martedì 31 agosto 2021

Michael Fiedrowicz su Traditionis Custodes. “Non sanno nemmeno cosa è stato loro tolto” : “Ricorda moltissimo 1984 di George Orwell”


cancellazione, damnatio memoriae



Da Chiesa e postconcilio di martedì 31 agosto 2021

Riprendo da Rorate Caeli, nella nostra traduzione, un articolo del Prof. Dr. Michael Fiedrowicz, esperto di storia e liturgia della chiesa e autore di un ottimo libro accademico sulla Messa antica: “La Messa tradizionale: Storia, Forma e teologia del rito romano classico” (Angelico Press, 2020). Questo scritto è apparso prima negli “IK-Nachrichten” dell'associazione Pro Sancta Ecclesia e poi il 30 agosto su CNA-Deutsch. Il professor Fiedrowicz insegna Patrologia e Archeologia cristiana presso la Facoltà di Teologia di Treviri, Cattedra di Storia della Chiesa antica. È un sacerdote dell'arcidiocesi di Berlino. Qui l'indice dei precedenti e correlati.



“Non sanno nemmeno cosa è stato loro tolto”


Prof. Dr. Michael Fiedrowicz

Il 16 luglio 2021, festa della Madonna del Carmine, è stata promulgata l'Esortazione apostolica in forma di Motu proprio Traditionis custodes sull'uso della Liturgia romana prima della riforma del 1970. L'articolo 1 recita: “I libri liturgici promulgati dai Papi san Paolo VI e san Giovanni Paolo II in conformità ai decreti del Concilio Vaticano II sono l'unica espressione (l'unica espressione ) della lex orandi del rito romano."
Per apprezzare le piene implicazioni di questa disposizione, è necessario sapere che il termine lex orandi - la legge o regola della preghiera - fa parte di una formula più ampia coniata nel V secolo. Il monaco latino (della Gallia) Prospero d'Aquitania, tra il 435 e il 442, formulò il principio: “affinché la regola della preghiera determini la regola della fede” (ut legem credendi lex statuat supplicandi). Sullo sfondo c'era una controversia teologica sulla grazia. La questione era se il primo inizio della fede (initium fidei) procedesse anche dalla grazia di Dio o solo dalla decisione dell'uomo. Egli ha fatto riferimento alla preghiera di intercessione e di ringraziamento della Chiesa, significativa per la dottrina della grazia: «Ma teniamo conto anche dei misteri delle preghiere sacerdotali, che, tramandate dagli apostoli, sono solennemente offerte uniformemente in tutto il mondo e in tutta la Chiesa cattolica, perché la regola della preghiera determini la regola della fede» (indiculus 8). Prospero enumera poi varie richieste fatte dalla Chiesa nelle sue preghiere ufficiali e ne deduce la necessità della grazia divina, poiché altrimenti la richiesta e il ringraziamento della Chiesa sarebbero inutili e senza senso. Per Prospero, quindi, la fede della Chiesa si manifesta nella preghiera della Chiesa, così che la preghiera ufficiale della Chiesa è il metro con cui deve essere letta la fede della Chiesa.

Già il suo maestro, Agostino, aveva sviluppato l'idea che la preghiera della Chiesa testimonia la sua fede e la rende riconoscibile. Il principio lex orandi–lex credendi era ormai parte della comprensione di base della dottrina cattolica. La liturgia, al pari della Scrittura e della Tradizione, è un locus theologicus, un luogo di esposizione, una fonte di conoscenza e una testimonianza di ciò in cui crede la Chiesa. Papa Pio XII definì la liturgia “un riflesso fedele della dottrina tramandata dai nostri antenati e creduta dal popolo cristiano” (Lettera enciclica Ad Coeli Reginam, 1954). Parimenti, ha sottolineato, «l'insieme della liturgia, dunque, contiene la fede cattolica in quanto testimonia pubblicamente la fede della Chiesa» (Enciclica Mediator Dei, 1947).


L'unica espressione di tutti gli elementi del Rito Romano?



Papa Francesco, però, ora definisce, o meglio riduce, la liturgia del rito romano a quella che è espressa nei libri liturgici promulgati da Paolo VI e Giovanni Paolo II. Questi libri sono “l'unica espressione della lex orandi del rito romano”. Se si assume il significato originale [vale a dire, alla lettera] della terminologia qui usata, allora anche la lex credendi - ciò che si deve credere - dovrebbe essere presa solo da quei libri. Ma è proprio vero? Questi libri sono davvero gli unici sufficienti a poter desumere da essi la fede cattolica?


Certamente, la lettera papale che accompagna il motu proprio suggerisce che tutto l'essenziale del rito romano prima della riforma liturgica si trova anche nel messale di Paolo VI: «Chi volesse celebrare con devozione secondo l’antecedente forma liturgica non stenterà a trovare nel Messale Romano riformato secondo la mente del Concilio Vaticano II tutti gli elementi del Rito Romano, in particolare il canone romano, che costituisce uno degli elementi più caratterizzanti». Tralasciando l'esperienza della pratica liturgica, dove il Canone romano non è quasi mai usato nel Novus Ordo - né nelle funzioni parrocchiali, né nelle chiese episcopali, né nelle liturgie papali - bisogna chiedersi se effettivamente «tutti gli elementi del rito romano» si trovano nei nuovi libri liturgici. A questa domanda può rispondere affermativamente solo chi considera obsoleto molto di ciò che ha caratterizzato per secoli il rito romano e ne ha costituito la ricchezza teologico-spirituale, come è evidentemente il caso di papa Francesco.


Riforma liturgica: damnatio memoriae



Ciò includerebbe tutto ciò che è stato sradicato dalle forze trainanti della riforma liturgica, sia per accogliere i protestanti in uno sforzo ecumenico fuorviante o per soddisfare la presunta mentalità dell'"uomo moderno".

Per citare solo alcuni esempi: Nella gerarchia liturgica le feste dei santi furono abolite o degradate. Le preghiere dell'offertorio con l'idea chiara e univoca del sacrificio furono sostituite da una preghiera di benedizione nella mensa ebraica. Il Dies irae, la struggente rappresentazione del Giudizio Universale, non era più tollerato nella Messa da Requiem. L'avvertimento dell'Apostolo Paolo nell'epistola del Giovedì Santo che chi si comunica indegnamente mangia e beve la sua condanna (1 Cor 11,27) è stato omesso. Le Orazioni: quei “gioielli più belli del tesoro liturgico della Chiesa” (Dom Gérard Calvet OSB), che sono tra le componenti più antiche del suo patrimonio spirituale e sono completamente imbevute di dogma, costituiscono praticamente una 'summa theologica' in nuce, esprimendo integralmente e concisamente la fede cattolica... Le sole Orazioni del Rito Classico, di cui solo una piccolissima parte è stata incorporata senza modifiche nel Messale di Paolo VI, contengono e conservano numerose idee affievolite o del tutto scomparse nelle versioni successive modificate, ma che appartengono indissolubilmente alla fede cattolica: distacco dai beni terreni e nostalgia dell'eterno; la lotta contro l'eresia e lo scisma; la conversione dei non credenti; la necessità di ritornare alla Chiesa cattolica e alla verità genuina; meriti, miracoli, apparizioni dei santi; L'ira di Dio contro il peccato e la possibilità della dannazione eterna. Tutti questi aspetti sono profondamente radicati nel messaggio biblico e hanno inequivocabilmente plasmato la pietà cattolica per quasi due millenni.

Oltre a queste modifiche dirette allo stesso Rito Romano, però, non vanno dimenticati gli altri aspetti concomitanti che rivelano una concezione di fondo profondamente mutata della Santa Messa [una sintesi qui]: preziosi altari maggiori distrutti, sostituiti da mense; preziosi paramenti bruciati o svenduti; “Tinnef and Trevira” (M. Mosebach) fecero il loro ingresso,[1] il canto gregoriano e la lingua sacra latina furono banditi dalla liturgia. L'approccio della riforma liturgica ricorda in parte la damnatio memoriae nell'antica Roma, la cancellazione della memoria dei governanti sgraditi. I loro nomi sugli archi di trionfo furono cancellati, le monete con le loro immagini fuse. Niente dovrebbe più ricordarcelo. Tutti i cambiamenti effettivamente avvenuti nel corso delle riforme liturgiche assomigliano inequivocabilmente a una damnatio memoriae, una deliberata cancellazione della memoria della liturgia cattolica tradizionale. [vedi effetti sottolineati di Michael Davies qui]


Paralleli nel IV secolo



Nella storia della Chiesa ci sono state svariate volte situazioni simili. A metà del IV secolo furono negate la divinità di Cristo e quella dello Spirito Santo: Figlio e Spirito erano solo creature di Dio. Vescovati e chiese erano ampiamente nelle mani degli eretici ariani. Coloro che rimasero ortodossi si riunirono in luoghi remoti per adorare. Nel 372, il vescovo Basilio di Cesarea diede una commovente descrizione della situazione:

Gli insegnamenti dei padri sono disprezzati, le tradizioni apostoliche sono ignorate e le chiese sono piene delle invenzioni degli innovatori. I pastori sono stati cacciati e al loro posto portano lupi rapaci per sbranare il gregge di Cristo. I luoghi di preghiera sono abbandonati da coloro che vi radunavano, le lande desolate sono piene di gente che piange. Gli anziani si lamentano mentre confrontano il tempo passato con il presente; i giovani sono ancora più da compiangere perché non sanno nemmeno cosa è stato loro tolto. (Epistula 9:2)



Queste parole del IV secolo si applicano senza dubbio anche alle generazioni nate dopo il Concilio: da lungo tempo non sanno nemmeno cosa sia stato loro tolto, perché conoscono solo l'aspetto attuale della Chiesa.


