venerdì 28 aprile 2017

Il papa in Egitto e quei nodi che l’Islam deve sciogliere



foto Ansa


Apr 2017


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Venerdì mattina, a Dio piacendo, mi imbarcherò sul volo papale per seguire la visita di Francesco al Cairo. E sabato sera, sempre a Dio piacendo, saremo di ritorno.  Un viaggio breve, dunque, ma che vale per tre. Come infatti ha ricordato lo stesso Francesco nel videomessaggio inviato al popolo egiziano, il papa va in Egitto per portare solidarietà ai cristiani copti colpiti dai recenti attentati, per incontrare la piccola comunità cattolica del paese e per far visita al Grande Imam di al-Azhar, Muhammad Ahmad al-Tayyib, il più importante esponente religioso dell’Egitto sunnita, responsabile sia della moschea sia dell’Università di al-Azhar.

I significati della visita sono dunque molteplici e intrecciati, ma qui mi concentro sull’incontro con il grande imam, che di fatto ristabilisce i pieni rapporti tra al-Azhar e la Santa Sede dopo il gelo sceso in seguito al discorso di Benedetto XVI a Ratisbona nel 2006, una separazione resa ancora più netta dal caso sollevato dall’imam nel 2011, quando il rettore stigmatizzò come ingerenza negli affari interni dell’Egitto le parole di condanna pronunciate da Benedetto XVI nel gennaio 2011 dopo gli attentati contro i cristiani ad Alessandria.

L’instancabile ricucitore è stato il cardinale Jean-Louis Tauran, presidente del Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso, che nel maggio 2016 è riuscito a portare in Vaticano l’imam al-Tayyib dopo un invito ufficiale recapitato ad al-Azhar dall’arcivescovo Miguel Angel Ayuso Guixot, segretario del dicastero presieduto da Tauran.

Alla fine di quella visita – conclusa da un comunicato congiunto nel quale si sottolineava il «grande significato di questo nuovo incontro» nel quadro del comune impegno per la pace nel mondo, il rifiuto della violenza e la tutela dei cristiani in Medio Oriente – il papa regalò all’imam una copia dell’enciclica «Laudato si’», per far capire che ci sono numerosi campi nei quali cattolici e musulmani possono lavorare insieme.

«L’idea di invitare in Vaticano il grande imam di al-Azhar – commentò in quell’occasione il padre Samir Khalil Samir, gesuita egiziano, docente di islamologia a Beirut e al Pontifico istituto orientale di Roma – è stata una scelta molto buona, fatta nel momento giusto. Durante il pontificato di Benedetto XVI i rapporti erano delicati, visto il conflitto nato quando erano state prese a pretesto alcune parole del papa, che in realtà non erano rivolte contro nessuno, ma difendevano la libertà religiosa. L’invito è un modo per riprendere il dialogo con l’islam sunnita, perché al-Azhar, com’è noto, è l’ateneo che forma il più gran numero di imam sunniti, migliaia all’anno, ed è l’università musulmana più famosa, esistendo da più di mille anni».

Le parole di Benedetto XVI strumentalizzate nel 2006 per alimentare il fuoco della violenza furono quelle pronunciate durante la «lectio magistralis» di Ratisbona, quando papa Ratzinger sottolineò l’importanza dell’unità fra ragione e fede e rimarcò gli esiti nefasti ai quali la religione va incontro quando, sganciata dalla ragione e quindi dal bene dell’uomo, può arrivare a giustificare tutto, anche la sopraffazione e il terrorismo. Come sappiamo, una citazione colta inserita nel testo fu utilizzata per sostenere che il papa aveva offeso l’Islam, e da quel momento al-Azhar troncò i rapporti con la Santa Sede.

Ora il dialogo riprende, ma intanto il papa emerito torna a far sentire la sua voce. Lo ha fatto con un messaggio inviato in Polonia, al simposio organizzato per i suoi novant’anni a Varsavia su «Il concetto di Stato nella prospettiva dell’insegnamento del cardinale Joseph Ratzinger-Benedetto XVI», un testo nel quale il papa emerito, ancora una volta, va al cuore del problema con cui ci stiamo confrontando nell’epoca del terrorismo endemico e della tensione continua tra Occidente e radicalismo islamico.

Ratzinger mette infatti a fuoco il nodo costituito dal duello tra due concezioni opposte dello Stato: da una parte lo Stato ateo e laicista, che non concede alla fede religiosa alcuno spazio pubblico ma pretende di estrometterla e di relegarla alla sola sfera privata, dall’altra lo Stato «radicalmente religioso» sostenuto dai movimenti islamisti, che non conosce distinzione tra religione e politica. Un confronto che non può portare a nulla di buono, perché da entrambe le parti c’è una forzatura contraria alla natura umana.

Quale, dunque, la strada percorribile secondo Ratzinger? La risposta l’ha data il suo ex portavoce, padre Federico Lombardi, che al simposio polacco ha detto: «Benedetto XVI è profondamente convinto che il vero fondamento, la garanzia più solida di un ordinamento capace di tutelare la dignità e il valore della persona umana stia nel riconoscimento da parte della ragione umana della verità di un ordine morale oggettivo, basato ultimamente sulla ragione creatrice di Dio».
Evidenti, in queste parole, sono gli echi di Ratisbona, e ancora vivo il desiderio di non restare alla superficie delle questioni che rendono tanto problematico il rapporto tra mondo occidentale di matrice cristiana e mondo musulmano sempre più sottoposto alle forzature di matrice islamista.

Ma in questi ultimi giorni c’è stato un altro intervento coraggioso circa l’Islam. L’ha pubblicato «Asianews» ed è ancora più importante perché viene da un musulmano. Si tratta di un articolo di Kamel Abderrahmani, studioso neppure trentenne che da tempo propone riflessioni sui nodi interni al mondo islamico.

Dopo ogni attentato terroristico, scrive l’autore, tornano le domande sul rapporto tra Islam e violenza, ma le analisi non spiegano le differenze e gli intrecci tra Islam e islamismo. «Le domande si moltiplicano e tormentano le nostre menti, facendo emergere fenomeni che hanno bisogno di essere analizzati e risolti. Io e con me tanti altri musulmani pensiamo che sia inammissibile rimandare la problematica del terrorismo islamista in questa tappa critica che punta sul futuro dell’Islam, dei musulmani e del resto dell’umanità».

Dopo un excursus storico sulla penetrazione dell’islamismo nella sfera politica di moli paesi musulmani, compreso l’Egitto, Abderrahmani scrive: «L’islamismo, la malattia dell’Islam, o il suo figlio maledetto, è il senso puro del nichilismo e dell’alienazione culturale e cultuale, la peggior tragedia generata dall’ignoranza consacrata e dall’assenza di uno spirito razionale e critico. Esso cerca di applicare alla lettera e di essere fedele alla “sharia islamica”. Detto in altro modo, tutti gli argomenti della galassia islamista – come per esempio Daesh, Boko Haram e gli altri gruppi – ai quattro angoli del mondo sono iscritti nel corpus e nella cultura islamica come è insegnata ad al-Azhar, nelle facoltà islamiche, e in centinaia di migliaia di moschee sparpagliate in oriente e in occidente. È quasi impossibile negare il legame esistente fra l’islamismo da un lato e il corpus islamico, le antiche interpretazioni del Corano e delle hadith [racconti sulla vita di Maometto, ndr] dall’altro: fra i due vi è una storia passionale. Del resto, tali insegnamenti sono oggi la fonte principale del fanatismo religioso delle nuove generazioni».

Ecco la questione delle questioni, l’autentico dramma nel quale si dibatte l’Islam. «Daesh e i diversi gruppi terroristi e politici islamisti non hanno inventato nulla, essi non hanno aggiunto alcuna parola, alcuna idea nuova o argomento a ciò che essi hanno trovato nei libri di riferimento della teologia musulmana. [Questi sono] una vera raccolta di idee morte, avvelenanti e velenose, venute fuori dalle antiche interpretazioni del Corano e delle hadith. Ciò che viviamo oggi ne è la prova».

«Questa situazione – spiega il giovane studioso musulmano – nuoce anzitutto all’Islam, bloccato e trasformato, divenuto fonte di una dottrina nefasta; poi a tutti i musulmani, che rischiano di essere esclusi dalle altre nazioni, di rimanere isolati e soprattutto di incancrenire la coabitazione con le altre componenti delle differenti religioni in pieno rispetto, nella pace e nella fraternità. Per questo, oggi, noi domandiamo la modernizzazione, la riforma dell’Islam dall’interno, e soprattutto di accettare le interpretazioni contemporanee del Corano fatte dai nostri esegeti di oggi, cartesiani e razionali, che, in più, hanno il senso della critica».

Secondo Abderrahmani «i musulmani devono rendersi conto senza dubbio del pericolo insito in questa situazione, perché fra l’Islam così come è concepito, visto e interpretato non vi è confine con l’islamismo: esso è l’incarnazione dell’islamismo stesso. Oggi è necessario che essi la finiscano di cantare il solito ritornello dopo ogni attentato islamista: “Questo non è l’Islam”. È urgente che essi prendano questa situazione nelle loro mani e comincino a riflettere ed agire in pienezza. Tutto è da rifare, dalle antiche interpretazioni del Corano, alle metodologie d’analisi, passando per la giurisprudenza e le referenze della legislazione religiosa».

Abderrahmani non nasconde che il lavoro da fare è enorme, ma non rinviabile. Occorre distinguere il vero dal falso e separarli.  Il male va seppellito, il vero sostenuto. Solo così la pace, prima di tutto fra gli stessi musulmani, sunniti e sciiti, avrà una base solida. «Altrimenti, la nostra esistenza continuerà a vivere nella paura e nelle incertezze della sicurezza, e l’Islam come religione non potrà continuare che rimanendo strumentalizzato, sclerotico e stagnante. Lo abbiamo detto tante volte, l’ignoranza consacrata e il fallimento della riforma intra-islamica non fanno che favorire l’Islam delle mitragliatrici, delle spade e degli attentati suicidi».

E gli occidentali che cosa devono fare? Anche a questo proposito Abderrahmani non si dimostra certamente prigioniero del politicamente corretto: «Per quanto riguarda gli occidentali, essi hanno ragione ad aver paura, ad essere islamofobi e ad accusare l’Islam, perché noi siamo il frutto di questo albero che si chiama Islam e si è loro presentato un Islam stanco e appesantito dalla storia. Essi hanno ragione perché i musulmani non hanno osato riconoscere il male, estraendolo ed eliminandolo».
Guardare in faccia la realtà, a partire da quella musulmana. Ecco il primo dovere. E dire apertamente che se i musulmani non faranno questa operazione di divisione tra bene e male, tra vero e falso, tra ragionevole e irrazionale, «l’abisso fra i musulmani contemporanei e le altre nazioni si allargherà e si approfondirà la miseria di questa religione», così come «la coabitazione fra gli stessi musulmani e il resto dell’umanità».

Come si vede, se la diplomazia interreligiosa procede con le sue formule, necessariamente generiche, c’è chi non rinuncia ad andare in profondità, indicando i veri nodi da scogliere e le ferite da guarire.

