lunedì 30 dicembre 2019

Se la pastorale sostituisce la dottrina




Aldo Maria Valli, 30-12-2019

Cari amici di Duc in altum, su radioromalibera.org è disponibile il mio nuovo intervento per la rubrica La trave e la pagliuzza. Si intitola L’abuso della pastorale e lo potete ascoltare qui.

Qui sotto invece trovate il testo scritto.


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Una delle parole che vanno per la maggiore nella Chiesa attuale è “pastorale”. Non c’è discorso in cui questa parola non sia impiegata, con un ruolo centrale, come se la pastorale fosse diventata il fondamento della vita della Chiesa e del suo insegnamento. Ma di per sé la pastorale è una prassi, e come tale non può essere posta al fondamento di nulla, non può spiegare nulla e non può sostenere nulla. In quanto prassi, ha bisogno di una dottrina che la fondi e la sostenga. I risultati del ribaltamento sono davanti a noi. Da decenni ormai la Chiesa cattolica insiste sui “come” senza spiegare i “perché”, si occupa degli strumenti dell’agire ma trascura presupposti e scopi finali.

Anni fa, quando mia moglie ed io eravamo un po’ più giovani, o un po’ meno vecchi, c’era un parroco che ci invitava agli “incontri per fidanzati” (si chiamavano ancora così), perché raccontassimo la nostra vita di fede, la nostra unione fedele e la nostra scelta di avere una famiglia numerosa. E ricordo molto bene che le coppie, in quel salone parrocchiale nel quale ci si radunava, non erano attirate dal “come” noi avessimo fatto a restare fedeli e ad avere sei figli, ma dal “perché”. In effetti, sono i motivi quelli che suscitano interesse.

Il predominio della visione pastorale è un frutto del Concilio Vaticano II. Fu Giovanni XXIII a volere un Concilio pastorale e non dogmatico, un Concilio destinato non a rivedere la dottrina, ma a proporla meglio, in modo più adeguato alle nuove esigenze. Il fatto è che in quel Concilio “pastorale” si insinuò la sfiducia nei confronti della dottrina, ritenuta non al passo con i tempi. Nella maggior parte dei casi si evitava di dirlo, ma l’esigenza del maquillage pastorale nasceva dal fatto che la Chiesa si sentiva arretrata, e così coloro che in realtà volevano modificare proprio la dottrina ebbero buon gioco a sfruttare l’occasione. La verità è che nel momento stesso in cui il Concilio si dichiarò “pastorale” introdusse una nota di sfiducia nei confronti della dottrina, perché in realtà nulla è più pastorale della dottrina stessa, nulla è più pastorale del dogma che guida e orienta le pecore. Ecco l’equivoco di partenza, dal quale sul piano teologico e dottrinale sono derivate molteplici deformazioni, se non vere e proprie eresie, e sul piano liturgico molteplici abusi.

In quel Concilio “pastorale” ci fu un altro equivoco. Riguarda l’invito di Giovanni XXIII di curare gli errori con la “medicina della misericordia”. Ora, questa medicina può essere usata, e di fatto la Chiesa da sempre la usa, nei confronti di tutte le persone che, pentite dei propri peccati, manifestino il serio intendimento di vivere secondo la legge divina e di non peccare più. Ma il problema è che, con il Concilio “pastorale” e non dogmatico, la Chiesa, per rende

rsi più amichevole, più giovane e simpatica, pensò di poter applicare quella ricetta, e di usare quella medicina, anche nei confronti delle idee e delle ideologie. Le quali non sanno che cosa sia il pentimento e il proposito di non peccare più! Il risultato fu che quelle idee e quelle ideologie furono, nei fatti, sdoganate dalla Chiesa, che le lasciò entrare anche all’interno dei propri ranghi. Fu così, sulla scorta di una presunta scelta “pastorale”, che relativismo, soggettivismo, modernismo, marxismo e comunismo fecero irruzione nella Chiesa conquistando seminari e cattedre universitarie. Fu così che dottrina e depositum fidei finirono sotto attacco. La scelta pastorale fu in realtà un equivoco pastorale, che oggi si perpetua. Perché non c’è nulla di più pastorale di una dottrina solida e insegnata in modo chiaro.

Sotto l’insegna “pastorale” il Concilio Vaticano II rifiutò di condannare e di prendere provvedimenti disciplinari. Nacque lì quell’atteggiamento che poi abbiamo visto sfociare nel “chi sono io per giudicare?” di Francesco, frase forse dal sen fuggita ma non per questo meno densa di valore programmatico. Una Chiesa che non condanna e non disciplina ovviamente piace moltissimo al mondo, che la esalta e la lusinga, ma non è Chiesa, perché non è né madre né maestra, ma è solo una compagna di strada che si limita a consolare in modo generico, senza esortare alla conversione e dunque senza offrire autentiche prospettive di salvezza.

Occorre poi aggiungere che un conto è la visione pastorale e un conto è il pastoralismo, che opera forzature a ogni livello e che si sposa molto bene, come vedremo, con il sinodalismo e il democraticismo. Anche questi “ismi” sono, in gran parte, frutti del Concilio Vaticano II e di una visione distorta della vita della Chiesa, mutuata dalla politica.

So bene che il Vaticano II non può essere considerato l’origine di tutti i problemi, ma certamente lì alcuni problemi esplosero e ciò che noi oggi viviamo è diretta conseguenza di quanto avvenne in quella stagione conciliare.

Una prima conseguenza che mi sembra evidente è l’idea, largamente diffusa, che non sia tanto importante insegnare le verità necessarie per la salvezza dell’anima, bensì aiutare il fedele a vivere la sua fede qui, in questo mondo. Falsa dicotomia, perché il modo migliore di vivere la fede in questo mondo consiste proprio nel farsi interpreti della verità.

La seconda conseguenza è che nell’insegnamento non c’è più un’ultima parola. Si avanza a seconda dei tempi e delle circostanze. In quanto prassi, la pastorale dipende dalla realtà in cui è attuata. Viene meno, così, l’idea di immutabilità. Tutto è contingente, perfino l’insegnamento della Chiesa. La dottrina, resa ancella della pastorale, diviene ad assetto variabile.

Terza conseguenza è che in primo piano non c’è più Dio, al quale rendere gloria attraverso il culto, ma c’è l’uomo, con le sue esigenze e i suoi nodi da sciogliere. Così la verità viene adattata di volta in volta, a seconda delle condizioni in cui vivono i destinatari dell’insegnamento. E gli adattamenti non di rado sfociano in vere e proprie deviazioni.

Quarta conseguenza è la tendenza a giustificare l’errore e a trovare attenuanti, cosicché la pastorale diviene in effetti una ricerca di pretesti per poter scusare la colpa. Se un insegnamento dogmatico si oppone all’errore, un insegnamento pastorale, almeno per come l’abbiamo conosciuto e lo stiamo conoscendo, assume l’errore e arriva quasi a giustificarlo in nome dell’umana “fragilità”.

Quinta conseguenza è che la dottrina non è più un corpus unitario, ma è come spezzettata, frantumata. Poiché dipende dalle circostanze, l’insegnamento perde il suo carattere di unitarietà. Si apre la strada all’idea del pluralismo: tante risposte diverse per tante domande diverse. Ed eccoci così nella morale del caso per caso, dominata dal relativismo.

Sesta conseguenza è la confusione, ben visibile nel nostro tempo. Venuta meno l’unitarietà della dottrina, si formano linee di interpretazione e ciascuno può scegliere quella che più gli aggrada. Così ciò che è valido in una diocesi può non essere affatto valido nella diocesi accanto. Ciò che insegna il parroco A può essere diverso da ciò che insegna il parroco B. Una mancanza di unità che, a sua volta, si traduce in una perdita di coerenza, e anche di prestigio, dell’autorità.

Come settima conseguenza vorrei citare il disprezzo della tradizione, vista come un insieme di cose vecchie e non come il tesoro da trasmettere in ogni epoca, al di là e al di sopra delle circostanze storiche.

Infine, e siamo all’ottava conseguenza, sottolineo il sostanziale disprezzo che i pastoralisti, nonostante tutta la tenerezza e tutta la comprensione manifestate a parole, nutrono nei confronti dei fedeli, da loro visti come creature che in realtà non hanno la possibilità di accedere alla verità assoluta e immutabile, ma possono soltanto essere accompagnati verso singole porzioni di verità, a seconda delle circostanze.

C’è insomma nella pastorale una forte componente deterministica, e non potrebbe essere altrimenti visto che, come abbiamo detto fin dall’inizio, stiamo parlando di una prassi.

Ma vorrei chiudere con un’altra annotazione. Riguarda quel ragionamento, che tanto spesso ascoltiamo dalla bocca dei “pastoralisti”, anche a livelli molto alti della gerarchia, e che consiste nel dire: poiché le verità fondamentali, certe e immutabili, sono note a tutti, è inutile insistervi; molto meglio occuparsi della pastorale. Ma questa è un’illusione colossale. Perché non è vero che le verità certe e immutabili sono note a tutti. Spesso anzi c’è grande ignoranza, e il pastoralismo non fa che accentuarla.

Contrappore pastorale e legge è un’operazione truffaldina. Perché non c’è misericordia più alta e concreta, e non c’è pastorale più efficace, di quella praticata da chi esorta a rispettare, senza se e senza ma, i comandamenti divini! I quali comandamenti non sono stati dati all’uomo come ideali verso i quali orientarsi nei limiti del possibile, ma come strade indicate per la nostra salvezza e dunque per il nostro sommo bene!

Il pastoralismo è figlio di un’ubriacatura ideologica non diversa, nella sostanza, da quella che ha colpito il pensiero filosofico, e non è un caso che certi risultati si vedano oggi, nel momento in cui alla guida della Chiesa troviamo la generazione di coloro che nel Sessantotto erano all’incirca trentenni.

La vittima numero uno dell’ubriacatura è il buon senso. Proprio così, il semplice, caro, vecchio buon senso, tradito da schiere di pseudo-pastori che, non avendo il coraggio di dire che non credono più negli insegnamenti di sempre, hanno incominciato a discettare di “realismo pastorale” e di fatto, anteponendo l’uomo a Dio, si sono messi a predicare non in vista della salvezza dell’anima, ma in vista del benessere psicofisico della persona, come se esistesse un dovere di Dio al perdono e un diritto della creatura a essere perdonata.

Come mi è capitato di sentire alla presentazione di quel bel libro di monsignor Nicola Bux che è Con i sacramenti non si scherza, la Chiesa ha tre vie per cambiare i cuori degli uomini: il magistero, la preghiera e i sacramenti (l’Eucarestia innanzitutto). Invece oggi la Chiesa mette al centro generici processi pastorali.

Da più di mezzo secolo la Chiesa non fa che escogitare “piani pastorali” sempre più sofisticati e particolareggiati. Ma con quale risultato? È sotto gli occhi di tutti: il “popolo” è più ateo e più agnostico, la gente non va in chiesa e preti e religiosi godono di minor prestigio e credibilità. Non basta tutto questo per rendersi conto che la via dei “processi pastorali” ha fallito?

Purtroppo la Chiesa cattolica, proprio come la burocrazia statale, è diventata un apparato il cui primo scopo, spesso, non è più quello di mettersi al servizio (dei fedeli nel caso della Chiesa, dei cittadini nel caso dello Stato), bensì quello di preservare se stesso. E tutto ciò si può tradurre con una sola parola: tradimento.

Aldo Maria Valli













domenica 29 dicembre 2019

“Astro del ciel” e la Dottrina sociale della Chiesa







Stefano Fontana, 29-12-2019

Durante le celebrazioni liturgiche del Natale con ogni probabilità tutti noi abbiamo ascoltato uno dei più bei canti natalizi che io conosca: “Astro del ciel”. Vi chiederete cosa c’entri con la Dottrina sociale della Chiesa cui è dedicato questo sito dell’Osservatorio. Ascoltandolo, la mia attenzione si è soffermata soprattutto su questo motivo: “luce dona alle menti, pace diffondi nei cuor”. Qualche versione del testo parla di luce alle “genti”, mentre è fondamentale che la luce del Bambino sia destinata alle “menti”. Questi due concetti, la luce alle menti e la pace nei cuor, mi sono sembrati molto profondi.