Due espressioni o una?



Papa Benedetto XVI, con il motu proprio Summorum Pontificum del 7 luglio 2007, ha reso nuovamente accessibili i tesori dell'immacolato deposito di fede della Chiesa, affinché le giovani generazioni possano ora conoscere nuovamente e testimoniare con la propria esperienza ciò che originariamente era stato loro tolto. L'allora pontefice parlò di “due espressioni della lex orandi della Chiesa”, l'espressione ordinaria (ordinaria expressio) che si trova nel Messale promulgato da Paolo VI, e l'espressione straordinaria (extraordinaria expressio) che si trova nel Messale Romano riedito da San Pio V e Giovanni XXIII (SP, art. 1) [sulle “due forme” vedi]. Nel suo più recente motu proprio, papa Francesco, nella scelta delle parole e della struttura della frase, si riferisce direttamente a questo passaggio (espressione della 'lex orandi'), ma ad essa si pone in modo diametralmente opposto determinando ormai solo una “forma espressiva unica” (l'unica espressione) della lex orandi valida (TC, art. 1).


Ma quale significato può ancora rivendicare la forma tradizionale della liturgia per la coscienza di fede della Chiesa? Se il recente motu proprio e la lettera di accompagnamento rendono subito evidente che il vero obiettivo a medio o lungo termine è la totale distruzione della liturgia tradizionale, e che per il momento è ancora concesso un periodo di grazia con drastiche restrizioni che mirano rigorosamente a prevenire ogni possibilità di una sua ulteriore espansione, allora, qualora la resistenza decisiva non dovesse concretizzarsi, il lamento di Basilio il Grande sulla sorte della generazione più giovane del suo tempo risuonerà ancora una volta con forza rinnovata: "Poiché non sanno nemmeno cosa è stato loro tolto".

 
Salvare la Sposa di Cristo dall'amnesia


I nuovi regolamenti emanati ricordano spaventosamente ciò che l'autore George Orwell descrisse come una desolante visione del futuro nel suo romanzo del 1948 1984. C'è la dittatura di un Partito, che governa in uno stato totalitario: "Il Grande Fratello ti guarda". In questo stato ci sono diversi ministeri. Il Ministero della Pace prepara le guerre. Il Ministero dell'Abbondanza gestisce l'economia socialista della scarsità. Non si parla di un Ministero della Salute, ma c'è un Ministero della Verità, che diffonde la propaganda ufficiale della menzogna: il partito ha sempre ragione. Perché ciò avvenga, ogni ricordo del passato deve essere cancellato. Non devono essere più possibili confronti; tutto deve sembrare senza alternative. Il Ministero della Verità è impegnato a cambiare tutto ciò che ricorda il passato e potrebbe rendere possibile un simile confronto. Orwell scrive:

Già non sappiamo quasi letteralmente nulla della Rivoluzione e degli anni precedenti la Rivoluzione. Ogni documento è stato distrutto o falsificato, ogni libro è stato riscritto, ogni quadro è stato ridipinto, ogni statua, strada ed edificio è stato rinominato, ogni data è stata alterata.[2]

Associare le parole di Orwell al recente Concilio non sembra illegittimo, dal momento che il Vaticano II è stato ampiamente celebrato come una "rivoluzione della Chiesa dall'alto". La situazione paradossale si presenta così: affinché la Sposa di Cristo, la Chiesa, sia preservata dall'amnesia, dalla perdita della memoria, i cattolici fedeli alla tradizione dovranno ora dimostrarsi controrivoluzionari, i fedeli conservatori dovranno assumere il ruolo dei ribelli, per essere infine trovati ad essere se stessi, dinanzi al giudizio della storia e soprattutto agli occhi di Dio, i veri e unici tradizionis custodes, custodi della tradizione, che davvero meritano questo nome.


[Traduzione a cura di Chiesa e post-concilio]
________________________
[1] "Tinnef" significa articoli realizzati con plastica riciclata. “Trevira” è un tipo di tessuto in poliestere.
[2] Edizione Signet Classics, p. 155.








lunedì 30 agosto 2021

INVESTIGATORE BIBLICO: I traduttori scambiano le preposizioni semplici massacrando il vero senso del Concepimento di Maria: attenzione, pericolo di avvelenamento!



Indizio n.75 Bibbia CEI 2008: “I traduttori scambiano le preposizioni semplici massacrando il vero senso del Magnificat e del Concepimento di Maria: attenzione, pericolo di avvelenamento!” di INVESTIGATORE BIBLICO

Postato il 26/08/2021 di Investigatore Biblico



Voglio ringraziare i lettori che mi hanno segnalato questo errore. Celebrando ogni giorno il vespro e utilizzando la traduzione del 1974, mi era sfuggito questo errore di traduzione all’interno del Magnificat nella traduzione CEI 2008.

Per inciso, voglio sottolineare quanto siano importanti le segnalazioni degli amici lettori. Nessuno si senta inadeguato o mi esprima perplessità in quanto non in possesso di un titolo di studio. Non è un contest culturale.
Chiunque senta nel suo cuore una nota stonata, ve ne prego, continui a segnalare!
Il vostro aiuto in questa impresa è cruciale. Un ottimo aiuto è avere a disposizione il testo del 1974 come punto di riferimento.

Analizziamo l’errore in oggetto:

CEI 1974: “Grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente” (Lc 1,49);
CEI 2008: “Grandi cose ha fatto per me l’Onnipotente” (Lc 1,49).

Il testo greco recita:
“ὅτι ἐποίησέν μοι ⸀μεγάλα ὁ δυνατός”.
Traducendo in modo letterale riportiamo:
oti: che
epoiesen: fatto
moi: me
megala: grande
o dunatos: l’Onnipotente

Il pronome “moi” nel versetto in esame non può essere assolutamente tradotto con “per me”.
Il contesto stesso ci porta all’esatta traduzione: “in me”.

[I pronomi personali greci]

La Vulgata traduce dal greco:

Quia fecit mihi magna”: “Grandi cose ha fatto in me”

[Fecit mihi magna qui potens est]



Come sempre, notiamo l’apparente ‘differenza da nulla’: un pronome, un articolo, una preposizione. Ma la differenza, anche questa volta, è importante.

Usando l’espressione grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente, si manifesta e si esplicita in modo chiaro il dogma del Concepimento di Maria per opera dello Spirito Santo (IN ME, ‘dentro di me’). Il Signore ha fatto grandi cose “dentro di me”. A un cristiano di Fede la questione è chiarissima.

In contrapposizione, l’espressione grandi cose ha fatto per me è una banalizzazione e generalizzazione, che assume pure un significato diverso, offuscando di riflesso l’Opera e l’Onnipotenza di Dio.

Ha fatto per me può suggerire tutto tranne che il vero messaggio. Dio ‘fa qualcosa per Maria’, ‘a favore di Maria’, ‘per fare un favore a Maria’, ‘a beneficio di Maria’, ‘per nome di Maria’, ecc.

Annullando l’importanza, al contrario, di ciò per cui Maria è serva e serve a Dio.

Siamo all’ABC dell’italiano, amici lettori, e della dottrina cattolica.

Comprendete quanto insidiosa può essere una traduzione pur cambiando una semplice particella del linguaggio?

Posso io non avere sospetti di volontarietà in queste modifiche?


Non sono aggiornamenti (la Parola di Dio non è un software). Sono deviazioni del significato.

L’intento dei traduttori 2008 suona ormai come un progetto sottile e insidioso: quello di far ascoltare alla gente in modo continuo e costante – nella Santa Messa, nella Liturgia delle Ore, nelle Letture personali, ecc – deviazioni dell’Annuncio – eresie -, allo scopo di renderle familiari all’orecchio, fino a quando venga ridotto al nulla il vero senso religioso, sommerso dall’opera soporifera della menzogna addolcita.

Stasera potrete notare qualche parola meno diplomatica in questi tratti di inchiostro virtuale. Tuttavia una cosa l’ho sempre affermata in queste mie riflessioni: si tratta della Parola di Dio.

Quando una traduzione è errata, stona all’orecchio e al cuore del cristiano semplice.
Questa è l’unica vittoria di cui possiamo andare fieri.