Aldo Maria Valli












«Non ho mai conosciuto un malato autodeterminato a sospendere le cure»





Intervista a Alberto Zangrillo, vate della rianimazione, dopo l’approvazione delle Dat: «Tra l’esecuzione capitale in Arkansas e il suicidio assistito in Svizzera non c’è differenza»

Aprile 28, 2017 Caterina Giojelli



«In 34 anni di lavoro in terapia intensiva non ho mai conosciuto un malato autodeterminato a sospendere le cure», «un malato non può morire di sete o di fame», «tra l’esecuzione capitale stile prigione dell’Arkansas e suicidio assistito nella clinica svizzera non c’è una differenza sostanziale». Alberto Zangrillo è un’autorità scientifica di prim’ordine e in oltre trent’anni di vita in terapia intensiva e in sala operatoria non è mai entrato in conflitto con l’articolo 32 della Costituzione (diritto al rifiuto alle cure) cercando di salvare una vita.

Direttore dell’Unità operativa di Anestesia e Rianimazione Generale e dell’Unità operativa di Anestesia e Rianimazione Cardio-Toraco-Vascolare presso l’Irccs San Raffaele di Milano, direttore della Scuola di specializzazione in Anestesia e Rianimazione presso l’Università Vita-Salute San Raffaele, autore di Ri-animazione. Tecnica e sentimento (editrice San Raffaele, 2010), stimatissimo nel mondo scientifico e noto alle cronache per essere il medico di Silvio Berlusconi, Zangrillo è un gigante della competenza, l’etica professionale e la responsabilità del medico.

«Chi pensa di dover decidere in base ai codici o alle sentenze, per me, è bene che faccia un altro mestiere», «i soloni mediatici prima di mettere in scena la loro opera vengano in terapia intensiva o in pronto soccorso a parlare con la madre e il padre di un ragazzo che sta perdendo la vita», scriveva su Panorama qualche tempo prima che stampa e tv si occupassero della storia di Michi, il quattordicenne rianimato e salvato da Zangrillo dopo un annegamento durato 42-43 minuti nel Naviglio. “Miracolo della scienza”, titolarono in tanti: il fatto risale al 2015, oggi il ragazzo studia, «se avessi dovuto dar retta alla famiglia sarebbe morto. Come medico ho tutti gli strumenti per sapere quando è opportuno ed etico intervenire nel rispetto del mio mandato, che è salvaguardare la vita», ha ribadito Zangrillo al Corriere il 20 aprile scorso, mentre la Camera approvava con 326, contrari 37, 4 astenuti la legge sul biotestamento che introduce le Dat (Dichiarazioni anticipate di trattamento) con il diritto per i pazienti di rifiutare le cure.

Professore, come ha accolto la notizia? In base alla sua esperienza ritiene che le Dat siano utili?
Ho accolto la notizia con assoluto disinteresse. È come se ad una persona abituata a leggere i classici della letteratura mondiale venisse data la notizia di un articolo uscito su una rivista di gossip. Le deliberazioni in materia devono essere il frutto di un lavoro serio che tenga conto dei princìpi etici, morali, deontologici e professionali.

In base alla legge il paziente avrà il diritto di rifiutare preventivamente le terapie. Ma a fronte del divieto dell’accanimento terapeutico, il medico potrà appellarsi all’obiezione di coscienza e rifiutarsi di “staccare la spina”: il medico dunque può ignorare le Dat?
Nessun medico serio, preparato e competente mette in atto terapie afinalistiche col solo scopo di prolungare la vita senza salvaguardarne la qualità. In altre parole l’accanimento terapeutico, se sussiste, è figlio dell’incompetenza e va combattuto. Altro è lo sforzo quotidiano di migliorare la prognosi del paziente.



Chi decide, o dovrebbe decidere, sulla proporzionalità delle cure? Il medico ha completa discrezionalità o prevale l’autodeterminazione del malato?
Il medico ha studiato duramente per potersi assumere delle responsabilità di strategia terapeutica anche gravi e rischiose. Il medico ha l’obbligo di informare, ascoltare e decidere. In 34 anni di lavoro in terapia intensiva non ho mai conosciuto un malato autodeterminato a sospendere le cure. Il mio dovere è non mollare mai fino a quando si intravede una ragionevole prospettiva positiva. Nei casi in cui l’emergenza di una patologia acuta non ci consenta una previsione di prognosi il dovere del medico è quello di non lasciare nulla di intentato.


Se la legge entrerà in vigore, il paziente avrà la possibilità di sospendere o rinunciare anche all’alimentazione e idratazione artificiali, indipendentemente dalla propria condizione o dall’efficacia del trattamento. Questa disposizione può aprire a possibili richieste di eutanasia omissiva o suicidio assistito?
Questi sono argomenti molto seri e molto difficili da trattare e come tali non dovrebbero essere oggetto di dibattito da salotto. L’idratazione e l’alimentazione di un malato devono essere sempre garantiti per evitare la sofferenza inumana che deriverebbe dalla loro sospensione. Un malato non può morire di sete o di fame. I medici sono in grado di assistere con dignità la fase terminale di una patologia maligna: nessun rianimatore competente ventilerebbe artificialmente un malato terminale o tratterebbe farmacologicamente un’aritmia maligna quando il destino è segnato.



L’obbligo di adempiere alla legge, anche nelle sue disposizioni più sensibili sotto il profilo etico, rimane per tutte le strutture sanitarie accreditate presso il Ssn, comprese quelle cattoliche. Lei cosa ne pensa?
Sono certo che esista uno spazio per consentire al medico di adempiere ai suoi doveri nel rispetto della legge e negli interessi del suo paziente. Se ciò non fosse vorrebbe dire che la legge è sbagliata ed eserciterei il mio diritto all’obiezione.

Dopo Beppino Englaro, Saviano ha esortato gli italiani a chiedere scusa anche a Fabiano Antoniani: «Perdonaci per non essere riusciti a farti lasciare questa vita in una condizione per te umana, non dovendo affrontare un viaggio faticoso e assurdo per ottenere in Svizzera quello che avresti avuto diritto ad avere a casa tua». Il ddl sul biotestamento ha ricevuto infatti un’accelerazione dopo il suicidio assistito del dj. Lei cosa pensa di come si è sviluppato il dibattito attorno alla libertà di scelta sul fine-vita?
Il problema vero non è quello di andare in questo o quel paese a farsi uccidere, il problema reale è il dramma che vivono centinaia di malati che non hanno accesso alle cure: io chiedo scusa alle migliaia di persone sconosciute e povere che in Italia muoiono in modo inumano perché non hanno la possibilità di essere assistite ed aiutate nelle drammatiche fasi della loro malattia. Comunque tra l’esecuzione capitale stile prigione dell’Arkansas e suicidio assistito nella clinica svizzera non c’è una differenza sostanziale.

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giovedì 27 aprile 2017

Dalla Chiesa povera alla Chiesa misera



di Andrea Zambrano (27/04/2017)

Secondo il portale Infovaticana, che cita un articolo del giornale locale La Gaceta, quasi la metà dei conventi della provincia di Salamanca necessita degli aiuti del banco alimentare spagnolo. Precisamente si tratta di 10 monasteri su 23. Siamo in Spagna, a nord di Madrid in un territorio di circa 3 milioni di abitanti. Le monache sono povere. Colpa, dicono, della crisi di vocazioni e del calo di fedeli e quindi delle offerte.

Le povere suore devono tutte le mattine sperare che i pacchi che il Banco alimentare
destina alla Caritas e a tutte le emergenze del Paese vengano recapitati anche a loro. Loro che, come tutte le suore della storia, sono nate per rifocillare indigenti, curare malati, accudire orfanelli, insomma, prendersi cura degli ultimi. Solo che adesso le ultime sono diventate loro. E la cosa non sembra intenerire nessuno.

La cosa dovrebbe allarmare almeno la diocesi di Salamanca, ma il vescovo
– riferisce sempre Infovaticana – ha detto che non possono fare nulla per aiutarle perché sono congregazioni indipendenti. Indipendenti da che cosa non si sa, se è vero che con ingenti finanziamenti pubblici la Chiesa aiuta tutti gli ultimi della terra. Si vede che le povere monachelle non sono abbastanza ultime. O che la loro attività, quella orante prima di tutto, non sembra essere ritenuta meritevole di sostegno.

Così da un po’ di tempo a questa parte le religiose devono prodursi nell’atto umiliante
di fare la carità, almeno per mangiare, poi, per mantenere il tetto, si vedrà. La notizia ha indignato non poco in Spagna, anche perché, facendo due conti, si impara che la Conferenza Episcopale Spagnola riceve circa 250 milioni di euro dallo Stato, tramite un sistema di detrazioni IRPF, simile concettualmente, al nostro otto per mille. E che cosa ne fa? Paga stipendi a vescovi e sacerdoti e finanzia attività pubblicistiche ed editoriali. Ad esempio, solo 4,8 milioni all’anno vanno in materiale promozionale per pubblicizzare la tanto sospirata X nella dichiarazione dei redditi. Cioè: la Chiesa spagnola spende quasi 5 milioni l’anno per pubblicizzare un sistema di finanziamento che non riesce, o non si vuole che riesca?, a sostenere chi vive nella povertà, come appunto alcune sorelle monache.

Verrebbe da gridare all’anticasta e farci una campagna sopra, ma il sistema
è così oliato che difficilmente anche questa notizia smuoverà le coscienze. Anche perché buona parte di quei soldi dei contribuenti serve a finanziare le attività di 13TV, la tv della Conferenza Episcopale Spagnola. La quale, proprio nei giorni scorsi dopo aver mandato in onda il servizio sull’incidente batterico occorso a Elton John si è augurata per bocca della speaker una veloce guarigione per il cantante. Per carità, la guarigione si augura a tutti, ma la stessa sollecitudine verso il miliardario cantante inglese che compra bambini, non si vede verso i vicini che forse, salute a parte, soffrono ugualmente.

Disfunzioni di un sistema di mantenimento del clero che forse andrebbe rivisto.
Ricette non ce ne sono, o forse, ce ne sono ma dovrebbero andare a ripescare una parola ormai desueta nel vocabolario di tanti cattolici: Provvidenza. Che non è un fatalistico sperare, ma sapere con certezza, dunque fede, che i bambini sono certi che alla sera la mamma preparerà loro la cena. Non si preoccupano di queste cose, come invece fanno i pagani.

Certo, non bisogna impancarsi a giudici, però sembra che il tema dell’8 per mille
e in generale del finanziamento del clero sia un argomento che molto irrita i laici, che si sentono sempre più bestie da mungere. Per avere in cambio cosa? Spesso, molto spesso, una gerarchia ecclesiastica tiepida, quando non addirittura favorevole verso unioni gay, eutanasia e altre mostruosità del genere. Ognuno mangia come prega, verrebbe da dire. Però il tema è cogente. Abbandonare l’8 per mille? Suggestivo e rivoltoso, però è anche vero che di preti e vescovi che vivono, e spendono, con dignità e per le anime ce ne sono. Ci sono preti e vescovi che si tolgono il pane di bocca per aiutare le famiglie. Perché buttare via il bambino e l’acqua sporca insieme? Sarebbe ingiusto e soprattutto contraddirebbe quello che è uno dei compiti dei laici: contribuire al mantenimento delle strutture ecclesiastiche.

“I laici dunque abbiano in grande stima e sostengano, nella misura delle proprie forze
, le opere caritative e le iniziative di «assistenza sociale», private pubbliche, anche internazionali, con cui si porta aiuto efficace agli individui e ai popoli che si trovano nel bisogno, e in ciò collaborino con tutti gli uomini di buona volontà” dice la conciliare Apostolicam Actuositatem. Fra queste vi è anche la Chiesa? Indubbiamente sì, dunque non conviene sottrarsi al compito. Né è giusto.

