lunedì 31 ottobre 2022

Il poliamore: un diritto civile?







di Tommaso Scandroglio, 26 Ottobre 2022

Più si è, meglio è. Anche in amore. Pare esserne convinto il giudice newyorkese Karen May Bacdayan che, per la prima volta nella storia, ha conferito legittimità giuridica ad una relazione poliamorosa. Per poliamore s’intende una relazione, sia affettiva che sessuale, tra più persone consenzienti. In altri termini, si tratta di un triangolo amoroso o di un quadrilatero o di un’altra figura piana con più lati, dove ogni lato ha rapporti con uno o più lati e tutti i lati approvano.

La storia è questa e riguarda tre uomini. Scott Anderson e Markyus O’Neill vivevano insieme in un appartamento di New York. Robert Romano, “marito” di Anderson, invece risiedeva altrove. Anderson nel 2021 muore. O’Neill, allora, volle subentrare nel contratto di locazione secondo quanto disposto da un regolamento della città di New York il quale dispone che in caso di morte di un inquilino a cui è intestato il contratto, il proprietario non può sfrattare «né il coniuge superstite dell’inquilino deceduto né un altro membro della famiglia dell’inquilino deceduto che ha convissuto con l’inquilino». Il proprietario dell’appartamento non volle riconoscere a O’Neil il diritto di rinnovare l’affitto perché non era «membro della famiglia non tradizionale», ossia della “famiglia” arcobaleno. O’Neil aveva invece dichiarato che si sentiva «membro della famiglia» dato che anche lui aveva una relazione con Anderson.

Il giudice ha dato ragione a O’Neil, sostenendo che l’esistenza di questo triangolo amoroso «non dovrebbe respingere automaticamente la richiesta di O’Neill di non essere sfrattato». La May Bacdayan aggiunge in modo significativo: «Perché una persona deve impegnarsi con un’altra persona solo in determinati modi prescritti per poter godere della stabilità dell’alloggio dopo la partenza di una persona cara? Tutte le relazioni non tradizionali devono comprendere o includere solo due persone primarie?». Citando poi una sentenza che aveva attinenza al caso e che riguardava la successione di un contratto di locazione di una coppia gay e la sentenza Obergefell v. Hogdes che ha aperto alle “nozze” gay, il giudice ammette che tali sentenze riconoscono «solo relazioni bipersonali». Ma poi aggiunge: «Quelle decisioni, tuttavia, aprono la porta alla considerazione di altri costrutti relazionali; e, forse, è giunto il momento di prenderle in considerazione».

Il ragionamento è semplice: perché l’unica relazione riconosciuta dal diritto dovrebbe essere bipersonale e non tri-tetra-penta personale? Chi lo dice che l’amore è solo a base due? Il riconoscimento delle coppie gay – questo il ragionamento del giudice che, è proprio il caso di dirlo, ha dato i numeri – ha fatto comprendere che non può essere l’orientamento sessuale il discrimen per distinguere ciò che è legittimo da ciò che non lo è. Ma allora se l’orientamento sessuale non fa problema in termini di legittimità giuridica, perché lo dovrebbe fare il numero? Se “love is love”, lo è anche e forse soprattutto se gli amanti sono più di due. Il discorso non fa una grinza perché la premessa è erronea, dato che l’amore che non nasce da vincoli di sangue o di amicizia non può che essere esclusivo, altrimenti non esprimerebbe donazione totale per l’altro.

Dicevamo che è la prima volta nella storia che un giudice si esprime a favore di una relazione poliamorosa. Ma non è la prima volta che una relazione tra più di due persone riceve un placet formale da un’autorità pubblica. Nel febbraio dello scorso anno i media avevano raccontato di come un giudice della California avesse, non tanto riconosciuto una relazione poliamorosa, ma una relazione poligenitoriale, ossia avesse riconosciuto che papà di due bambini fossero tre uomini. Una sorta di riconoscimento indiretto del poliamore. Inoltre un paio di anni fa, il Consiglio comunale di Somerville, sempre negli Usa, qualificò la polyamorous relationships come forma legittima di partnership domestica: «un’entità formata da persone» anziché «un’entità formata da due persone», si legge nell’ordinanza del Consiglio. La decisione dell’amministrazione comunale fu presa perché all’epoca, in piena emergenza Covid, alcune persone si erano lamentate che non potevano andare a far visita ai propri partner negli ospedali, dato che l’accesso era consentito solo ai familiari e ad un convivente.

Il poliamore è alla fine una delle innumerevoli manifestazioni del pluralismo culturale – più plurale di così! – e del pensiero liquido che però, quando vuole ricevere autorevolezza, non ripudia le vesti formali della legge che lo cristallizza e lo definisce.







sabato 29 ottobre 2022

Lucetta Scaraffia è allarmata dalla parola "natalità"




L'aborto non è a rischio con il governo Meloni, scrive Lucetta Scaraffia tirando un sospiro di sollievo. La scrittrice, firma notissima nel mondo cattolico (e già vicepresidente di Scienza e Vita), bolla come ideologici l'aiuto alle madri per superare le costrizioni economiche e il riconoscimento giuridico del concepito.



RADICATTOLICI
EDITORIALI

Stefano Fontana 29-10-2022

Molti si stanno esercitando a prevedere cosa farà il nuovo governo Meloni nei vari ambiti dell’agenda politica. L’esercitazione riguarda prima di tutto i temi oggi ritenuti “caldi”, dalle bollette alla guerra. Non mancano, però, coloro che cercano di guardare avanti anche sui temi cosiddetti “etici”, oggi chiamati spesso “dei nuovi diritti”. La Meloni aiuterà le donne a non abortire? Applicherà la 194? La ritoccherà? La abolirà? Riprenderà in mano la legge Cirinnà? Tra chi si sta cimentando in previsioni su questi campi minati, c’è anche Lucetta Scaraffia, che su La Stampa del 26 ottobre ha pubblicato un suo commento dal titolo Perché l’aborto non è a rischio. Che nel governo Meloni – secondo la Scaraffia – l’aborto non sia a rischio è un bene e nel suo commento lei esprime questa valutazione come tirando un sospiro di sollievo, un “meno male che non è a rischio!”.

Lucetta Scaraffia ha svolto un certo ruolo dentro il mondo cattolico negli ultimi anni. Ha scritto molti libri di argomento religioso, è stata vicepresidente dell’associazione Scienza e Vita, oggi purtroppo volutamente congelata dall’alto, ha curato per diversi anni il mensile Donne Chiesa mondo de L’Osservatore Romano, è stata opinionista ascoltata. Ricordo, inoltre, che è membro del Comitato Nazionale di Bioetica. Come mai una cattolica come la Scaraffia tira un respiro di sollievo se “l’aborto non è a rischio” nel governo Meloni? La lettura del suo commento del 26 ottobre ce lo spiega.

L’autrice vede che nel governo ci sono dei pericoli per l’aborto e, in generale, per la cultura dei diritti. Il principale di questi pericoli è, secondo lei, nell’uso frequente, nei programmi e nei discorsi per la fiducia in parlamento, della parola “natalità”, che la Scaraffia considera “gravida di minacce”. La sua adesione alla cultura dei diritti non è motivata, viene solo affermata come cosa ovvia e giusta. Nessuna perplessità sulla pericolosità di diritti senza doveri, oppure sulla esaltazione dei diritti soggettivi anche in contrato con il diritto oggettivo, nessun timore o preoccupazione per la interpretazione libertaria dei diritti fatti coincidere con i desideri. Tutti questi elementi sono ben presenti oggi nella cultura dei diritti, ma la Nostra non vi fa cenno.

Stupisce molto anche l’attacco alla semplice parola “natalità”, considerata gravida di minacce. Ma se la parola natalità è considerata tale, vuol dire che il suo contrario, ossia la “denatalità”, deve essere considerata positivamente. Certo la natalità può essere perseguita con diversi scopi e per varie motivazioni: non estinguersi come nazione, avere manodopera autoctona, ridurre il costoso invecchiamento della popolazione e anche difendere e proteggere la vita. Scopo del cattolico in politica è di elevare il livello delle motivazioni, senza però considerare quelle più prosaiche come “minacce”.

Cosa farà il ministro della famiglia Eugenia Roccella? – si chiede la Scaraffia. La sua speranza è che Eugenia non rinneghi il suo passato radicale – passato che concerne anche Scaraffia – ma che stabilisca con esso un rapporto di positiva ed equilibrata elaborazione. E che non si faccia sommergere o coinvolgere da altre logiche interne alla maggioranza, rappresentate soprattutto dal disegno di legge Gasparri, che il commento di Scaraffia considera un immane pericolo.

La proposta Gasparri vuole conferire personalità giuridica all’embrione umano, una proposta che Scaraffia paragona ad un «avvelenamento dei pozzi» teso a «impedire qualsiasi discussione seria e ragionevole sul tema aborto». Ciò, secondo lei, riporterebbe il discorso ad una rissa tra chi vuole a tutti i costi garantire la libertà femminile ad abortire e chi vuole a tutti i costi garantire i diritti del nascituro. Ambedue le posizioni sarebbero ideologiche. In particolare, sarebbero ideologiche queste due iniziative: «aiutare finanziariamente le donne spinte ad abortire dalle difficoltà economiche» e «voler attribuire l’identità di soggetto giuridico a un embrione, che è una potenzialità di vita ma che senza il consenso della donna che lo porta in grembo non potrà mai arrivare ad esistere come persona».

La condanna come ideologiche di queste due iniziative da parte della Scaraffia rivelano in lei una cappa mentale dogmaticamente ideologica. Quella che lei chiama «rissa», altro non è che una disputa per far prevalere il bene sul male, la qual cosa spesso richiede una vera e propria lotta e non solo una discussione tesa al compromesso. Sarebbe ideologico aiutare finanziariamente le donne in difficoltà e non lo sarebbe lasciarle alla loro miseria per non condizionare la loro libertà di scelta, che la loro situazione impedisce? L’embrione umano sarebbe «una potenzialità di vita»? Ma dove è andata a prendere questa assurda espressione la Scaraffia? Se l’embrione umano è vita umana lo è in atto e non in potenza dato che ciò che è, è in atto, e per di più è l’atto primo di un soggetto, per motivi essenziali anche se gli atti secondi dell’esistenza arriveranno in seguito. La sua essenza contiene infiniti elementi da sviluppare, ma lui c’è già.

Se anch’io dovessi scrivere un commento su La Stampa, lo titolerei così: Governo Meloni, l’aborto a rischio! E tirerei un sospiro non di sollievo ma di speranza.




venerdì 28 ottobre 2022

Le assurdità della nuova teologia del compromesso






Di Silvio Brachetta 28 OTT 2022

Luca Gino Castellin, docente all’Università cattolica del Sacro Cuore, fa un sunto del «realismo cristiano» e del «realismo politico», su L’Osservatore Romano del 24/10/2022 [qui]. Ne nasce una teoria politica del compromesso che, da un decennio, cerca di farsi largo – e certamente si è fatta largo – nella Dottrina sociale e nel magistero della Chiesa, fino a scendere tra i fedeli cattolici.