La Rivelazione e la Fede parlano alle menti, alla nostra intelligenza. La fede è un atto dell’intelletto guidato dalla volontà a sua volta animata dalla grazia. La fede è anche un atto che ha a che fare con l’intelligenza, è quindi conoscenza. La fede dà luce, rischiara la nostra capacità razionale, la rianima quando è stanca, la reindirizza al vero quando devia, la conferma nel vero e quindi la rafforza quando è retta. In questa piccola frase è condensato il rapporto tra la ragione e la fede secondo la religione cattolica, è come contenuto il concetto centrale di filosofia cristiana. Anche la ragione può contribuire a rischiarare la fede, ma la priorità è sempre della fede che riguarda ciò che non è visibile. Sembra una contraddizione che quanto non si vede dia luce a quanto si vede. Eppure è così anche per la ragione stessa: l’intelletto vede ciò che i sensi non vedono, l’intelletto vede ciò che agli occhi è invisibile e questo rende poi più efficace anche la vista. La fede vede il mistero, ma si sa che il mistero non è l’assurdo e quindi l’invisibile in quanto buio, ma è l’invisibile in quanto troppo luminoso per noi.

Il Bambino di Betlemme dà luce alle menti, e questo non può non valere anche quando le menti si occupano di come organizzare questo mondo, ossia di questioni sociali e politiche. L’agire politico rientra nell’ambito della ragione pubblica, dell’agire politico illuminato dalla morale naturale e rischiarato dalla luce della fede nella rivelazione. Se il Bambino rischiara le menti, le rischiara sempre, anche quando viviamo da cittadini credenti. L’essere credenti è fondamentale per essere anche cittadini, altrimenti da cittadini vagheremmo nel buio o nella debolezza della ragione politica abbandonata a se stessa. La luce alle menti, quindi, afferma l’importanza del ruolo pubblico della fede cattolica, la sua pretesa, il suoi diritti che la secolarizzazione le contesta. Il Bambino ha portato una luce anche intellettuale di cui non possiamo fare a meno in tutte le cose che facciamo.

Poi Egli dona anche pace nei cuor. La pace è l’obiettivo supremo della politica. Essa è la tranquillità dell’ordine, dove c’è disordine non c’è pace ma violenza. Per questo essa comporta la giustizia. La pace ha bisogno dell’intelletto perché l’ordine va conosciuto prima di essere voluto. Poi però la pace diventa anche questione di volontà e di spiritualità. In fondo tutto si decide nel cuore nell’uomo e se non c’è la pace lì, non ci sarà altrove. La pace dei cuori non nascerà dalla pace nelle strutture sociali, ma viceversa. Se nei cuori c’è il male non si potrà pretendere di vivere in istituzioni pacifiche. Senza la vita di grazia non c’è pace nella società. I Sacramenti hanno un formidabile e fondamentale impatto pubblico, il mondo lo nega, ma la Chiesa dovrebbe saperlo. Se togliamo i Sacramenti anche tutta la vita familiare, sociale, economica e politica si degrada.

“Astro del ciel” può quindi riportare le questioni di Dottrina sociale dentro la sapienza della fede, dalla quale sono spesso tirate fuori per farne solo questioni umane, troppo umane.

Stefano Fontana











sabato 28 dicembre 2019

Quei presepi così umani. Troppo umani






Aldo Maria Valli, 28-12-2019

Cari amici di Duc in altum, avrete certamente visto il presepe con Giuseppe che culla Gesù Bambino e la Madonna che si riposa. Immagine che naturalmente ha raccolto il plauso generale da parte del mondo secolarizzato ed “è piaciuta tanto a papa Francesco”, secondo quanto ci hanno fatto prontamente sapere i giornali mainstream. Tutto bene, dunque? Non proprio, come spiega l’intervento di Giovanna Riccobaldi che volentieri vi propongo.

A.M.V.


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Tempo di Natale, tempo di presepi ma anche tempo di riflessioni sulle immagini che li rappresentano.

In tanti ci rendiamo conto che la nostra Chiesa, oggi, non riesce più a comprendere il significato dei simboli, i “sacri segni” come li chiamava Romano Guardini. La sua vita, la liturgia, tutto il suo essere sono proprio un insieme di segni, ma il loro significato è stato dimenticato, come un tesoro perduto, un guscio che ha perso il suo contenuto dolce, succoso e nutriente.

Tuttavia la forza visiva della fede, il suo potenziale immaginario, permane comunque, anche se nascosto, e quando qualcuno riesce a spiegare il senso profondo di movimenti, abiti, gesti, decorazioni, materiali, allora ci si apre un mondo, quello del soprannaturale, che può rendersi presente solo attraverso di essi.

Perché l’uomo ha bisogno di vedere, toccare, capire attraverso le immagini, che sono più immediate di lunghi discorsi, e ci proiettano direttamente dentro quello che rappresentano.

Si può dire che l’oggetto, compreso in questo modo, viene a prendere vita in modo sorprendente. Ci diventa contemporaneo.

È per questo che è importante fare attenzione, specialmente nella società in cui viviamo, a come vengono adoperati, direi assemblati, quei simboli che fanno parte del patrimonio della fede cristiana.

Ho visto l’immagine di un presepe composto da Maria addormentata, in secondo piano, mentre Giuseppe si prende cura del Bambino. Ho letto che questo strano modo di intendere la Natività è stato lodato da molti, anche nei Sacri palazzi, e ne sono rimasta sgomenta.

I commenti che ho letto erano tutti accomunati dalla commozione davanti all’umanità che traspare da questa particolare raffigurazione.

Dall’umanità, appunto.

Perché, dal punto di vista naturale, emozionale, la cosa logicamente ci tocca: la situazione è perfettamente sovrapponibile a quella di una qualunque coppia di genitori alle prese con un neonato, e così l’empatia finisce con l’identificare le due famiglie, quella di Betlemme e quella di un qualsiasi rione della nostra città.

Ma questo modo di raffigurare Maria, Giuseppe e Gesù è fuorviante. Perché la verità non è questa.

Giuseppe e Maria sono immersi nell’epifania carnale di Dio che si fa bambino, un bambino speciale e unico, nel quale natura divina e natura umana coesistono.

Maria non è stanca e accasciata come una donna qualunque dopo il parto, perché il parto di Maria non è un parto umano. Maria è vergine prima, durante e dopo la nascita di Gesù, come simboleggiano (ancora i santi segni…) le tre stelle che, nelle icone, si trovano sul suo manto.

Giuseppe è sì un uomo, ma non è un padre qualunque, perché ebbe da Dio il dono della continenza perfetta, che gli permise di vivere castamente insieme a Maria.

La Sacra famiglia non è una famiglia qualunque, ma è l’immagine, viva e reale, della bellezza del vincolo umano e divino non sfiorato dal peccato e che il Signore è venuto a ripristinare.

Ripeto, la raffigurazione del presepe che ha fatto il giro dei media è altamente fuorviante, annulla la presenza del divino facendolo scadere a livello dell’ordinario, e cancella dagli occhi di chi lo guarda la trascendenza, che invece dovrebbe manifestare.

Anche questo è un modo di cancellare la vita soprannaturale e l’incursione dell’Altro Mondo nel nostro. Ci si è serviti – consciamente o inconsciamente – anche del presepe per non farci alzare gli occhi verso il cielo, ma per mantenere lo sguardo fisso a terra.

Ecco dunque come le immagini, anche le più sante, possono venire usate per accomodare tutto alla visione del mondo e, potremmo dire, alla sua mancanza di speranza.

È importante capire come, piano piano, in modo soft, veniamo privati di quanto c’è di più bello nella nostra fede.

In Gesù



Giovanna Riccobaldi












mercoledì 25 dicembre 2019

Don Divo Barsotti ci aiuta ad accogliere il Natale





Per augurare a tutti i nostri lettori un Santo Natale, vi proponiamo una profonda riflessione di Don Divo Barsotti sul significato del Natale 




Aldo Maria Valli

Riflessione penitenziale alla luce di Dt 10,11

Noi sappiamo che ogni incontro con Dio implica e insieme realizza una conversione del cuore; e noi non possiamo vivere questo Natale come ricordo soltanto di un avvenimento passato, né come un’attesa della fine o del mondo o anche di noi stessi nella morte. Sentiamo tutti di non essere ancora preparati a questo incontro definitivo con Dio. Vogliamo piuttosto vivere una nostra conversione profonda dall’incontro che noi vogliamo realizzare in questa notte, con Colui che è venuto. Ma la conversione può avvenire finché noi non avremo preso coscienza della nostra povertà? del nostro peccato? In questo tempo di silenzio che ci è stato concesso, ci siamo veduti nella luce di Dio? Così come siamo, poveri, indegni? Così come siamo, legati ancora a noi stessi, pieni di sentimenti meschini, di sentimenti di vanità, di amor proprio, di sensibilità non mortificata, di mancanza di amore verso i fratelli, di incapacità di accoglierli e di accettarli così come sono, sentendoci impegnati unicamente a loro servizio per loro amore. Ci siamo liberati da tutti gli ostacoli che ci impedivano di rispondere a Dio, oppure anche noi come Adamo, ci siamo nascosti pensando così di sfuggire alla sua parola che ci chiamava?

Dio ci ha posto dinanzi la vita e la morte, la benedizione e la maledizione. Egli ci ha detto che unico suo comando è l’amore per Lui, perché è dall’amore per Lui che nasce anche l’amore per i nostri fratelli, che deriva per noi la liberazione da tutto quello che ci impedisce questa vita di amore in cui in fondo consiste tutta la nostra risposta all’amore infinito di Dio. Dall’amore di Dio tutto deriva, ma in che modo Dio è stato vivo per noi? in che modo davvero il nostro rapporto con Lui è stato un rapporto reale? Com’è stata la nostra fede? come noi abbiamo vissuto nella divina Presenza? e come nella sua Presenza noi abbiamo eliminato dalla nostra vita tutti gli idoli, i pensieri vani, le nostre piccole ambizioni, i nostri egoismi? Sono tutti idoli che ci impediscono di essere totalmente di Dio, di volgerci a Lui con quell’amore puro e totale che Egli ci ha chiesto. Sì è vero, l’unico peccato rimane l’idolatria e tutti noi ne siamo colpevoli. Amare Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutte le forze è davvero l’unico comandamento che Dio ha dato a Israele e che ha dato anche a noi, ma chi di noi veramente lo vive? Certo si impone, se vogliamo vivere questo comando, che noi ci strappiamo alle nostre radici di egoismo, di orgoglio e di sensualità per offrirci, nella nostra povertà, a Dio solo.

È questo che dobbiamo chiedere stasera a Gesù. Prima di celebrare coi Vespri l’ingresso nella festa del Natale, dobbiamo dunque metterci dinanzi al suo volto per vederci nella luce della sua santità e, senza sgomento col desiderio e con l’amore della Maddalena, gettarci ai suoi piedi e implorare il perdono. Dobbiamo chiedere davvero che questa notte sia per noi una nascita nuova, sia un rinnovamento di tutta la nostra vita. Non possiamo contentarci di noi stessi. Se domani siamo come oggi il Natale è passato invano. Che non sia invano: “Ti ho messo davanti la morte e la vita, la maledizione e la benedizione”; non c’è neutralità nella vita divina. Se l’incontro con Dio non rinnova il nostro spirito in una conversione vera e reale, evidentemente l’incontro con Dio ci fa maggiormente responsabili, ci chiude ancora di più alla sua grazia, ci allontana da Lui.

Come dobbiamo stasera implorare questo perdono! Come dobbiamo desiderare davvero col suo perdona quella conversione che volgendo tutta la nostra anima a Lui, la illumina della sua luce di grazia e di amore. Forse più grave di ogni nostro peccato particolare è proprio questa nostra tiepidezza, questa nostra vita così mediocre, povera di amore, superficiale, distratta. È evidente che non viviamo nella divina Presenza. E come dal vivere nella presenza di Dio nasce per noi davvero ogni vita santa, così è dall’oblio di Dio – dicevano i Padri della Chiesa – che nascono tutti peccati. Chiediamo al Signore che Egli davvero si faccia vivo per noi. Egli è presente, ma questo Natale deve farcelo vedere, deve farci incontrare con Lui e poi, una volta incontrato, non farcelo perdere più.