Però invitare a una diversa concezione della Provvidenza sì.
Per molti laici il sistema dell’8 per mille serve a ingrassare strutture obsolete che non restituiscono il servizio per il quale dovrebbero essere sostenute, cioè l’edificazione delle anime. Populismo? Forse, ma il calo delle offerte è impietoso. Lo dimostra il fatto che quelle congregazioni e quelle realtà ecclesiali che più sono attente all’anima delle persone, più ricevono in cambio. Chi ha dimestichezza di movimenti o congregazioni sa che quando il fedele trova qualche cosa di decisivo per la sua anima e il suo destino apre molto più volentieri il portafogli.

Fino a 40 anni fa le parrocchie avevano fondi e proprietà donati dalla generosità dei fedeli
con sacrifici e sudore. I preti non li tenevano per sfizio, ma li mettevano a reddito per far girare l’economia. Erano considerati padroni sì, ma davano da mangiare a famiglie intere con il lavoro nei campi o in altre attività. Erano preti che sapevano di essere amministratori di anime e beni altrui. Non per esserne proprietari, ma per costruire il benessere sociale e con esso migliorare la vita delle pecorelle loro affidate.

Oggi, venduti i fondi e amministrati spesso distrattamente i beni,
le diocesi si ritrovano in bolletta, ecco perché la manina dello Stato è indispensabile. Però ora, anche le Diocesi dovrebbero interrogarsi seriamente su come finanziarsi e per certi versi tornare al Vangelo, anche con la scomodità di dover chiedere aiuti senza sperare nella manina dello Stato, che poi in cambio chiede di non essere disturbato mentre manovra.

Un ritorno alla povertà evangelica vera però, non al buonismo della Chiesa povera,
che ha abbandonato i suoi fasti sacri e divini, per un pauperismo d’accatto che trascura di omaggiare Dio e di curare le anime. Volevano una chiesa umile e povera, si ritrovano una Chiesa misera e umiliata.








http://www.lanuovabq.it/it/home.htm





mercoledì 26 aprile 2017

Marciare per salvare la Civiltà. Il perché di una scelta.





Marcia per la Vita che si svolgerà a Roma il 20 Maggio

di Francesco Del Giudice

Per il sesto anno di seguito, l’Italia è in recessione. Lo ha certificato anche l’ISTAT ma pochi giornali ne hanno parlato: TelevideoRai ha riportato la notizia nelle rubriche secondarie e non nella celebre pagina ‘103’ dove vanno a finire le notizie più importanti e clamorose.

Solamente Avvenire se n’è accorto e, ad onor del vero, è dal novembre/dicembre che cerca di sensibilizzare la società e gli altri media su questa tematica fornendo studi, cifre, dati, riflessioni di esperti. Perché è stata scelta questa linea editoriale da parte dell’intero mondo dell’informazione italiano? Perché, attenzione, l’Italia non è in recessione economica per il sesto anno di seguito: l’Italia è in recessione demografica!

Non solo gli italiani non procreano più, ma neanche adottano più bambini (in particolare nel sistema delle adozioni internazionali). Se Atene piange, inoltre, Sparta non ride: anche gli stranieri infatti procreano sempre di meno. E l’ISTAT per far ingollare meglio la pillola non parla più di abitanti ma di residenti, falsando cioè il dato reale in quanto (non neghiamolo) il concetto di residenza e di domicilio in Italia sono agli antipodi una dall’altra.

Allo stesso modo, probabilmente per la prima volta, per non mostrare il vero e proprio vuoto che si sta creando tra la popolazione italiana l’ISTAT si esprime in termini percentuali millesimali, abbandonando la tipica percentuale a due zeri che ci hanno insegnato alle elementari.

Oltre a questo, aumenta di anno in anno il numero dei morti che, ormai, ha superato anche le cifre spaventose degli anni 1916/1917: poiché in quel biennio ci furono le più dure battaglie della Grande Guerra cosicché lo scenario è ancora più preoccupante e logicamente assurdo. Ormai l’indice di sostituzione (il fatto cioè che ogni anno ad ogni morto corrisponda almeno un nuovo vivo) è semplice teoria dei manuali statistici: la realtà ci dice altro.

La domanda di sopra, tuttavia, rimane: perché non si dà importanza ad una notizia (ormai una vera e propria “serie storica”) che riguarda sia il presente che il futuro, prossimo come anteriore, di tutta la Nazione? La verità, come accade spesso, è tanto semplice quanto amara: è meglio tacere questi argomenti, o parlarne velocemente, perché altrimenti bisognerebbe richiudere il Vaso di Pandora da cui sono usciti fuori tutti i problemi che ci stanno portando sempre più ad una vera e propria era glaciale demografica che sembra non avere fine e che sarà sempre più drammatica. Ogni anno spariscono dal nostro Paese intere comunità, e quelle che resistono invecchiano sempre di più. I legami si spezzano e tra poco non sarà strano trovare persone che vivranno senza avere accanto né familiari diretti né parenti più o meno prossimi.

Noi stiamo assistendo ai frutti di una cultura individualistica, nonché radicalmente pessimista e/o nichilista, ed il più lontana possibile da una concezione di identità e comunità aristotelicamente intesa: l’uomo non è più un animale politico, cioè sociale, ma bensì la concretizzazione del celebre assioma di Lucrezio ed Hobbes homo homini lupus. Ci troviamo dinanzi ad una vera e propria cultura della morte che, volenti o nolenti, ci condiziona in ogni nostro agire e di pensare. Non dobbiamo meravigliarci infatti se in Italia non si procrea più e se non ci si cura dell’aumento vertiginoso degli anziani se, infatti, fin da piccoli siamo portati a considerare come modelli da seguire delle persone che a 40 o 50 anni (se non ancora di più) ancora non hanno legami stabili e rifiutano categoricamente di sostenere una gravidanza preferendo invece ricorrere a scappatelle di ogni genere, purché ovviamente di breve durata, per poter soddisfare i propri bisogni affettivi e sessuali.

Non ci si deve meravigliare se in Italia c’è l’inverno demografico quando consideriamo che i prodotti anticoncezionali (rivolti sia ad un pubblico femminile che maschile) siano a disposizione anche nei bagni pubblici delle stazioni e degli autogrill (cosa anche molto discutibile: se entro in un bagno pubblico, magari a pagamento, non penso che avrò da espletare funzioni sessuali). Non dobbiamo meravigliarci di quanto detto sopra perché esiste una legge, la celeberrima 194, che permette di uccidere il frutto del rapporto tra un uomo ed una donna: come si può parlare di tutela della vita se una Legge dello Stato ha depenalizzato ed esteso l’aborto anche a soggetti che preferiscono andare a fare la bella vita piuttosto che prendersi cura di una creatura appena nata? Come è possibile non capire la stretta connessione che esiste tra il tracollo del numero dei matrimoni cioè della formazione di una coppia stabile, nucleo fondamentale della comunità più ampia che è la Nazione? Come è possibile non vedere la correlazione tra l’aumento vertiginoso dei rapporti sessuali consumati occasionalmente e l’assenza di gravidanze tra i giovani? Come è possibile non considerare che le cosiddette precauzioni durante questo tipo di rapporti sono essenzialmente precauzioni di natura anti-concezionale? E come si possono spacciare per farmaci quelli che sono dei veri e propri veleni?

Se ci trovassimo in ambito fitosanitario o veterinario, ad esempio, i prodotti di sterilizzazione sarebbero vietati all’uso comune: nel caso umano, invece, vengono venduti liberamente, spesso anche senza ricetta di prescrizione. Di cosa dobbiamo meravigliarci se ormai la figura sociale, culturale e professionale delle escort e dei gigolò è ormai entrata nel linguaggio comune delle persone e viene riproposta a piè sospinto, e sempre senza alcun tipo di giudizio bensì in maniera sempre positiva e propositiva, nella gran parte delle produzioni televisive e cinematografiche italiane, in particolare prodotte o trasmesse dalla RAI? Come si può minimamente immaginare di crescere, e per tutta la vita, un frugoletto fin dal concepimento se (in particolare dall’approvazione della Legge sul Divorzio) si sostiene in tutti i modi che i legami più sono liquidi più saremo felici?

Come è possibile invogliare i giovani a procreare se esiste una legge (la famosa 40) che permette di ricorrere a qualsiasi tecnica pur di avere figli anche in un’età considerata generalmente e scientificamente non fertile? In che modo si può concepire un figlio, che sarà della coppia per tutta la loro vita, e non a tempo o solo quando se ne ricorderanno, se l’età media dei rapporti di matrimonio diminuisce di anno in anno per la gioia degli avvocati, dei sociologi, dei politici e degli psicologi che ci spiegano che il fatto di rompere la routine di coppia porta grandi benefici sia al corpo che allo spirito dei divorziandi? E come è possibile parlare di vita, e dunque di natalità, se lo Stato si sta impegnando in prima persona per la diffusione, autorizzata!, delle cosiddette droghe leggere? Ma se sono droghe, come possono essere leggere? Esiste per caso un omicidio leggero ed un omicidio pesante? O esiste semplicemente una gradualità nell’efferatezza o nella gravità del reato commesso?

Nei giorni scorsi, come ormai non accadeva da diverso tempo, si è tornato a parlare della condizione della vita umana, della sua fragilità e del rapporto tra la vita e la morte sia all’origine della vita sia alla sua fine: eutanasia, aborto, fecondazione in vitro, creazione di ibridi e concepimenti completamente artificiali. Tutto insieme, letteralmente. Non è stato un confronto facile né tanto meno pacifico. Si è parlato spesso più con la pancia che con la ragione. Sono stati fatti paragoni a momenti tristi della storia umana, e si è cercato anche di immaginare un futuro diverso da quello che si pensava di poter vivere fino a pochi(ssimi) anni fa.

Sono state messe in contrapposizione società e legge, fede e ragione, cultura elitaria e cultura popolare, partiti di destra e partiti di sinistra, medicina ed etica. Ci si è accapigliati, scontrati, anche presi a male parole per (siamo sinceri) non risolvere granché del grande mistero che abbiamo dinanzi. Perché di questo si tratta, ci piaccia o non ci piaccia: la vita (ed in particolare la vita umana) è un mistero. E come tale fino a pochi anni fa era vista, osservata, ammirata, studiata, venerata.

Ma ora non è così: si sono ribaltati completamente sia i giudizi che il metro di paragone per parlare e valutare questo mistero. Si ama e si desidera, per sé ma soprattutto per gli altri, ciò che era considerato impensabile mettendo insieme, anche lessicalmente, nozioni agli antipodi ed concettualmente stridenti come diritto e morte. E lo si fa nei bar, nelle piazze, nei circoli culturali, con gli amici, sulle riviste di moda, nei giornali, nei video di YouTube, finanche in Parlamento. E tutto come se fosse una cosa normale e senza conseguenze più o meno pesanti, più o meno evidenti. Ma su una cosa concordano tutti gli attori in scena: si tratta di un cambiamento epocale della società (e quindi della cultura e dei giudizi, senza contare il modo di intendere la propria identità, la propria storia, il modo di immaginare il proprio futuro) paragonabile ad una vera e propria rivoluzione. E questa rivoluzione coincide con il Vaso di Pandora cui accennavamo sopra.
Combattere la cultura della morte significa combattere in favore della cultura della vita, alzando lo stendardo dell’amore per propria Patria, per i propri concittadini, per le future generazioni come anche per le categorie più svantaggiate e deboli. Dobbiamo ammettere infatti che se la cultura della morte dilaga è anche perché non si è saputo proporre, ed anche difendere, efficacemente la cultura della vita.