Questo blog è stata un’idea che mi ha pervaso da tempo. Ma nella totale sincerità, pensavo di scrivere qualche articolo, qualche caso sparso, e poi chissà.
Mi sbagliavo.

Errare è umano, perseverare è diabolico.
Per questo affermo che dietro queste nuove tendenze di traduzione alberga la malafede di chi si serve della Sacra Scrittura per sminuire l’opera di Dio, violentando la Parola di Dio.

Grazie di nuovo della prolifica segnalazione, e chiedo ai lettori di non desistere mandandomi le proprie scoperte e sospetti.
Del resto, il caso è ancora aperto.
Dio ci benedica.

Investigatore Biblico












domenica 29 agosto 2021

Lettera di gratitudine del Card. Raymond Leo Burke




Traduzione di Sabino Paciolla.




Sia lodato Gesù Cristo!

Nel Sacro Cuore di Gesù e attraverso il Cuore Immacolato di Maria, esprimo profonda gratitudine a Dio, che mi ha portato a questo punto di guarigione e recupero. Come precedentemente comunicato dalla direzione e dal personale del Santuario di Nostra Signora di Guadalupe, per il quale esprimo anche il mio profondo apprezzamento, non sono più intubato con un ventilatore medico. Sono stato trasferito dall’Unità di Terapia Intensiva Medica e mi sono sistemato in una stanza d’ospedale, dove i medici, le infermiere e tutto il personale dell’ospedale hanno prestato un’assistenza medica vigile, superba e costante. Ringrazio di cuore anche questi scrupolosi professionisti, come pure i sacerdoti che mi hanno assistito sacramentalmente. A coloro che hanno offerto innumerevoli rosari e preghiere, acceso candele e richiesto l’offerta della Santa Messa, estendo la mia sincera gratitudine e chiedo al Signore e a Sua Madre di benedirvi tutti. Ringrazio anche i miei fratelli vescovi e sacerdoti che hanno offerto la Messa per me o pregato per me all’altare.

Questa generosa effusione di grazia mi unisce a voi in modo speciale, così come sono particolarmente unito a tutte le vittime che soffrono gli effetti del virus COVID-19. Con tutto il mio cuore, vi esprimo il mio desiderio di poter rispondere ad ogni telefonata, messaggio e e-mail. Tuttavia, a causa della riabilitazione intensiva che inizierò presto, fornire una risposta al di là di queste lettere circolari non sarà possibile. Nella vostra carità, so che capirete questa circostanza e accetterete che devo preservare la mia energia per poter recuperare la mia salute e la mia forza. Il regolamento dell’ospedale limita le visite ai membri immediati della famiglia. Durante il prossimo lungo periodo di convalescenza, è mia intenzione fornire solo aggiornamenti occasionali quando ci sarà qualcosa di significativo da condividere con voi.

Il Santuario di Nostra Signora di Guadalupe ha accettato il necessario e cruciale ruolo di comunicazione diretta, in mio nome. Ancora una volta, nella vostra gentilezza, posso chiedervi di indirizzare tutte le vostre comunicazioni a me attraverso il sito web del Santuario, a GuadalupeShrine.org/MessageCardinalBurke.

Ultimamente mi è tornato in mente il motto che ho adottato quando sono stato scelto per l’episcopato: “Secundum Cor Tuum” (Secondo il tuo cuore). Tutte le cose ordinate nella e attraverso la Divina Volontà hanno come origine il Sacro Cuore di Nostro Salvatore, la cui motivazione fondamentale è il Suo Eterno Amore per Suo Padre e per i Suoi figli. Poiché la Divina Provvidenza ha disposto che io rimanga ricoverato per il momento, riaffermo ora questa stessa convinzione episcopale: la sofferenza, unita alla sofferenza di Gesù Cristo, è veramente efficace nel Suo Piano Divino per la nostra salvezza quando è accettata volentieri e con tutto il cuore. San Paolo, sotto l’ispirazione dello Spirito Santo, ci insegna il significato della nostra sofferenza: “Ora mi rallegro delle mie sofferenze per voi, e nella mia carne completo ciò che manca ai patimenti di Cristo a favore del suo corpo, cioè della Chiesa” (Col 1,24).

Unito a Gesù Cristo, Sacerdote e Vittima, offro tutto ciò che soffro per la Chiesa e per il mondo. Chiedendo la benedizione di Dio su di voi e sulle vostre famiglie, e affidando le sue intenzioni all’intercessione di Nostra Signora di Guadalupe e di San Juan Diego, di San Michele Arcangelo, di San Giuseppe, dei Santi Pietro e Paolo e dei suoi santi patroni, rimango.



Vostro nel Sacratissimo Cuore di Gesù e nel Cuore Immacolato di Maria, e nel purissimo Cuore di san Giuseppe,



Raymond Leo Cardinale Burke


28 agosto 2021

Festa di Sant’Agostino, Vescovo e Dottore della Chiesa







giovedì 26 agosto 2021

“Traditionis custodes” / I due pesi e le due misure di Francesco





26AGO21


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by Aldo Maria Valli


di monsignor Héctor Aguer*

L’attuale pontefice dichiara di voler proseguire ulteriormente nella ricerca costante della comunione ecclesiale e, per rendere effettivo tale scopo, elimina l’opera dei suoi predecessori ponendo arbitrariamente limiti e ostacoli a quanto stabilito con intento ecumenico intra-ecclesiale e nel rispetto per la libertà dei sacerdoti e dei fedeli. Promuove la comunione ecclesiale al contrario. Le nuove misure comportano una deplorevole passo indietro.


Sono stato ordinato sacerdote per l’arcidiocesi di Buenos Aires il 25 novembre 1972; ho celebrato la mia prima messa il giorno dopo nella parrocchia di San Isidro Labrador (quartiere di Saavedra), dove ho risieduto tutto l’anno praticando il diaconato. Ovviamente ho celebrato secondo il Novus Ordo promulgato nel 1970. Non ho mai celebrato “la Messa di prima”, nemmeno dopo il motu proprio Summorum pontificum; dovrei studiare il rito, di cui ho lontani ricordi per aver fatto da chierichetto da bambino. Di recente, frequentando la divina liturgia della Chiesa siro-ortodossa, mi è sembrato di notare una certa somiglianza con la messa solenne in latino, con diacono e suddiacono, per la quale ho aiutato molte volte, soprattutto ai funerali, che nella mia parrocchia erano spesso celebrati con speciale solennità. Insisto: ho sempre celebrato, con la più grande devozione possibile, il rito in vigore nella Chiesa universale. Quando ero arcivescovo di La Plata, cantavo la preghiera eucaristica in latino ogni sabato al seminario maggiore San José, utilizzando il prezioso messale edito dalla Santa Sede. Avevamo formato, secondo la raccomandazione del Concilio Vaticano II nella costituzione Sacrosanctum Concilium n. 114, una schola cantorum, poi soppressa al mio pensionamento. In Traditionis custodes (A 3§ 4) si parla di un sacerdote delegato dal vescovo incaricato delle celebrazioni e della cura pastorale dei fedeli nei gruppi autorizzati all’uso del messale antecedente alla riforma del 1970. Si chiede anche che “abbia una conoscenza della lingua latina”. Andrebbe ricordato che è possibile celebrare in latino la messa attualmente in vigore in tutta la Chiesa. Il Concilio ha affermato nella Sacrosanctum Concilium 36 § 1: «L’uso della lingua latina, salvo diritti particolari, sia conservato nei riti latini». Purtroppo, il “diritto particolare” sembra essere quello di vietare il latino, come di fatto si fa (non si tratta di una boutade). Se qualcuno osa proporre di celebrare in latino, viene considerato uno sciocco e imperdonabile troglodita.

Il latino è stato per secoli vincolo di unità e di comunicazione nella Chiesa occidentale. Oggi non è solo abbandonato, ma anche odiato. Nei seminari il suo studio è trascurato, proprio perché ritenuto inutile. Non si rendono conto che questo impedisce l’accesso diretto ai Padri della Chiesa d’Occidente, che sono molto importanti per gli studi teologici: penso, ad esempio, a sant’Agostino e san Leone Magno, e ad autori medievali come sant’Anselmo e san Bernardo. Questa situazione mi sembra un segno di povertà culturale e di ignoranza volontaria.


Ho scritto quelle notizie sui miei inizi nel ministero per dimostrare che nella mia vita sacerdotale non ho mai nutrito la nostalgia di non poter utilizzare il rito precedente, che tanti sacerdoti e tanti santi hanno celebrato per secoli. Tuttavia, i miei studi teologici e le tante letture e la costante riflessione sulla liturgia ecclesiale mi permettono di giudicare e sostenere che, invece di creare una nuova messa, la precedente avrebbe potuto essere aggiornata in una discreta riforma che segnasse fortemente la continuità. A proposito, ricordo un aneddoto eloquente. L’eminente teologo Louis Bouyer riferisce che il presidente del Consilium ad exsequendam Constitutionem de Sacra Liturgia, monsignor Annibale Bugnini (frequentemente e ampiamente riconosciuto come massone), incaricò i membri di quella Commissione di presentare come esercizio progetti di preghiera eucaristica. Bouyer racconta che lui, con il liturgista benedettino dom Botte, compose in una trattoria di Trastevere un testo che con suo grande stupore fu inserito nel nuovo messale come Preghiera Eucaristica II. È quello scelto dalla maggior parte dei sacerdoti, perché la sua brevità dà loro l’impressione di accorciare la messa di pochi secondi. Mi sembra un testo molto bello, mi dispiace solo che in esso non compaia la parola sacrificium, ma la nozione di memoriale, e indirettamente, poiché dopo la consacrazione si dice memores; i fedeli non possono identificare il memoriale con il sacrificio offerto.