Gettiamoci ora ai piedi del Signore in umiltà profonda e in fiducia assoluta della sua misericordia, perché Egli ci sollevi a Sé nel suo amore.

Don Divo Barsotti, Il Natale oggi per noi, 24 dicembre 1983














martedì 24 dicembre 2019

Cappato assolto, dignità della persona condannata a morte





EUTANASIA/LA SENTENZA

Mentre col Natale si festeggia la nascita della Vita, il leader Radicale Cappato viene assolto dal reato di aiuto al suicidio per il caso Fabo. È la logica conseguenza della sentenza della Corte Costituzionale di settembre. Le modalità per praticare l’eutanasia nel nostro Paese si ampliano ancora di più: dopo la morte di una persona che non si sottopone a terapie salvavita, la loro interruzione o la sedazione profonda prolungata, ora si aggiunge un’altra metodica: l’aiuto al suicidio. E le modifiche parlamentari non faranno altro che allargare il raggio. Così si condanna a morte la dignità della persona.





Tommaso Scandroglio, 24-12-2019

Mentre si festeggia la nascita della Vita nel piccolo Gesù, ecco che ieri a Milano alcuni giudici hanno prestato culto alla dea morte. Marco Cappato, leader radicale che aveva aiutato DJ Fabo a morire portandolo in Svizzera, è stato assolto dal reato di aiuto al suicidio perché, ha così indicato la Corte di Assise di Milano, «il fatto non sussiste». In punta di diritto nulla quaestio. Infatti la Corte costituzionale nel settembre scorso aveva indicato i criteri nel rispetto dei quali l’aiuto al suicidio d’ora in avanti non doveva essere più considerato un reato, ma un diritto: paziente «pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli», sottoposto a trattamenti salvavita e presenza di patologie irreversibili che causano sofferenze fisiche e psicologiche.

Inoltre aveva aggiunto che i processi in corso per tale reato si dovevano riferire a questi criteri per comprendere se l’imputato fosse innocente o colpevole. Il caso Cappato rispettava puntualmente queste condizioni e quindi la condotta del leader radicale non doveva essere considerata penalmente rilevante. E infatti il pm Tiziana Siciliano ha affermato che Dj Fabo era afflitto da «una patologia irreversibile che gli procurava gravi sofferenze fisiche e psicologiche», «dipendeva dalle macchine che lo tenevano in vita» e ha preso «una decisione libera e consapevole» di morire. Dunque il fatto non sussiste perché – ha spiegato sempre in aula la Siciliano che da pubblica accusa si è trasformata in avvocato difensore di Cappato - «la fattispecie incriminatrice da sovrapporre alla norma astratta prevista non corrisponde agli elementi fattuali di cui siamo in possesso. […] il fatto di reato così contestato non sussiste».

E quindi le modalità per praticare l’eutanasia nel nostro Paese si ampliano ancora di più. Già la legge 219 permette di provocare la morte di una persona non sottoponendosi a terapie salvavita, oppure interrompendo le stesse oppure praticando la sedazione profonda prolungata. Ora si aggiunge un’altra metodica: l’aiuto al suicidio. Questa è la prima sentenza che conferma che aiutare a morire qualcuno non è più un delitto, ma un diritto.

In Parlamento ci sono più disegni di legge per modificare la normativa vigente secondo le indicazioni della Consulta, ma a ben vedere, limitatamente alla pratica dell’aiuto al suicidio, i giudici, come testimoniato dalla sentenza di ieri, se la cavano benissimo anche senza una legge ad hoc. Le modifiche legislative che il Parlamento partorirà serviranno invece ad ampliare ulteriormente il raggio di azione delle pratiche eutanasiche, ad esempio legittimando anche l’iniezione letale. È ciò che tra le righe si può leggere in una dichiarazione rilasciata a caldo dalla stessa Siciliano appena letta la sentenza: «È una giornata storica e un grande risultato perchè la decisione della Corte realizza pienamente il significato dell'articolo due della Costituzione che mette l'uomo al centro della vita sociale e non anche lo Stato. Ora è compito del legislatore colmare le lacune che ancora ci sono».

Ecco la solita parolina magica: lacune. Nel nostro ordinamento giuridico non esistevano lacune in merito all’aiuto al suicidio, semplicemente questa condotta era vietata. Parimenti il nostro ordinamento non è lacunoso in merito all’iniezione letale, semplicemente la vieta. Insomma si chiama lacuna ciò che non piace. Detto ciò appare evidente che anche l’iniezione letale diventerà legittima, perché introdotto il principio che puoi uccidere una persona innocente, tutte le modalità per attuare questo stesso principio devono essere permesse.

Un appunto riferito a quanto diceva la Siciliano in merito all’art. 2 della Costituzione che così recita nella sua parte inziale: «La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo». Nella prospettiva liberista e fondata su un erroneo principio di autodeterminazione sposata dal duo Cappato-Siciliano esisterebbe il diritto ad uccidersi. Nella visione dei padri costituenti questo diritto è invece inesistente perché non si può predicare il diritto a compiere un male morale. Anche per i padri costituenti l’uomo non è assoluto signore di se stesso, non ha il pieno e illimitato dominio della propria persona, ma quest’ultima conserva sempre in sé quella preziosità intrinseca che esige il suo rispetto in ogni frangente, anche quando le condizioni di salute fossero disperate e irreversibili ed anche quando il diretto interessato volesse morire.

La notizia vera quindi non è l’assoluzione di Cappato, bensì la condanna a morte della dignità della persona.












Com’è facile sentirsi buoni a Natale sfruttando gli schiavi cinesi





Una bambina ha scoperto che il suo bigliettino di auguri, venduto dalla Tesco per finanziare la ricerca sul cancro, è prodotto in Cina dai detenuti ai lavori forzati. Risparmiateci almeno l’ipocrisia






Leone Grotti, 24 dicembre 2019 

C’è solo una cosa più odiosa, ingiusta e insopportabile dei miliardi guadagnati dal regime comunista cinese attraverso lo sfruttamento del lavoro forzato dei detenuti. Ed è la retorica delle ricche aziende occidentali, che su quel lavoro costruiscono una fortuna e che ogniqualvolta viene squarciato il velo della verità, danno alle stampe comunicati ipocriti pieni di ideali molto natalizi, per poi tornare al business as usual. Il caso Tesco, in questo senso, è solo l’ultimo di una lunga serie.


SENTIRSI BUONI CON IL LAVORO FORZATO

La notizia, pubblicata in origine dal Sunday Times e poi ripresa da tutti i giornali del mondo, in particolare dalla Bbc, è ormai nota: Florence Widdicombe, bambina inglese di 6 anni di Tooting, quartiere a sud di Londra, ha comprato un pacchetto di bigliettini natalizi della Tesco da una sterlina e cinquanta per fare gli auguri alle sue amiche. I bigliettini, oltre ad avere un costo irrisorio, vengono venduti per raccogliere 300 mila sterline per la ricerca sul cancro e il diabete della British Heart Foundation. Non c’è niente insomma di più natalizio, secondo la vulgata che vuole il Natale come il periodo per eccellenza per “sentirsi” buoni.

Dentro una delle cartoline, però, la piccola Florence ha trovato un messaggio molto poco natalizio: «Siamo prigionieri stranieri nella prigione cinese di Qingpu, Shanghai. Siamo costretti a lavorare contro il nostro volere. Ti prego aiutaci, informa le organizzazioni dei diritti umani e contatta il signor Peter Humphrey», cittadino britannico che aveva passato due anni in quella stessa prigione, denunciandone le orribili condizioni e gli abusi da parte dei secondini.


IL COMUNICATO IPOCRITA DELLA TESCO

I bigliettini venivano prodotti e confezionati per la Tesco dalla Zhejiang Yunguang Printing, che era stata monitorata a detta del colosso britannico solo un mese fa, senza che nessun problema fosse riscontrato. Ora la Tesco ha tolto dal commercio i bigliettini provenienti da questa azienda, mantenendo sugli scaffali invece quelli prodotti da altre aziende cinesi coinvolte.

Un portavoce della catena di supermarket ha anche dichiarato: «Noi aborriamo l’uso del lavoro forzato carcerario e non permettiamo che venga usato nella nostra filiera. Siamo scioccati da queste accuse e abbiamo sospeso immediatamente la fabbrica che ha prodotto questi bigliettini e avviato un’indagine».


«SONO SOGGETTO A TORTURE ESTREME»

Non c’è niente di meglio che una bella dichiarazione di intenti e una indagine inefficace per lavarsi la coscienza. La verità è che il lavoro forzato viene utilizzato regolarmente nelle prigioni cinesi, tutti lo sanno ma a nessuno interessa cambiare il sistema che garantisce costi di produzioni bassissimi, né al governo né alle ipocrite aziende occidentali.

Nel 2012 Julie Keith, residente a Portland, Oregon, ha trovato un messaggio simile nelle sue decorazioni di Halloween, fabbricate nel centro di rieducazione attraverso il lavoro di Masanjia, dove vengono torturati i membri del Falun Gong. Nel 2014 Karen Wisinska, Irlanda del Nord, ha scoperto che i suoi jeans venivano prodotti con il lavoro forzato dal messaggio scritto sull’etichetta.
Nel 2015, Shahkiel Akbar, ha trovato un messaggio simile all’interno delle calze del marchio low cost Primark acquistate in un Metrocentre di Newcastle: «Sono soggetto a torture estreme», diceva l’autore. Nel 2017 Jessica Rigby, dell’Essex, ha scoperto che il suo bigliettino di auguri comprato in un supermercato di una delle catene più grandi del Regno Unito, Sainsbury’s, era stato prodotto con il lavoro forzato in una prigione di Guangzhou.


DI QUANTI ESEMPI ABBIAMO BISOGNO?

Di quanti altri esempi abbiamo bisogno per capire che c’è un motivo se in Cina la produzione ha un costo così basso e conveniente? E chi può dire quanti messaggi di questo tipo siano stati scritti da prigionieri, abusati e torturati, ma scoperti prima che i prodotti fossero venduti?

Davanti a così tante testimonianze, come può il portavoce della Tesco parlare di prodotti «verificati in modo indipendente»? Come fa a essere sicuro che le altre aziende che fabbricano i bigliettini natalizi non ricorrano al lavoro forzato? Per sua stessa ammissione la Zhejiang Yunguang Printing era stata controllata e giudicata senza macchia appena un mese fa. Come può dire allo stesso tempo che la Tesco «aborrisce il lavoro forzato» e poi lasciare in vendita i bigliettini fabbricati da altre aziende cinesi?


BISOGNA AGIRE, NON “SCIOCCARSI”

Che il regime comunista utilizzi il lavoro forzato carcerario non è una novità e nessuno, nel 2019, può scandalizzarsi: è un sistema che va avanti dal 1949, da quando è stata fondata la Repubblica popolare cinese. Che le aziende occidentali facciano la fila per produrre in Cina e così aumentare i profitti sfruttando gli irrisori costi di produzione non può scandalizzare nessuno: è all’alba dei tempi che i soldi sono più importanti dei diritti umani.

Sarebbe bello però se la Tesco ci risparmiasse almeno l’ipocrisia di chi fa finta di essere all’oscuro di tutto e sembra considerare la Cina come il nuovo Bengodi del capitalismo etico. Il colosso della distribuzione continui pure a fare profitti, devolvendone una parte per scopi benefici e natalizi per far sentire tutti più “buoni”, utilizzando i nuovi schiavi cinesi. Non ci venga però a parlare di “shock”, “indagini indipendenti”, “buone pratiche” e ciarpame assortito. Se la catena Tesco vuole davvero essere etica, non ha che da interrompere la produzione in Cina e finanziare con le sue tasche la lodevole ricerca sul cancro. Ma questo non accadrà, perché sentirsi buoni è molto più facile e vantaggioso che esserlo.

@LeoneGrotti

Foto Ansa










lunedì 23 dicembre 2019

Mangiarotti: “Esiste un odio profondo contro i valori cattolici”





Bruno Volpe, 22-12-2019

“Esiste un odio profondo contro i valori cattolici”: lo dichiara in questa intervista che ci ha rilasciato don Gabriele Mangiarotti, sacerdote a San Marino e direttore di Cultura Cattolica.