Fare questo significa affermare verità scomode che nessuno vuole ascoltare: e per farsi sentire allora bisogna gridare. E la storia e l’esperienza ci insegnano che non c’è grido più efficace che quello elevato durante una marcia: la storia dei sindacati, dei partiti politici, dei gruppi religiosi, dei gruppi per i diritti civili etc è piena di manifestazioni di questo tipo che hanno spesso portato a grandi conquiste per tutta l’umanità.

C’è la possibilità di marciare per dire NO alla cultura della morte e SI alla cultura della vita: è la Marcia per la Vita che si svolgerà a Roma il 20 Maggio prossimo. La risposta alla negatività sarà la nostra personale risposta affermativa alla vita per mezzo del nostro grido a squarciagola.
Che aspetti? Vieni anche tu a marciare e gridare con noi il tuo personale SI ALLA VITA.




campariedemaistre.com





martedì 25 aprile 2017

Islam, mentre papa Francesco si avvicina all'Egitto Benedetto XVI rilancia la lezione di Ratisbona




di Riccardo Cascioli, (25/04/2017)

È certo una coincidenza dovuta alla ricorrenza del compleanno e a un conseguente simposio
, ma non può essere casuale il potente messaggio di Benedetto XVI a pochi giorni dall’importante visita di papa Francesco in Egitto. Succede infatti che in occasione del 90esimo compleanno del papa emerito, caduto il giorno di Pasqua, si sia tenuto a Varsavia il 19 arile, nella sede della Conferenza episcopale polacca, un Simposio dedicato a “Il concetto di Stato nella prospettiva dell’insegnamento del cardinale Joseph Ratzinger-Benedetto XVI”.

Per l’occasione, lo stesso Ratzinger ha inviato un messaggio
che, pur breve, afferma un concetto fondamentale, anzi un giudizio esplosivo che ancora una volta fa a fette il politicamente corretto riguardo ai rapporti tra Occidente e islam. Nel messaggio Benedetto XVI parla di «una questione essenziale per il futuro del nostro Continente». E spiega: «Il confronto fra concezioni radicalmente atee dello Stato e il sorgere di uno Stato radicalmente religioso nei movimenti islamistici, conduce il nostro tempo in una situazione esplosiva, le cui conseguenze sperimentiamo ogni giorno. Questi radicalismi esigono urgentemente che noi sviluppiamo una concezione convincente dello Stato, che sostenga il confronto con queste sfide e possa superarle».

Benedetto XVI ripropone dunque ancora una volta la lezione di Ratisbona
, quel discorso pronunciato il 12 settembre 2006, tanto criticato quanto incompreso. Criticato e incompreso soprattutto in Occidente, dove si montò una falsa polemica per provocare la reazione furiosa del mondo islamico e coprire il senso vero di quelle parole che invece, a distanza di 11 anni, appaiono ancora più attuali. In effetti la reazione ci fu, ma dietro a quelle proteste alimentate ad arte, si mosse anche qualcosa nel mondo islamico, la cui espressione più evidente fu una lettera di 138 studiosi islamici al Papa e a tutti i capi delle confessioni cristiane, iniziativa che culminò poi con alcuni incontri in Vaticano.

Benedetto XVI riproponeva allora l’importanza di una unità tra ragione e fede
, concezione di un Dio che agisce secondo ragione, cosa a cui era già arrivato anche il pensiero greco. E vedeva nella scissione tra ragione e fede il dramma della società attuale. Da una parte l’Occidente, con una ragione “ridotta” dalla volontà di escludere Dio: «Una ragione, che di fronte al divino è sorda e respinge la religione nell'ambito delle sottoculture, è incapace di inserirsi nel dialogo delle culture». Dall’altra l’islam, che concepisce un Dio che agisce arbitrariamente: essendo Dio assolutamente trascendente, la sua volontà non è legata neanche alla ragionevolezza. Per questo nell’islam si giustifica la violenza. Soltanto nella concezione greco-cristiana «non agire secondo ragione è contrario alla natura di Dio».

Chi guardi la realtà odierna senza i paraocchi dell’ideologia
non può non riconoscere che questo è proprio il dramma che stiamo vivendo: da una parte un Occidente laicista, che proprio per questo è incapace di comprendere la realtà e le culture che incontra e che usa la violenza del politicamente corretto per imporre la propria visione; dall’altra l’islamismo che non è in grado di concepire altro che il proprio dominio, anche con il terrore. Questo scontro tra opposti radicalismi ha ormai come teatro l’Europa, grazie anche alla dissennata politica migratoria frutto essenzialmente di quella incomprensione di cui sopra.

In questo modo, il messaggio di Benedetto XVI in occasione dei suoi 90 anni
, suona un po’ come l’ultimo avvertimento prima della tragedia. Quale è la strada suggerita, quale può essere una «concezione convincente di stato»? Lo ha sintetizzato nello stesso Simposio di Varsavia padre Federico Lombardi, che al tempo di Benedetto XVI è stato il portavoce vaticano: «Joseph Ratzinger – Benedetto XVI è profondamente convinto – ha detto Lombardi - che il vero fondamento, la garanzia più solida di un ordinamento capace di tutelare la dignità e il valore della persona umana stia nel riconoscimento da parte della ragione umana della verità di un ordine morale oggettivo, basato ultimamente sulla ragione creatrice di Dio».

È una indicazione chiara, che spiega anche cosa significhi veramente
riconoscere le radici cristiane dell’Europa: non imporre una religione, ma avere una concezione della ragione «dischiusa in tutta la sua ampiezza» e per questo aperta al trascendente, come disse Benedetto XVI a Ratisbona.

Riproposto oggi, questo pensiero appare ancora più rivoluzionario
rispetto alle culture oggi dominanti e alla spirale di violenza in cui il mondo si sta avvitando. Ma alla vigilia del viaggio di papa Francesco in Egitto suona anche come avvertimento – o almeno suggerimento – per un pontefice che non ha mai nascosto il disappunto per il discorso di Ratisbona, ritenendolo di ostacolo al dialogo con l’islam.

Alla sfida sulla verità e sulla ragione, lanciata da Benedetto XVI, Francesco oppone
la sfida dell’«incontro come messaggio», come lui stesso l’ha definito. Per Francesco l’importante è vedersi, parlarsi, nella convinzione che conoscendosi cadano tante barriere e si possano costruire ponti. Così Francesco non ha mai accennato all’islam in termini problematici, ad esempio in riferimento all’immigrazione; continua a ripetere che l’islam è una religione di pace e che non c’è differenza tra le violenze degli islamici e quelle dei cristiani.

Resta da capire se si tratti semplicemente di una strategica “operazione simpatia”
o di una convinzione. Quel che è sicuro è che certe affermazioni non corrispondono alla realtà, come non smettono di dirci quanti vivono nei paesi islamici o del mondo islamico sono esperti. Come ad esempio il gesuita egiziano padre Samir Khalil Samir, islamologo, docente al Pontificio istituto orientale e a suo tempo consigliere di papa Benedetto XVI. Nei giorni scorsi, parlando con i giornalisti ha detto chiaramente: «Papa Francesco viene dall’Argentina, non conosce l’islam. Ha conosciuto a Buenos Aires un imam molto gentile e con lui ha avuto una buona relazione ma la sua ignoranza dell’islam non giova al dialogo. Bergoglio ha detto spesso che l’islam è una religione di pace e questo è un errore, semplicemente».

Ad ogni modo tra pochi giorni papa Francesco sarà all’Università cairota
di Al-Azhar dove incontrerà il rettore, l’imam Ahmed al Tayyeb. Non c’è dubbio che sarà un incontro cordiale, ma sugli sviluppi resta l’avvertimento di Benedetto XVI: il passo da fare è connettere ragione e fede, altrimenti lo scontro tra gli opposti radicalismi (laicista e islamista) sarà una tragedia.







lanuovabq.it/





I monaci benedettini si trasferiscono definitivamente fuori da Norcia


Immagine di una storica celebrazione, dopo sette secoli,
 nella Basilica imperiale di Santa Croce al Chienti.




martedì 25 aprile 2017


Un Monastero alle pendici di un monte
(da Rorate Caeli, traduzione della Redazione di chiesaepostconcilio.blogspot.it )

Dopo essersi trasferita a Norcia da Roma nel 2000, nel luogo di nascita di San Benedetto, la comunità tradizionale dei benedettini aveva vissuto nel mezzo della città nella vecchia rettoria diocesana, e pregando l'ufficio nella basilica costruita sulla casa di S. Benedetto e Santa Scolastica. Da quando la basilica è stata distrutta dai recenti terremoti dell'Umbria, tuttavia, i monaci hanno vissuto nel granaio di un vecchio monastero su una collina sopra la città. [Si tratta del Monastero di San Benedetto in Monte, abbarbicato su un’altura che domina il luogo natale di San Benedetto, fondatore del monachesimo occidentale - ndT].

Ora hanno annunciato sul loro sito web che lo spostamento sarà permanente.

Per 16 anni, i monaci hanno custodito la storica casa natale di San Benedetto e di sua sorella gemella Santa Scolastica. I monaci sono grati alle tante persone che li hanno aiutati a riportare la basilica alla sua grande bellezza nel corso di questi anni benedetti. Ora, l'Unione europea e lo Stato italiano s'impegnano a ricostruire la basilica e il monastero. L'Arcidiocesi di Spoleto-Norcia, proprietaria degli edifici, ha deciso che gli spazi dovranno essere utilizzati dalla diocesi in quanto tutte le altre chiese della città sono state distrutte. Mentre i monaci lavorano per costruire il nuovo monastero fuori le mura di Norcia “in Monte”, i loro cuori rimarranno lì nell'antica cripta della Basilica, la casa in cui è nato il loro grande fondatore e padre, San Benedetto.

Purtroppo sembra che il vescovo di Spoleto voglia restaurare la basilica in stile moderno. I monaci, però, vedono in questo nuovo sviluppo la mano della Divina Provvidenza. Nel suo messaggio pasquale, il priore, P. Benedetto, scrive quanto segue:
Per i monaci è giunto il momento di dedicarsi a nuovi progetti di costruzione presso la nostra casa in montagna a Norcia, a seguito della richiesta da parte dell'arcidiocesi di Spoleto di liberare spazio nei nostri edifici in città (che appartengono alla diocesi) per le proprie esigenze. L'arcidiocesi ha centinaia di immobili danneggiati e gli edifici in città sono tra i meno danneggiati. Vediamo la loro richiesta come un segno della volontà di Dio: noi possiamo iniziare un nuovo capitolo della vita della nostra comunità sul fianco della montagna.
I monaci avranno bisogno di sostegno, al fine di costruire una nuova abbazia sul sito del vecchio granaio.


Fin qui Rorate Caaeli tradotto a cura della Redazione.
Dal sito dei monaci:


Partecipate Anche Voi!





I monaci chiamano la loro campagna di costruzione “Radici Profonde”. È un invito aperto a tutte le persone del mondo affinché aiutino i monaci a costruire un monastero antisismico, donando alla città di Norcia una fiorente comunità monastica per i secoli a venire.

In seguito agli impegni presi dall’UE e dal governo italiano per la ricostruzione degli edifici storici in città per i bisogni della diocesi, i monaci rivolgeranno i propri sforzi alla chiesa del sedicesimo secolo e al resto della proprietà fuori le mura.

Qui verrà costruito ex-novo un magnifico monastero con una chiesa, per complementare quello già esistente, il che racchiude l’essenza della vita dei monaci: il rinnovamento dell’uomo attraverso il culto di Dio, affinché gli uomini possano diventare monaci, i monaci santi e Norcia, l’Europa e il mondo possano avvicinarsi a Dio.