Quanto scritto finora è una sorta di prologo, a titolo di giustificazione, al rapido commento critico che segue il motu proprio Traditionis custodes, datato 16 luglio di quest’anno, che stabilisce nuove disposizioni per l’uso del Messale di san Giovanni XXIII edito nel 1962. Si riconosce che san Giovanni Paolo II e Benedetto XVI hanno voluto promuovere la concordia e l’unità nella Chiesa, e hanno proceduto con paterna sollecitudine verso coloro che aderivano alle forme liturgiche anteriori al Vaticano II. L’attuale pontefice dichiara di voler proseguire ulteriormente la ricerca costante della comunione ecclesiale (prologo di Traditionis custodes) e, per rendere effettivo tale scopo, elimina l’opera dei suoi predecessori ponendo arbitrariamente limiti e ostacoli a quanto da essi stabilito con intenzione ecumenica intra-ecclesiale e nel rispetto della libertà dei sacerdoti e dei fedeli! Promuove la comunione ecclesiale al contrario. Le nuove misure implicano un deplorevole passo indietro.


Alla base di questo intervento – si legge nel prologo – c’è una consultazione della Congregazione per la dottrina della fede rivolta ai vescovi nel 2020 sull’applicazione del motu proprio Summorum pontificum di Benedetto XVI, i cui risultati sono stati “attentamente valutati”. Sarebbe interessante sapere quali furono gli “auspici formulati dall’episcopato”.

Così nel primo articolo viene eliminata la forma straordinaria del Rito Romano. Lo scopo di Benedetto XVI, nel rendere ufficiale il libero uso del messale del 1962, era – a quanto si capisce – di attirare o trattenere nell’unità della Chiesa coloro che, scandalizzati dalla devastazione liturgica universale, si erano ritirati o erano in pericolo di ritirarsi perché non volevano accettare questa situazione di fatto; un affetto di comunione ecclesiale determinò l’apertura di una via ragionevole all’esperienza liturgica. Ora tocca ai vescovi diocesani concedere l’autorizzazione all’uso del messale precedente. Tutto ricomincia daccapo, e c’è da temere che i vescovi siano avari nel concedere i permessi. Molti vescovi non sono traditionis custodes, ma traditionis ignari (ignoranti), obliviosi (smemorati), e peggio ancora, traditionis evertores, distruttori.


Ritengo che sia un bene esigere di non escludere la validità e la legittimità dei decreti del Vaticano II, della riforma liturgica e del magistero dei sommi pontefici. Per coloro che già usavano la forma straordinaria del Rito Romano, non era sufficiente la vigilanza ordinaria dei vescovi e l’eventuale correzione dei colpevoli? Bisognerebbe usare carità e pazienza con i ribelli; i buoni argomenti non mancano. Questo approccio completerebbe il giusto requisito espresso nell’articolo 3 § 1.

La limitazione dei luoghi e dei giorni da celebrare secondo il messale del 1962 (Art 3 § 2 e § 3) equivale a una restrizione ingiusta e antipatica. Ogni sacerdote dovrebbe poter utilizzare la forma straordinaria del Rito Romano (questo implica il ritorno all’interdizione), in primo luogo quando celebra da solo e anche in pubblico dove i fedeli già lo accettano se il sacerdote ha spiegato che userà quell’Ordo mettendo in luce la sua venerabile antichità e il suo valore religioso. Basterebbe la vigilanza del vescovo per evitare che tale facoltà venga esercitata contro l’utilità pastorale dei fedeli. L’articolo 3, § 6 costituisce una restrizione ingiusta e dolorosa, impedendo ad altri gruppi di fedeli di partecipare alla messa celebrata secondo il messale del 1962. È curioso che mentre si promuove ufficialmente una struttura “poliedrica” ​​della Chiesa, con la facilità che questo atteggiamento implica per la diffusione del dissenso e degli errori contro la Tradizione cattolica, si imponga un’uniformità liturgica che sembra essere stata scelta unicamente contro quella tradizione. Mi risulta che molti giovani delle nostre parrocchie sono stufi degli abusi liturgici che la gerarchia permette senza correggerli; desiderano una celebrazione eucaristica che garantisca una partecipazione seria e profondamente religiosa. Non c’è nulla di ideologico in questa aspirazione. Trovo anche spiacevole che il sacerdote che ha già il permesso e lo ha esercitato correttamente debba gestirlo nuovamente (art. 5. I). Non è questo uno stratagemma per togliergli il permesso? Mi viene in mente che forse ci sono non pochi vescovi (nuovi vescovi, per esempio), riluttanti a concederlo.


Tutte le disposizioni della Traditionis custodes sarebbero ben accette se la Santa Sede si occupasse di quella che io chiamo la devastazione della liturgia, che si verifica in più casi. Posso parlare di quello che succede in Argentina. In generale, è abbastanza comune che la celebrazione eucaristica assuma un tono di banalità, come se fosse un colloquio che il sacerdote ha con i fedeli, e in cui è fondamentale la simpatia del sacerdote; in certi luoghi diventa una specie di show presieduto dall'”animatore” che è il celebrante, e la messa dei bambini diventa una festicciola come quelle dei compleanni. Da noi è accaduto un fatto che spero sia un’eccezione; non sono a conoscenza che qualcosa di simile sia successo in altre parti del mondo. Un vescovo ha celebrato in spiaggia, vestito con un abito da spiaggia sul quale indossava una stola; una piccola tovaglia sulla sabbia (o un caporale), e al posto del calice un mate. Chiarimento per gli stranieri: mate è una zucca essiccata e svuotata usata per bere un infuso di yerba mate, e mate è anche chiamato l’atto di bere l’infuso attraverso una bombilla (cannuccia di metallo con filtro all’estremità inferiore); di solito è un esercizio comunitario: il mate viene fatto circolare tra i presenti e qualcuno si occupa di versare l’acqua. Altri casi divenuti noti mostrano la celebrazione come la chiusura di una riunione; carte, bicchieri, bibite vengono lasciate sul tavolo; i fedeli servono essi stessi la comunione. In generale, da questo punto di vista geografico si può dire che ogni sacerdote ha la “sua” messa; i fedeli possono scegliere: “Vado alla messa di Don NN”. Queste realtà non sono affrontate dai vescovi, che sono comunque pronti a reagire contro un sacerdote che con la massima pietà celebra in latino: “quello” è proibito. Sarà questo divieto il “diritto particolare” cui fa riferimento la costituzione Sacrosanctum Concilium 36 § 1, nel passaggio in cui si parla di conservazione del latino? In virtù di questo criterio, è scomparso l’uso dei canti latini che erano comunemente cantati dalla gente semplice nelle parrocchie, come il Tantum ergo nella benedizione eucaristica. La mancata correzione degli abusi porta alla persuasione che «ora la liturgia è così». Basterebbe semplicemente far rispettare ciò che il Concilio, con saggezza profetica, ha stabilito, ovvero «che nessun altro, anche se sacerdote, osi, di sua iniziativa, aggiungere, togliere o mutare alcunché in materia liturgica» (Sacrosanctum Concilium, 22 § 3).


Non si può negare che la celebrazione eucaristica abbia perso accuratezza, solennità e bellezza. E in molti casi, il silenzio è scomparso. Un capitolo a parte meriterebbe la musica sacra (sacra?), in base al capitolo VI della Sacrosanctum Concilium. Insisto: Roma dovrebbe occuparsi, pronunciarsi su questi disordini.

Per concludere, mi sembra di notare una relazione nel tono del decreto risolutivo e il discorso pronunciato dal Santo Padre il 7 giugno, indirizzato alla comunità dei sacerdoti di San Luigi dei Francesi a Roma. Percepisco in entrambi i testi (posso sbagliarmi, ovviamente) una mancanza di affetto, nonostante certe apparenze. È vero che il motu proprio, per la natura del suo genere, non ammette effusioni pastorali; tuttavia, nella sua concisione poteva essere presentato come un segno di amore pastorale. Il paragone non mi sembra arbitrario; in entrambi i casi sarebbe auspicabile percepire quell’atteggiamento misericordioso tanto celebrato dall’attuale pontefice. Sembrerebbe che il giudizio che la Chiesa dà, nella sua istanza più alta, del corso della vita ecclesiale proceda secondo due pesi e due misure: la tolleranza, e anche l’apprezzamento e l’identificazione con posizioni eterogenee rispetto alla grande Tradizione (“progressiste”, come sono state chiamate) e distanza o antipatia nei confronti di persone o gruppi che coltivano una posizione “tradizionale”. Mi viene in mente il proposito che un famoso politico argentino [Juan Domingo Perón, ndt] enunciava brutalmente: «Per gli amici, tutto; al nemico, nemmeno la giustizia». Lo dico con il massimo rispetto e amore, ma con immenso dolore.