Per provare le sue tesi, Castellin fa riferimento ai soli autori della modernità. Nell’articolo, egli cita il teologo protestante Reinhold Niebuhr, equidistante dal «realismo cinico» e dall’«idealismo sentimentale». Il discorso sembra filare: il cattolico (dunque anche il cattolico in politica) non può cedere né al nudo corso dei fatti storici, né all’idealismo inconcludente e romantico, che non realizza nulla. E porta ad esempio l’Evangelii gaudium di Papa Francesco, secondo cui «la realtà è superiore all’idea».

Ma il discorso fila sino a un certo punto. Se s’intende che il politico debba (o tenti di) tradurre la teoria in pratica, o se l’idea è null’altro che la ricerca speculativa del mezzo normativo attraverso cui si vuole raggiungere il fine del bene comune, la realtà è certamente superiore all’idea. Se, al contrario, l’idea è qualcosa di assai più elevato del semplice pensiero (se cioè è l’ideale che muove il politico, se è il suo orizzonte di pensiero o se è la fede che muove il cristiano), allora Castellin cade nell’equivoco, che separa dottrina e realtà.

Quando l’idea è un semplice prodotto cartesiano del pensiero umano, si coglie in che misura la realtà fattuale sovrasta ogni opinione. Ma se l’idea è la sostanza o la forma metafisica che regge e governa le cose – proprio nel senso teologico del termine – intuita per via filosofica o comunicata per rivelazione divina, allora è un errore porre una distanza tra le idee e la realtà, perché si potrebbe fraintendere e credere che la dottrina (che procede dalle idee sostanziali) non sia a fondamento della realtà medesima.

E si giunge appunto al rigetto tout court dell’idea, della dottrina, ridotta a puro materiale opinabile, da usare solo per un dialogo di compromesso. Niente più, allora, «principi non negoziabili», dogmi, punti fermi e conoscenze di fede: il politico cattolico – secondo la visione di Castellin – si dovrebbe limitare alla concretezza della storia e all’accordo (opportuno, opportunista) tra le idee in gioco.

Non è strano giungere a conclusioni di questo tipo. Nel Dizionario di DSC (online, dell’Università cattolica, qui), alla voce «Realismo politico e realismo cristiano», Castellin comincia a declinare il realismo politico dalle speculazioni di Tucidide, Machiavelli, e Hobbes, avversate da Gerhard Ritter e da Jacques Maritain. La conclusione del realismo politico aconfessionale è scontata: «Tradizionalmente, il realismo politico viene interpretato come una dottrina pragmatica di compromesso con – o di adeguamento a – le ‘regole’ del potere».

Con Niebuhr e con il suo «realismo cristiano» – che Castellin ritiene scontato – il pessimismo machiavellico e hobbesiano nei confronti della natura umana viene sì contrastato, ma fino ad un certo punto: l’uomo resta con una natura «piuttosto flessibile», tra l’«amor proprio» (cattivo e predominante) e gli «impulsi sociali» (buoni e mortificati), che impongono comunque la ricerca del compromesso, sia verso gli altri che verso se stessi.

Il realismo cristiano, però, è altro da quello proposto (e coniato) da Niebuhr. Se fosse quello di Niebuhr, sarebbe sovrapponibile al «buon senso» inglese e degli anglicani. Ovvero: le cose vanno così e mi adatto. La vocazione del cristiano è ben altra: quando le cose vanno male, non mi adatto, ma cerco di ricondurle a Dio, alla sua verità.

Niebuhr e Castellin trascurano o non comprendono che il realismo cristiano nasce con Cristo e con la rivelazione: per intuirne l’essenza non dobbiamo affidarci ai moderni, ma al pensiero teologico degli autori maggiori, vissuti assai prima di Niebuhr o Maritain e decisamente più autorevoli. Non posso cioè definire il realismo cristiano sulle idee di Niebuhr o di Maritain, ma su quelle di Agostino d’Ippona o di Tommaso d’Aquino.

San Tommaso è chiaro sul realismo, che propone come commento al dato rivelato: l’eternidea è prima delle cose, nelle cose e (solo alla fine) dopo le cose, ovvero nel pensiero umano. La vocazione dell’uomo, cioè, deve prescindere dal fatto di una più o meno grave ferita della sua natura (a seguito del peccato adamitico) e guardare unicamente all’obbedienza alla fede e alla retta ragione. La ferita della natura non può mai essere il pretesto per la discesa nei compromessi, ma il penitente deve invece chiedere a Dio la restaurazione della natura – per via di grazia – ed è comunque tenuto ad agire secondo la sua credenza, che coincide con la fede.

Castellin, poi, confonde quanto legge nel Compendio di DSC (n. 183), a proposito degli sforzi umani per sconfiggere la povertà. Il Compendio – osserva Castellin – «mette anche in guardia “da posizioni ideologiche e da messianismi che alimentano l’illusione che si possa sopprimere da questo mondo in maniera totale il problema della povertà”». E, difatti, è un’utopia di tipo socialista il ritenere che la politica possa sconfiggere la povertà.

È sbagliato però concludere, da questo esempio, che «la realtà è superiore all’idea», poiché va distinta l’idea dall’ideologia e la dottrina dall’opinione. Fare leggi contro la povertà è un’idea in accordo con il principio della destinazione universale dei beni, del tutto conforme all’eternidea di Dio, mentre il volere eliminare la povertà è un’opinione ideologica. La prima è un’idea rivelata, il secondo è un pensiero privato e rivoluzionario.

Non si può quindi concludere, così come fa indirettamente Castellin, che bisogna cercare un accordo con altre opinioni, circa la destinazione universale dei beni, e giungere a leggi di compromesso.

Tanto meno è lecito cercare un compromesso sulle scelte politiche e sociali legate alla vita umana e alla famiglia. In questo caso siamo fuori tanto dal realismo cristiano, quanto dal realismo politico. L’immoralità dell’omicidio o dell’adulterio non dovrebbero prevedere alcuna prospettiva di compromesso tra il bene e il male.

Eppure, è proprio a causa di questa nuova teologia fasulla, la quale attecchisce nelle curie e nelle facoltà universitarie, che il realismo cristiano (non quello di Niebuhr e Castellin) e la politica conseguente sono etichettati come «visione perfettista», quasi che il cattolico dovesse essere «anti-perfettista» per definizione.

Di natura debole, di pensiero debole, di fede debole, anti-perfettista, anti-identitario: questo il nuovo profilo del cristiano e del politico «realista», secondo questa subdola teologia del compromesso.

Silvio Brachetta




Le bufale di chi nasconde la realtà dell’embrione




Un gruppo abortista pubblica foto di sacche gestazionali ben “ripulite” per nascondere la realtà dell’embrione a 5-9 settimane. Il britannico Guardian e, in Italia, The Vision rilanciano le immagini, con titoloni che ingannano i lettori. Una mistificazione smentita da biologia ed ecografie, che mostrano tutta l’umanità del nascituro fin dalle prime settimane nel grembo materno.


Ermes Dovico, 28-10-2022

I sostenitori dell’aborto hanno sempre dovuto far uso di un bel cumulo di menzogne - dalle iperboliche cifre sugli aborti clandestini al terrorismo di certi medici su presunte malformazioni dei nascituri (vedi lo sciacallaggio sul disastro di Seveso) - per creare consenso attorno alla pratica e giungere alla sua legalizzazione. Ma la madre delle menzogne è sempre stata quella di cercare di ridimensionare e perfino cancellare l’umanità del bambino in grembo, dipinto come mero «grumo di cellule».

Lo sa benissimo un gruppo abortista statunitense, Mya Network, di recente formazione, che ha tra i suoi obiettivi dichiarati quello di «aiutare a normalizzare culturalmente l’aborto». E per normalizzarlo serve mentire o al più mostrare mezze verità, per giunta presentate in modo da confondere chi non conosce le basi della biologia e non ha mai visto - cosa incredibile a dirsi oggi - un’ecografia. È così che Mya Network ha pubblicato una serie di fotografie raffiguranti una parte della realtà osservabile tra 5 e 9 settimane di gravidanza: la sacca gestazionale, cioè la “casa” che si sviluppa, a quello stadio, attorno all’embrione. Il gruppo abortista da un lato è costretto ad ammettere che le foto rappresentano la sacca “ripulita” dal sangue e dalla decidua mestruale, ma dall’altro - con un cocktail di immagini e parole - fa passare il suo messaggio ingannevole, affermando che «in questa fase [appunto fino a 9 settimane, ndr] non è visibile un embrione». Ma la realtà è che l’embrione non è visibile per i maneggi dei sanitari di Mya Network, che oltre al sangue hanno verosimilmente rimosso tutti i resti dei bambini abortiti.

In un mondo normale la bufala sarebbe rimasta confinata alle pagine online del suddetto gruppo abortista, ma purtroppo l’ideologia contro la vita nascente si accompagna sempre a una grancassa mediatica ben collaudata. Alcuni organi della stampa mainstream hanno infatti pensato che le foto sensazionali di Mya Network fossero un’occasione troppo ghiotta per accusare di falsità il mondo pro vita (che ricorda come l’embrione sia un nostro fratellino in miniatura). Se poi si accompagnano quelle foto a titoli altrettanto sensazionali, la mistificazione si diffonde alla velocità della luce… Come infatti è avvenuto. Il primo a cogliere la palla al balzo è stato, a quanto pare, il britannico Guardian. Foto della sacca gestazionale in bella mostra e titolo: «What a pregnancy actually looks like before 10 weeks - in pictures» («Che aspetto ha davvero una gravidanza prima delle 10 settimane - nelle foto»).



In Italia, il 21 ottobre, a due giorni dall’articolo del Guardian, ci ha pensato la testata The Vision, seguitissima sui social network, a rilanciare la bufala. Il titolo, in questo caso, è ancora più netto: «Ecco cosa viene realmente espulso in un aborto entro le prime 10 settimane. Non manine e piedini come mostrano gli anti-abortisti» (vedi foto). Nella prima versione del post di Vision si affermava che «negli scatti è visibile come durante le prime nove settimane di gravidanza non vi sia alcun embrione» (vedi qui per una ricostruzione). Il contenuto del post, pur sempre viziato dalla stessa approssimazione ideologica, è stato poi in parte modificato, aggiungendo il particolare dei tessuti «ripuliti dal sangue». Ma il titolo e la relativa foto - gli elementi di maggior rilievo - sono rimasti gli stessi. Risultato: solo su Instagram, oltre 112 mila “mi piace”, tra cui quello dell’influencer Chiara Ferragni.