Non tutto quel ch’è oro brilla,
Né gli erranti sono perduti;
Il vecchio ch’è forte non s’aggrinza,
Le radici profonde non gelano.
Dalle ceneri rinascerà un fuoco,
L’ombra sprigionerà una scintilla;
Nuova sarà la lama ora rotta,
E re quel ch’è senza corona.

∼ J. R. R. Tolkien ∼











Pubblicato da mic  il 25/04/2017








sabato 22 aprile 2017

LA NECESSARIA COERENZA DEL MAGISTERO CON LA TRADIZIONE. GLI ESEMPI DELLA STORIA





Sandro Magister (22/04/2017)

I quattro cardinali non sono mai stati da soli con i loro "dubia". Ne è prova ciò che è accaduto a Roma sabato 22 aprile in una sala dell'Hotel Columbus, a pochi passi da piazza San Pietro, dove sei rinomati studiosi laici sono convenuti da altrettanti paesi del mondo per dare voce all'appello che si leva da larga parte del "popolo di Dio" perché sia fatta chiarezza nella confusione suscitata da "Amoris laetitia".

Anna M. Silvas è venuta dall'Australia, Claudio Pierantoni dal Cile, Jürgen Liminski dalla Germania, Douglas Farrow dal Canada, Jean Paul Messina dal Camerun, Thibaud Collin dalla Francia. E l'uno dopo l'altro, nell'arco di un giorno, hanno fatto il punto sulla crisi che il documento di papa Francesco ha prodotto nella Chiesa, a un anno dalla sua pubblicazione.

Settimo Cielo offre ai suoi lettori i testi integrali dei sei interventi, nelle lingue in cui sono stati pronunciati. Ma richiama una speciale attenzione su quello di Claudio Pierantoni, studioso di patrologia e docente di filosofia medievale alla Universidad de Chile, a Santiago, di cui fornisce qui sotto una sintesi.

Pierantoni ripropone i casi di due papi caduti in errore nei primi secoli cristiani, nel pieno delle controversie trinitarie e cristologiche, l'uno condannato "post mortem" da un concilio ecumenico e l'altro indotto a correggersi in vita.

Ma anche oggi – argomenta – c'è un papa che è "vittima", sia pure "poco consapevole", di una diffusa tendenza all'errore che mina i fondamenti della fede della Chiesa. E anche lui è bisognoso di una correzione caritatevole che ridia splendore alla verità.

Pierantoni non è il solo, dei sei, ad aver richiamato le lezioni del passato, antico e recente.

Thibaud Collin, docente di filosofia morale e politica al Collège Stanislas di Parigi, ha ricordato ad esempio l'opposizione di numerosi teologi e interi episcopati all'enciclica di Paolo VI "Humanae vitae", declassata a puro "ideale" e con ciò resa inoperante. E ha mostrato come questa deleteria logica "pastorale" sia tornata oggi in auge con "Amoris laetitia", riguardo al matrimonio indissolubile e presto anche riguardo agli amori omosessuali.

Anna M. Silvas, australiana di rito orientale, studiosa dei Padri della Chiesa e docente alla University of New England, ha invece sottolineato il pericolo che la Chiesa cattolica si inoltri anch'essa sulla strada già percorsa secoli fa dai protestanti e dagli ortodossi verso il divorzio e le seconde nozze: proprio ora – ha aggiunto a sorpresa – che la Chiesa copta sta tornando all'indissolubilità senza eccezioni del matrimonio cristiano.

Su una risposta di papa Francesco ai "dubia", come pure su una sua eventuale "correzione", Anna M. Silvas si è mostrata scettica. Propone piuttosto una "opzione Benedetto" per l'attuale era post-cristiana, ispirata al monachesimo nel crollo dell'età antica, un umile e comunitario "dimorare" presso Gesù e il Padre (Gv 14, 23) nella fiduciosa attesa, fatta di preghiera e lavoro, che cessi la tempesta che sconvolge oggi il mondo e la Chiesa.

Sei voci, sei letture diverse. Tutte profonde e nutrite di "caritas in veritate". Chissà che papa Francesco, almeno, le ascolti.

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di Claudio Pierantoni

In questo intervento esamineremo prima brevemente la vicenda di due papi dell’antichità, Liberio e Onorio, i quali, per diversi motivi, furono accusati di deviare dalla Tradizione della Chiesa, durante la lunga controversia trinitaria e cristologica che impegnò la Chiesa dal IV fino al VII secolo.

Alla luce delle reazioni del corpo ecclesiale di fronte a queste deviazioni dottrinali, esamineremo poi il dibattito attuale che si è sviluppato intorno alle proposte di papa Francesco nell’esortazione apostolica "Amoris laetitia" e ai cinque "dubia" sollevati dai quattro cardinali.

1. Il caso di Onorio

Onorio I fu l’unico papa ad essere stato formalmente condannato per eresia. Siamo nei primi decenni del secolo VII, nel contesto della controversia sulle due volontà di Cristo. Onorio sostenne la dottrina dell’unica volontà in Cristo, o "monotelismo", che fu però poi dichiarata in contrasto col dogma delle due nature, la divina e l’umana, dottrina solidamente fondata sulla rivelazione biblica e solennemente sancita dal Concilio di Calcedonia del 451.

Ecco il testo con cui, nel 681, dopo la sua morte, il terzo Concilio di Costantinopoli, sesto concilio ecumenico, lo condannò assieme al patriarca Sergio:

"Esaminate le lettere dogmatiche scritte da Sergio, a suo tempo patriarca di questa città imperiale,… e la lettera con cui Onorio rispose a Sergio, e constatato che non sono conformi agli insegnamenti apostolici e alle definizioni dei santi concili e di tutti gli illustri santi Padri, e che viceversa seguono le false dottrine degli eretici, le rifiutiamo e le esecriamo come corruttrici".

2. Il caso di Liberio

Liberio fu invece papa in uno dei momenti più delicati della controversia ariana, alla metà del IV secolo. Il suo predecessore, Giulio I, aveva tenacemente difeso la fede stabilita dal Concilio di Nicea del 325, che dichiarava il Figlio consostanziale al Padre. Ma Costanzo, imperatore d’Oriente, appoggiava la posizione maggioritaria dei vescovi orientali, contrari a Nicea, che secondo loro non lasciava spazio alla differenza personale fra il Padre e il Figlio. Fece rapire, depose e spedì in esilio in Tracia il papa, che, dopo circa un anno, finì per cedere.

Liberio rinnegò così la fede di Nicea e giunse a scomunicare Atanasio, che ne era il più significativo difensore. Ormai docile all’imperatore, Liberio ottenne il permesso di rientrare a Roma, dove fu reinsediato come vescovo. Nei mesi che seguirono, tutti i presuli filoariani che avevano fatto carriera grazie al favore di Costanzo consolidarono il loro potere nelle principali sedi episcopali. È questo il momento in cui, secondo la famosa frase di san Girolamo, "il mondo si lamentò di essere diventato ariano". Dei più di mille vescovi che contava la cristianità rimanevano a resistere, in esilio, solo tre irriducibili: Atanasio di Alessandria, Ilario di Poitiers e Lucifero di Cagliari.

Costanzo morì però all'improvviso, nel 361, e salì al trono imperiale Giuliano, poi detto l’Apostata, che impose il ritorno dello Stato romano al paganesimo, cancellò d'un colpo tutta la politica ecclesiastica di Costanzo e permise ai vescovi esiliati di ritornare in patria. Libero da minacce, papa Liberio inviò un’enciclica che dichiarava invalida la formula da lui approvata in precedenza ed esigeva dai vescovi d’Italia l’accettazione del credo di Nicea. Nel 366, in un sinodo celebrato a Roma poco prima di morire, ebbe perfino la gioia di ottenere la firma del credo di Nicea da una delegazione di vescovi orientali. Appena morto fu venerato come confessore della fede, ma presto il suo culto venne interrotto, per il ricordo del suo cedimento.

Nonostante le loro differenze, i due casi di Liberio e di Onorio hanno in comune un'attenuante, ed è il fatto che le rispettive deviazioni dottrinali ebbero luogo quando ancora era in corso il processo di fissazione dei rispettivi dogmi, quello trinitario nel caso di Liberio e quello cristologico nel caso di Onorio.

3. Il caso di Francesco

Invece, la deviazione dottrinale che si sta verificando durante il pontificato attuale ha un'aggravante, perché si contrappone non a dottrine ancora poco chiare, o in via di fissazione, ma a dottrine che, oltre ad essere solidamente ancorate nella Tradizione, sono anche state già esaustivamente dibattute negli scorsi decenni e dettagliatamente chiarite dal magistero recente.

Certo, la deviazione dottrinale in oggetto era già presente negli scorsi decenni e con essa, quindi, anche lo scisma sotterraneo che questa significava. Ma quando si passa da un abuso al livello pratico alla sua giustificazione al livello dottrinale attraverso un testo del magistero pontificio come "Amoris laetitia" e attraverso dichiarazioni e azioni positive dello stesso pontefice, la situazione cambia radicalmente.

Vediamo, in quattro punti, il progresso di questa distruzione del deposito della fede.

Primo

Se il matrimonio è indissolubile, ma pure in alcuni casi si può dare la comunione ai divorziati risposati, sembra evidente che questa indissolubilità non è più considerata assoluta, ma solo una regola generale che può soffrire eccezioni.

Ora questo, come ha ben spiegato il cardinale Carlo Caffarra, contraddice la natura del sacramento del matrimonio, che non è una semplice promessa, sia pure solenne, fatta davanti a Dio, ma un’azione della grazia che agisce al livello propriamente ontologico. Quindi, quando si dice che il matrimonio è indissolubile, non si enuncia semplicemente una regola generale, ma si dice che il matrimonio ontologicamente non può sciogliersi, poiché in esso è contenuto il segno e la realtà del matrimonio indissolubile fra Dio e il suo Popolo, tra Cristo e la sua Chiesa. E questo mistico matrimonio è proprio il fine dell’intero piano divino della creazione e della redenzione.

Secondo

L'autore di "Amoris laetitia" ha scelto di insistere, nella sua argomentazione, piuttosto sul lato soggettivo dell’azione morale. Il soggetto, dice, potrebbe non essere in peccato mortale perché, per diversi fattori, non è ben consapevole che la sua situazione è un adulterio.

Ora questo, che in linea generale può senz’altro accadere, nell’utilizzazione che ne fa "Amoris laetitia" comporta invece un’evidente contraddizione. Infatti, è chiaro che i tanto raccomandati discernimento e accompagnamento delle singole situazioni contrastano direttamente con la supposizione che il soggetto rimanga, a tempo indefinito, inconsapevole della sua situazione.

Ma l'autore di "Amoris laetitia", lungi dal percepire tale contraddizione, la spinge fino all’ulteriore assurdo di affermare che un approfondito discernimento può portare il soggetto ad avere la sicurezza che la sua situazione, oggettivamente contraria alla legge divina, sia proprio ciò che Dio vuole da lui.

Terzo

Il ricorso al precedente argomento, a sua volta, tradisce una pericolosa confusione che, oltre alla dottrina dei sacramenti, arriva ad intaccare la nozione stessa di legge divina, intesa come fonte della legge naturale, rispecchiata nei Dieci Comandamenti: legge data all’uomo perché atta a regolare i suoi comportamenti fondamentali, non limitati a particolari circostanze storiche, ma fondati sulla sua stessa natura, il cui autore è appunto Dio.