*arcivescovo emerito di La Plata, Argentina

Fonte: infocatolica.com

Titolo originale: Lamentable retroceso

Traduzione dallo spagnolo di Valentina Lazzari







IL REFERENDUM sull'eutanasia. Verso l'iniezione letale...una soluzione Radicale








Superate le 750mila firme per il Referendum sull'eutanasia. Se vincessero i radicali non solo sarebbe legittima l’iniezione letale su paziente consenziente, ma anche qualsiasi modalità per uccidere.



Tommaso Scandroglio, 26/08/2021

Sintetizzando la definizione di eutanasia contenuta nel documento della Congregazione per la dottrina della Fede Iura et bona, potremmo dire che per eutanasia si intende un atto volto a procurare la morte di un innocente al fine di eliminare ogni dolore. Tenuta per valida questa definizione ne discende che sia l’assassinio che il suicidio possono essere qualificati come condotte eutanasiche.

Rifacendoci quindi a questa definizione, domandiamoci: nel nostro ordinamento giuridico, attualmente, quali sono le modalità legittime per praticare l’eutanasia? Sono sostanzialmente quattro.

La prima è stata sdoganata ormai da molti anni dalla giurisprudenza che, interpretando in modo volutamente erroneo l’art. 32 della Costituzione secondo il quale nessuno può essere obbligato a sottoporsi ad un trattamento terapeutico eccetto nei casi previsti dalla legge, ha legittimato il rifiuto di cure anche salvavita, dunque ha legittimato il suicidio tramite omissione terapeutica.

Nella legge 219/17 possiamo rinvenire la seconda e terza modalità per praticare l’eutanasia. Questa legge infatti permette, oltre alla non attivazione, anche l’interruzione di qualsiasi terapia, comprese quelle salvavita, tra cui i mezzi di sostentamento vitali conosciuti come nutrizione e idratazione assistita (implicitamente si ammette anche la ventilazione assistita). Tale modalità può quindi configurare un’esimente al reato di omicidio del consenziente ex art. 579 cp (cfr. art 1 comma 6 lege 219/17). Infatti, ad esempio, il paziente attaccato un respiratore potrebbe chiedere al medico di farlo addormentare e poi interrompere la ventilazione assistita al fine di morire. La terza modalità, contenuta sempre nella legge 219, è la sedazione continua profonda che, in dosi eccessive, blocca i centri del respiro provocando la morte. Pensiamo a questo proposito al paziente terminale malato di tumore che vuole morire e quindi usa dell’escamotage della sedazione continua profonda per chiudere gli occhi per sempre. Anche in questa ipotesi ci troveremmo di fronte ad un caso di omicidio del consenziente non punibile dalla legge.

La quarta modalità è stata introdotta dalla sentenza della Corte costituzionale n. 242/2019 (clicca qui per un approfondimento): parliamo del suicidio assistito. Il medico consegna al paziente un preparato letale che sarà assunto dal paziente stesso. La Consulta ha indicato quattro condizioni per accedere al suicidio assistito, condizioni che sono presenti in un disegno di legge attualmente all’esame della Camera (clicca qui per un approfondimento). A differenza della prima modalità qui indicata, si tratterebbe di un suicidio tramite atto commissivo e non omissivo.

Ma all’orizzonte ecco spuntare una quinta modalità per accedere alla cosiddetta dolce morte: l’iniezione letale. Marco Cappato, in collaborazione con l’Associazione “Luca Coscioni” e con il Comitato promotore di cui fanno parte il Partito Socialista Italiano, Eumans, Volt, +Europa, oltre ai Radicali Italiani hanno proposto un referendum che vuole abrogare in parte l’art. 579 cp che sanziona l’omicidio del consenziente. Dato che Cappato & Co. ieri hanno annunciato di aver raccolto più di 750mila firme, saremo chiamati alle urne e ciò molto probabilmente avverrà nella primavera del 2022.

Attualmente l’art. 579 cp così recita: “Chiunque cagiona la morte di un uomo, col consenso di lui, è punito con la reclusione da sei a quindici anni. Non si applicano le aggravanti indicate nell’articolo 61. Si applicano le disposizioni relative all’omicidio se il fatto è commesso: contro una persona minore degli anni diciotto; contro una persona inferma di mente, o che si trova in condizioni di deficienza psichica, per un’altra infermità o per l’abuso di sostanze alcooliche o stupefacenti; contro una persona il cui consenso sia stato dal colpevole estorto con violenza, minaccia o suggestione, ovvero carpito con inganno”. I radicali vogliono eliminare queste parole: “la reclusione da sei a quindici anni. Non si applicano le aggravanti indicate nell’articolo 61. Si applicano”. Se dunque vincessero i “Sì”, uccidere una persona con il suo consenso non sarà più reato, eccetto nel caso in cui la vittima sia un minore o un incapace o nel caso in cui il consenso sia stato estorto in qualsiasi modo. Un nota bene. Se vincessero i radicali non solo sarebbe legittima l’iniezione letale su paziente consenziente, ma anche qualsiasi modalità per uccidere il consenziente: con un’arma da fuoco, con un coltello, con l’impiccagione, con il veleno, con l’affogamento, etc.

I proponenti il referendum molto probabilmente non sarebbero d’accordo con questa interpretazione. Secondo loro l’omicidio del consenziente dovrebbe comunque rispettare delle condizioni per essere legittimo e solo il medico, tramite alcune procedure cliniche, potrebbe provocare la morte di una persona. Infatti l’Associazione Luca Coscioni così si esprime: “Con questo intervento referendario l’eutanasia attiva sarà consentita nelle forme previste dalla legge sul consenso informato e il testamento biologico, e in presenza dei requisiti introdotti dalla Sentenza della Consulta sul ‘Caso Cappato’. […] La Corte, essendo intervenuta nella sentenza Cappato sull’art. 580 cp, può fare ricadere la disposizione come abrogata in una cornice normativa già delineata dalle sue pronunce in materia. La norma che residua, infatti, ha al suo interno l’espressione ‘col consenso di lui’ il cui significato risulta coordinato alle leggi dell’ordinamento e agli interventi della Corte”.

I radicali ci stanno dicendo che per accedere legalmente all’omicidio del consenziente occorrerà rispettare i vincoli indicati dalla legge 219 e quelli previsti dalla Consulta. Ma le cose non stanno così, infatti la legge 219 prevede sì dei vincoli, ma solo in riferimento ad alcune precise modalità di omicidio del consenziente, non facendo parola dell’iniezione letale. Lo stesso dicasi della Consulta che ha indicato delle condizioni a cui attenersi, ma solo in riferimento al suicidio assistito, non all’omicidio del consenziente. In caso di abrogazione parziale dell’art. 579 cp potrebbe darsi che la Corte costituzionale richiami le condizioni previste per l’aiuto al suicidio e le applichi all’omicidio del consenziente, ma è solo una ipotesi. E inoltre sarà necessario che tali eventuali indicazioni confluiscano in un testo di legge. Infine non si potrà applicare per analogia, al nuovo art. 579 cp, quanto contenuto nella legge 219 e, tantomeno, quanto disposto dalla Consulta dato che si tratta di materia penale in cui è vietata sia l’analogia legis che l’analogia iuris.

Il referendum dei radicali è la conclusione logica di alcune premesse già enucleate dai giudici negli anni scorsi quando più volte permisero il suicidio tramite l’astensione di terapie salvavita, quando acconsentirono all’uccisione di Eluana Englaro e quando non sanzionarono quella di Piergiorgio Welby. Tali premesse si arricchirono – o s’impoverirono - poi della legge 219 ed infine della sentenza, prima menzionata, della Consulta. La premessa di fondo che ha fatto crollare tutto il castello è stata la seguente: basta che tu legittimi una sola modalità per praticare l’eutanasia e poi non puoi che legittimare tutte le altre modalità, compresa l’iniezione letale. Se dici “Sì” all’eutanasia, non puoi che dire “Sì” anche a tutti i mezzi per dare la morte: se accetti un fine, non puoi che accettare tutti i modi consoni per soddisfare il fine. In particolare, come visto, la legge 219 già permette alcune condotte che configurano l’omicidio del consenziente e dunque apparirebbe irrazionale non permetterne altre: se è legittimo uccidere il consenziente staccandolo dal respiratore, perché non dovrebbe essere legittimo ucciderlo con una iniezione che, tra l’altro nella percezione comune, apparirebbe come una modalità meno cruenta di dare la morte?