Tra le tante possibilità oggi esistenti, basta prendere un libro di embriologia o consultare qualunque seria fonte su Internet dedicata alla materia per constatare come, a 8-9 settimane, l’embrione - già ben visibile e grande circa quanto un acino d’uva - vada assumendo forme sempre più definite (vedi qui i 23 stadi di Carnegie in alta definizione) e siano distinguibili occhi, naso, bocca, mani, piedi, eccetera. «Ma com’è possibile arrivare a negare cose del genere?», ci dice al telefono il professore e ginecologo Giuseppe Noia, luminare nel campo della medicina fetale e delle cure prenatali. «A 6 settimane è già iniziato lo sviluppo di olfatto, gusto, udito e vista. Una settimana dopo - aggiunge il professor Noia - inizia anche il tatto e all’ottava la sensibilità cutanea nel volto. Tra 6 e 12 settimane si sviluppano i movimenti del tronco e degli arti, e così via. Con le ecografie tutto questo si può vedere. Contra factum non valet argumentum», conclude il ginecologo.

I fatti sullo sviluppo dell’embrione sono talmente evidenti che anche non pochi utenti dichiaratamente pro aborto - ma più informati della media, in mezzo alle decine di migliaia di like a sostegno del post - si sono sentiti in dovere di prendere le distanze dalla disinformazione diffusa, nel panorama italiano, da The Vision. Rimane tuttavia la gravità di quanto avvenuto. La “notizia” - con il suo titolo che raggira i lettori - è appunto ancora lì, a una settimana di distanza. E, comunque, molti di coloro che l’hanno vista (senza darsi la pena di fare un minimo di verifica) saranno rimasti convinti che sono i pro life a raccontare frottole.




Del resto, per arrivare alla normalizzazione dell’aborto, auspicata dall’ideologia abortista ed esplicitata da Mya Network, non si può sottilizzare sui mezzi: bisogna anestetizzare le menti e nascondere la realtà del bambino nel grembo materno. Nei decenni lo si è fatto, come accennato, in tanti modi, spostando il discorso attorno all’aborto verso tutti quei temi che potessero distrarre la popolazione e farle perdere di vista che il “diritto” che viene rivendicato riguarda il corpo, la vita di un altro essere umano (nella foto, un embrione a circa 7 settimane). Da decenni gli abortisti senza se e senza ma dicono che bisogna rendere le donne “libere” di scegliere, mentre nascondono loro gli aiuti e le informazioni più basilari, facendo la guerra alle ecografie, che hanno il torto di mostrarci bambini innocenti in tutta la loro umanità. Da decenni tentano di far sparire il nascituro dal dibattito pubblico sull’aborto. Ora cercano di farlo sparire anche dalle foto.






Se il sacerdote vuole salvare le anime, deve mirare alla santità!





 28 OTTOBRE 2022

La più grande astuzia del demonio è far credere che la salvezza delle anime dipenda dalle capacità di ognuno. La salvezza delle anime è invece grazia; ed è attraverso la grazia e la propria santificazione che si ottengono doni meravigliosi da Dio. Questo vale per ogni cristiano. A maggior ragione vale per i sacerdoti. Come spiega molto bene padre Adolphe Tanquerey (1854 – 1932) nel suo Compendio di teologia Ascetica e Mistica. Leggiamo le sue parole.


Santificare e salvare le anime, tal è il dovere del proprio stato per un sacerdote. Quando Gesù sceglie gli apostoli, li sceglie per farne pescatori d’uomini “faciam vos fieri piscatores hominum”; perchè producano in sè e negli altri copiosi frutti di salute: “Non vos me elegistis, sed ego elegi vos ut eatis et fructum afferatis et fructus vester maneat”. A questo fine devono predicare il Vangelo, amministrare i sacramenti, dar buon esempio e pregar con fervore.

Ora è di fede che ciò che converte e santifica le anime è la grazia di Dio; noi non siamo che strumenti di cui Dio si degna servirsi ma che non producono frutto se non in proporzione della loro unione colla causa principale, instrumentum Deo conjunctum. Tal è la dottrina di S. Paolo: “Io piantai, Apollo irrigò, ma Dio fece crescere. Quindi nè chi pianta è qualchecosa, nè chi irriga, ma chi fa crescere, Dio: Ego plantavi, Apollo rigavit, sed Deus incrementum dedit; itaque neque qui plantat est aliquid neque qui rigat; sed qui incrementum dat, Deus”. D’altra parte è certo che questa grazia s’ottiene principalmente con due mezzi, con la preghiera e col merito. Nell’uno e nell’altro caso noi otteniamo tanto maggiori grazie quanto più siamo santi, più ferventi, più uniti a Nostro Signore […]. Se dunque il dovere del nostro stato è di santificar le anime, vuol dire che dobbiamo prima santificar noi stessi: “Pro eis ego sanctifico meipsum ut sint et ipsi sanctificati in veritate”.

Arriviamo del resto alla stessa conclusione, facendo passare i principali mezzi di zelo, cioè la parola, l’azione, l’esempio e la preghiera.

La parola non produce salutari effetti se non quando parliamo in nome e nella virtù di Dio, “tamquam Deo exhortante per nos”. Così fa il sacerdote fervoroso: prima di parlare, prega affinché la grazia avvivi la sua parola; parlando, non mira a piacere ma a istruire, a far del bene, a convincere, a persuadere; e perché il suo cuore è intimamente unito a quello di Gesù, fa vibrar nella voce un’emozione, una forza di persuasione, che scuote gli uditori; e perchè, dimenticando sè stesso, attira lo Spirito Santo, le anime restano tocche dalla grazia e convertite o santificate. Un sacerdote mediocre invece non prega che a fior di labbra, e perché cerca sè stesso, per quanto si venga sbracciando, non è spesso che un bronzo sonoro o un cembalo fragoroso, “æs sonans aut cymbalum tinniens”.

Il buon esempio non può essere dato che da un sacerdote sollecito del suo progresso spirituale. Allora può con tutta fiducia invitare, come S. Paolo, i fedeli a imitar lui come egli si studia d’imitar Cristo: “Imitatores mei estote sicut et ego Christi”. Vedendone la pietà, la bontà, la povertà, la mortificazione, i fedeli dicono: è un sacerdote convinto, un Santo; lo rispettano e si sentono tratti ad imitarlo: verba movent, exempla trahunt. Un sacerdote mediocre potrà essere stimato come un brav’uomo; ma si dirà: fa il suo mestiere come noi facciamo il nostro; e il ministero ne sarà poco o punto fruttuoso.

Quanto alla preghiera, che è e sarà sempre il più efficace mezzo dello zelo, qual differenza tra il sacerdote santo e il sacerdote ordinario? Il primo prega abitualmente, costantemente, perché le sue azioni, fatte per Dio, sono in sostanza una preghiera; non fa nulla, é dà consiglio, senza riconoscere la propria incapacità e pregar Dio di supplirvi con la sua grazia. Dio copiosamente gliela concede “humilibus autem dat gratiam”, e il suo ministero è fruttuoso. Il sacerdote ordinario prega poco e prega male; quindi anche il ministero ne è sterile.

Chi dunque vuol efficacemente lavorare alla salute delle anime, deve sforzarsi di quotidianamente progredire: la santità è l’anima dell’apostolato.

Dio è Verità, Bontà e Bellezza
Il Cammino dei Tre Sentieri



giovedì 27 ottobre 2022

I surreali attacchi al merito, figli del Sessantotto




La nuova denominazione di alcuni ministeri da parte del Governo Meloni ha suscitato reazioni scomposte a sinistra. La parola che ha provocato più scandalo è stata “merito” (aggiunta a “istruzione”), invisa all'establishment progressista erede del Sessantotto. Ma anche la Costituzione parla di merito, che è la base della vera uguaglianza sociale.



IL CASO
EDITORIALI

Eugenio Capozzi, 27-10-2022

È veramente incredibile come in Italia esistano parole letteralmente tabù, e il solo fatto che qualcuno le pronunci nel dibattito pubblico suscita in larga parte del mondo politico e mediatico lo stesso effetto generato dall'aglio sui vampiri: reazioni scomposte, convulsioni, veri e propri deliri.

È il caso di alcuni termini introdotti dal governo presieduto da Giorgia Meloni nella nuova denominazione di alcuni ministeri: parole che indicano obiettivi dell'azione del prossimo esecutivo in relazione a problemi la cui esistenza sarebbe impossibile negare, e la cui semplice menzione, tuttavia, viene considerata scandalosa, se non “blasfema” dall'establishment progressista - o woke “alle vongole” - saldamente incistato nel nostro Paese nei luoghi che contano della cultura di massa. In genere con effetti grotteschi e involontariamente comici, e mantenendo la disputa su un terreno del tutto nominalistico, senza considerare minimamente gli aspetti concreti delle questioni a cui quei termini si riferiscono.

È stato il caso della dizione “sovranità alimentare” aggiunta al nome del Ministero dell'agricoltura: immediatamente bollata da una falange di critici di sinistra come indice di “autarchia” e isolazionismo, quando invece si tratta di una consolidata strategia di difesa dei prodotti tipici contro le contraffazioni, lanciata proprio da ambienti culturali di sinistra come la galassia Slow Food. O della “natalità” aggiunta al nome del Ministero della famiglia (lemma già tradizionalmente mal digerito da quell'establishment) e delle pari opportunità: natalità rifiutata a priori, nonostante la gravità dell'“inverno demografico” da tempo in corso nel Paese, da una sinistra che sembra considerare ogni tentativo di incoraggiare maternità e paternità, chissà perché, come un insulto ai “diritti” soggettivi, in una spirale mortifera che ormai ne definisce per molti aspetti l'essenza.

Ma la parola che in quel mainstream politico-culturale ha provocato più scandalo è stata indubbiamente quella aggiunta alla titolazione del Ministero dell'Istruzione: “merito”. Un'aggiunta sicuramente significativa, ma che in una società liberaldemocratica non dovrebbe far inorridire nessuno, e anzi dovrebbe suscitare una naturale convergenza. Nessuna persona sensata infatti, in una riflessione sgombra da preconcetti, potrebbe negare che sia preferibile avere nei ruoli dirigenziali, professionali, scientifici più delicati persone competenti, preparate, giunte alla loro carica grazie alle loro doti, al loro impegno, al loro studio, e non grazie a favoritismi o a caso. E peraltro il principio secondo cui è doveroso incoraggiare e premiare i meritevoli è inequivocabilmente enunciato nella Costituzione della Repubblica, nell'articolo 34, dove, dopo aver dichiarato il libero accesso all'istruzione per tutti, l'obbligo scolastico e la sua gratuità, si aggiunge: «I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze». Insomma, uno dei fondamenti della convivenza repubblicana - condiviso all'epoca dalle diverse famiglie politiche presenti nell'Assemblea costituente - è proprio quello secondo cui le élite si devono formare non per oligarchico privilegio di classe, ma, appunto, in base ai meriti personali.