Quindi, il supporre che la legge naturale possa soffrire delle eccezioni è una vera e propria contraddizione, è una supposizione che non comprende la sua vera essenza e perciò la confonde con la legge positiva. La presenza di questa grave confusione è confermata dal ripetuto attacco, presente in "Amoris laetitia", contro i legulei, i presunti “farisei” ipocriti e duri di cuore. Questo attacco, infatti, tradisce un completo fraintendimento della posizione di Gesù verso la legge divina, poiché la sua critica al comportamento farisaico si fonda proprio su una chiara distinzione fra legge positiva – i “precetti di uomini” – cui sono tanto attaccati i farisei, e i Comandamenti fondamentali, che sono invece il primo requisito, irrinunciabile, che Lui stesso chiede all’aspirante discepolo. In base a questo equivoco si comprende il vero motivo per cui, dopo aver tanto insultato i farisei, il papa finisce per allinearsi di fatto con la loro stessa posizione a favore del divorzio, contro quella di Gesù.

Ma, ancora più a fondo, è importante osservare che questa confusione snatura profondamente l’essenza stessa del Vangelo e il suo necessario radicamento nella persona di Cristo.

Quarto

Cristo infatti, secondo il Vangelo, non è semplicemente un uomo buono, venuto al mondo a predicare un messaggio di pace e giustizia. Egli è, innanzitutto, il Logos, il Verbo che era nel principio e che, nella pienezza dei tempi, si incarna. È significativo che Benedetto XVI, fin dal suo discorso "Pro eligendo romano pontifice", abbia fatto proprio del Logos il cardine del suo insegnamento, non a caso combattuto a morte dal soggettivismo delle moderne teorie.

Ora, nell’ambito di questa filosofia soggettivista si giustifica uno dei postulati più cari a papa Francesco, secondo il quale “la realtà è superiore all’idea”. Una massima come questa, infatti, ha senso solamente in una visione in cui non possono esistere idee vere, che non solo rispecchino fedelmente la realtà, ma possano anche giudicarla e dirigerla. Il Vangelo, preso nella sua integrità, suppone questa struttura metafisica e gnoseologica, dove la verità è in primo luogo adeguazione delle cose all’intelletto, e l’intelletto è in primo luogo quello divino: appunto, il Verbo divino.

In questa atmosfera si comprende come sia possibile che il direttore del "La Civiltà Cattolica" affermi che è la pastorale, la prassi, che deve guidare la dottrina e non viceversa, e che in teologia “due più due possono fare cinque”. Si spiega perché una signora luterana possa fare la comunione insieme al marito cattolico: la prassi infatti, l’azione, è quella della Cena del Signore, che essi hanno in comune, mentre quello in cui differiscono sono solo “le interpretazioni, le spiegazioni”, meri concetti insomma. Ma si spiega anche come, secondo il superiore generale della Compagnia di Gesù, il Verbo incarnato non sarebbe in grado di mettersi in contatto con le sue creature attraverso il mezzo da lui stesso scelto, la Tradizione apostolica: infatti, bisognerebbe sapere cos’ha veramente detto Gesù, ma non possiamo, dice, “dal momento che non c’era un registratore”.

Ancora più a fondo, in questa atmosfera, si spiega infine come il papa non possa rispondere "sì" o "no" ai "dubia". Se infatti “la realtà è superiore all’idea”, allora l’uomo non ha neanche bisogno di pensare con il principio di non-contraddizione, non ha bisogno di principi che dicano “questo sì e questo no” e neppure deve obbedire a una legge naturale trascendente, che non si identifichi con la stessa realtà. Insomma, l’uomo non ha bisogno di una dottrina, perché la realtà storica basta a se stessa. È il "Weltgeist", lo Spirito del Mondo.

4. Conclusione

Quello che salta all’occhio nella situazione attuale è proprio la deformazione dottrinale di fondo che, pur abile nello schivare formulazioni direttamente eterodosse, manovra tuttavia in modo coerente per portare avanti un attacco non solo contro dogmi particolari come l’indissolubilità del matrimonio e l’oggettività della legge morale, ma addirittura contro il concetto stesso della retta dottrina e, con esso, della persona stessa di Cristo come Logos. Di questa deformazione dottrinale la prima vittima è proprio il papa, che di essa, mi azzardo a ipotizzare, è assai poco consapevole, vittima di un’alienazione generalizzata ed epocale dalla Tradizione, in ampi strati dell’insegnamento teologico.

In questa situazione, i "dubia", queste cinque domande presentate dai quattro cardinali, hanno messo il papa in una situazione di stallo. Se rispondesse rinnegando la Tradizione e il magistero dei suoi predecessori, passerebbe ad essere eretico anche formalmente, quindi non può farlo. Se invece rispondesse in armonia con il magistero precedente, contraddirebbe gran parte delle azioni dottrinalmente rilevanti compiute durante il suo pontificato, quindi sarebbe una scelta molto difficile. Ha scelto quindi il silenzio perché, umanamente, la situazione può apparire senza uscita. Ma intanto, la confusione e lo scisma "de facto" si estendono nella Chiesa.

Alla luce di tutto ciò, si rende quindi più che mai necessario un ulteriore atto di coraggio, di verità e di carità, da parte dei cardinali, ma anche dei vescovi e poi di tutti i laici qualificati che volessero aderirvi. In una situazione così grave di pericolo per la fede e di scandalo generalizzato, è non solo lecita, ma addirittura doverosa una correzione fraterna francamente rivolta a Pietro, per il suo bene e quello di tutta la Chiesa.

Una correzione fraterna non è né un atto di ostilità, né una mancanza di rispetto, né una disobbedienza. Non è altro che una dichiarazione di verità: "caritas in veritate". Il papa, ancor prima di essere papa, è nostro fratello.










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venerdì 21 aprile 2017

DOMANI A ROMA LAICI DI TUTTO IL MONDO DISCUTONO SULL’AMORIS LAETITIA. SOTTO LO SGUARDO DEL VATICANO E DEL PAPA.



Marco Tosatti (21/04/2017)
Domani, a Roma, all’Hotel Columbus, dalle 10 di mattina fino al tardo pomeriggio un gruppo di laici cattolici, provenienti da diverse parti del mondo, esporranno le loro ragioni di perplessità e disagio nei confronti della confusione creata da interpretazioni opposte dell’esortazione apostolica “Amoris Laetitia”. Starà poi a chi di dovere – a chi ha cioè il compito istituzionale di creare unità e non provocare divisioni nel gregge che gli è stato affidato – decidere cosa fare.

Piacerebbe molto ai tifosi e ai palafrenieri della squadra attualmente al potere nei Sacri Palazzi che dal Convegno – che si intitola “A un anno dall’Amoris Laetitia. Fare Chiarezza” partissero anatemi, ultimatum, imposizioni e date cogenti. Per buttarle, come si dice a Roma, in caciara, e dimostrare che è un raduno di gente ostile al Papa. Resteranno delusi, molto probabilmente; e comunque, anche se così fosse, resterebbe neanche sfiorato il problema centrale: e cioè che il disagio che si avverte, la confusione e la scarsa chiarezza che si percepisce restano, e non basta qualche “balconazo” o qualche bagno di folla plaudente a dissiparlo.

Qui sotto pubblichiamo il comunicato diffuso ieri sera dagli organizzatori. Ma ci sembra opportuno riportare subito quello che ha detto Riccardo Cascioli, direttore de “Il Timone” e de “La Nuova Bussola Quotidiana”, motore dell’appuntamento.

“Ci si aspetta che le ragioni di chi nella Chiesa nutre perplessità ed è preso da disorientamento per certi modi in cui è stata presentata e applicata l’Amoris Laetitia vengano prese seriamente in considerazione innanzitutto dai vertici vaticani. Ciò implica ovviamente che il Papa risponda ai dubia espressigli da alcuni cardinali, i quattro firmatari della lettera oltre a diversi altri”. Cascioli si attende poi che “cessi nella Chiesa la caccia alle streghe, l’intimidazione continua condita di beffarda irrisione, la criminalizzazione di chi – indicato come ‘nemico del Papa’ – osa esprimere perplessità sull’uno o l’altro aspetto della vita ecclesiale”.

Ecco il comunicato.

CONVEGNO DEL 22 APRILE 2017 “FARE CHIAREZZA” SULL’AMORIS LAETITIA/ COMUNICATO NUMERO 4

C’è chi si augura un flop di presenze per poi irridere – conformemente alla propria visione misericordiosa del dibattito ecclesiale – gli organizzatori. C’è chi auspica addirittura una vera e propria dichiarazione di guerra contro papa Francesco, così da chiudere ogni spazio al dissenso interno alla Chiesa, dunque stroncandolo. C’era chi sperava che nessuno, al di fuori dei promotori, parlasse del Convegno, così che il tutto per l’opinione pubblica neanche esistesse.

Auguri, auspici, speranze che sembrano oggettivamente destinate a restare tali. Le presenze si prevede non mancheranno; le dichiarazioni di guerra non ci saranno; il silenzio-stampa sul Convegno è già stato ampiamente ‘infranto’ da media autorevoli, tanto che perfino alcuni siti turiferari tra i più sbracati sono stati costretti in qualche modo a dare la notizia, magari obtorto turibulo.

Nell’ultimo comunicato abbiamo citato ad esempio l’articolo di Philip Willan sul ‘Times’ del 17 aprile (rilanciato e ampliato con la stessa firma su ‘Italian Insider’ del giorno seguente). In questa occasione ci sembra utile citare un paio di considerazioni espresse il 19 aprile da Marco Politi nel suo blog de ‘Il Fatto quotidiano’. Sotto il titolo “Papa Francesco, gli oppositori continuano la guerra sotterranea. Ma Bergoglio rimane impassibile”, Politi esprime le sue riflessioni su quella che ritiene una guerra senza quartiere e senza compromessi in corso nella Chiesa. Riflessioni legittime, su cui è altrettanto legittimo dissentire. Sviluppando il suo ragionamento, il collaudato vaticanista fa poi onestamente una considerazione – a proposito della possibilità della comunione ai divorziati risposati – su cui si può anche essere d’accordo: “Non c’è dubbio che tra la posizione di Giovanni Paolo II, totalmente intransigente su questo punto, e l’atteggiamento pastorale di Francesco la differenza sia netta”.

A poche ore dall’appuntamento romano di sabato 22 presso l’Hotel Columbus (10.00-12.00 e 14.00-16.30), in cui laici di tutto il mondo porteranno la loro testimonianza a proposito dell’esortazione post-sinodale ‘Amoris laetitia’, Riccardo Cascioli (direttore dei due media cattolici promotori, ‘La Nuova Bussola Quotidiana’ e ‘Il Timone’) palesa le proprie aspettative: “Ci si aspetta che le ragioni di chi nella Chiesa nutre perplessità ed è preso da disorientamento per certi modi in cui è stata presentata e applicata l’Amoris laetitia vengano prese seriamente in considerazione innanzitutto dai vertici vaticani. Ciò implica ovviamente che il Papa risponda ai dubia espressigli da alcuni cardinali, i quattro firmatari della lettera oltre a diversi altri”. Cascioli si attende poi che “cessi nella Chiesa la caccia alle streghe, l’intimidazione continua condita di beffarda irrisione, la criminalizzazione di chi – indicato come ‘nemico del Papa’ – osa esprimere perplessità sull’uno o l’altro aspetto della vita ecclesiale”.

Ricordiamo che del Convegno “Fare chiarezza” sull’Amoris laetitia saranno protagonisti laici provenienti da Paesi diversi: Anna M. Silvas dall’Australia, Claudio Pierantoni dal Cile, Jűrgen Liminski dalla Germania (tutti e 3 tra le 10.00 e le 12.00), Douglas Farrow dal Canada, Jean-Paul Messina dal Camerun, Thibaud Collin dalla Francia (dalle 14.00 alle 16.30).