Rifiutare, di contro, l’estensione di modalità eutanasiche sarebbe illogico e discriminatorio, come ha sottolineato sempre l’Associazione Luca Coscioni sul suo sito: “Proprio al fine di non creare discriminazioni tra tipi di malati, emerge l’esigenza di ammettere l’eutanasia a prescindere dalle modalità della sua esecuzione concreta (attiva od omissiva)”. Il paziente che vuole morire, ma non è attaccato ad una macchina per vivere e non è in grado di assumere da sé un preparato letale e non vuole passare per l’iter tortuoso della sedazione continua profonda, allo stato attuale si vedrebbe escluso da qualsiasi pratica legale di eutanasia. L’iniezione letale eliminerebbe questa discriminazione.

Per chiudere prendiamo a prestito le parole della Conferenza episcopale italiana che si è espressa con preoccupazione in merito a questa iniziativa referendaria e così si è pronunciata a riguardo: “Chiunque si trovi in condizioni di estrema sofferenza va aiutato a gestire il dolore, a superare l’angoscia e la disperazione, non a eliminare la propria vita. Scegliere la morte è la sconfitta dell’umano, la vittoria di una concezione antropologica individualista e nichilista in cui non trovano più spazio né la speranza né le relazioni interpersonali. Non vi è espressione di compassione nell’aiutare a morire”.









mercoledì 25 agosto 2021

Laicità? Quella vera ha bisogno della Dottrina del Peccato originale. Di Stefano Fontana






Stefano Fontana, 24 agosto 2021
NOTIZIE DSC

La visione corretta della laicità dal punto di vista cattolico ha bisogno della dottrina del peccato originale. Dato che questa dottrina è oggi piuttosto dimenticata, si capisce che i cattolici siano in confusione su questo punto.

Lasciamo da parte, in questa sede, la visione laicista della laicità, la visione atea, sia di tipo giacobino che di tipo liberale. So bene che non è affatto scontato che i cattolici non la accettino, anzi!, tuttavia non è questo il punto per queste note. Consideriamola sbagliata e mettiamo da parte il discorso per concentrarci su quanto ci interessa, ossia sulla visione, diciamo così, “corretta” della laicità.

Questa potrebbe essere riassunta nel seguente modo. La ragione naturale conosce con le proprie forze l’ordine delle cose e, con esso, la regola di vita che bisogna seguire per essere veramente uomini. L’acquisizione di questa morale naturale è laica, in quanto conosciuta dalla ragione senza l’ausilio della rivelazione o della grazia. Certamente non è indifferente alla verità della religione, però non è religione ma ragione e le sue conclusioni, almeno teoricamente, sono a disposizione di ogni uomo, di qualsiasi religione egli sia. Il piano della laicità, intesa in questo senso, sarebbe il piano della ragione naturale.

A questo piano si aggiunge quello religioso che, se si tratta della religio vera non confligge con il precedente piano della ragione, se invece si affida a religioni più o meno false, entra in conflitto con la ragione e finisce per negare alcuni o tutti i principi della morale naturale. In ogni caso, si tratta di una piano diverso, che conferma e sviluppa il piano naturale, stabilendo una relazione di collaborazione, ma che rimane distinto e successivo rispetto ad esso.

Questa visione della laicità a mio modo di vedere è astrattamente corretta ma praticamente insufficiente. Ed è qui che interviene il peccato originale. Questa idea di laicità comporta che le regole di vita personale o comunitaria che nascono dalla conoscenza razionale siano se stesse senza l’intervento del piano (superiore) della fede e della grazia. Ma dopo il peccato delle origini, la nostra natura è “decaduta” e quindi è incapace di essere se stessa in modo pieno.

Si presuppone la possibilità di una “natura pura” che però non può darsi dopo Adamo ed Eva. Pensare alla laicità come il piano in cui la ragione naturale è se stessa è quindi una illusione, significa pretendere da essa quanto non può dare. Dopo il peccato, il piano naturale non sta in piedi da solo e non riesce a raggiungere nemmeno i propri fini naturali senza un aiuto superiore. In teoria e in astratto si può pensare che la ragione possa conoscere con le sole sue forze le verità relative al suo proprio livello, ma nel concreto della vita ciò non avviene, e non può avvenire.

Bisogna allora pensare che la rivelazione, la fede e la vita di grazia abbiano un significato anche per l’esercizio della ragione naturale, sia quando la adoperiamo personalmente sia quando vi facciamo riferimento comunitariamente, nella vita sociale e politica. Non è questo il luogo per approfondire tutto questo, mi limito a segnalare il fatto che Dio nella Scrittura ci ha rivelato anche principi di ordine naturale, come i Comandamenti: se la ragione avesse potuto conoscerli con certezza con le sole sue forze non ce ne sarebbe stato bisogno.

Limitarsi alla concezione di laicità che ho appena descritto e che ho qualificato come insufficiente, comporta un grave rischio. Il piano naturale, se non è sostenuto da quello soprannaturale, non solo non riesce a raggiungere i propri scopi naturali, ma anche si degrada, scivola in giù e, ben presto, diventa innaturale. Che il piano naturale da solo non regga vuol dire proprio questo: si inquina, degenera, crolla su se stesso. Per questo motivo, alla fine, esso giungerà alla stessa posizione di quella laicità atea che abbiamo scartato dal nostro discorso all’inizio di queste righe.

Tra le tante citazioni che si potrebbero portare sul tema ne riporto qui solo due: l’una di Etienne Gilson e l’altra di Padre Cornelio Fabro.

“… ben lungi dal sopprimere l’autonomia di un qualsiasi ordine inferiore, la sua subordinazione gerarchica consegue l’effetto di fondarlo, di portarlo a perfezione, in breve, di garantirne l’integrità e di mantenerlo. La natura informata dalla grazia è più perfettamente natura. La ragione naturale informata dalla fede diventa più integralmente ragionevole. Accettando la giurisdizione spirituale e religiosa della Chiesa, l’ordine sociale e politico si fa più felice e più saggio sul piano temporale” (Le metamorfosi della città di Dio, Cantagalli, Siena 2010, p. 183).

“Non è vero che l’uomo sia riuscito col nuovo principio di coscienza a sostituire con l’uomo Dio, ma ha perduto con Dio anche l’uomo e col tramonto della trascendenza è andata a fondo anche la conclamata immanenza” (Introduzione all’ateismo moderno, Edivi, Segni 2013, p. 59).

Stefano Fontana









 

martedì 24 agosto 2021

Il principio di identità e non contraddizione comporta l’esistenza del tempo come realtà fuori di noi?







Se il principio di identità e non contraddizione comporti l’esistenza del tempo come realtà fuori di noi, nella durata dell’Essere che ci circonda da ogni lato.



Paolo Pasqualucci, 24/08/2021

1. Il principio di identità e non contraddizione (A = A; B = B; A non è B; A non può essere nello stesso tempo B; idem per B) comporta necessariamente l’esistenza del tempo come realtà a noi esterna, indipendente da ogni misurazione? La domanda scaturisce dal fatto che tale principio, per esser credibile, ha bisogno di un riferimento temporale, sempre presente nella sua formulazione. Non posso pensare che A nello stesso tempo sia e non sia: che una determinata realtà sia nello stesso tempo il contrario di se stessa. Questa evidente verità va verificata sul piano dell’esistenza spazio-temporale degli enti e su quello del loro significato, quale risulti dalle loro dichiarazioni ed azioni.
L’essere e il non-essere non esistono contemporaneamente, se riferiti al medesimo ente. Quando sarò morto, il mio corpo sarà entrato nel non-essere rispetto a ciò che era, corpo di un individuo esistito in carne e ossa. Mentre ero vivo, tuttavia, il mio corpo apparteneva esclusivamente all’essere poiché non poteva nello stesso tempo non essere. Mentre sono vivo non posso simultaneamente esser morto. E viceversa. L’avverbio di tempo gioca dunque un ruolo essenziale per la comprensione del principio.


2. Perché allora K a n t , nelle Lezioni sulla metafisica, in una sezione nella quale discute del rapporto tra “possibile” e “impossibile” ha detto:
Impossibile est, simul esse ac non esse. Simul significa: nello stesso tempo; ma il tempo non è ancora spiegato. Si può anche dire, piuttosto: nulli subjecto competit praedicatum ipsi oppositum. Nihil negativum è ciò che non può in alcun modo esser pensato”(1) .
Il tempo espresso dall’avverbio simul non sarebbe “ancora spiegato”. Il riferimento al tempo rimarrebbe sostanzialmente oscuro, secondo Kant. Vediamo allora di spiegarlo.