Eppure, assurdamente, oggi chi si dichiara “di sinistra”, appena sente la parola “merito”, tende a reagire con un moto di repulsione, additando quel principio - e insieme a esso quelli logicamente connessi di competizione e selezione - come esattamente il contrario di ciò che significa: cioè proprio come la volontà di discriminare le persone, nel sistema formativo e nella società, favorendo il perpetuarsi di disuguaglianze di classe.

Ora, se il richiamo alla selezione e alla competizione fosse privo di un riferimento al merito personale tale ragionamento potrebbe avere un fondo di verità: operare a scuola e all'università una selezione che rispecchi la geografia sociale attuale, senza dare a chi proviene da famiglie meno abbienti e istruite gli strumenti per un'ascesa sociale ottenuta con lo studio, sarebbe classista. Ma non è questo che intende la Carta, né è con questo spirito che il sistema formativo repubblicano era stato pensato. E comunque il principio del premio al merito funge, appunto, da correttore dei privilegi di classe, non da strumento di essi. Cosa è accaduto in questi decenni, per formare una così distorta, ma così radicata visione negativa di quel principio?

È successo che a un certo punto è arrivato il Sessantotto, e la cultura della sinistra italiana è passata, nel giro di pochi anni, dalla severa, ultraselettiva concezione dello studio propugnata da Antonio Gramsci a un rifiuto generalizzato di ogni gerarchia, di ogni giudizio, di ogni competizione, sia pur fondata sulle capacità effettive, sostituita da un vittimistico egualitarismo assoluto, un “vietato vietare” secondo cui sono lo sforzo, il lavoro, la responsabilità in sé a essere valori “borghesi”, quindi disprezzabili. Un sentimento alla base delle rovinose stagioni del “sei (o diciotto) politico” - magari giustificate dai richiami a don Lorenzo Milani, che regolarmente hanno frainteso e travisato il suo pensiero - , della demonizzazione del giudizio in quanto tale e dell'apprendimento dei contenuti come “nozionismo”, della trasformazione del sistema scolastico e formativo italiano in una melassa di “educazione alla cittadinanza”, ovviamente “inclusiva”, popolato da studenti sempre più de-alfabetizzati, ormai precipitati a livelli infimi nella conoscenza di tutte le discipline fondamentali. E che ha provocato esattamente il risultato opposto a quello che i suoi aedi proclamavano: la perpetuazione dei privilegi di classe. Perché in un sistema formativo in cui il livello medio si abbassa uniformemente, chi ha alle spalle famiglie e reti sociali che lo favoriscono continuerà a far carriera lo stesso, a differenza di chi è privo di mezzi e alla scuola e all'università chiedeva i contenuti per farsi strada autonomamente nella società.

Più di mezzo secolo dopo, il mainstream progressista in Italia continua a essere prigioniero di quei luoghi comuni, a ripetere quelle formule ideologiche il cui trionfo ha portato il Paese verso una decadenza sempre più inarrestabile, seguendo una perversa coazione a ripetere nichilista e distruttiva.






mercoledì 26 ottobre 2022

Il cardinale Zen a processo. Spina nel fianco di Pechino con la forza della fede




26 OTT 22

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by Aldo Maria Valli


di Tim Busch

firstthings.com

La dice lunga sulla Cina comunista che Pechino senta il bisogno di arrestare e perseguire un fragile leader cattolico novantenne. Dice ancora di più il fatto che il cardinale Zen stia accettando la sua situazione con tanta grazia e coraggio. Nel suo processo a suo carico, che riprenderà oggi, per false accuse di attentato alla sicurezza nazionale, Zen sembra completamente preparato a continuare il suo ministero cristiano da dietro le sbarre. Il regime può pensare che lo stia punendo, ma in realtà lo sta trasformando nel martire che Pechino dovrebbe temere di più.

La mia opinione sul cardinale Zen si è formata nel corso di molti anni, ma sono stato particolarmente colpito dal nostro incontro faccia a faccia nel novembre 2019. Ci incontrammo nella casa di Jimmy Lai, un compagno cattolico di Hong Kong convertito (è stato anche arrestato e condannato a quattordici mesi di carcere, e ora sta subendo un altro processo truccato senza giuria). Fuori dalle finestre, si sentivano le massicce proteste di Hong Kong contro la legge sull’estradizione, che all’epoca segnava il più aggressivo tentativo cinese di sradicare la libertà nella città-stato.


Le proteste erano così chiassose che quasi impedirono a me e mia moglie di incontrare il cardinale Zen. Ma quando arrivammo il leader cattolico, che è stato elevato alla sua attuale posizione da Papa Benedetto XVI nel 2006, era pacifico e tranquillo. Pur essendo avanti negli anni, deviò le domande sulla sua salute indirizzando umilmente l’attenzione su chiunque tranne lui. L’uomo trasudava preoccupazione per gli altri, soprattutto quando la conversazione si spostava sul futuro di Hong Kong.


Il cardinale non usò mezzi termini. Predisse che la Cina comunista avrebbe inghiottito Hong Kong per intero, con tutta l’oppressione e il dolore che definiscono la vita sulla Cina continentale. Disse che i molti cattolici della città, compreso lui e Jimmy Lai, avrebbero sopportato la persecuzione per la loro fede, soprattutto perché richiede una difesa risoluta della libertà e della dignità umana che Pechino nega. Il giorno dopo, la stampa comunista pubblicò le nostre foto e chiamò Zen e Lai traditori.


Zen fu preveggente: il suo arresto è avvenuto due anni e mezzo dopo, nella primavera del 2022. Le autorità comuniste lo hanno accusato in quanto amministratore del 612 Humanitarian Relief Fund, che ha fornito sostegno finanziario a quegli stessi manifestanti che sentimmo all’esterno durante la nostra riunione del 2019. Secondo i portavoce di Pechino, il cardinale è colpevole di “collusione con forze straniere”, reato previsto dalla legge sulla sicurezza nazionale di Hong Kong del 2020.


L’esito del processo non è in serio dubbio. La Cina comunista controlla efficacemente i tribunali di Hong Kong, quindi Zen sarà quasi certamente condannato, dopo di che sarà probabilmente mandato in una delle prigioni di Hong Kong. C’è una minima possibilità che il suo destino possa essere diverso, a patto che ci sia una sufficiente protesta globale. Purtroppo però il Vaticano deve ancora affrontare l’importante questione dell’arresto di uno dei suoi cardinali, che sono spesso chiamati i “principi della Chiesa”. Si spera che cambi atteggiamento prima che il processo finisca e abbia inizio una possibile pena detentiva.

Eppure non sono convinto che il cardinale Zen voglia liberarsi. Mentre parlavamo nel 2019, sembrava a suo agio con la sofferenza in arrivo. Ha senso. Questo è un uomo che si è impegnato a seguire le orme di Gesù Cristo. Ha anche visto come il cristianesimo è cresciuto a Hong Kong e in tutta la Cina, anche nel bel mezzo di una repressione comunista. Un uomo come Zen, così immerso nel concetto cristiano di sacrificio di sé e nell’idea che Dio può trarre un grande bene da un grande male, potrebbe desiderare nient’altro che la condanna in un processo predeterminato.


Ciò non rende meno ingiusta la persecuzione di un novantenne da parte della Cina comunista. Il cardinale Zen merita la libertà, così come Jimmy Lai e tutti quelli che Pechino sta punendo per la loro difesa dell’autonomia di Hong Kong. Allo stesso modo, meritano anche il pieno sostegno di ogni cattolico e persona di buona volontà, in Vaticano, negli Stati Uniti o altrove.

Ma se il cardinale Zen per il regime rappresenta davvero un pericolo, la minaccia non finirà con una falsa sentenza del tribunale. Dietro le sbarre, Zen continuerà a diffondere il messaggio eversivo della libertà e della fede religiosa. Nel frattempo, gli innumerevoli cittadini cinesi che verranno a conoscenza del suo destino si chiederanno perché quel messaggio lanciato da un vecchio avvizzito può terrorizzare i presunti onnipotenti apparatchik di Pechino. I semi che il cardinale Zen pianterà nei giorni a venire produrranno sempre veleno per la Cina comunista.

Fonte: firstthings.com

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martedì 25 ottobre 2022

Dovremmo scusarci con i martiri nordamericani




Phil Lawler, Catholic culture 

Ogni anno, in questa data – in cui ricorre la festa dei martiri nordamericani – mi ritrovo a pormi lo stesso tipo di domande. I missionari gesuiti del XVII secolo erano colpevoli di proselitismo? Rispettavano le culture indigene? San Jean de Brebeuf avrebbe chiesto la benedizione di uno sciamano irochese? Sant’Isacco Jogues cos'avrebbe risposto alla venerazione della Pachamama?
Veneriamo i martiri missionari, che volontariamente hanno dato la vita per portare le anime a Cristo. Ma oggi rifuggiamo dall’opera che si prefissavano. Erano loro a sbagliare o siamo noi?


Quando le autorevoli gerarchie cattoliche si scusano per il mancato rispetto delle culture indigene, ci stiamo forse scusando per questi martiri? Se è così, perché manteniamo i loro nomi nel nostro calendario liturgico? E se non ci scusiamo – se davvero onoriamo la loro opera, cerchiamo la loro intercessione e crediamo che abbiano ottenuto la più preziosa delle vittorie – perché siamo riluttanti a imitarli?


Per i martiri gesuiti, il lavoro missionario non era solo una questione di vita o di morte; riguardava qualcosa di ancor più importante, la salvezza e la dannazione. Perciò potevano sopportare la tortura e la morte, sicuri che ciò che offrivano ai nativi americani valeva il prezzo – un prezzo che loro stessi erano pronti a pagare, per amore di persone che li disprezzavano. Potevano accettare di vivere in condizioni primitive, rinunciando alle comodità della loro Francia nativa, per conquistare la fiducia di questo popolo. Ma non potevano accettare le religioni primitive dei nativi.


Naturalmente questi missionari gesuiti non erano unici. Venivano da una lunga serie di eroici testimoni della fede, che non mostravano alcuna remora ad abbattere miti e santuari pagani. San Bonifacio abbatté la quercia di Thor. Il profeta Elia mise in difficoltà i sacerdoti di Baal e poi li eliminò. Questi uomini, che oggi onoriamo, non celebravano la diversità. Erano critici. Ed erano santi.


A meno che qualcosa di fondamentale della nostra fede non sia cambiato nel corso degli anni, le credenze e le azioni che hanno reso santi i missionari gesuiti francesi qualche centinaio di anni fa dovrebbero produrre santi oggi. Ciò che era giusto e virtuoso allora deve essere giusto e virtuoso anche oggi. Che cosa è successo, allora, che ci fa esitare a dire che la nostra fede cristiana è superiore alla fede dei pagani – superiore; il che è la verità, mentre le loro credenze sono false?