La cartella-stampa a disposizione dei media conterrà le biografie dei relatori, alcuni articoli sul tema dell’ ‘Amoris laetitia’ apparsi nei media organizzatori, il testo dei dubia inviati da alcuni cardinali a papa Francesco e poi pubblicizzati dopo quasi due mesi, in mancanza di una risposta.

Chi fosse interessato al testo delle relazioni può farne richiesta entro venerdì 21 sera a Giuseppe Rusconi: giusepperusconi1@gmail.com / 392 11 73 677 (il testo sarà inviato sabato mattina presto).
L’ingresso è libero, senza prenotazione. Le relazioni saranno in francese (3), in inglese (2), in italiano (1). E’ prevista la traduzione simultanea.

Per altre informazioni e richieste di interviste rivolgersi per favore a Giuseppe Rusconi: giusepperusconi1@gmail.com, cellulare 392 / 11 73 677.






http://www.marcotosatti.com/2017/04/21/domani-a-roma-laici-di-tutto-il-mondo-discutono-sullamoris-laetitia-sotto-lo-sguardo-del-vaticano-e-del-papa/




Caso per caso, grazia per tutti, coscienza pluralista I semi di Rahner che hanno influenzato il Sinodo



I temi che verranno affrontati nel corso del Convegno internazionale organizzato da La Nuova BQ e Il Timone in programma domani hanno la loro origine nel Sinodo sulla famiglia del 2015. Per questo motivo pubblichiamo, per gentile concessione dell'editore, un capitolo del libro scritto da Stefano Fontana in uscita in questi giorni La Nuova Chiesa di Karl Rahner edito da Fede e cultura.


di Stefano Fontana (21/04/2017)

Durante il lungo periodo sinodale sulla famiglia caratterizzato dal Sinodo straordinario dell’ottobre 2014 e da quello ordinario dell’ottobre 2015 si sono potuti verificare molti elementi derivati da una impostazione rahneriana delle cose. Rahner, in altre parole, ancorché morto nel 1984, è stato presente al Sinodo. Si potrebbe anche dire che le notevoli contrapposizioni che sono emerse durante i due Sinodi derivano dallo scontro tra l’area della teologia rahneriana e la controparte.

Elementi fortemente rahneriani erano già emersi nella lezione introduttiva al Sinodo tenuta davanti ai Cardinali da parte del cardinale Walter Kasper nel febbraio 2014. Pensiamo per esempio all’idea che non si possa mai conoscere una situazione oggettiva e pubblica di peccato, quale è appunto quella dei divorziati risposati. La tesi espressa da Kasper era che non esistono i divorziati risposati, ma questo, quello, quell’altro divorziato risposato. La realtà, quindi, non mostra strutture portanti e universali, ma solo situazioni uniche individuali. Questo modo di vedere è di origine nominalistica dato che proprio questo diceva Guglielmo di Occham nel XIV secolo e divenne anche il modo di vedere di Lutero e della filosofia protestante in genere, in quanto è il modo migliore per separare la ragione dalla fede.

Se non esistono nella realtà strutture universali che la ragione possa conoscere con le proprie forze, essa non potrà salire naturalmente dalle cose a Dio, né la rivelazione potrà servirsi del linguaggio della ragione per farsi capire da tutti. La ragione sarà nominalista, ossia potrà fare esperienza di singole cose alle quali, per somiglianza tra loro, potrà poi anche assegnare un nome comune, ma solo un nome che non si riferisce a nessuna realtà oltre le singole cose. La fede sarà fideista. Dio è onnipotente, è il totalmente Altro, è volontà e non verità. La Veritatis splendor di Giovanni Paolo II dice l’opposto di quanto affermato da Kasper, ma quella enciclica aveva alle spalle una diversa filosofia. Anche per Rahner ci sono solo casi particolari da affrontare uno per uno, perché la realtà del mondo è complessa, non c’è una dottrina che vi si possa applicare e non si può conoscere mai se si è o meno davanti ad una situazione di peccato. Davanti ad una coppia di divorziati risposati la Chiesa deva comprendere, accogliere ed accompagnare con un percorso da farsi caso per caso e adoperando il non ben precisato discernimento. Quanto appunto ha proposto il cardinale Kasper.

Durante la discussione sinodale molti vescovi dissero che anche in una relazione omosessuale è presente la grazia di Cristo. Prima, durante e dopo il Sinodo molti vescovi e cardinali si sono detti favorevoli ad affidare compiti ecclesiali agli omosessuali pur se perseveranti nella loro relazione, e ad appoggiare il riconoscimento delle unioni civili tra persone omosessuali da parte dell’autorità politica. E’ evidente che queste prese di posizione comportano l’abolizione del diritto naturale e della legge morale naturale e non tengono conto della necessità di rispettare la natura e le sue leggi se si vuole piacere alla soprannatura e alla grazia. Dire che la grazia è presente anche in una relazione omosessuale significa dire, con Karl Rahner, che la grazia è data sempre a tutti perché essa viene data al mondo, ove non esistono situazioni al di fuori della grazia di Dio.

A ben vedere, anche l’invito alla parresia fatto ai Padri sinodali presenta una accentuazione rahneriana. Essa significa l’accettazione del pluralismo dentro la Chiesa nel senso della moderna libertà di espressione. Questa concezione della libertà di espressione è però diversa dalla libertà in senso cattolico. La parresia consiste nel coraggio di annunciare la verità, senza timori umani o reverenziali o senza la preoccupazione di salvare il salvabile. Non può significare la libertà di esprimere, in un consesso ecclesiale tanto importante come un Sinodo, idee scandalose per i fedeli o sconcertanti o che insinuano dubbi su fondamentali verità di fede professata. Il mondo è senz’altro pluralista, ma la Chiesa non può esserlo. Ma se la Chiesa fa parte del mondo anche essa sarà pluralista come Rahner continuamente afferma.

Però il punto principale della presenza della teologia rahneriana al recente Sinodo sulla famiglia riguarda l’accesso alla comunione dei divorziati risposati, ossia di persone in stato di peccato pubblico e oggettivo. Se il peccato è visto come la morte ontologica (vale a dire del suo stesso essere) dell’anima, allora non si può pensare che sia possibile ricevere la comunione se prima l’anima non rinasce tramite il sacramento della confessione. Se però si vede la cosa non in senso ontologico ma esistenziale, tutto è reversibile nell’esistenza e quindi è possibile prevedere percorsi esistenziali per cui qualcuno possa accostarsi alla comunione pur rimanendo nella situazione oggettiva di peccato. Qui non c’è più la netta distinzione tra vita e morte, tra bene e male, tra grazia e peccato, tra dogma ed eresia, ma c’è una situazione esistenziale oggetto del nostro discernimento personale ed ecclesiale. Nell’esistenza tutto è convertibile, niente è irrevocabile. Tenuto anche conto di quanto si è già detto, ossia della impossibilità per Rahner di conoscere sia le situazioni oggettive e pubbliche di peccato sia quelle personali. Per lui ci sono le leggi di Dio, ma Dio – egli dice - non è il Dio delle leggi.

Non possiamo poi dimenticare che dal Sinodo sulla famiglia non è emersa nessuna indicazione sulla castità né alcuna indicazione se l’esercizio della sessualità fuori del matrimonio sia peccato. Giovanni Paolo II è stato ampiamente citato ma non lo è stato su due punti in particolare: il divieto di accedere all’eucarestia per i divorziati risposati e l’esercizio della sessualità fuori del matrimonio, punto ove si decide di accettare o di respingere l’eredità della Humanae Vitae di Paolo VI. Karl Rahner è tra i principali critici di quella enciclica di Paolo VI, anche se certamente non il solo, e per questo si capisce che al Sinodo sulla famiglia del 2014 e 2015 questa pluridecennale opposizione alla morale sessuale dell’enciclica di Paolo VI ha trovato un punto di condensazione importante. Secondo Rahner la Chiesa non deve “moralizzare”, ossia non deve dare precetti, norme, principi, regole, ma deve formare le coscienze. Che essa debba formare le coscienze è certamente vero, ma i precetti di Dio sono soavi e il suo giogo è leggero, ossia le leggi di Dio esprimono il bene dell’uomo e non si contrappongono alla coscienza. I precetti di Dio non sono astratti sicché la coscienza dovrebbe mediarli verso il concreto. Il precetto e la coscienza si corrispondono. La teologia morale di Rahner è diversa da quella della Vertitatis splendor di Giovanni Paolo II e nel Sinodo sulla famiglia è emersa con evidenza.





La nuova bussola quotidiana (21/04/2017)

Nella vigna. Per il Signore. Un convegno per fare chiarezza



scritto da   (21/04/2017)

Se ci pensiamo, c’è qualcosa di paradossale e, nello stesso tempo, di altamente significativo nell’incontro internazionale che sta per aprirsi a Roma sulle perplessità e i disagi nati in numerosi fedeli cattolici a causa di alcuni contenuti di «Amoris laetitia».
L’aspetto paradossale sta nel fatto che i partecipanti, tutti laici, si riuniscono perché vedono nel documento dei vescovi elementi di confusione sotto il profilo sia dottrinale sia pastorale e chiedono che si faccia chiarezza. Abbiamo dunque laici che chiamano in causa i pastori e li mettono in guardia su questioni non secondarie, ma centralissime, per la vita di fede, quali il significato dell’eucaristia, la cogenza della norma generale rispetto al caso particolare, il rapporto tra verità e giustizia, la capacità di distinguere tra bene e male in senso non soggettivo ma oggettivo.

Per dirla con un’immagine forzata ma forse efficace, è come se i passeggeri di un aereo si riunissero per mettere in guardia i piloti circa alcuni problemi fondamentali riguardanti la guida dell’aereo stesso. Il parallelo, lo so, è alquanto grossolano, perché la Chiesa, a differenza di un aereo, non è un posto nel quale si decide di entrare e uscire a piacimento, a seconda delle necessità, e dove il passeggero è semplicemente trasportato. La Chiesa è una comunità di fede, nella quale tutti, «piloti» e «passeggeri», condividono, sia pure a diverso titolo, la responsabilità del «volo». Tuttavia occorre ammettere che ben di rado si vedono laici cattolici riuniti da soli, senza la guida di un cardinale, un vescovo, un monsignore o almeno un semplice prete, per discutere di questioni che riguardano in prima istanza i contenuti fondamentali della fede. E ancora più raro è vedere laici che decidono di uscire allo scoperto per rivolgersi ai pastori con un ammonimento che suona così: «Scusate tanto, ma guardate che secondo noi in ciò che avete prodotto c’è qualcosa che non funziona e che può diventare pericoloso non solo e non tanto in senso astratto, ma proprio per la salvezza delle anime».

Che la situazione abbia un che di paradossale lo si deduce anche dalla lettura della «Christifideles laici», l’esortazione apostolica post-sinodale che nel 1988 il papa Giovanni Paolo II dedicò alla vocazione e alla missione dei laici nella Chiesa e nel mondo. In quel testo, prendendo spunto dal Concilio Vaticano II, il papa sottolinea con grande decisione che gli operai nella vigna del Signore sono tanti e di diverso tipo, che ognuno ha un ruolo proprio e che quello del laico non è soltanto di supplenza nei confronti del consacrato ma ha un profilo preciso, che ne fa un testimone e un apostolo attivo nel mondo. Tuttavia, leggendo il testo con il pensiero rivolto a quanto sta per accadere a Roma con l’incontro dei laici riuniti sui dubbi sollevati da «Amoris laetitia», ci si accorge che l’ipotesi di laici autoconvocati per tirare la tonaca ai vescovi e per dire loro che si sono messi su una strada pericolosa, non è presa in considerazione. Si parla sì di collaborazione pur in presenza di ruoli diversi e si sottolinea la dignità del ruolo del laico, ma l’idea sottesa al documento è che il laico vada per il mondo portando con fiducia il messaggio elaborato dai pastori. Tanto è vero che in tutto il testo l’eventualità che siano i laici a istruire o quanto meno a richiamare i pastori su questioni di fede è accennata in una sola riga, con queste poche parole: «A loro volta, gli stessi fedeli laici possono e devono aiutare i sacerdoti e i religiosi nel loro cammino spirituale e pastorale».

