor bonus (28 giugno 1988), Art. 50.
[11] Concilio Vaticano II, Costituzione dogmatica Lumen gentium, n. 23.
[12] Concilio Vaticano II, Costituzione dogmatica Lumen gentium, n. 23.
[13] Concilio Vaticano II, Decreto Christus Dominus, n. 5.
[14] Cf. ad esempio Concilio Vaticano II, Costituzione dogmatica Lumen gentium, n. 25;ibid., Decreto Christus Dominus, nn. 12-14; Giovanni Paolo II, Esortazione ApostolicaPastores gregis (16 ottobre 2003), n. 29.
[15] Congregazione per la Dottrina della Fede, Istruzione Donum veritatis, n. 19.
[16] Cf. Ignazio di Antiochia, Lettera agli Efesini, 10, 3; Lettera ai Tralliani, 6, 1; 11, 1;Lettera ai Filadelfiesi, 3, 1.
[17] Francesco, Lettera enciclica Lumen fidei, n. 49.
[18] Cf. Concilio Vaticano II, Decreto Christus Dominus, n. 37.
[19] Cf. Concilio Vaticano II, Costituzione dogmatica Lumen gentium, n. 23.
[20] Francesco, Esortazione Apostolica Evangelii gaudium (24 novembre 2013), n. 32.
[21] Giovanni Paolo II, Motu proprio Apostolos suos (21 maggio 1998), n. 12.
[22] Cf. Concilio Vaticano II, Costituzione dogmatica Lumen gentium, n. 22.
[23] Giovanni Paolo II, Motu proprio Apostolos suos, n. 21.
[24] Congregazione per la Dottrina della Fede, Lettera sulle Commissioni Dottrinali (23 novembre 1990), n. 3.
[25] Congregazione per la Dottrina della Fede, Lettera sulle Commissioni Dottrinali (23 novembre 1990), n. 5.
[26] Cf. Francesco, Esortazione Apostolica Evangelii gaudium, n. 16.
[27] Francesco, Esortazione Apostolica Evangelii gaudium, n. 32.
[28] Giovanni Paolo II, Motu proprio Apostolos suos, n. 23.
[29] Congregazione per la Dottrina della Fede, Lettera sulle Commissioni Dottrinali (23 novembre 1990), n. 6; cf. Giovanni Paolo II, Motu proprio Apostolos suos, Norme complementari, Art. 3.
[30] Giovanni Paolo II, Motu proprio Apostolos suos, n. 23; cf. ibid., Norme complementari, Art. 2.
[31] Giovanni Paolo II, Motu proprio Apostolos suos, Norme complementari, Art. 1.
[32] Giovanni Paolo II, Costituzione Apostolica Pastor bonus, Art. 54.
[33] Congregazione per la Dottrina della Fede, Lettera sulle Commissioni Dottrinali (23 novembre 1990), n. 11.