Il mio vecchio amico, il defunto padre Paul Mankowski, anch’egli gesuita, una volta ha osservato che alla fine del XVII secolo, in America, il martirio era la principale causa di morte tra i gesuiti; alla fine del XX secolo è l’AIDS. Nello stesso giorno in cui rifletto sui martiri nordamericani, vedo la notizia che l’Università di Georgetown, un’istituzione con un’orgogliosa tradizione gesuita, sta ora insegnando agli studenti di medicina come aiutare i giovani a negare la loro vera identità sessuale, data da Dio [vedi anche]. Quanta strada ha fatto la Compagnia di Gesù!


Oggi è di moda scusarsi per gli audaci missionari che hanno portato la fede in terre in cui non era benvenuta – di moda, direi, perché il cristianesimo, oggi, è ancora una volta non gradito. Per quanto mi riguarda, dico che sì, dovremmo scusarci, ma non per i missionari martiri. Dovremmo scusarci con loro, per la timidezza e l’ipocrisia che, mentre ci permettono di celebrare la loro santità, ci consentono di rifuggire dal loro esempio.





Francia: nelle scuole e nelle prigioni cresce a dismisura la minaccia islamista







di Attilio Faoro

Sulle colonne di Le Figaro (23 settembre 2022), Barbara Lefebvre, insegnante e saggista, ha protestato contro i "30 anni di codardia" dei leader politici francesi nei confronti della crescente minaccia islamista, in particolare tra i giovani.

A riprova della crescente influenza islamica nelle scuole, una recente nota del CIPDR (Comitato interministeriale per la prevenzione della delinquenza e della radicalizzazione) cita una mobilitazione della sfera islamista sui social network, che prende di mira il laicismo nelle scuole. Per Barbara Lefebvre si tratta di una logica conseguenza dell'inazione dello Stato nel combattere i sostenitori di questa ideologia.

"Dagli anni '90 i politici, nonostante gli informatori, non hanno agito, pur avendo a disposizione leve potenti", si rammarica la Lefebvre, spiegando che questa famosa nota "si riferisce all'ennesima offensiva della Fratellanza e dei movimenti salafiti per destabilizzare le scuole pubbliche incoraggiando gli alunni, attraverso social network come TikTok e Twitter, a indossare abiti religiosi (hijab, burkini) o a imporre un certo numero di pratiche religiose nelle scuole (preghiere, digiuno collettivo)”.

Ma, aggiunge giustamente indignata, "quando nel 2022 le nota arriva a 'rivelare' situazioni ormai conosciute e scontate, si ha il diritto di chiedersi se c'è davvero un pilota a capo del transatlantico Francia. A meno che non si tratti del Titanic”.

Queste situazioni odierne, spiega l'autrice, sono il risultato di una strategia intelligente da parte degli islamisti, perché "dopo gli attentati del 2015, hanno chiaramente messo in sordina la dimensione violenta jihadista, preferendo un discorso incentrato sull'individuo e sulla sua libertà di praticare la propria religione in uno Stato di diritto. L'uso dell'hijab, elemento centrale del patriarcato islamico e pietra miliare dell'Islam politico contemporaneo, è diventato un segno di emancipazione femminile in Occidente. Tanto di cappello!”.

"Rispondendo alla ricerca di identità di una parte della gioventù musulmana francese – così come gran parte della gioventù - che non si riconosce nella società liquida occidentale del XXI secolo, gli islamisti parlano loro di orgoglio, di un progetto collettivo, di radici comuni", sottolinea l'insegnante.

"Gli islamisti fanno vibrare la corda sensibile dell'individualismo occidentale, eternamente alla ricerca di una micro-oppressione, di una micro-aggressione, e la girano come un calzino al fine di servire il loro obiettivo di islamizzazione di massa dei musulmani francesi sul modello della Fratellanza (islamica) e salafita”.

“L'offensiva contro la laicità è multiforme, ma nelle scuole sono gli islamisti a dare le carte", dice preoccupata. “Perché non vogliono creare scuole fondamentaliste senza contratto (con lo Stato) o ghettizzarsi, vogliono cambiare la società francese, frammentarla, romperla dall'interno. Minare la scuola pubblica significa far saltare per aria la Francia".

Le Prigioni, un altro vivaio di islamisti radicali


Un altro fronte sul quale si concentra la pressione islamica in Francia è la radicalizzazione dei detenuti. Il settimanale Valeurs Actuelles vi ha dedicato un lungo articolo (2 settembre 2022).

Sebbene la radicalizzazione sia sempre più diffusa, le autorità si trovano di fronte a una minaccia difficile da quantificare e individuare.

Secondo un direttore di carcere, "i detenuti più pericolosi sono quelli di cui si parla meno", che praticano tecniche di occultamento per mesi, persino per anni. "Ce ne sono decine che sfuggono alla vigilanza, nonostante la loro pericolosità", avverte un dirigente dell'amministrazione.

Tuttavia, le prescrizioni dell'Islam rigorista stanno diventando la regola quotidiana per un numero crescente di detenuti in alcune carceri, spiega la redazione del settimanale.

Nel carcere di Bois-d'Arcy (Yvelines), ad esempio, sono iniziati i proselitismi e gli appelli alla preghiera. Queste regole si stanno diffondendo nelle carceri dove c'è una maggioranza di musulmani, "praticanti o culturali", dice un cappellano. Molti prigionieri che dicono di non avere un'affiliazione religiosa si convertono all'Islam "per conformismo o per un complesso di inferiorità".

Un altro caso è il carcere delle Baumettes, una famosa prigione di Marsiglia, dove si stima che il 90% dei detenuti sia musulmano. Secondo un membro dello staff, Eric Diard, "l'Islam è onnipresente e regna". Tuttavia, i profili sono diversi: "Ci sono persone poco intellettualizzate, che pensano di essere meno di niente e a cui viene detto che, per Allah, loro contano", spiega.

E poi ci sono i detenuti con profili psichiatrici. "Gli islamisti reclutano sempre più tra gli 'squilibrati', che sono in grado di agire molto più facilmente", osserva uno psicologo. I professionisti stimano al 30% il numero di detenuti con disturbi psichiatrici, giacché gli ospedali specializzati sono a corto di posti.

Ma l'islamismo e la radicalizzazione minacciano ogni singolo detenuto. Secondo un rapporto parlamentare del gennaio 2022, l'81% dei detenuti che si convertono sono francesi, provenienti da ogni confessione.

Le persone radicalizzate rappresentano ancora una piccola parte dei detenuti in Francia. Ma fino a quando? Per individuarli, vengono mobilitati informatori nei centri di detenzione o nelle carceri. Viene chiesto loro di segnalare cambiamenti nell'aspetto e nel comportamento: barba folta, commenti radicali, rifiuto di salutare le donne, preghiere regolari. Quando vengono individuati dei prigionieri radicalizzati, questi vengono inviati in dei reparti speciali.

Nel frattempo, mentre centinaia di persone radicalizzate giungono alla fine della loro pena, a decine vengono rilasciate ogni mese. "Alcuni di loro sono più pericolosi quando escono di quando sono entrati", avverte Éric Diard. "Hanno un odio per il Paese", aggiunge Cyril Huet-Lambing, responsabile regionale del sindacato penitenziario SPS.

Il compito è particolarmente complicato per i servizi di intelligence. "Ci vogliono 25 agenti per monitorare un obiettivo, quanti ne serviranno per monitorare i 500 radicalizzati che saranno rilasciati entro il 2024?”. Le preoccupazioni aumentano con l'avvicinarsi della fine della pena.

"Ne bastano pochi per provocare una catastrofe nel Paese", si preoccupa un membro dello staff che sottolinea come, secondo i servizi di intelligence, "attualmente viene sventato un attacco al giorno". Allarmante.



Fonti: L’islam à l’école : un véritable danger (3 Ottobre 2022) e La prison, vivier d’islamistes (14 Ottobre 2022). Articoli entrambi apparsi sul sito di Avenir de la Culture. Traduzione a cura di Tradizione Famiglia Proprietà – Italia.

lunedì 24 ottobre 2022

In nome del rispetto dell’ambiente, insetti in pasto ai bambini. Succede nelle scuole olandesi




23 OTT 22

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by Aldo Maria Valli

Uno scioccante video che viene dai Paesi Bassi sta facendo il giro della rete.

Ai bambini olandesi a scuola ora servono da mangiare insetti, come da diktat dei signori del mondo.

Il video di RTV Oost mostra uno specialista in alimentazione a base insetti e un politico olandese che a Zwolle distribuiscono pasti con tarme della farina a scolari di circa dieci anni, che con riluttanza trangugiano il pasto a base di invertebrati.

«Oltre ai deliziosi piatti a base vegetale abbiamo questo sacchetto con tarme della farina» dice il tizio, che distribuisce quindi i vermi ai bambini, che ingollano dopo un conto alla rovescia: «3… 2… 1…».

L’operazione ripresa fa parte della cosiddetta campagna «Missione avventurosa di assaggio delle proteine», un’iniziativa sviluppata dal gruppo Dutch Food Week e dalla Wageningen University & Research (WUR).

Il programma riguarderebbe centinaia di scuole.

L’obiettivo dichiarato della campagna per il consumo di insetti è quello di determinare «cambiamenti comportamentali» nei bambini per abbracciare «cibo sostenibile».

«I bambini delle scuole sono oggi esposti a una nuova esperienza alimentare. Parte di un pacchetto didattico sul cibo sano e sostenibile. È un mezzo collaudato: cambiamenti comportamentali attraverso i bambini (ancora) disinibiti. Perché, se lo apprezzano, allora ha un futuro» scrive RTV Oos , che ha filmato l’evento.

L’Olanda non è il solo Paese dove ciò sta avvenendo. Come riportato da Renovatio 21, abbiamo visto di recente esperimenti di alimentazione a base di insetti perpetrati in Africa dal governo britannico, così come l’approvazione della UE alla vendita di invertebrati terrestri nel suo territorio.

Tuttavia, è curioso che l’Olanda sia proprio il Paese – peraltro secondo esportatore di prodotti agricoli al mondo – il cui governo sta attaccando con più virulenza la sua stessa agricoltura. Come noto, il governo olandese ha imposto una riduzione del 50% delle emissioni di azoto entro il 2030 in conformità con le idee di Davos, sostenendo che il bestiame rappresenta il 40% delle emissioni di azoto nel Paese.

Laddove non c’è carne, ecco che arrivano gli insetti edibili. Anche questa è una «grande sostituzione»

Di fatto la campagna mondiale per la alimentazione a base di insetti è uno degli sforzi del World Economic Forum, l’organizzazione dell’élite globalista che propugna apertamente il Grande Reset, la riformulazione dell’assetto della società mondiale dove gli interessi e gli ordini delle multinazionali e degli Stati convergono e coincidono perfettamente.