3. Il principio di identità (A=A) contiene in sé, possiamo dire, il principio di non contraddizione: A, in quanto sia se stesso, non può simultaneamente esser identico a ciò che A non è: se A è A, non può essere simultaneamente B. Chi è nato maschio non può esser simultaneamente femmina. Le caratteristiche sessuali in senso biologico sono normalmente definite dalla natura in modo marcato ed immutabile nel singolo individuo, tanto da appartenere alla sua essenza, mostrando quindi un carattere ontologico, visto che non si può oggettivamente passare da un sesso ad un altro, come pur si ritiene stoltamente oggi, né con uno sforzo della volontà, che non incide affatto sul sesso naturale dell’individuo, non potendo mutarlo nel suo opposto, né con interventi chirurgici e ormonali che in realtà si limitano ad alterare e mutilare il sesso esistente, senza affatto trasmutarlo nell’altro.


L’impossibilità di cui al principio di non-contraddizione deve dunque esser simultanea nel tempo. Posso essere in questa stanza, dove sto scrivendo, o non esservi, ma solo in una successione temporale: vi entro poi ne esco. Ma non posso entrarvi ed uscirvi contemporaneamente: le due azioni devono esser scalate nel tempo, posso compierle solo in successione. L’impossibilità dell’esistenza simultanea di due atti simili ma tra loro opposti da parte dello stesso soggetto risulta quindi dall’esperienza dei nostri sensi. Per restare all’esempio proposto, l’entrare e l’uscire da una stanza, in quanto attuato da un medesimo soggetto, può avvenire solo in momenti successivi. Questa constatazione è di una certezza assoluta.


Ora, siffatta successione di eventi non è posta dal soggetto pensante, non risulta dall’applicazione di una categoria mentale che il soggetto possieda prima di ogni esperienza, apriori, ma appartiene alla natura della cosa, alla conformazione stessa della realtà esteriore: l’osservatore si limita a registrarla. Ciò significa che il tempo è qui un dato obbiettivo, perché questa impossibilità dell’attuarsi di modi tra loro opposti nell’azione temporalmente determinata dello stesso individuo si configura all’esterno del soggetto che la osserva e registra, ha cioè luogo nella realtà effettiva, che è la realtà costituita dal succedersi nel tempo degli eventi appartenenti al mondo fisico; degli eventi che esistono ed accadono nello spazio a noi esterno, a seconda dei casi o contemporaneamente tra loro o appunto in successione: il prima e il dopo, la successione nel tempo dell’agire mio o di altri, lo registro unicamente mediante l’osservazione empirica. Il verificarsi esplicito di un “prima” e un “dopo” nei movimenti nostri o di soggetti a noi esterni, in relazione per esempio ad un “dentro” e un “fuori”, dimostra la presenza del tempo come realtà in sé, obbiettiva. L’impossibilità fisica di entrare e uscire simultaneamente in una stanza da parte di uno stesso soggetto (o entra o esce, nello stesso tempo) non deriva quindi da un’impossibilità che sia stabilita a priori, dal nostro raziocinio, che la applichi alla realtà come categoria mentale capace di sussumere ogni esperienza prima ancora di ogni esperienza.
Quest’impossibilità è innanzitutto fisica, dovuta al fatto, oggetto d’esperienza quotidiana, che queste due azioni un qualsiasi soggetto, non avendo normalmente il dono dell’ubiquità, può attuarle solamente una dopo l’altra, in successione. Esse possono per noi susseguirsi unicamente nel tempo, oltre che nello spazio, un tempo pertanto esistente come durata al di fuori del nostro io che lo misura. Sulla base dell’esperienza, elaboriamo qui il concetto, che poi applichiamo ad ogni simile esperienza futura, quale categoria che la ricomprenda.

Il tempo è qui dunque la durata, nel cui àmbito avvengono certe azioni. Esse durano nel tempo ossia accadono nel tempo ma non sono il tempo, la durata che esiste e si mantiene indipendentemente da queste azioni: quando esse cessano, non per questo viene meno il tempo, la durata che ci ha permesso di misurarle in quanto eventi temporali oltre che spaziali. Lo stesso dícasi per lo spazio. Quando sono entrato ed uscito dalla stanza, quest’ultima non cessa di esistere in conseguenza del fatto di esser rimasta vuota: continua ad esistere come spazio che dura nel tempo, finché dura, essendo uno luogo nello spazio ricavato dalla congiunzione fatta ad arte di materiali deperibili, per quanto solidi possano essere. E se elimino la stanza come luogo nello spazio e poi la casa, la città, la nazione, il mondo stesso come luogo dello spazio nel quale si trova questa stanza; alla fine, dopo questa totale annihilatio mundi, mi trovo forse ad aver eliminato anche lo spazio e il tempo? No. Se anche eliminiamo tutto l’universo (tutto ciò che costituisce l’immenso universo, ossia milioni di galassie e tutta la materia e l’energia che costituiscono per l’appunto il cosmo o universo), resta sempre lo spazio vuoto precedentemente occupato da tutti gli enti e corpi celesti che ora sono scomparsi. E il vuoto, lo spazio inteso come pura estensione tridimensionale vuota, è pur sempre una realtà fisica che, in quanto effettiva realtà, dura e si mantiene nel tempo.

Sulla base di queste considerazioni, mi sembra si possa legittimamente affermare che il principio di identità e non contraddizione implica necessariamente un concetto del tempo come durata della realtà a noi esterna, concetto che non viene dato a priori ma dedotto dall’esperienza nostra sensibile, percepita ed acquisita nel suo accadere obbiettivo, ragion per cui tale concetto costituisce una dimostrazione dell’esistenza del tempo come realtà effettiva fuori di noi, quella nella quale gli enti durano (finché durano) e gli eventi si succedono.

4. A questo punto, chi contesta il principio in questione, potrebbe dire che esso non si può applicare ai significati e ai valori, al mondo spirituale e morale dell’uomo, visto che ogni essere umano appare esser contemporaneamente sia buono che cattivo. Qui non abbiamo a che fare con impossibilità derivanti dalla struttura stessa fisica della realtà in cui viviamo. Il bene e il male coesistono in ogni singolo individuo, che ora fa il bene ora il male. E non dobbiamo dire, allora, che in lui essi coesistono simultaneamente quali opposti mai domati? E se contemporaneamente, allora ognuno di noi non è forse buono e cattivo nello stesso tempo, di continuo agitato interiormente nella stessa unità di tempo tra l’essere e il non-essere, tra l’esser buono e il non esserlo?

Ma il principio si applica ugualmente, a mio avviso. Il bene e il male, come tendenze, coesistono nel nostro animo, lottano in noi in quelle che si considerano le nostre passioni: esistono quindi simultaneamente dentro di noi ma ancora solamente in potenza. Quando si passa dalla potenza all’atto si esce dalla situazione di interiore (potenziale) contraddizione. Ciò avviene quando una di queste due fondamentali tendenze si quantifica in un distinto moto dell’animo, successivamente in un pensiero consapevole, poi in una volontà d’agire ed infine in una nostra determinata azione. Tutti questi nostri successivi modi di essere caratterizzanti il nostro passare dalla potenza all’atto, non possono certamente considerarsi nello stesso tempo buoni e cattivi. Infatti, noi non possiamo pensare a due o più cose simultaneamente – il contenuto determinato dei nostri pensieri, ma anche dei nostri sentimenti, è sempre in successione nel tempo. Provare, per credere. Pertanto, il nostro singolo stato d’animo o pensiero potrà essere buono o cattivo ma non potrà essere contemporaneamente buono e cattivo. Idem, per le nostre azioni. Quando una nostra azione viene valutata in modo difforme – buona per alcuni, cattiva per altri – ciò non significa che in se stessa sia bifronte. Il giudizio discordante su di essa proviene dall’esterno e semplicemente riflette le differenti opinioni di terzi su di essa, confliggenti (quando lo sono) per i più diversi motivi, non appartenenti all’azione stessa – opinioni che non mutano la sostanza della cosa. La quale è ciò che è – la nostra azione – in relazione alle sue premesse e al suo fine, posti dal nostro intelletto e dalla nostra volontà, vale a dire secondo le quattro categorie della causalità così ben delineate da Aristotele (Phys., B, 3. 194b-195a). Essa si caratterizza quindi nel suo proprio esserci esistenziale (per esprimermi alla maniera del linguaggio filosofico corrente), finito e determinato nello spazio e nel tempo, in modo tale da impedire che possa simultaneamente esser inclusa in tutto l’Altro-da-sé.

5. Il B u d d i s m o , che affascina a quanto sembra parte sempre più ampia delle persone sensibili in Occidente, in cerca ormai affannosa di alternative spirituali di fronte alla perdurante e spaventosa crisi e del Cristianesimo e delle filosofie profane sue nemiche, sembra escludere completamente dal suo orizzonte il principio di identità e non contraddizione. Al posto dell’anima esso pone la mente. Ma cosa intende esattamente con mente? Possiamo distinguere per i Buddisti la mente da tutto ciò che essa non è, come risulta già dalla chiara intuizione del significato del nous (mens) avuta nel V secolo a.C. da Anassagora?(2) Vediamo l’insegnamento del Maestro tibetano Gendün R i n p o c h e (1918-1997), del quale è stata tradotta recentemente un’importante opera in italiano.