Don Gabriele Mangiarotti, gli insulti, anche gravi, ai danni dei segni cattolici sono in aumento. Quale la causa?


“E’ chiaro che esiste un clima di odio profondo contro i valori e i segni cattolici. A tanto si aggiunge che coloro i quali si abbandonano a tali offese sono dei veri vigliacchi, come cani, forti con i deboli e deboli contro i forti. Infatti, costoro non osano agire contro i segni di ebrei o dell’islam. Hanno paura delle reazioni, specie musulmane, mentre si profittano della tradizionale mitezza dei cattolici: ecco la viltà”.


Don Mangiarotti è stupitog silenzio del silenzio generale o quasi dei media cattolici e di buona parte del clero..


“A me non crea stupore. Tutti abbiamo visto che cosa è successo quando quel coraggioso giovane ha buttato nel fiume Tevere la immagine pagana della Pachamama che oltraggiava una chiesa e la profanava. Anzi lo hanno assalito, quasi dandogli del retrivo o dell’ intollerante, al posto di valutare il senso improprio della statua. Siamo arrivati a questo, allora che cosa aspettarci? Il silenzio su tali eventi è impressionante e a mio parere non regge la giustificazione che parlandone si amplifica e si da maggiore importanza. Bisogna invece reagire con forza e ragione. Ricordo che qualche tempo, fa un certo regista Castellucci a Bologna o Milano aveva allestito uno spettacolo alla fine del quale si gettava cacca su Gesù. Dopo la sacrosante proteste, cambiò la scena finale, non bisogna essere pavidi, se li temi, cedi”.


Che cosa devono fare i cattolici secondo don Mangiarotti?


“E’ giunto il momento che riscoprano la loro dignità, non vale naturalmente solo per cardinali, vescovi e preti, ma per tutti. E cito San Giovanni Paolo II il quale invitava ad alzarci in piedi davanti al sopruso e alla vergogna. Il problema serio è che stiamo smarrendo la nostra identità cattolica”.


Dialogo con le altre fedi e confessioni, è possibile?


“Si dialoga con le persone, non con le religioni, questo lo dice saggiamente il documento Dominus Jesus del cardinal Ratzinger. Penso per esempio all’islam. Il musulmano persona non è nemico e parlare, dialogare con lui non fa male. Tuttavia, da cattolico io devo anche a lui annunciare la mia fede, anche se mi costa la persecuzione, questo non è proselitismo, ma quello che ci comanda il Signore. Il dovere del credente è annunciare il Vangelo, convertire e non dialogare. Il dialogo è diventato sempre più spesso un pretesto per cedere. In quanto all’islam, non dimentichiamoci che i musulmani sono abili nella dissimulazione”.

Bruno Volpe














domenica 22 dicembre 2019

“Che fine ha fatto la questione antropologica”: Assuntina Morresi a Bassano del Grappa





In linea con il tema dell’ultimo numero del Bollettino del nostro Osservatorio – “Il rischio bioetico oggi. Antropologia e antropodoxia” –, la prof.ssa Assuntina Morresi è intervenuta lunedì 2 dicembre per la Scuola di Cultura Cattolica di Bassano del Grappa in un incontro dal titolo “Che fine ha fatto la questione antropologica?”.





Andrea Mariotto, 20-12-2019

Lo scenario che oggi abbiamo di fronte, ha esordito Morresi, è uno scenario in cui, con la retorica dei “nuovi diritti”, tutto è cambiato: lo stare insieme, il mettere al mondo dei figli, il vivere e il morire. Seguendo lo spunto fornito dal biologo e filosofo Hugo Tristram Engelhardt nel libro “Dopo Dio. Morale e bioetica in un mondo laico”, possiamo dire di trovarci di fronte a una società che per la prima volta è senza un riferimento trascendente. Non pagana, ma proprio senza Dio: “viviamo come se Dio non ci fosse – ha commentato – e non è mai successo che ci si dimenticasse dell’idea di Mistero”. Per la prima volta, quindi, “il trascendente non ha più rilevanza, per l’uomo conta solo quello che possiamo toccare, vale solo la terra sotto i nostri piedi e non arriviamo a vedere che cosa c’è oltre”. Si pensi ad esempio all’ambientalismo che negli ultimi tempi è tornato tanto in auge: non c’è meraviglia di fronte al creato, uno stupore che porta a chiedersi cosa c’è oltre, ma è un’ideologia “caratterizzata dalla sola volontà di conservare”.

“Se Dio non esiste, tutto è lecito”, è la celebre frase che Dostoevskij ne I fratelli Karamazov fa pronunciare a Ivan, uno dei protagonisti del romanzo. Oggi ci troviamo in questa esatta situazione. Se il dato di partenza è che nella società non è possibile porre la questione dell’esistenza di un trascendente, “come si fa a dire che cosa è bene e che cosa è male?”, si è chiesta Morresi. E infatti oggi “abbiamo solo delle opinioni l’una uguale alle altre e tutto ciò che è morale diventa uno ‘stile di vita’ che non si può giudicare”. È così anche nel Comitato Nazionale di Bioetica, del quale la relatrice è membro, e un esempio lo abbiamo avuto nel pronunciamento del Comitato sul suicidio medicalmente assistito dello scorso luglio. Se si rinuncia ad affermare una verità sull’uomo, se non si pone una questione antropologica, la conseguenza è che quando un soggetto sostiene di voler morire, lo Stato deve tutelare non la sua vita, ma la sua scelta. “Senza Dio, la bioetica laica non esiste”, scriveva infatti Engelhardt nel suo volume, alludendo al fatto che per definire il bene e il male è necessario un criterio oggettivo. Senza questo criterio oggettivo, ha commentato Morresi, non ci resta che prendere atto delle opinioni e “possiamo solamente metterci d’accordo sulle maggioranze”.

Vittime della dittatura del politicamente corretto, oggi la lotta tra bene e male non ha diritto di cittadinanza nel dibattito pubblico, dal quale sono puntualmente cancellati i temi sensibili, e “lo Stato non è più il luogo in cui si difendono i diritti dei più deboli”.

Si tratta di una situazione irreversibile, secondo Morresi, perché la mentalità è cambiata in modo troppo radicale. Il cuore di tutto sta nella maternità e nella maniera in cui è cambiata a partire dal 1978, quando venne alla luce Louise Brown, la prima bimba concepita in provetta. La genitorialità venne sganciata dalla sessualità, e dopo quarant’anni ci troviamo al punto in cui si è genitori non perché si è generato, ma perché si è manifestata un’intenzione. “Questa è una rivoluzione, perché se basta l’intenzione, quest’ultima è assolutamente gender neutral”. Non si tratta soltanto di una questione morale, perché l’omosessualità c’è sempre stata, ma “la rivoluzione consiste nel fatto che si nega la differenza sessuale e la sua massima espressione che è la fecondità”. La Chiesa aveva già capito tutto con l’enciclica Humanae Vitae, in cui Paolo VI avvisava dei danni che avrebbe prodotto la separazione tra sessualità e generazione. Infatti siamo passati dalla contraccezione, cioè sesso senza figli, alla fecondazione artificiale, cioè figli senza sesso. E non ha rilevanza se a farlo sono in pochi, ha precisato Morresi, perché anche se a ricorrervi sono delle minoranze cambia la mentalità di tutti, “si apre la crepa nella diga”.

Si fa presto anche ad immaginare cosa potrebbe riservarci il futuro, perché “se ciò che conta è l’intenzione, perché limitarsi a due genitori?”. Così è ad esempio nei casi di “coparenting”, che sono degli accordi in cui due o più persone senza necessariamente una relazione tra loro si accordano su come crescere un bambino.

“Eutanasia, utero in affitto, DAT – ha concluso – sono conseguenze di un cambiamento di paradigma antropologico in cui la felicità è solo un raggiungimento personale e la relazione diventa un limite”. Lo si vede anche dalla crisi demografica nella quale siamo immersi: “nessun Paese europeo arriva a 2,1 di tasso di sostituzione. Non è una questione economica, perché viviamo nel migliore dei mondi possibili quanto ad opportunità. C’è alla base una perdita di speranza”.




















sabato 21 dicembre 2019

Biglietto di auguri Natalizi dei francescani con Maria e la Pachamama





21DIC
E al posto di Elisabetta spuntò la Pachamama


Aldo Maria Valli

Per il Natale 2019 l’ong dei francescani, Franciscans International, invia un raccapricciante biglietto d’auguri che raffigura Maria e la Pachamama. Stanno una di fronte all’altra, entrambe incinte, sotto il titolo Visitatio Mariae, e il messaggio augurale, in inglese, dice: «Nel contesto della natività Luca ci racconta l’incontro tra Maria e sua cugina Elisabetta. Le due donne, entrambe in attesa di un bambino, si incontrano con attenzione e sensibilità. All’apertura del Sinodo, papa Francesco ci ha chiesto di avvicinarci in punta di piedi alla gente dell’Amazzonia. In questa immagine vedete Maria, che noi onoriamo come nuova Eva o Madre della Vita, insieme alla Pachamama, che alcuni popoli indigeni onorano come madre della terra. Anche Francesco d’Assisi descrive la terra come nostra madre nel Cantico. Celebrando il Natale, desidero che ci avviciniamo a Dio e ci avviciniamo l’un l’altro in punta di piedi, in modo da sperimentare in questi incontri la vita reale».

Segue la firma del responsabile, Markus Heinze OFM, direttore esecutivo, e infine c’è una celebre frase del filosofo ebreo Martin Buber: «All real living is meeting», ovvero «Ogni vita vera è incontro».

Ora, mi vengono spontanee alcune osservazioni.

Come sappiamo, quella che chiamiamo la Visitazione della Beata Vergine Maria ricorda la visita che Maria, dopo aver ricevuto l’annuncio che sarebbe diventata madre di Gesù per opera dello Spirito Santo, fece alla cugina Elisabetta. Come ci racconta Luca (1, 39-45) in un passo molto bello e intenso, Maria andò da Elisabetta per aiutarla negli ultimi mesi della gravidanza, che per la cugina avvenne in tarda età, e per ricevere qualche consiglio dalla parente più esperta: è molto bello: «In quei giorni Maria si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa, in una città di Giuda. Entrata nella casa di Zaccarìa, salutò Elisabetta. Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino sussultò nel suo grembo. Elisabetta fu colmata di Spirito Santo ed esclamò a gran voce: “Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! A che cosa devo che la madre del mio Signore venga da me? Ecco, appena il tuo saluto è giunto ai miei orecchi, il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo. E beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto”».

L’episodio di Giovanni il Battista che sussulta nel grembo di Elisabetta non appena sente il saluto di Maria è uno dei più noti del Vangelo. Giovanni avverte che nel grembo di Maria c’è Gesù e ha una reazione di gioia. Al momento della Visitazione, dunque, non si incontrano solo la giovane Maria e l’anziana Elisabetta, che era stata creduta sterile. Per la prima volta si incontrano Gesù e Giovanni il Battista, il Messia e il suo Precursore. E il grande protagonista, sebbene invisibile, è lo Spirito Santo, che ha scelto Maria per concepire il Salvatore e ha donato la gravidanza all’anziana moglie di Zaccaria.

Così come viene proposta dal biglietto d’auguri di Francescans International la Visitazione diventa invece una questione tutta orizzontale e tutta terrena, che riguarda l’incontro fra due culture. Ecco così l’incredibile presenza della Pachamama (presenza ormai fissa in certi ambienti «cattolici») al posto di Elisabetta, ed ecco l’annotazione che le due donne si «incontrano con attenzione e sensibilità», il che è vero, ma ancor più vero è che non tutto si riduce lì. Quell’attenzione e quella sensibilità non nascono dal semplice rispetto e dall’affetto recirpoco. Lì non ci sono solo due donne incinte. Lì ci sono due donne incinte consapevoli di essere parte di un disegno ben più grande, qualcosa di incommensurabile, che va al di là delle loro persone, perché è volontà di Dio.

Il messaggio d’auguri fa poi riferimento al recente sinodo e alla richiesta di Francesco di avvicinarci «in punta di piedi alla gente dell’Amazzonia», ma che c’entri tutto questo con la Visitazione non è chiaro, e sorprendenti sono le parole che vengono dopo, là dove si lascia intendere che l’accostamento tra Maria e la Pachamama sia del tutto naturale, visto che noi onoriamo Maria «come nuova Eva o Madre della Vita» e la Pachamama è onorata da alcuni popoli indigeni come madre della terra.