Come riportato da Renovatio 21, grazie anche agli immani investimenti economici di Bill Gates – che compra terreni agricoli, spinge la carne sintetica e l’agricoltura OGM bioingegnerizzata con il CRISPR – è chiaro che è in corso pure un Grande Reset alimentare, che, dopo il golpe farmaceutico avvenuto col Covid, diviene controllo ancora più pervasivo della biochimica di tutta l’umanità.

Fonte: renovatio21




domenica 23 ottobre 2022

LA CANDELA E IL LABIRINTO PARROCCHIALE







Come si accende una candela?



- Concilio di Trento:

“La candela si accende con un fiammifero. Se qualcuno non sostiene che la candela si accende con un fiammifero sia anàtema”.


- Concilio Vaticano II:

“Come affermato dai Padri conciliari nel sacro Concilio di Trento, una candela si accende solo con un fiammifero avvicinato prima ad una fonte di calore, detta fuoco, che può provenire da un accendino o un fornello.
Tuttavia, secondo gli usi e le abitudini di ciascuno, si potrebbe accendere anche direttamente con l’accendino a contatto con lo stoppino, oppure anche con un pezzetto di carta messa a contatto col fuoco, oppure con un accendi gas, oppure con una candela a contatto con l’altra candela che deve però prima essere entrata in contatto con una fiamma, oppure, a seconda delle diverse necessità pastorali locali, con altri mezzi leciti utilizzabili per lo scopo suddetto.


- Labirinto parrocchiale
(o Processo alla candela):

Non è così facile capire come accendere una candela.
Dobbiamo porci in un’ottica di ascolto dello Spirito per capire il senso dell’accendere perché sia un “noi” e non un “io”. Perché mi domando “come accendo la candela?”. Dovrei piuttosto domandarmi “come accendiamo una candela?”.
Bisogna fare in modo che sia un noi inclusivo che parta dal parere di tutti e coinvolga tutti in un “noi” comunitario e non un “io” individuale. Ma anche il “noi” può essere un noi non comunitario ma esclusivista che non abbraccia la totalità di ogni individuo. Ed ecco che allora si rischia di non accendere. Tu credi di aver acceso ma in realtà hai spento.


Organizzazione di una tre giorni per discutere l’argomento.

- Primo giorno:
Riunione preparatoria.
Convocazione dell’equipe per l’accensione (quattro persone)
che dovrà tenere conto di:
parere del consiglio pastorale (le stesse quattro persone), dopo delibera del consiglio per l’accensione delle candele (le stesse quattro persone), sentito il parere del consiglio permanente dei piromani (le stesse quattro persone), con approvazione dei tre quarti della commissione per il coinvolgimento dei laici nell’accensione delle candele (le stesse quattro persone), dopo la delibera del consiglio per la tutela delle api (le stesse quattro persone), dopo il benestare della massima esperta parrocchiale di teologa liturgica Sig.ra Bice Tagliavacche, titolare della Locanda “Il Cinghiale”, ottenuta la convalida delle catechiste sempre che non ritengano che le candele possano spaventare i bambini e quindi esercitare il loro diritto di veto.
- Secondo giorno:
Riunione della riunione.
Dibattito serale in amicizia dalle 21 alle 2.30 del mattino sul tema “candela: opportunità, significato e nuove frontiere”. Interverranno Suor M. Barbagianna e la teologa Piera Rospo. (Al termine agape fraterna in semplicità e gioia con pane raffermo e caffè).
- Terzo giorno:
Riunione dopo la riunione della riunione.
Giornata dei pareri (in cerchio, seduti per terra e possibilmente mal vestiti) dove si ascoltano testimonianze arricchenti e profonde:
“Io la candela l’ho sempre accesa con il fuoco!”
“Io penso che senza fuoco non si possa accendere una candela”.
“Ma chi ha detto che ci vuole per forza il fuoco?”.
“Io personalmente sono rimasto edificato dall’intervento così profondo di Suor Barbagianna che ci ha ricordato una cosa che diamo troppo spesso per scontata ovvero che per accendere una candela ci voglia il fuoco!”
“Sì, ma bisogna anche tenere conto che ogni volta che accendi una candela muoiono 25 trichechi per l’aumento del riscaldamento globale!”.
“Forse se si facesse prima un falò potrebbe essere più dinamico e coinvolgente”
“Io penso che la candela la puoi anche accendere ma devi essere consapevole che in quel momento sei un “noi” onnicomprensivo del tutto”.
In spirito di comunione, saranno invitati a dire la propria opinione anche gli animalisti della Lega internazionale per la salvaguardia delle sogliole.
Arrivati a questo punto, forse si potrebbe anche provare ad accendere la candela. Ma sorge una domanda dalla comunità (le stesse persone dei consigli precedenti): le candele non sono anche elettriche?
In effetti, i tempi sono cambiati e oggi molte candele sono anche elettriche.
Cosa fare perché non si creino recinti di separazione tra coloro che cercano la luce in modo differente seppur unitario?
“Inoltre - nota la Sig.ra Clorinda Ravattino, presidente dell’associazione “Baffute ma cristiane” - il motivo principale per cui le Chiese si svuotano, i giovani vanno via, l’ateismo dilaga è dovuto al fatto che usiamo ancora questo termine vetusto e respingente: candela. Per tutti questi motivi sarebbe ora di cambiare!”
Un’ovazione parte dal consiglio pastorale (quattro persone) che, capitanato da Renzo Polemici del gruppo “Giovani ieri” e sentito il parere del consiglio parrocchiale per l’ortografia e la sintassi liturgica (le stesse quattro persone), coniano la nuova espressione di “fulcro di luce ardente”.
Da oggi non ci saranno più candele ma fulcri di luce ardente!!!
E cos’è un fulcro di luce ardente?
Una candela.
Il Parroco - circondato da tre fucili a canne mozze e una rivoltella alla nuca - approva liberamente.


Conclusioni innovative:



1) Un fulcro di luce ardente va acceso non in un’ottica individualista ma secondo un’apertura di cuore all’altro e ad ogni “io” che intercetta il mio tempo e bisogno.
“Cosa vuol dire?”
Non lo saprà mai nessuno.
“Ci sono esempi?”
La rivoltella di prima è ancora carica, quindi smettila di fare domande inopportune.


2) Non esistono più candele ma fulcri di luce ardente fatti come le candele. Si accendono come una candela ovvero con un fiammifero, pertanto:
la candela si accende con un fiammifero.


- SOLI DEO GLORIA -









venerdì 21 ottobre 2022

Il beato Carlo d’Asburgo: la politica come “servizio santo” ai popoli




Alla Bussola l’arciduca Martino d’Austria-Este parla del nonno, l’ultimo imperatore d’Austria, di cui oggi ricorre la memoria liturgica nell’anniversario delle nozze con Zita di Borbone-Parma. Dall’isola di Madeira, dove morì giovanissimo in esilio nel 1922, al mondo intero è diffusa la devozione verso il sovrano che san Giovanni Paolo II beatificò nel 2004 proponendolo a modello di politico e uomo di pace.




INTERVISTA / MARTINO D'AUSTRIA-ESTE

Stefano Chiappalone, 21-10-2022

Nell’anno del centenario dalla morte, assume un particolare rilievo la memoria liturgica del beato Carlo d’Asburgo (1887-1922), ultimo imperatore d’Austria, che la Chiesa celebra il 21 ottobre, data delle nozze con Zita di Borbone-Parma (1892-1989).

La devozione al santo imperatore è tuttora diffusa nel mondo attraverso la Gebetsliga, la Lega di preghiera nata quando Carlo era ancora bambino, su consiglio di una mistica ungherese, madre Vincenzina: «La gente deve pregare molto per il piccolo arciduca, perché un giorno egli diventerà imperatore; dovrà soffrire molto e sarà un bersaglio speciale da parte dell'inferno».

Salito al trono dopo il lungo regno del prozio Francesco Giuseppe, Carlo si distinse come uomo di pace nel drammatico frangente della Prima Guerra Mondiale, cercando di raccogliere – unico tra i governanti europei – l’appello di Benedetto XV a fermare «l’inutile strage».

Beatificandolo nel 2004 Giovanni Paolo II ricordò che in ogni circostanza, politica e familiare, l’imperatore si impegnava a «cercare in tutto la volontà di Dio, riconoscerla e seguirla» e «concepì la sua carica come servizio santo ai suoi popoli»: una vocazione sacra su cui non poteva “negoziare”, diventando sgradito al nuovo governo repubblicano che ne decretò l’esilio sull’isola di Madeira, dove morì di stenti a soli 35 anni il 1° aprile 1922, lasciando la giovane moglie Zita e otto figli piccoli.

Una figura che non perde di attualità come modello politico e familiare, e incarna per l’Europa odierna un messaggio di riconciliazione tra i popoli e con le proprie radici cristiane, come racconta a La Nuova Bussola Quotidiana S.A.I.R. l’arciduca Martino d’Austria-Este, nipote del beato.



Altezza, partiamo da Madeira: è ancora radicata la devozione al beato Carlo a un secolo dalla morte?
Il pellegrinaggio per il centenario, il 1° aprile a Madeira, proprio sulla tomba del beato Carlo, è stato molto sentito non solo in famiglia, ma anche dalla popolazione locale che nutre grande venerazione per il nonno. La tomba è sempre fiorita, c’è sempre gente che viene a pregare, il vescovo ha celebrato la Messa pontificale… si vede che il beato Carlo è amato a Madeira.

Dunque, c’è una memoria viva, non solo una tomba…

No, assolutamente, al contrario. Dall'aeroporto ho preso un taxi e il tassista mi ha chiesto da dove venivo, cosa facevo, eccetera, e quando ho detto che sono austriaco mi ha risposto: «Ah, ma ci sono tanti suoi connazionali che vengono per il beato Carlo!». Anche la popolazione partecipa e hanno organizzato un anno interamente dedicato a lui.

Ora noi lo vediamo sugli altari, ma per voi nipoti qual era il rapporto con questa figura del nonno, che avete conosciuto indirettamente ma tramite la testimonianza privilegiata dell’imperatrice Zita?
Quando eravamo piccoli non ne parlavamo tanto, forse per pudore, ma anche per una certa discrezione perché già tutto il processo era in essere. Soltanto dopo, quando eravamo più grandicelli, diciamo verso i 12 anni, ce ne hanno parlato di più, ma per noi era il nonno, non “il beato”. Poi abbiamo conosciuto la Liga e partecipato alle riunioni, sia organizzative sia di preghiera, ma molto più tardi.