Ecco perché in quanto sta per avvenire a Roma c’è qualcosa di paradossale. Ma proprio i fattori che rendono l’appuntamento un po’ paradossale sono anche quelli che lo rendono importante. In un momento in cui spesso, anche all’interno della Chiesa, si fa un uso quanto meno superficiale della parola «popolo», ecco che una bella fetta del popolo di Dio prende l’iniziativa e, con tutto il rispetto dovuto ai pastori e con tanto amore per la Chiesa, segnala che su alcune questioni nodali occorre fare chiarezza e che se non lo si farà si andrà incontro a conseguenze pesanti.

A questo proposito, nella «Christifideles laici» Giovanni Paolo II fa riferimento ad alcune espressioni molto pertinenti dell’esortazione «Evangelii nuntiandi» di Paolo VI: «La Chiesa evangelizza allorquando, in virtù della sola potenza divina del Messaggio che essa proclama (cf. Rom 1, 16; 1 Cor 1, 18; 2, 4), cerca di convertire la coscienza personale e insieme collettiva degli uomini, l’attività nella quale essi sono impegnati, la vita e l’ambiente concreto loro propri. Strati dell’umanità che si trasformano: per la Chiesa non si tratta soltanto di predicare il Vangelo in fasce geografiche sempre più vaste o a popolazioni sempre più estese, ma anche di raggiungere e quasi sconvolgere mediante la forza del Vangelo i criteri di giudizio, i valori determinanti, i punti d’interesse, le linee di pensiero, le fonti ispiratrici e i modelli di vita dell’umanità, che sono in contrasto con la Parola di Dio e col disegno della salvezza. Si potrebbe esprimere tutto ciò dicendo così: occorre evangelizzare – non in maniera decorativa, a somiglianza di vernice superficiale, ma in modo vitale, in profondità e fino alle radici – la cultura e le culture dell’uomo (…). La rottura tra Vangelo e cultura è senza dubbio il dramma della nostra epoca, come lo fu anche di altre. Occorre quindi fare tutti gli sforzi in vista di una generosa evangelizzazione della cultura, più esattamente delle culture».

Sappiamo che queste parole di Paolo VI troppo spesso sono state usate per favorire un compromesso al ribasso tra Vangelo e cultura. Eppure sono chiare: si parla della necessità di convertire la coscienza personale, di sconvolgere i criterio di giudizio con la forza del Vangelo.

Occorre dire che non siamo abituati a questo linguaggio. Oggi parliamo più volentieri di accoglienza, accompagnamento, discernimento. E va bene. Ma non rischiamo forse di dimenticare che la Verità evangelica irrompe nel mondo per trasformarlo radicalmente e che l’apostolo, consacrato o laico che sia, è al servizio non del mondo e dei suoi dogmi ma di questa forza trasformatrice?

Torno sull’idea di popolo e lo faccio di nuovo con Giovanni Paolo II:  «Operai della vigna sono tutti i membri del Popolo di Dio: i sacerdoti, i religiosi e le religiose, i fedeli laici, tutti ad un tempo oggetto e soggetto della comunione della Chiesa e della partecipazione alla sua missione di salvezza. Tutti e ciascuno lavoriamo nell’unica e comune vigna del Signore con carismi e con ministeri diversi e complementari» («Christifideles laici», n. 55).

Per la Chiesa il popolo è questo: comunità di operai impegnati nella vigna del Signore. Quindi al servizio del Signore, non del mondo.

«A un anno dall’”Amoris laetitia”. Fare chiarezza». L’incontro di Roma si intitola così. Non c’è scritto «contro il papa». Quelli che si riuniscono sono fedeli che, con piena consapevolezza del proprio ruolo e avendo assimilato la lezione del Concilio, si assumono le loro responsabilità di laici, cioè di gente «del popolo», come dice l’etimologia di «laikos». Se e quando, durante i lavori, il pensiero andrà al papa, ci andrà sempre, ne sono più che convinto, per esprimergli amore filiale e tutta la specialissima devozione che ogni figlio della Chiesa nutre per il successore di Pietro.

Aldo Maria Valli













giovedì 20 aprile 2017

La messa è finita. Per mancanza di fede(li)



di Don Claudio Crescimano (19-04-2017)

Sul portone della chiesa di sant’Erasmo, situata su una delle tante isolette della laguna di Venezia, da qualche giorno è affisso un cartello: La messa è sospesa per mancanza di fedeli. Si tratta, evidentemente di una provocazione, ma è anche lo spunto per una riflessione.

Cominciamo anzitutto dalla questione numerica. In quante altre chiese d’Italia potrebbe essere appeso un cartello simile? Molte, moltissime, purtroppo, come tutti sappiamo. La situazione sul territorio nazionale è variegata, ovviamente, ma se in alcune, poche, regioni la percentuale dei praticanti è ancora relativamente alta (ad esempio Lombardia, Veneto, Sicilia) per la gran parte del nostro Paese l’abbandono progressivo della partecipazione alle funzioni religiose è in crescita. Non diciamo niente di nuovo: è l’inevitabile effetto della scristianizzazione in atto da quarant’anni.

Questo dato però non è adeguatamente compreso se non lo si mette in rapporto con un altro dato, in certo modo di segno opposto: anche l’ateismo è in calo. La percentuale di coloro che si dichiarano atei in Italia, dagli anni Settanta ad oggi, è quasi dimezzata. Questo significa che molte persone, specialmente i giovani, non si riconoscono più nel materialismo, ma neppure si riconoscono nell’appartenenza ad una fede religiosa; preferiscono il ‘credo a modo mio’, una spiritualità fluida e non confessionale. In questa scelta, evidentemente, gioca un ruolo fondamentale l’influsso della cultura contemporanea dominata dal soggettivismo e del relativismo, ma non pare sia ininfluente anche la profonda smobilitazione identitaria e culturale del cattolicesimo italiano (e non solo italiano, ovviamente).

Dopo che per decenni si è ripetuto nelle nostre chiese, nei nostri oratori, nei nostri convegni, che il cristiano non deve essere assertivo, che è più importante porre domande che dare risposte, che la fede è una ricerca mai compiuta, una problematicità sempre aperta, che si è cristiani non per ciò che si crede ma per come si agisce, ecco a forza di ripetere ossessivamente questi slogan non c’è poi da meravigliarsi se tanti finiscono per prenderli sul serio e ne tirano le debite conseguenze.

E allora succede che, come accaduto una quindicina di anni fa, uno dei tanti uffici CEI commissioni un sondaggio tra i ragazzi italiani di parrocchia e di oratorio (sondaggio poi pietosamente sepolto in qualche archivio, dato il disastro emerso) e salti fuori ad esempio che, di detti ragazzi, più del sessanta per cento crede alla reincarnazione piuttosto che alla risurrezione! E se le idee sono queste, quanto ci si può aspettare che duri la pratica religiosa di questi ragazzi divenuti adulti? Quando è finita l’età dei campeggi, delle partite all’oratorio e delle schitarrate, chi di questi continua ad andare a messa? Ed ecco che le chiese si svuotano …

Dunque il dato numerico (bassa percentuale di praticanti) ha dietro di sé il dato religioso (bassa intensità della fede) che a sua volta ha dietro di sé il dato ecclesiologico: la Chiesa sta ancora facendo il proprio mestiere? Non ripeteremo mai abbastanza che la Chiesa non si occupa di sociologia o di ecologia, non è un’agenzia umanitaria o di intrattenimento; la Chiesa deve evangelizzare, cioè dire a tutti la verità su Dio e sull’uomo, sulla vita terrena e sull’aldilà. Questa è la Chiesa come l’ha istituita il Signore Gesù, questa è la Chiesa di cui il mondo ha bisogno, questa è la Chiesa che riempie le chiese!

A questo punto, però, andiamo oltre la questione numerica. Il ritorno a Dio dell’uomo contemporaneo, il ritorno all’unico vero Dio, cioè il ‘Dio cattolico’, il solo Dio alla cui presenza cadono gli idoli del nuovo paganesimo edonista che seminano schiavitù ed infelicità, è un’opera assolutamente soprannaturale: il Figlio di Dio fatto uomo, inchiodando la sua umanità sulla croce, ne ha fatto il ponte fra il Cielo e la terra e quindi la via per il ritorno dell’uomo a Dio; come sappiamo, questa immolazione che riconcilia l’uomo con Dio si perpetua sugli altari nella santa messa: per questo ogni messa, celebrata tra le volte di una grande cattedrale, nelle forme più solenni e il più ampio concorso di fedeli, o celebrata nella solitudine di un eremo, ha in sé il medesimo valore dell’unico sacrificio di Cristo, presta alla santissima Trinità un atto infinito di adorazione e di ringraziamento, dona sollievo e liberazione alle anime del purgatorio, riversa incalcolabili grazie sulla Chiesa e sull’umanità, converte i peccatori, santifica i fedeli, sconfigge i demòni.

Non c’è nulla di retorico in tutto questo. Questo è ciò che la Chiesa ha sempre insegnato e vissuto e praticato. Ci crediamo davvero? Se ci crediamo, allora attenzione ai cartelli che esponiamo… La messa è sospesa per mancanza di fedeli … sicuramente il parroco che lo ha scritto, come i tanti che lo potrebbero scrivere, lo intende nel senso che, data la scarsità di preti da cui siamo afflitti, un sacerdote ‘sottoutilizzato’ in una zona, preferisce lasciare la parrocchia e andare altrove a celebrare la messa, amministrare i sacramenti, predicare e fare catechismo, cioè in un luogo in cui il suo ministero può essere più fruttuoso perché più richiesto.

Sarebbe invece assurdo se quella frase fosse rivelativa di un criterio del tutto mondano secondo il quale se non c’è abbastanza pubblico lo spettacolo non va in scena! La messa non è uno spettacolo rivolto ad un pubblico, ma un atto di culto e di amore a Dio-Trinità che ne è contemporaneamente il protagonista e il destinatario! Il ‘pubblico’ può esserci o non esserci, fisicamente; ma in realtà c’è sempre, poiché ogni liturgia è azione di tutta la Chiesa e anche se celebrata in solitudine da un sacerdote in cima a un monte, lì è presente e agisce il Signore Gesù Cristo e dunque è presente immancabilmente l’intero suo Corpo mistico, la Chiesa del Cielo, quella della terra e quella del Purgatorio.

C’è un mondo invisibile ma realissimo che si affolla intorno al più umile e nascosto altare in cui si rinnova il santo Sacrificio della messa; c’è un fiume incontenibile di grazie che sgorga da esso e di cui il sacerdote è ministro per decreto divino, indipendentemente dal ‘successo’ di pubblico che egli riesca a suscitare nel quartiere o nel paese in cui vive.

Qualunque scelta ‘pastorale’ non può che fondarsi su questa realtà della nostra fede e non può mai prescindere da essa.

(fonte: lanuovabq.it)