Mettere sullo stesso piano Maria Madre della Vita (ma perché non dire Madre di Dio? Forse il dogma della maternità divina di Maria è poco spendibile dal punto di vista del politicamente corretto?) e la Pachamama madre della terra è arbitrario, ingiustificato, assurdo. Maria non può essere in alcun modo accomunata a un idolo pagano di estrazione panteistica. Il parallelo non regge e diventa ben più che irriverente. È sacrilego.

Quanto meno fuorviante è poi l’affermazione secondo cui «anche Francesco d’Assisi descrive la terra come nostra madre nel Cantico», quando invece nel Cantico delle creature san Francesco non loda sorella madre terra in sé e per sé, ma loda il Signore per averci donato sorella madre terra: «Lodato sii mio Signore, per nostra sorella madre terra, la quale ci dà nutrimento e ci mantiene: produce diversi frutti variopinti, con fiori ed erba».

Nel messaggio d’auguri di Franciscans International c’è insomma un bel po’ di confusione. Che purtroppo appare voluta ed è consequenziale a quella troppo spesso seminata a piene mani dall’attuale magistero papale.

A.M.V.













venerdì 20 dicembre 2019

Un dogma chiamato dialogo




Vorrei dedicare il mio primo intervento a Radio Roma Libera a quello che definisco il dogma del dialogo, uno dei dogmi più rigidi della nuova Chiesa tutta amicizia e comprensione nei confronti del mondo e degli altri, una Chiesa che si compiace di essere antidogmatica ma poi in realtà produce suoi dogmi rispetto ai quali non ammette obiezione alcuna. Credo che la domanda che ogni cattolico deve porsi sia la seguente: ma Gesù dialogava? La risposta è no. Gesù non dialogava. Gesù insegnava. Ecco il punto. A causa della crisi dell’idea di Verità, crisi che la Chiesa ha acquisito dal mondo e fatto propria man mano che è andata secolarizzandosi, i pastori hanno smesso di insegnare e si sono messi a dialogare. La crisi dell’idea di Verità ha infatti innescato la crisi dell’idea di autorità, con tutte le conseguenze che ben conosciamo.

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Cari amici di Duc in altum, mi fa piacere condividere il mio primo contributo (lo potete ascoltare qui) per radioromalibera.org, che da oggi ospita la rubrica La trave e la pagliuzza. 



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di Aldo Maria Valli, 20-12-2019

Vorrei dedicare il mio primo intervento a Radio Roma Libera a quello che definisco il dogma del dialogo, uno dei dogmi più rigidi della nuova Chiesa tutta amicizia e comprensione nei confronti del mondo e degli altri, una Chiesa che si compiace di essere antidogmatica ma poi in realtà produce suoi dogmi rispetto ai quali non ammette obiezione alcuna.

Quello che definisco dogma del dialogo nasce con il Concilio Vaticano II e con l’ottimismo del quale quel Concilio fu imbevuto. Sembrava che il mondo avesse molte cose buone da dare alla Chiesa e che il confronto con il mondo fosse necessario per uscire da un certo isolamento, per rinnovarsi e apparire più dinamici, spigliati e simpatici, meno rigidi, meno ingessati e meno austeri.

Eravamo all’inizio egli anni Sessanta del secolo scorso, il Sessantotto era alle porte. Il dialogo sembrò una via obbligata. La Chiesa dimenticò che il mondo non ha nulla da insegnarle, ma è la Chiesa che deve insegnare al mondo. E deve insegnare, in ogni tempo, la via verso la Verità, ovvero la via della conversione.

Da quella prospettiva erronea proviene anche il modo distorto di concepire il dialogo, che non è e non può essere un bene in sé, perché tutto dipende dal fine che vogliamo perseguire. E in questo senso possiamo osservare che l’erronea concezione del dialogo è figlia della crisi dell’idea di Verità, una crisi che ha duramente colpito anche la Chiesa nel momento in cui essa ha incominciato a secolarizzarsi. Il dialogo, infatti, nella Chiesa è diventato un fine in sé man mano che l’idea di Verità si è appannata. Ecco così l’illusione di poter trovare tracce di Verità nella conversazione e non nella conversione! Ed ecco così l’affermarsi del dogma del dialogo in campo ecumenico e interreligioso, ma anche sociale e culturale.

Ora credo che la domanda che ogni cattolico deve porsi sia la seguente: ma Gesù dialogava? La risposta è no. Gesù non dialogava. Gesù insegnava. Ecco il punto. A causa della crisi dell’idea di Verità, crisi che la Chiesa ha acquisito dal mondo e fatto propria man mano che è andata secolarizzandosi, i pastori hanno smesso di insegnare e si sono messi a dialogare. La crisi dell’idea di Verità ha infatti innescato la crisi dell’idea di autorità, con tutte le conseguenze che ben conosciamo.

Una Chiesa che intimamente avverte di non essere più la custode della Verità ma soltanto una voce tra le altre, una Chiesa che si vergogna di proclamare che extra Ecclesiam nulla salus, una Chiesa che vuole apparire amichevole e simpatica, una Chiesa che tralascia il discorso sulle cose ultime per dedicarsi ai temi sociali è una Chiesa che fatalmente tradisce il Vangelo di Gesù e diventa relativista. E una Chiesa relativista, che rinuncia alla potestas docendi e si compiace del suo essere amichevole e simpatica, può proclamare solo il dogma del dialogo, perché non ha niente altro da proclamare.

Ovviamente quando noi diciamo queste cose veniamo prontamente bollati come tradizionalisti (anzi, come ultra-tradizionalisti). Invece siamo semplicemente cattolici. “Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo ad ogni creatura”. Così ha detto Gesù. Non “andate e dialogate”, non “andate e conversate”. Ed ha aggiunto: “Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, ma chi non crederà sarà condannato”.

Certo, qualche gesuita potrà sempre sostenere che all’epoca di Gesù non c’erano i registratori e quindi non possiamo essere sicuri che il Maestro abbia detto proprio così. E qualche teologo modernista potrà sempre dire che nel verbo “predicare” in realtà è contenuta anche l’idea del dialogo eccetera eccetera. Ma queste sono posizioni ideologiche.

La Chiesa vive nel mondo, ma non è del mondo. Ecco perché quando il mondo cerca di tirarla dalla propria parte essa non solo può ma deve fare resistenza. Ma una Chiesa secolarizzata non ha queste preoccupazioni. Una Chiesa secolarizzata si preoccupa del proprio aspetto, non dei contenuti. Una Chiesa secolarizzata si esprime mediante il politicamente corretto. E quando poi arriva un papa, come Benedetto XVI, che nella Dominus Iesus spiega che mai e poi mai il dialogo può essere messo al servizio del relativismo, è la Chiesa stessa a remare contro quel papa, dipinto come irrimediabilmente rigido e incapace di cogliere i segni dei tempi.

E così ecco l’idea balzana di rincorrere i protestanti sul loro stesso terreno, perché Lutero sarebbe stato “una medicina per la Chiesa”, come ha purtroppo dichiarato papa Francesco. Ed ecco la dichiarazione di Abu Dhabi, nella quale possiamo leggere che Dio stesso ha voluto la diversità fra le religioni.

Queste sono le aberrazioni a cui porta il dialogo elevato a dogma. Parlo di aberrazioni perché si tratta di atteggiamenti e affermazioni che non stanno in piedi né sul piano storico né su quello teologico. Però piacciono alla gente che piace. E questo solo conta per una Chiesa che bada alla propria immagine più che alla difesa della fede.

Voglio ora proporvi una citazione. Sentite: Oggi “abbiamo a che fare con un’inflazione del dialogo. Si vuole ‘aprire un dialogo’ con ognuno e possibilmente con tutti. Non è tanto importante l’argomento che trattiamo; è più importante la relazione che intessiamo nel dialogo. Il percorso è la meta”.

Sapete chi l’ha detto? Non un cattolico conservatore e “ultra-tradizionalista”, bensì un teologo evangelico: Jürgen Moltmann, il quale aggiunge: “Il dialogo dei nostri giorni non è funzionale alla verità, bensì alla comunione”, ed è così che subisce una sorta di edulcorazione. Il tentativo di evitare gli spigoli porta all’appiattimento, e la teologia ne risente. “Oggi la teologia è diventata una faccenda talmente innocua che difficilmente trova ancora pubblica considerazione”. Alla ricerca della comunione, le asperità sono limate fin quasi a scomparire. E ciò che resta è spesso una tolleranza priva di contenuti che sacrifica la passione per la verità.

Moltmann è esplicito nel suo elogio della disputa: “Dobbiamo imparare nuovamente a dire di no. Una controversia può portare alla luce più verità di un dialogo tollerante. Abbiamo bisogno di una cultura teologica della disputa, condotta con risolutezza e rispetto, per amore della verità. Senza professione di fede la teologia è priva di valore e il dialogo teologico degenera in puro scambio di opinioni”.

Più chiaro di così il teologo evangelico non potrebbe essere, ed è significativo che la sua rivalutazione della disputa, contro l’inflazione del dialogo, sia arrivata proprio nell’anno in cui, tra molteplici inni al dialogo e ben poca attenzione per la questione della verità, si è celebrato il mezzo millennio dalla Riforma. “Comunione e verità non procedono più di pari passo?”, si chiede Moltmann.

Come è stato giustamente notato, sembra che oggi non ci sia alternativa possibile: o si dialoga all’insegna del buonismo o si fa polemica aggressiva. Non c’è più posto per la sana, virile disputa.

Sembra un po’ paradossale che la critica del dialogo fine a se stesso arrivi da un protestante, visto che l’assolutizzazione del dialogo è figlia, anche, della mente protestante. Paradossale ma significativo. Moltmann, con onestà intellettuale riconosce che si è esagerato nel dialogo fine a se stesso, privo di contenuti.

Nell’Ecclesiam suam Paolo VI non dice che il dialogo ha valore in sé, ma che occorre dialogare per convertire. Tuttavia mi sento in linea con Romano Amerio quando, in Iota Unum, parla di equazione incoerente e impossibile “tra il dovere che incombe alla Chiesa di evangelizzare il mondo e il suo dovere di dialogare col mondo”.

Insomma, a dispetto delle preoccupazioni di Paolo VI, il relativismo è entrato nella Chiesa ed ha usato l’idea di dialogo in modo strumentale. Ecco perché chi ha a cuore la questione della Verità dovrebbe far sua la proposta di Moltmann e rivalutare la disputa, lo scambio vivace di opinioni, la controversia che mette sul tavolo ragioni diverse. Solo che, per disputare, occorre saper ragionare, e proprio questo, oggi, è il problema. Perché la nostra è sì crisi di fede, ma forse, prima ancora, è crisi della ragione.

Vorrei invitarvi a riflettere anche sull’esperienza dei convertiti. Da che cosa sono attirati coloro che si convertono al cattolicesimo? Se ci pensiamo, sempre da due elementi: la verità e la bellezza. Non ho mai sentito dire da un convertito: “Sono arrivato alla Chiesa cattolica grazie al dialogo”. No. Si arriva alla Chiesa cattolica sotto la spinta di una profonda ricerca di verità e perché si è attirati dalla bellezza della liturgia, espressione della pienezza sacramentale.

“Chi sono io per giudicare?” è diventato il marchio di fabbrica di questa Chiesa liquida, dialogante e amichevole. Ma io in questo marchio non voglio riconoscermi. Perché la fede è necessariamente un giudizio e lo è su tutto. Senza il giudizio non c’è nemmeno la fede. Senza il giudizio c’è l’indifferenza. Certo, è bene che nel mio giudicare io eviti di diventare aggressivo e antipatico, ma il giudizio fa parte integrante dell’esperienza di fede. Altrimenti c’è solo un vago sentimentalismo. E mi sa che i paladini del dialogo, tutti peace and love, vogliono proprio questo: ridurre la fede a un fatto sentimentale, privatissimo e circoscritto, che eviti di sollevare problemi e di interferire con i padroni del vapore.