Tra il beato Carlo e san Giovanni Paolo II c’è un intreccio persino nelle date della morte (rispettivamente 1° e 2 aprile) e ora della memoria liturgica (21 e 22 ottobre). Non è provvidenziale che sia stato beatificato da lui, che si chiamava Karol proprio per l’ammirazione che il padre del futuro Papa nutriva per il giovane sovrano?
Guardi, ho avuto esattamente la stessa impressione, identica: l’ultimo dei cinque beati proclamati quel giorno è stato proprio lui, e parlandone poco dopo noi cugini abbiamo avuto tutti l’impressione che si chiudesse un cerchio.

In precedenza, Giovanni Paolo II aveva ricevuto più di una volta la famiglia Asburgo…

Io ero presente a una di queste udienze ed è stata per noi molto emozionante. Era la messa del mattino, abbastanza presto, e dovevamo cantare. Dopo lui ci ha ricevuto, ci ha salutato tutti, e all’uscita, vedendo me, che sono un po’ più alto della media, mi ha chiesto: «Come va, com’è l’aria lassù?». Con lui ci siamo sentiti veramente in famiglia.

È vero che il Papa si rivolse a sua nonna chiamandola «la mia imperatrice»?

È vero, è vero: io in quell’occasione non ero presente ma tanta gente me lo ha raccontato.


Gli Asburgo hanno fatto la storia d’Europa ma ora hanno l’onore e l’onere di veicolare quei valori umani e cristiani incarnati dal beato Carlo: si può affermare, in qualche modo, che suo nonno vi abbia trasmesso una “vocazione” di famiglia?
Assolutamente, e lo dobbiamo alla nonna, che ha continuato a trasmetterci quei valori, ai nostri genitori, agli zii e alle zie e così via, che hanno sempre tenuto alti quei principi, l’attaccamento alla Chiesa e alla fede. La nonna ci ha trasmesso tutto questo con il suo esempio, lei che ha vissuto cose enormi sul piano storico, ed era sempre discreta, sempre umile. Uno dei frutti consiste anche nelle vocazioni sacerdotali: per tre secoli non ce ne sono state in famiglia e adesso abbiamo dei cugini sacerdoti, tra cui il figlio di un mio cugino che ha fatto una testimonianza anche durante le celebrazioni del centenario. È una ricaduta delle grazie che abbiamo ricevuto dal beato Carlo e attraverso il suo esempio.

Anche sua nonna, l’imperatrice Zita, è “candidata” agli altari?

Sì, è stata proclamata serva di Dio e il processo sta andando avanti.

Un’Europa lontana dalle proprie radici cristiane, può ancora guardare a un imperatore santo? O forse oggi è ancora più necessario?
Ahimè, sì: vede, la storia ha dei ricorsi curiosi. Adesso c’è la guerra in Ucraina, nel territorio che un tempo si chiamava Galizia. Il nonno era stato di stanza proprio lì per due anni, pertanto conosceva bene il Paese. A maggior ragione andrebbe invocato oggi come paladino della pace.

Quindi, non si può relegare questa figura nel passato?

No, no, è proprio qui la bellezza della proclamazione dei beati e dei santi: sono eterni, si possono calare in ogni situazione di ogni tempo. Al giorno d’oggi si può indicare anche lui come esempio di capo di Stato e uomo di pace, ed è proprio quello che ha fatto Giovanni Paolo II. La Gebetsliga sta fortemente ponendo l’accento su questo: uomo di pace, capo di Stato e anche padre di famiglia, visto che ai nostri giorni la famiglia è minacciata. Tutti questi motivi per cui è stato proclamato beato sono oggi da riscoprire.

Altezza, grazie per il tempo che ci ha dedicato…

Sono io che la ringrazio. Il tempo impiegato per il beato Carlo è un tempo investito bene (e glielo dico da uomo pratico, da imprenditore) perché ritorna non solo quando saremo lassù, ma già adesso. E poi devo dire che sono privilegiato: una volta durante una conferenza ho detto che sono “raccomandato”, perché chiedo direttamente al nonno di aiutarmi e guardi che funziona sempre...!






Per la PAV la contraccezione è un male solo quando è abortiva?






BIOETICA | CR 1765

19 Ottobre 2022 

di Fabio Fuiano

Lo scorso luglio è stato pubblicato un nuovo libro di ben 528 pagine, a cura di Mons. Vincenzo Paglia, presidente della Pontificia Accademia per la Vita (PAV), intitolato Etica teologica della vita. Scrittura, tradizione, sfide pratiche (Libreria Editrice Vaticana), che raccoglie gli atti di un seminario di studio promosso dalla medesima Accademia. In esso, tra i vari argomenti trattati, riemerge nuovamente un tema particolarmente ostico, quello della contraccezione. Prendendo spunto dall’enciclica Amoris Laetitia, a p. 304 di questo studio si legge: «La responsabilità nella generazione richiede un discernimento pratico che non può coincidere con l’applicazione automatica e l’osservanza materiale di una norma, come è evidente nella pratica stessa dei metodi naturali. […] Ci sono infatti condizioni e circostanze pratiche che renderebbero irresponsabile la scelta di generare […]».

E quindi prosegue affermando che i due sposi «[…], possono operare un saggio discernimento nel caso concreto, che senza contraddire la loro apertura alla vita, in quel momento, non la prevede. La scelta saggia verrà attuata valutando opportunamente tutte le tecniche possibili in riferimento alla loro specifica situazione ed escludendo ovviamente quelle abortive» (enfasi aggiunta).

Secondo la Teologia Morale, la contraccezione è intesa come una «regolamentazione delle nascite, viziata o per la intenzione di chi la compie o per i mezzi posti in opera per attuarla» (Dizionario di Teologia Morale, Roberti-Palazzini, Editrice Studium, 1955, vol. 1, pp. 449-451). Il male della contraccezione si situa dunque sul piano dei fini e/o dei mezzi. Nonostante siano passati tre mesi, l’argomento non perde la sua attualità. Pertanto, quel che segue vuole essere un umile contributo a dissipare la confusione nell’attuale dibattito, in quanto qui è in gioco direttamente la salvezza delle anime e, come si sa, la salvezza delle anime è la legge suprema della Chiesa.

Lo studio della PAV sottolinea, giustamente, che tra i diversi mezzi contraccettivi, in special modo quelli ormonali (es. pillola del giorno dopo o pillola dei cinque giorni dopo), possono presentarsi dei meccanismi d’azione volti non solo ad impedire l’incontro dei gameti maschile e femminile (effetto contraccettivo strictu sensu), ma talvolta, pur non impedendo tale incontro, anche ad ostacolare l’impianto in utero dell’ovulo già fecondato, essere umano in nuce, provocandone direttamente la morte (effetto abortivo e non più contraccettivo). Ma la posizione manifestata dalla PAV, secondo la quale gli sposi potrebbero valutare “tutte le tecniche possibili escludendo quelle abortive” risulta, in definitiva, difettosa in quanto mette in discussione la possibile abortività di certi contraccettivi ma non la contraccezione in sé. Se ci si trova davanti a contraccettivi che operano solamente secondo effetti contraccettivi, come ad esempio i c.d. “contraccettivi di barriera” (condom sia maschili che femminili) è possibile ammetterne la liceità come questo documento sembra fare? Una volta studiati i mezzi, è fondamentale analizzare i fini dell’atto e capire se sono o meno conformi alla natura dell’uomo. Infatti, come ha ricordato la prof.ssa Giorgia Brambilla in un’intervista del 31 luglio scorso: «La “natura”, in senso fisico-finalistico, esprime l’essenza di una cosa (“ciò che è”) in quanto ordinata al proprio fine, in quanto principio di attività e operazioni che hanno ciascuna un proprio fine e che concorrono, però, al fine complessivo e totalizzante di quell’essere. È la natura di qualcosa che ci indica quando siamo davanti a una assenza di bene-perfezione-essere che è anche “privazione”, cioè “male”. Ed è la sua natura a dirci quando il bene è, in qualche modo, “dovuto”. Quando ci chiediamo cosa è bene o male nell’ambito della sessualità, dobbiamo allora partire dalla considerazione della natura dell’atto sessuale e dunque dal suo fine intrinseco».

Dunque, è necessario ribadire che il tema non può essere compreso a pieno senza un’idea chiara di cosa sia il matrimonio e dei fini che esso si prefigge (senza i quali non c’è matrimonio). Per brevità, si escluderanno dalla trattazione tutti quegli atti effettuati al di fuori del vincolo coniugale che, secondo l’insegnamento perenne della Chiesa, costituiscono sempre un intrinseco disordine e sui quali, dunque, non dovrebbero esserci dubbi circa l’illiceità morale (il condizionale, purtroppo, è d’obbligo).

I suddetti fini sono stati mirabilmente descritti dal papa Pio XII, in un discorso tenuto all’Unione Cattolica Italiana Ostetriche, il 29 ottobre del 1951 (enfasi aggiunta): «[…] la verità è che il matrimonio, come istituzione naturale, in virtù della volontà del Creatore non ha come fine primario ed intimo il perfezionamento personale degli sposi, ma la procreazione e la educazione della nuova vita. Gli altri fini, per quanto anch’essi intesi dalla natura, non si trovano nello stesso grado del primo, e ancor meno gli sono superiori, ma sono ad esso essenzialmente subordinati. Ciò vale per ogni matrimonio, anche se infecondo; come di ogni occhio si può dire che è destinato e formato per vedere, anche se in casi anormali, per speciali condizioni interne ed esterne, non sarà mai in grado di condurre alla percezione visiva».

Per chi ritiene che un tale insegnamento vada a scapito del fine unitivo del matrimonio, il Pontefice risponde, nel medesimo documento: «Si vuole forse con ciò negare o diminuire quanto vi è di buono e di giusto nei valori personali risultanti dal matrimonio? Non certamente, poiché alla procreazione della nuova vita il Creatore ha destinato nel matrimonio esseri umani fatti di carne e di sangue, dotati di spirito e di cuore, ed essi sono chiamati in quanto uomini e non come animali irragionevoli, ad essere gli autori della loro discendenza. A questo fine il Signore vuole l’unione degli sposi».

Questo insegnamento, seppur messo in discussione, rimane sempre valido perché fondato nella Tradizione della Chiesa e nella Sacra Scrittura (cfr. Gen. 1, 27-28 e 2, 18-23). È interessante notare come san Tommaso d’Aquino, ad esempio, paragona il matrimonio alla nutrizione, argomentando che il matrimonio tende di per sé alla procreazione, proprio come la nutrizione ha come fine principale la conservazione della vita (Supplemento della Summa, q. 65, a. 1). E non si ferma qui, ma classifica il male della contraccezione immediatamente dopo l’omicidio, in quanto il primo distrugge la natura umana e il secondo la previene dal venire all’essere (Contra Gentes, 1, 3, c. 122).