Ma poi, alla fin fine, sapete perché l’idea di dialogo ha tanto successo? Perché è comoda. È comodo dire che dobbiamo riconoscerci nell’altro, che dobbiamo andare d’accordo. È comodo parlare di rispetto e tolleranza. È comodo dire che occorre ascoltare. Sono tutte belle espressioni, che assicurano il consenso e non costano nulla. Molto più complicato è disputare, sollevare questioni, fare polemiche. Molto più impegnativo è avventurarsi in un contraddittorio, in una confutazione. È molto più difficile e complicato perché, prima di tutto, occorre avere qualche idea in testa e poi perché occorre fare una cosa alla quale siamo sempre meno abituati: utilizzare le idee, ovvero pensare!

Ecco perché anche i pastori (preti, vescovi, cardinali), i quali, in fin dei conti, sono, come tutti, figli del nostro tempo, preferiscono, nella maggior parte dei casi, dire “chi sono io per giudicare?”. È più comodo, ti evita un sacco di problemi e ti fa apparire simpatico, à la page o, come direbbero i miei figli, cool. Ma non credo che Gesù si sia mai posto il problema di come essere cool. Ed ecco perché di lui sappiamo che se ne andava per città e villaggi predicando e annunciando la buona novella, non dialogando!

“Credere nella possibilità di conoscere una verità universalmente valida – si legge nella Fides et ratio – non è minimamente fonte di intolleranza; al contrario, è condizione necessaria per un sincero e autentico dialogo tra le persone. Solamente a questa condizione è possibile superare le divisioni e percorrere insieme il cammino verso la verità tutta intera, seguendo quei sentieri che solo lo Spirito del Signore risorto conosce”.

Ritengo che questo sia un passo decisivo per uscire dall’equivoco del dialogo fine a se stesso, che si compiace del pluralismo senza ambire al raggiungimento di quella “verità universalmente valida”.

“Meno dialogo e più tradizione!”, mi verrebbe da dire con uno slogan. Mi diano pure del sovranista: non mi scompongo. Anzi, della strana parola “sovranismo” prendo il buono che ha in sé e dico, con un altro slogan: giù le mani dai miei principi sovrani!

Fonte











A cosa hanno ridotto la “teologia pubblica”







Stefano Fontana, 19-12-2019

La Dottrina sociale della Chiesa può essere anche chiamata “teologia pubblica”. Essa è teologia morale, come ha chiarito Giovanni Paolo II, ma ciò non significa che riguarda solo i comportamenti etici individuali nell’ambito politico. Non vuol dire solo che indichi cosa si deve e non si deve fare in determinate situazioni. Certo, fa anche questo, ma più estesamente essa è teologia morale in quanto esprime il significato della presenza pubblica della Chiesa nei suoi rapporti con la costruzione sociale e politica della comunità umana, esprime il progetto di Dio sulla vita sociale, parla degli aspetti strutturali che legano essenzialmente l’essere cristiano con l’essere cittadino, impegna ad ordinare a Dio le cose temporali, chiarisce il rapporto tra la Chiesa e il mondo. Quindi essa può essere considerata “teologia pubblica”, e in questo senso rivendica per la Chiesa un “diritto di cittadinanza” nella società politica, un diritto di cittadinanza che non può essere ridotto ad una opinione che dialoga con altre opinioni come in un enorme talk-show democratico, senza dire né garantire niente di definitivo.

Un libro di recente pubblicazione
(G. Villagràn, Teologia pubblica. Una voce per la Chiesa nelle società plurali, Queriniana, Brescia 2018) illustra la nuova “teologia pubblica” nordamericana, segnalandola come una interessante novità nelle risposte della Chiesa alle sfide di oggi. Si tratta di un nutrito gruppo di teologi che, pure tra molte diversità, coltiva alcuni presupposti comuni: Ronald Thienamm, Linell Cady, Robert Benne, David Tracy, Max Stackhouse, John Coleman, David Hollenbach. Kristin Heyer. È stata anche costituito il Global Network of Public Theology per favorire gli incontri accademici tra i diversi protagonisti.

Questa nuova teologia pubblica parte dal presupposto che la situazione di pluralismo
religioso e morale delle nostre società avanzate non solo sia irreversibile sul piano storico ma anche giusto e opportuno. In questo senso la corrente fa propria l’idea, già ampiamente argomentata da altri, secondo la quale la secolarizzazione sarebbe frutto positivo dello stesso cristianesimo e quindi con esso essenzialmente compatibile. Un secondo punto è che nella società plurale ogni realtà ha una propria narrazione alle spalle da cui trae principi e valori sociali e politici e ad essa si spira nell’incontro con le altre narrazioni. Capita così anche per la Chiesa e per essa la teologia è naturalmente pubblica, contro ogni privatismo possibile. La teologia pubblica per questo richiede e giustifica una presenza della Chiesa nella pubblica piazza, ove portare i principi della propria narrazione. Un terzo punto riguarda lo strumento filosofico di cui avvalersi, dato che tutti i protagonisti di questa corrente ritengono che non si possa fare teologia senza filosofia. I due principali punti filosofici di riferimento per loro sono l’ermeneutica di Gadamer e la filosofia dell’etica pubblica di Habermas. L’autore del libro analizza lo sviluppo di questi punti soprattutto nella teologia di David Tracy, sacerdote cattolico della diocesi di Bridgeport (Connecticut), nato nel 1933.

Non si può non osservare la debolezza della teologia pubblica intesa in questo senso
e non si può concordare con quanti la collegano in qualche modo alla Dottrina sociale della Chiesa che è invece tutt’altra cosa. Con l’ermeneutica e il dibattito pubblico di Gadamer e Habermas si può arrivare al massimo a decisioni concordate, ma non a decisioni giuste, dato che la giustizia non dipende dal dialogo o dal confronto, anche se dialogo e confronto possono aiutare a trovarla. Inoltre tali decisioni condivise sono sempre provvisorie dato che dipendono da precomprensioni. Quando si arrivasse ad una decisione condivisa partendo da diverse precomprensioni, tale decisione diventerebbe a sua volta una nuova precomprensione per altri confronti condivisi e così via, senza mai arrivare a qualcosa di definitivo. Ma se non c‘è il definitivo non c‘è l’indisponibile, e la società si reggerebbe sulla provvisorietà delle interpretazioni e delle decisioni condivise, il che è troppo poco.

Dati certi presupporti della teologia moderna, che questa nuova teologia pubblica fa propri
, è inevitabile che alla Chiesa non possa spettare che un ruolo di partecipante ad un talk-show socio-politico, nel quale ci si scambiano visioni derivanti dalle proprie narrazioni e si cerca tramite il dialogo di arrivare a decisioni condivise. Che poi siano vere e giuste è un’altra questione.

Stefano Fontana







giovedì 19 dicembre 2019

LA RELIGIONE VISTA DA UN SOLDATO






di Nicolò Manca
19/12/19


Con buona pace del buonismo dilagante che propone sciroppose immagini di soldati armati di pace nonché portatori della medesima, è scontato che un militare, agnostico o credente che sia, di fronte al problema religioso si sente più vicino al crociato che combatte in armi per difendere la propria religione piuttosto che al missionario impegnato nel proselitismo apostolico. Se così non fosse il militare in questione avrebbe forse sentito la vocazione per il clergyman e non per la drop, e nella vita avrebbe certamente pregato di più e sacramentato (in senso buono, si intende) di meno.

Ciò detto è giustificabile la rabbia viscerale che il 17 di questo scorcio di dicembre pre-natalizio ha attanagliato i non pochi uomini in divisa che hanno visto sulla prima pagina di un quotidiano nazionale la riproduzione del quadro firmato da uno squallido pseudo-artista riproducente un Gesù in versione pedofila. Da sottolineare che la stomachevole “opera”, frutto di una becera inciviltà prima ancora che di una spregevole blasfemia, è stata esposta nel MACRO (museo capitolino di arte contemporanea) di Roma, quindi a spese del contribuente.

Chiunque, e a maggior ragione un soldato, si sarebbe aspettato una levata di scudi da parte del mondo religioso, politico e giudiziario; e invece nulla. Ma quel che più colpisce è il silenzio del Vaticano, perché un soldato si aspetta che sia il capo, il vertice religioso istituzionale, ad alzare la voce e impugnare la frusta per scacciare i mercanti dal tempio. E invece silenzio.

Anche il giorno successivo tg, notiziari e quotidiani (“Avvenire” incluso) non hanno riferito di prese di posizione dei vertici clerico-politico-giudiziari istituzionali. Singolare che proprio “Avvenire” si sia limitato a sottolineare l'abolizione dell'inqualificabile segreto pontificio sulla pedofilia e sugli abusi sessuali, un provvedimento che sarebbe stato bene adottare qualche secolo o millennio fà!

Ma i silenzi lamentati non sorprendono ormai più di tanto, considerati i precedenti registrati allorché la stampa ha riferito delle serie televisive Netflix aventi per protagonista un Gesù gay, oppure della “immacolata con(trac)cezione” proposta dallo spazio sociale AutAut 357 dei collettivi bolognesi e ancora dei “bella ciao” intonati in alcune chiese come la San Luigi di Piazza Navona a Roma.

Per un soldato è inevitabile chiedersi: perché nessun “capo” religioso o politico sente la necessità o il dovere di prendere posizione di fronte a queste aberrazioni che offendono e deridono la storia patria e le tradizioni, incluse quelle religiose, del popolo?

Il soldato, agnostico o credente che sia, si sente offeso da questa derisione e inevitabilmente considera suo nemico l'incivile provocatore di turno.

L'ipocrisia e la viltà delle mancate reazioni dei “capi”, giustificate con una pretesa libertà di espressione e di culto, appaiono sin troppo evidenti se solo si considera cosa accadrebbe in Italia se oggetto di analoga derisione e blasfemia fosse, ad esempio, l'Islam. Squillerebbero le sette trombe di Gerico, si urlerebbe all'inciviltà e al razzismo, fioccherebbero le iniziative giudiziarie contro le offese al culto e i media di regime mobiliterebbero le piazze progressiste normalmente atee.

E invece guai solo a sfiorare verità storiche quali le 16 concubine del Profeta e le sue 19 mogli, ultima della quali sposata all'età di 53 anni quando la sposa di anni ne aveva 6, una circostanza che ancora oggi induce qualche imam a difendere la liceità delle spose bambine, ignorando i risvolti pedofili attribuiti in Italia a tale pratica; o guai a sottolineare che nel nostro paese la poligamia è considerata reato e, pensa il soldato, tale deve essere per chiunque voglia vivere in Italia, dove le leggi, Costituzione in testa, non possono valere per alcuni e per altri no.

Per questi motivi il soldato è incline ad apprezzare chi impugna la frusta, quando necessario, per cacciare i mercanti dal tempio, e a giudicare invece criticamente chi umilia se stesso e la propria fede baciando le scarpe dei rappresentanti di religioni incompatibili con quella della tradizione cristiana.

A margine degli accadimenti sopra accennati i media hanno dedicato un minuscolo spazio a un tragico fatto di cronaca: un altro suicidio (portato a compimento nei bagni della stazione A della metro Flaminio di Roma) di una ragazza-soldato impegnata nella missione “strade sicure”. Un dramma che induce i militari a chiedersi se un maggior rispetto verso la religione avrebbe potuto contribuire a valorizzare la difficile opera dei cappellani militari, messi in discussione in tempi recenti dal ministro Trenta, e prevenire questa tragedia, qualunque sia stata la causa scatenante della disperazione di questa ragazza.

Foto: ministero della Difesa / U.S. Army














mercoledì 18 dicembre 2019

Europa: rinascita o morte? Intervista a Stanislaw Grygiel




Una bella intervista dell'Osservatorio Internazionale Card. Van Thuan al filosofo e amico di Giovanni Paolo II Stanislaw Grygiel


“Europa: rinascita o morte?” è il titolo di un incontro che il prof. Stanislaw Grygiel (filosofo, direttore della cattedra Karol Wojtyla al Pontificio Istituto Giovanni Paolo II presso la Pontificia Università Lateranense a Roma) ha recentemente tenuto per la Scuola di Cultura Cattolica di Bassano del Grappa. È stata l’occasione per delineare i principali tratti della crisi del Vecchio continente, crisi che affonda le radici – prima ancora che nella politica – nella cultura e nella visione dell’uomo. A margine dell’incontro abbiamo potuto raccogliere qualche sua dichiarazione.






Intervista di Andrea Mariotto, 03-12-2019

Professore, nel 2020 cade l’anniversario dei 40 anni dal primo sciopero di Solidarność, iniziato proprio nei cantieri navali di Danzica nel 1980, e proprio da lì è partita la rivoluzione. Che cosa può dire un’esperienza come quella all’Europa di oggi?


Solidarność consiste nel portare gli uni i pesi degli altri. Se posso dire così, è il modo in cui si vive nella famiglia che è communio personarum. Se l’Europa è famiglia delle nazioni, e io l’intendo così, allora anche in essa una nazione deve portare i pesi dell’altra nazione. Altrimenti non potremmo parlare della solidarność europea. Ed è alla luce di questa solidarność che la politica e l’economia europee dovrebbero essere intese e fatte. In tal modo, nel centro della vita dell’Europa si troverebbe la persona umana e, quindi, il matrimonio e la famiglia, perché è nella persona umana che essi avvengono. Nessuna nazione può imporre il proprio modo di vivere alle altre nazioni. Aiutare non significa comandare. Questa solidarność, e non gli interessi economici e politici, deve dare il contenuto e la forma alle forze di difesa dell’Europa.


Quali sono gli amici che sembrano nemici e i nemici che sembrano amici di questa Europa?



Da secoli l’Europa è minacciata dall’imperialismo russo ed anche da quello germanico. La geopolitica favorisce tra questi imperialismi una “collaborazione” che influisce in modo fatalmente micidiale sul destino dei Paesi che si trovano tra di essi. Per i polacchi il paradigma di questa “collaborazione” è stato il patto Ribbentrop-Molotov che permise sia a Hitler che a Stalin di aggredire la Polonia nel 1939 e commettere la sua quarta spartizione. Putin ha aggredito la Georgia, l’Ucraina ed è evidente che non gli basta. Oggi però il più grande nemico dell’Europa è l’Europa stessa. Essa odia la propria identità e illuminata dalla ragione innalzata alla dignità di Dea fa tutto il possibile, dalla rivoluzione francese alla rivoluzione bolscevica a quella sessuale più recente, per cancellare dalla memoria degli europei il legame ontologico con il Creatore, cosa che li renderebbe assolutamente liberi da ogni dovere, ma non da se stessi. Così potrebbero essere manipolati da quelli ai quali sarebbero sottomessi.


Non è che siamo deboli perché ogni nazione ha un’idea diversa di Europa? Come trovare una sintesi?



Siamo deboli, soprattutto debole è l’Unione Europea, perché essa è basata non sulla cultura che a sua volta non può essere fondata che sulla solidarność, ma sugli interessi economici e politici di allora. Jean Monnet, padre dell’Unione Europea, disse: “Se potessi cominciare adesso a costruire l’Unione Europea, non comincerei dal carbone e dall’acciaio, ma dalla cultura”. Dal carbone e dall’acciaio siamo passati al profumo e al sapone su di cui stiamo scivolando. L’avere, su cui è basata l’economia, sempre divide e provoca conflitti. Li provoca dentro di noi e proprio per questo siamo deboli. Ogni regno diviso crollerà. Oggi sono divisi i matrimoni, le famiglie, le nazioni e, di conseguenza, anche la Chiesa.


In Italia è recentemente tornata in voga la questione del crocifisso, che alcuni vorrebbero togliere dalle aule di scuola. In un momento come questo, in cui la cultura dell’Europa non c’è, il gesto di toglierlo non sarebbe come aiutare questa inconsapevolezza dell’Europa?



È proprio così. È un colpo micidiale inferto al cuore dell’Europa che è nata nell’Areopago, nella sua domanda sulla Verità e sul bene, a Gerusalemme nella profezia che questa domanda anticipa, e nella rivelazione di questa Verità sulla croce e nella tomba vuota. L’Europa è nata dalla domanda: “Chi è l’uomo?”. L’evento della croce ci dice che egli è persona. Possiamo comprenderla solo guardando l’uomo alla luce della Santissima Trinità. La persona è relazione, proprio indicata dall’idea della solidarność. Uccide l’Europa chi ne caccia via il nome “persona” che ogni uomo porta. La cosiddetta globalizzazione che oggi viene promulgata persino da tanti uomini della Chiesa, distrugge la persona, distrugge i matrimoni, le famiglie e le nazioni che nascono in essa.


Che differenza c’è tra uomo e persona?



Robinson Crusoe è uomo. La persona nasce in lui, quando egli incontra Venerdì e con lui inizia la vita comunionale. Ciascuno si presenta, mostrando l’altro. Venerdì si definisce con l’aiuto che trova in Robinson Crusoe e Robinson Crusoe si definisce con l’aiuto che trova in Venerdì. Gli uomini che si dicono l’uno all’altro “io sono te e tu sei me”, sono persone. L’uno diventa per l’altro la fonte dei doveri e dei diritti. Ciò esige da loro di essere dono. È possibile diventarlo, perché ciascuno di loro vive se stesso come dono fatto a lui stesso. Da chi? La risposta a questa domanda la devono adesso cercare ed aspettare insieme. Il bambino nel grembo materno è persona, poiché è concepito nell’amore della madre e del padre, e se anche loro lo dimenticassero, non lo dimenticherebbe mai Dio. In fin dei conti, ogni uomo è persona in quanto vive nella relazione con Dio che gli è presente dall’istante del concepimento.


Il 19 settembre il Parlamento Europeo ha approvato una risoluzione in cui comunismo e nazismo vengono equiparati. Cosa ne pensa e perché, secondo lei, ci sono state voci dissenzienti?



La mia esperienza del nazismo e del comunismo mi dice che essi sono mali addirittura primordiali contro la persona umana. Sia l’uno che l’altro sono prodotti dell’Illuminismo francese che al posto dovuto a Dio mise la ragione assolutamente libera. La ragione divinizzata non conosce limiti. Può dunque andare dappertutto e fare tutto che si vuole. Essa non tiene conto del reale. Chiusa in se stessa vi trova soltanto numeri ed è in essi che cerca l’aiuto conveniente. Tra l’uccidere l’altro, l’aborto, oppure l’eutanasia e il mangiare una pera non c’è alcuna differenza morale. Solo la libertà conta. Ma di chi? Nel rispondere a questa domanda sorgono le dittature di ogni genere. Le parole di Dostoewskij: “Se Dio non c’è, tutto è lecito”, costituiscono principio del funzionamento delle dittature. Le dittature funzionano da parassiti sulla miseria propria della solitudine degli uomini che non vivono come persone. In questo senso c’è una verità fondamentale nel detto “extra ecclesiam nulla salus”.


In Europa si troverebbe oggi qualcuno disposto ad ascoltare questi argomenti?



Supponiamo che io sia eletto al parlamento europeo e vada a Bruxelles. Non m’interesserebbe tanto se i padroni dell’Unione Europea sarebbero pronti ad ascoltarmi. M’interesserebbe piuttosto se io sarei pronto, cioè abbastanza coraggioso, a dire loro ciò che la coscienza morale mi obbliga a dire e a fare senza guardare alle possibilità di sopravvivervi. Tanti anni fa dissi al Papa san Giovanni Paolo II: “Lei dice cose vere, indispensabili perché gli uomini possano vivere nella dignità nell’armonia con se stessi. Ma quanti La ascoltano e comprendono da poter identificarsi con ciò che Lei dice?”. Mi rispose: “Alcune cose devono essere dette, anche se attualmente non vengono accettate. Siamo soltanto seminatori”. Il contadino coltiva la sua terra e la semina per il futuro nella speranza che la raccolta non lo deluderà.


Come si fa a parlare di fede oggi?


Penso che all’inizio bisogna far vedere la bellezza dell’affidarsi della persona a un’altra persona; del marito alla moglie e della moglie al marito, dei figli ai genitori e dei genitori ai figli, della nazione alla nazione. Alla fine, si arriva alla comprensione della bella verità della Chiesa e della fede di cui essa si nutre – la bellezza della fede in Cristo che è il Figlio del Dio vivente. L’affidamento inizia nell’incontro, come disse la vecchia veggente Diotima a Socrate nel “Simposio” di Platone: incontro dei bei corpi, poi dei bei pensieri e delle belle azioni che avvengono in questi corpi e alla fine in un istante che forse ci viene dato solo una volta nella vita, incontriamo la Bellezza stessa, che sempre e da ogni parte è bella. Proprio qui trovo l’origine della teologia del corpo che ci lasciato san Giovanni Paolo II che oggi molti nella Chiesa vogliono dimenticare. La post-modernità ha deformato il loro pensare e il loro volere.


Lei ha sperimentato il comunismo. Dopo la sua caduta è sembrato che l’uomo trovasse la situazione ideale per lo sviluppo, ma ci ritroviamo in una situazione in cui il bene comune è ancora meno perseguito a causa della promulgazione di leggi e modi di vivere contrari alla dignità dell’uomo.



Il comunismo e il nazismo come sistemi e come poteri politici sono stati distrutti (tranne in qualche Paese). Rimangono però, soprattutto in Occidente, coma forma mentis e forma voluntatis. Continuano allora a distruggere le persone, i matrimoni, le famiglie, le nazioni e la Chiesa attraverso la cultura. La situazione d’oggi è peggiore di quella in cui io ho vissuto. Io ho visto in faccia il nemico. Oggi il nemico dell’uomo è nascosto. La menzogna funziona come se fosse verità e persino molti cosiddetti uomini di Chiesa vivono nelle e delle parole falsificate, alcuni senza rendersene conto mentre altri, sapendo di essere ricattabili, mentono a loro stessi e agli altri. Cosa fare allora? Prima di tutto non mentire! E, quando è necessario, dare la testimonianza alla verità e lasciare che essa ci difenda. Non dimentichiamo che la verità accade in due. Lo sapeva anche Nietzsche che disse: Die Wahrheit wird in zwei.


Andrea Mariotto






















martedì 17 dicembre 2019

LA PRESENZA DEL PERSONALISMO NELLA DOTTRINA SOCIALE DELLA CHIESA








LA PRESENZA DEL PERSONALISMO NELLA DOTTRINA SOCIALE DELLA CHIESA. Introduzione ai lavori del IV Convegno di Montefiascone.
13 dicembre 2019 By editorNOTIZIE DSC




I convegni di Montefiascone sono dedicati ad approfondire il rapporto tra il realismo metafisico di san Tommaso d’Aquino e la Dottrina sociale della Chiesa[1]. Questo rapporto era ritenuto molto stretto quando i Pontefici proposero la Dottrina sociale della Chiesa in età moderna e continuò ad esserlo a lungo. Dopo il Concilio Vaticano II la relazione si attenuò, divenne meno evidente e fu espressa in maniera più circospetta, ma con ciò non si può dire che sia scomparsa. Ma soprattutto non si può dire che sia scomparsa perché non può scomparire, essendo il contenuto stesso dell’insegnamento sociale della Chiesa che esige tale rapporto, dato che il realismo metafisico di Tommaso rappresenta la recta ratio, indispensabile per un corretto discorso di teologia morale quale è appunto la Dottrina sociale della Chiesa.

Nello sviluppo della teologia cattolica emerse ad un certo punto la prospettiva personalista di Jacques Maritain ed Emmanuel Mounier. Elementi personalisti si possono trovare in Henri de Lubac e in Romano Guardini. Altri, in epoca posteriore, in Luigi Stefanini, Armando Rigobello e altri pesatori per cui ad un certo punto più che di personalismo si parlò di personalismi. Prospettive che entrarono in dialogo con le varie correnti del pensiero contemporaneo, mescolandosi con i filosofi del cosiddetto “pensiero dialogico”, come Martin Buber o Emmauel Lévinas, oppure con i vari esponenti dell’esistenzialismo. Se poi il termine personalismo si intende come umanesimo, il ventaglio si allarga a dismisura.

Il personalismo, soprattutto tramite Maritain, penetrò a fondo nella teologia cattolica già negli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso e influì certamente sul Vaticano II. Il motivo fu che, per il suo intento “pastorale”, il Concilio volle misurarsi con la categoria del “soggetto”, ritenuta tipica del pensiero moderno e della sensibilità contemporanea, nel tentativo di dialogare con essi. Si trattava però di una sottovalutazione del problema.