Ebbene, la contraccezione è una esplicita contraddizione del fine primario del matrimonio, motivo per cui Pio XI, nella sua enciclica Casti Connubii, del 31 dicembre 1930, affermò: «[…] non vi può esser ragione alcuna, sia pur gravissima, che valga a rendere conforme a natura ed onesto ciò che è intrinsecamente contro natura. E poiché l’atto del coniugio è, di sua propria natura, diretto alla generazione della prole, coloro che nell’usarne lo rendono studiosamente incapace di questo effetto, operano contro natura, e compiono un’azione turpe e intrinsecamente disonesta».

È utile aggiungere che, nelle recenti encicliche Humanae Vitae (25 luglio 1968), di Paolo VI e Familiaris Consortio di Giovanni Paolo II (22 novembre 1981), si è evidenziato come la contraccezione costituisca anche un attacco al fine secondario del matrimonio. Questi, in definitiva, sono i motivi principali per cui la contraccezione va combattuta in se stessa e non solo in funzione della possibile abortività di determinate tecniche contraccettive. Limitare la discussione a quest’ultimo aspetto risulterebbe miope e non permetterebbe un integrale contrasto del male insito in questi atti e le sue conseguenze più gravi, prima fra tutte una mentalità profondamente edonista (che relega il fine dell’atto coniugale al solo piacere) causa di gravi delitti, come l’aborto procurato, extrema ratio di una contraccezione che, non di rado, fallisce.




giovedì 20 ottobre 2022

L’assurdità di piegare l’etica per non essere divisivi





 Di Silvio Brachetta, 20 OTT 2022

Nell’ultima scontata intervista [qui], il card. Matteo Maria Zuppi conferma la deliberata cancellazione dei «principi non negoziabili» dall’agenda della Cei, per via del loro essere divisivi. E, anzi, in quanto prassi, la fede del cattolico in politica – dice – «è di tutti e non può essere divisiva».

Tramontata, in modo definitivo, l’agenda Ratzinger-Ruini, Zuppi ritiene che il cattolico in politica, sia pure «mai rinunciando alle proprie convinzioni», debba scendere a compromessi. E difatti, secondo il cardinale, queste convinzioni servono a «tradurre l’etica» in «scelte a seconda delle necessità e delle opportunità». Non sono dunque le necessità e le circostanze storiche che vanno tradotte, comprese e, se necessario, smontate e ricostruite rispetto alla verità, ma è l’etica – che Zuppi chiama «visione cristiana» – che va tradotta e adattata alle circostanze storiche e fluide.

Il cattolico, cioè, «deve tradurre la dottrina sociale sempre con la necessaria mediazione e laicità, che poi è la storia comune a tutti». Ecco, la dottrina sarebbe allora qualcosa di poco chiaro o di astratto, da interpretare e sistemare tra le pieghe della storia. Le pieghe dovrebbero restare come sono: è la dottrina invece destinata a piegarsi nel solco delle pieghe.

L’impianto del discorso traballa anche solo a partire dal cattolico e dalle «proprie convinzioni» o dalla sua «visione cristiana». Da decenni s’è imposta la norma del cattolico non solo indifferente all’etica, ma del tutto a favore di aberrazioni morali come l’aborto, la distruzione del matrimonio o l’eutanasia. Nessuna visione cristiana a monte, dunque, se non in pochi casi isolati.

Ma il discorso del Presidente della Cei è inaccettabile per motivazioni legate alle fondamenta stesse della fede. Zuppi mette Dio e l’amore al centro di tutto, così come appunto dev’essere. Tralascia, però, secondo un uso più che consumato, di declinare l’amore secondo la giustizia, riducendolo alla misericordia. Se l’amore fosse declinato secondo giustizia – secondo questo suo schema – non sarebbe più «incontro», «comunione», «presenza», ma «forza di occupazione», «sistema intellettuale», «conservativo».

Che l’amore, al contrario, sia anche giustizia non è solo indicato dalle realtà spirituali (inferno, purgatorio), ma pure da quelle temporali. E, anzi, le realtà temporali hanno il dovere di amministrare la giustizia, come afferma san Paolo, non di occuparsi di misericordia: «il magistrato non porta la spada inutilmente, essendo ministro di Dio, e vindice nell’ira divina per chi fa il male» (Rm 13, 4).

San Paolo dice chiaramente che è dovere dell’autorità lodare il bene e sanzionare il male (cf. Rm 13, 3-4). L’autorità, inoltre, non è contro Dio: «Ogni persona sia sottoposta alle autorità superiori; perché non v’è podestà se non da Dio, e quelle che sono, son da Dio ordinate» (Rm 13, 1). Uno dei valori (e tra le virtù primarie) della Dottrina sociale della Chiesa c’è la giustizia, declinata in giustizia commutativa, distributiva e legale (cf. Compendio di DSC, n. 201). Tra queste, la «giustizia sociale», in quanto «esigenza connessa alla questione sociale», «rappresenta un vero e proprio sviluppo della giustizia generale, regolatrice dei rapporti sociali in base al criterio dell’osservanza della legge» (ivi).

Non v’è altro senso, quindi, nel concetto di «principi non negoziabili», se non quello di realizzare la giustizia nell’ambito della famiglia e della vita. La giustizia, in questo senso, procede dall’amore ed è la vocazione primaria di chi fa politica.

Da questo punto di vista, la prosa del cardinale è molto astratta e non coglie la sostanza di nessuna questione particolare, che abbia a che fare con l’etica (o con la bioetica). Che significato possono avere affermazioni di questo tipo, se non la pura astrazione? – «la presenza è stare per strada»; «il carisma è un dono e va speso»; «ci troviamo sommersi da tante domande che riguardano la sfera dell’umano».

Ha insomma ragione l’intervistatore: «Il cardinale Zuppi cesella le parole con la lima». E infatti le sue parole sono molto belle, tante belle parole.

Silvio Brachetta






Si può profanare una chiesa. Lo ha stabilito la Corte europea




20 OTT 22


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by Aldo Maria Valli

Qualche giorno fa Josep Borrell, capo della diplomazia europea, ha dipinto l’Europa come “un giardino” abitato da “persone privilegiate” ma circondato dalla “giungla”, cioè il resto del mondo, dalla quale occorre difendersi. Molto bene. Ecco un assaggio di quanto avviene in questo bel giardino.


***

osservatoriocristianofobia.it

Un giornale italiano, Il Messaggero, ha così riassunto quanto è successo: “In Francia, profanare una chiesa per protestare è legittimo. Lo ha stabilito la Corte europea”.

I fatti

Correva l’anno 2013, quando una donna di nome Eloise Bouton, militante delle cosiddette Femen è entrata nella centralissima Chiesa della Maddalena a Parigi. (Le Femen sono quel movimento femminista radicale di protesta, diventato famoso per la pratica di manifestare, anche in chiese, mostrando i seni).

Semi-nuda, con un velo azzurro sulla testa e le braccia aperte come sulla croce, questa militante radicale non soltanto ha mimato la Madonna che abortiva Gesù, lasciando brandelli di fegato di vitello sanguinolenti ai piedi dell’altare – simbolo di Gesù abortito – ma ha anche urinato sui gradini dello stesso.



A questo sacrilegio erano presenti una decina di giornalisti, preventivamente avvertiti dall’attivista radicale delle Femen.

Eloise Bouton è stata, in seguito al suo atto blasfemo, denunciata e condannata dai tribunali francesi, in tutti i gradi di appello, a un mese di carcere, con la condizionale, e un’ammenda di duemila euro per “un’esibizione sessuale all’interno della chiesa parigina della Madeleine”.



“Un’inezia, in confronto ai fatti”, ha commenta giustamente il sito della Nuova Bussola Quotidiana.

Secondo il giornale francese Le Figaro, l’attivista voleva denunciare l’insegnamento della Chiesa in materia di aborto. Il suo avvocato aveva allora gridato allo scandalo perché nella decisione dei giudici “ha pesato il carattere cultuale del luogo dove è stato commesso la presunta infrazione”.



Condannata in Francia, la Femen Bouton ha deciso di far appello alla Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu).

E ha vinto!!!

Con una decisione pubblicata questo 13 ottobre – Bouton v France – i sette giudici della Cedu hanno stabilito, all’unanimità, che un’attivista a seno nudo che sull’altare di una chiesa simula di abortire Gesù, che urina sull’altare, che avvilisce la Fede Cristiana, che insulta i cristiani, “ha semplicemente esercitato la sua libertà di espressione”.

Questa Corte europea ha deciso che il gesto della attivista della Femen “ha avuto come unico obiettivo quello di contribuire, attraverso una performance volutamente provocatoria, al dibattito pubblico sui diritti delle donne, in particolare sul diritto all’aborto”.



Adesso, oltre al danno viene la beffa: la Corte europea ha condannato lo Stato francese – dunque i suoi contribuenti – a risarcire con 9.800 euro questa attivista delle Femen.

Il commento su Tempo.it va diritto al punto: “Adesso i cittadini europei sono liberi di profanare i luoghi di culto cristiani, di offendere il sentimento religioso dei credenti e di compiere atti osceni all’interno di una chiesa”.

Cosa fare?

L’European Centre for Law and Justice (ECLJ) – l’influente organizzazione internazionale dedita alla promozione e alla protezione dei diritti umani – ha già fatto un primo intervenuto presso la Corte europea dei diritti dell’uomo, il Parlamento europeo e il Consiglio per i diritti umani, per la difesa dei diritti dei cristiani di praticare e vivere la propria Fede.

Perché, come denuncia l’ECLJ, i cristiani in Europa sono diventati la categoria di persone più perseguitata a causa della Fede:



– ogni giorno in Europa le chiese vengono profanate, bruciate; statue spezzate; l’incomprensione e l’odio verso Cristo e i cristiani si diffondono nella società;

– persone di origine musulmana che si convertono al cristianesimo sono spesso perseguitate, costrette a vivere la loro Fede nella clandestinità;

– le manifestazioni pubbliche cristiane sono sempre più censurate e anche le basilari dichiarazioni di fede nei discorsi pubblici vengono censurate e perseguite.

Malgrado il fatto che la Corte europea dei diritti dell’uomo non sia un organo dell’Unione europea, le sue sentenze hanno comunque una efficacia esecutiva “indiretta”, nel senso che obbligano gli Stati membri, come è il caso della Francia e anche dell’Italia, ad adeguarsi.



Da parte sua, anche l’Osservatorio sulla cristianofobia interverrà presso la Commissione europea e il Parlamento europeo, chiedendo che misure concrete siano prese perché la Fede cristiana, i diritti e i sentimenti dei cristiani vengano non soltanto rispettati ma garantiti all’interno della Comunità europea.

Uniti insieme ad altre realtà, possiamo ottenere risultati concreti per la difesa dei diritti dei cristiani all’interno dell’Europa.

Fonte: osservatoriocristianofobia.it

Foto: Ansa