Nel contesto articolato e complesso dei personalismi, è utile osservare che una corrente, quella che va da Maritain a Rahner e Metz, sviluppò il personalismo dentro una rilettura di San Tommaso, proponendolo quindi in continuità con il pensiero dell’Aquinate. La stessa svolta antropologica di Rahner, iniziata con la tesi di dottorato preparata all’Università di Lovanio alla fine degli anni Trenta del XX secolo, si proponeva in continuità con un san Tommaso, secondo lui, riscoperto e ricondotto a se stesso[2]. Tentativo che, come noto, Cornelio Fabro qualificò una “depravazione del tomismo”.

Per questi motivi è importante l’indagine che verrà svolta in questo Convegno, perché il personalismo contemporaneo da un lato vanta impropriamente dei rapporti con San Tommaso e dall’altro influisce profondamente sulla Dottrina sociale della Chiesa postconciliare, a cominciare dalla Gaudium et spes del Vaticano II, la quale afferma, come noto, che la persona è il principio, il fondamento e il fine della società. Concetto introvabile nelle encicliche sociali preconciliari. Ambedue i versanti devono essere quindi chiariti.

Per farlo, ritengo che possa essere di una qualche utilità prendere le mosse dal naturalismo[3], essendo, a mio avviso, il personalismo una sua modulazione. Il naturalismo, come insegnato esplicitamente dalla Quanta Cura di Pio IX, dalla Immortale Dei e dalla Sapientiae Christianae di Leone XIII, è la pretesa che l’ordine naturale sia autonomo, autosufficiente, indipendente e che possieda i mezzi per realizzare i propri fini, sicché nell’ordine naturale tutto si possa svolgere etsi Deus non daretur. Sul piano teologico, possiamo dire che il naturalismo neghi il peccato delle origini[4] e quindi che stravolga il rapporto tra la natura e la sopra-natura. Sul piano filosofico esso è un aspetto del razionalismo. Questa filosofia rifiuta la trascendenza dell’essere rispetto al pensiero. Viene assunto così il “principio di immanenza” al suo livello primario e più radicale. Molti autori hanno messo in evidenza il nesso stretto tra superbia razionalistica e peccato delle origini, perché da quel momento la fede cristiana sarebbe potuto essere al massimo di aiuto ma non più indispensabile per l’ordine naturale[5].

La parte della Pascendi di Pio X dedicata all’aspetto filosofico del Modernismo[6] descrive bene questa scelta di immanenza propria del naturalismo, secondo il quale la ragione umana è limitata al campo dei fenomeni, la rivelazione passa attraverso la coscienza e la natura umana ha diritto all’ordine soprannaturale. Il naturalismo consiste, così dice la Pascendi, nel negare qualsiasi rivelazione esterna[7] e quindi nel rifiuto di cercare tale spiegazione al di fuori dell’uomo. Si vede così il nesso, già da essa stabilito, tra modernismo, naturalismo e personalismo.

Il personalismo è una forma di naturalismo, in quanto sostiene che la sintesi della conoscenza e della rivelazione avvenga nella coscienza umana, intesa come produttrice, o almeno come co-produttrice della verità. La Pascendi afferma che per il naturalismo le formule della fede “affinché siano vitali, devono essere e mantenersi adatte tanto alla fede quanto al credente”[8]. La persona, vale a dire la coscienza, l’esperienza, il sentimento, l’esistenza dal cui interno prende le mosse la vita di coscienza, è quindi elemento fondante la sintesi della verità, sempre nuova perché processuale, nel senso dialettico dell’espressione. Il personalismo non è quindi estraneo alla concezione del dogma come qualcosa di evolutivo che negli anni Sessanta verrà spiegato dai nuovi teologi come una sintesi, da attuarsi appunto nella coscienza storica della persona, tra la Parola di Dio e la situazione del tempo[9], affinché la Parola non rimanga astratta ma, come dicevano i modernisti, diventi “vitale”.

Il personalismo cristiano del Novecento nasce nell’ambito della Nouvelle theologie. Gli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso sono da intendersi come decisivi. Chenu o de Lubac introducono nella teologia il dato storico, dialettizzano il dogma, e fanno del mondo, vale a dire della situazione storica, l’interlocutore organico e imprescindibile della Chiesa. Questo cambiamento di prospettiva apre ad una Chiesa non davanti al mondo ma nel mondo o perfino del mondo, sicché la sintesi della rivelazione diventa la persona nella sua coscienza mondana. In questo modo la mondanità o secolarità del mondo diventa nella persona il nuovo luogo teologico e la secolarizzazione viene assunta come interna allo sviluppo del cristianesimo[10]. Un ruolo importante ebbero le opere di de Lubac sul soprannaturale del 1946 e del 1965[11], per alcuni aspetti anticipate dall’opera Cattolicismo aspetti sociali del dogma del 1938, che contiene una frase significativa per il nostro convegno: “Cattolicesimo e Personalismo si accordano e si fortificano mutualmente”[12]. La sua negazione di una natura pura[13], ossia non già originariamente coinvolta per essenza dalla grazia nella propria economia, apre ad una presenza della grazia nell’umanità in quanto tale, in ogni persona e in ogni situazione. Karl Rahner, formalmente parlando, non aderirà a questa impostazione a cui negherà il suo avallo, ma per altre vie ne riprenderà lo spirito di fondo. La svolta antropologica della sua teologia si colloca su una radicalizzazione trascendentale, nel senso del trascendentale moderno, della prospettiva di de Lubac. Umanesimo integrale di Maritain del 1936 si colloca in questo contesto.

È interessante notare che il personalismo comporta un cambiamento nell’architettura del sapere. L’antropologia si propone come disciplina di partenza e fondamentale, lo studio dell’uomo è l’inizio perché la persona è la sintesi, mentre in precedenza l’antropologia arrivava dopo altre discipline metafisiche. Il personalismo quindi segna non solo il tramonto dell’ontologia, ma anche quello della teologia come sintesi del sapere. Come era naturale, un’antropologia autopoietica che nasce da se stessa è una antropologia non fondata, quindi fragile, nonostante la sua pretenziosità. Di conseguenza è fatale che essa si indebolisca nel fenomenismo e poi nel sociologismo, come infatti è avvenuto non solo nella teologia cattolica ma spesso anche nei documenti del magistero, soprattutto i più recenti. In questi luoghi, quando si parla della persona, si dice di voler utilizzare la prospettiva antropologica, ma di fatto si utilizzano le scienze sociali. Ormai il passaggio è dal racconto dell’esperienza, ai dati delle scienze sociali, agli insegnamenti della Chiesa, alla prassi. È questa l’evoluzione del principio “vedere, giudicare, agire”. Non solo viene saltato il piano metafisico, ma anche quello propriamente antropologico in senso filosofico. Del resto una simile impostazione era già contenuta in quanto la Pascendi, come abbiamo visto, chiamava “mantenersi adatte [le formule della fede] tanto alla fede quanto al credente”. La dimensione del credente, ossia della coscienza della persona, assume via via maggiore importanza finendo per dissolvere lo stesso credente in una dimensione trascendentale, ancora nel senso moderno del termine, che ne annulla la consistenza metafisica. Rahner dice che la teologia è antropologia: dicendo questo egli uccide non solo la teologia ma anche l’antropologia. Un significativo sviluppo in senso negativo si è avuto quando si è voluto sottoporre la logica del sacramento alla logica della persona, come è il caso dell’Esortazione Amoris laetitia[14].

Dal punto di vista strettamente politico il personalismo indica nella persona il fondamento e la sintesi della vita della comunità politica. Ne deriva una separazione tra vita politica e vita religiosa, tra cittadino e fedele, la impossibilità di intendere il bene comune nel suo senso proprio[15], uno iato che il personalismo non riesce più a recuperare e che diventa separazione tra coscienza e legge, tra norma e diritto.

Concludo facendo notare che il naturalismo è la rivendicazione dell’indipendenza della natura dalla sopra-natura, ma a lungo andare il naturalismo non poteva che distruggere la stessa realtà della natura. È giocoforza che al paradigma della natura si sostituisca il paradigma della storia, come è testimoniato da gran parte della teologia contemporanea. Il personalismo fa emergere la coscienza della persona e quindi la sua situazione esistenziale come la condizione per l’auto-comunicazione di Dio: Dio si incontra nell’uomo[16], ma la coscienza dell’uomo, si dice, è storica e mutevole, quindi la natura si diluisce nella storia. Il naturalismo finisce per eliminare la natura, così come il personalismo finisce per eliminare la persona.



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[1] I Convegni di Montefiascone si sono svolti annualmente dal 2016 ad oggi. Se ne vedano gli Atti nei due volumi finora pubblicati a cura di S. Fontana: AA.VV., Le chiavi della questione sociale. Bene comune e sussidiarietà: storia di un equivoco, Fede & Cultura, 2018; AA.VV., Il diritto e i diritti. Il senso della legge e le leggi senza senso, Fede & Cultura, Verona 2019.

[2] Cfr. S. Fontana, La nuova Chiesa di Karl Rahner, Fede & Cultura, Verona 2017; Id, La teologia di Karl Rahner e il suicidio della teologia cattolica, in Id., Chiesa gnostica e secolarizzazione. L’antica eresia e la disgregazione della fede, Fede & Cultura, Verona 2018, pp. 95-104.

[3] Cfr. M. Liberatore, Il naturalismo politico, a cura di G. Turco, Ripostes, Giffoni Valle Piana 2016.

[4] Cfr. S. Fontana, Il peccato delle origini e il problema politico della modernità, in AA.VV., La persona al centro del Magistero sociale della Chiesa. Omaggio al Rev. Prof. Enrique Colom Costa, a cura di P. Requena e Martin Schlag, EDUSC, Roma 2011, pp. 115-132.

[5] Di notevole portata la riflessione di Augusto Del Noce su questo tema.

[6] S.S. San Pio X, Pascendi dominici gregis. Sugli errori del modernismo, Introduzione di R. De Mattei, Premessa di L. Negri, Cantagalli, Siena 2007, pp. 49-58.

[7] Infatti K. Rahner sostiene che oggi è impossibile presupporre prove o argomenti di credibilità (Corso fondamentale sulla fede. Introduzione al concetto di cristianesimo, 1976), San Paolo, Cinisello Balsamo 1990, p. 26.

[8] S.S. San Pio X, Pascendi dominici gregis cit., p. 58.

[9] Cfr. W. Kasper, Per un rinnovamento del metodo teologico, 1967, Queriniana, Brescia 1969: “Il dogma ora non può più apparire che come una grandezza relativa e storica, che ha solo un significato funzionale. Il dogma è relativo, in quanto è in rapporto con la parola originaria di Dio, che serve ad indicare, e con le problematiche di un determinato temo, e in quanto aiuta a intendere con esattezza il vangelo nelle varie situazioni concrete” (p. 37).

[10] Le nuove tendenze secolarizzanti intendono la presenza pubblica del cristianesimo come la partecipazione ad una discussione e un confronto tra ermeneutiche: G. Villagrán, Teologia pubblica. Una voce per la Chiesa nelle società plurali, Queriniana, Brescia

[11] H. De Lubac, Surnaturel, Etudeds historiques, Seuil, Paris 1946; Id., Le Mystère du Surnaturel, Aubier, Paris 1965 (Il Mulino, Bologna 1967).

[12] Id., Cattolicismo. Aspetti sociali del dogma, Jaka Book, Milano 1992, p 256.

[13] Cfr. Card. G. Siri, Getsemani, Ed. Fraternità della Santissima Vergine Maria, Roma 1987, pp. 53-66. Per una rassegna del dibattito sulla natura pura cfr. F. Gianfreda SAI., Il dibattito sulla natura pura tra H. de Lubac e Karl Rahner, Pizzini editore, Verucchio (Rn) 2007.

[14] S. Fontana, Esortazione o rivoluzione? Tutti i problemi di Amoris laetitia, Fede & Cultura, Verona 2019.










[15] Cfr. S. Fontana, Il personalismo di Maritain e la secolarizzazione del bene comune, in Id., Chiesa gnostica e secolarizzazione cit., pp. 82-94.

[16] “Il Dio che confessiamo in Cristo è esattamente dove siamo noi e solo là deve essere trovato” (K. Rahner, Corso fondamentale sulla fede cit., p. 294).