“La mente non si lascia definire, si sottrae all’analisi e alla descrizione. Non possiamo dire che la mente esiste, poiché lo stesso Buddha non riesce a trovarla. Allo stesso modo non possiamo sostenere che la mente non esiste, poiché è la fonte di tutti i fenomeni, del samsāra ma anche del nirvana. Tutt’al più si può dire che essa va oltre tutte le immaginazioni, oltre la natura di tutte le cose animate e inanimate e della stessa realtà; oltre i pensieri e le immaginazioni, è incomprensibile e indescrivibile. Se si vede, non è vista, non ha né colore, né forma e neppure caratteristiche. Se si riconosce, non è veramente riconosciuta perché non è paragonabile a nessun oggetto riconoscibile. Se si realizza, diventa non realizzata, poiché non c’è niente e nessuno che realizzerebbe qualcosa. Non possiamo trovare nessuna definizione per designare la “mente” […] La mente va oltre tutte le immaginazioni intellettuali, è “esistente” e anche “non esistente”, oppure esistente e non esistente allo stesso tempo, o nessuno dei due. Essa è oltre il pensiero, dal quale non può esser catturata. Si dice che sarebbe “il grande centro”, oltre ogni fissa estrema concezione; oltre ogni riferimento concettuale…”.(3)

L’indefinibile mente può dunque essere o non essere nello stesso tempo. Che significato bisogna dare a simile affermazione? E a quella secondo la quale né può essere né può non-essere (“nessuno dei due”)? Non ci troviamo qui in una dimensione di tipo mistico assai peculiare, nient’affatto religiosa in senso proprio, che sembra situarsi completamente al di fuori delle categorie fondamentali del pensiero razionale? Questa mente che resta indefinita, sfuggente al logos, non inquadrabile nell’autentica Rivelazione religiosa, sarebbe tuttavia l’origine di tutto ciò che appare realtà per noi (il mondo) che in effetti non sarebbe altro che illusione, un’illusione che dobbiamo riconoscere e superare nel momento della morte. Nella morte, “non c’è una vera interruzione: la mente continua a essere com’è per natura, percepisce con le stesse tendenze di quando il corpo era ancora in vita. Il riferimento di base delle percezioni però cambia, anche se fondamentalmente resta lo stesso processo di prima, questo vale anche per le percezioni della mente. In verità la morte è simile alla vita: un’illusione; uno stato intermedio temporaneo, un bardo [“stato intermedio”], con il quale non si ferma semplicemente tutto come forse supponiamo. La morte è il proseguimento della vita: un cambio di scena nel continuo processo del cambiamento…”.(4)

Mi chiedo: come può essere la mente “per natura” se, per natura, essa nello stesso tempo esiste e non esiste? Comunque sia, che la morte prosegua nella vita, attuandosi con essa solo un “cambio di scena”, è affermazione che si spiega solo nell’ambito della fede nella reincarnazione: la nostra mente trapasserebbe, per così dire, in un altro corpo o altro essere, molte volte, fino ad ottenere, grazie alla giusta gnosi finale, la liberazione definitiva, nel nirvana; annientamento ed estinzione del proprio Sè liberato da tutte le passioni, e quindi dal dolore di ogni esistenza, nel “corpo della Potenzialità assoluta”, corpo di luce o della “coscienza luminosa”, che si dissolve in un “Là indefinibile” subentrato al Qui immerso nel dolore.(5) Il Buddismo non ha il concetto della creazione, vi manca anche quello di Dio, in senso proprio, né esiste un Giudizio dopo la morte. Tutto sembra risolversi in una illusione della mente – dal punto di vista dei non iniziati esso appare una sorta di panpsichismo cosmico nel quale al posto dell’ellenica psiche bisogna invece mettere l’asiatica mente. Le distinzioni tra la vita e la morte, tra il finito e l’infinito, l’umano e l’animale, l’umano e il divino, ed anzi la possibilità stessa di distinguere, tipica della recta ratio e dell’intelletto, qui sembrano non solo attenuarsi ma addirittura scomparire, navigando così la nostra mente in un indistinto, in una gnosi che non può evidentemente ammettere un principio razionale dal significato assoluto e fondamentale come quello di identità e non contraddizione, valido di per sè, indipendentemente dalla nostra mente, perché inerente alla natura immutabile delle cose.


6. Torniamo per un momento a K a n t .

Nel testo citato egli spiega le categorie del “possibile” e dell’”impossibile”. Pur senza negare che la coesistenza simultanea di essere e non-essere nel medesimo ente o atto sia da ritenersi del tutto impossibile perché di per sé impossibile a concepirsi, egli sembra tuttavia voler ridurre la portata del “principio di non-contraddizione” (Satz der Widerspruchs, principio di contraddizione). Ridurla, nel senso di proporre anche un altro criterio per valutare la suddetta impossibilità, il criterio della contraddizione, figura logica indipendente dalla determinazione del tempo. Difatti, per Kant, bisogna dire che “impossibile è ciò che si contraddice”.(6) Scambiando definizione e definito, sottolinea, si ottiene lo stesso risultato, quindi la definizione è buona. Pertanto: “ Ciò che si contraddice è impossibile”. Ne consegue che “ciò che non si contraddice non è impossibile. E ciò che non è impossibile, è possibile.”(7) Questo è un criterio valido, secondo Kant, per stabilire la verità (in relazione alla possibilità o meno di essere in modo coerente alla natura di ciò che è).

Ma qual è allora la differenza con il modo tradizionale di esprimere il principio di non-contraddizione, quello che poggia sul simul? Non contiene anch’esso il concetto della contraddizione quale elemento qualificante? Lo contiene ma ha il torto, agli occhi di Kant, di far riferimento (con il simul) al tempo come realtà obiettiva, conoscibile in modo indipendente dalle categorie a priori del nostro intelletto. Kant vuole pertanto trovare un criterio che si basi sulla pura logica dell’esser in contraddizione, senza alcun riferimento alla dimensione temporale. E difatti non fa forse capire che il principio sarebbe meglio formulato nella frase latina: “a nessun soggetto compete [si può attribuire] un predicato ad esso opposto”, cioè che sia, con ogni evidenza, in contraddizione con la natura specifica, particolare di questo soggetto, quale essa sia?

Il “principio di contraddizione” tradizionale non viene tuttavia escluso, non sarebbe possibile. Viene ribadito, ma in questo modo:
“Il Principium contradictionis è un criterium della verità, che nessuna conoscenza può contraddire. Criterium veritatis è il segno distintivo della verità. Il Principium contradictionis è il più alto negativum criterium della verità. È una conditio sine qua non di ogni conoscenza; ma non è il criterium sufficiente [per stabilire] ogni verità.”(8)
La “conditio sine qua non” si applica dunque al principio di identità e non-contraddizione come il massimo “criterio negativo” per determinare la verità. Il criterio negativo è quello, si è visto, denominato “nihil negativum”, cioè il criterio in base al quale nulla può esser pensato. Questo criterio, per Kant, è una “conditio sine qua non” e tuttavia non è “sufficiente” per determinare ogni verità. Potremmo forse dire: condizione necessaria ma non sufficiente? E perché non sufficiente? Perché, possiamo interpretare, si limita ad imporre l’impossibilità di pensare la cosa, giocando sull’elemento del tempo, lasciando quindi fuori altri aspetti, a cominciare dall’impossibilità di essere derivante dall’ esser in contraddizione tra soggetto e predicato, modus in quanto tale scisso da ogni determinazione temporale.

Il tema è complesso e richiede approfondimenti che ci porterebbero lontano. Intanto mi basta aver messo in rilievo, spero in modo chiaro ed evidente, un fatto a mio avviso di fondamentale importanza ossia che il principio di identità e non-contraddizione implica l’esistenza del tempo come durata effettiva, indipendente dal soggetto pensante: l’implica e a ben vedere la dimostra.



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1. I. KANT, Vorlesungen über die Metaphysik, ediz. postuma, Erfurt, 1821, rist. anast. WBG, Darmstadt, 1975, p. 21: “ Impossibile est simul esse ac non esse. Simul bedeutet zu gleicher Zeit; die Zeit ist aber noch nicht erklärt. Man kann also lieber sagen: nulli subjecto competit praedicatum ipsi oppositum. Nihil negativum ist das, was gar nicht gedacht werden kann.” Le kantiane Lezioni sulla metafisica risultano dai manoscritti del filosofo. Hanno pertanto un aspetto schematico. Sono comunque ritenute attendibili, quale espressione del suo genuino pensiero.
2. Anassagora, Testimonianze e framenti, introduz. tr. it. e commento a cura di Diego Lanza, La Nuova Italia, Firenze, 1966, con testo a fronte: “Tutte le altre cose hanno parte di ogni cosa, ma l’intelligenza [nous] è illimitata, indipendente e non è mescolata ad alcuna cosa ma sta sola in sé. Se, infatti, non stesse sola in sé, ma fosse mescolata a qualche cosa d’altro, parteciperebbe di tutte le cose, se fosse mescolata a qualcuna. In tutto si trova infatti parte di ogni cosa, come ho detto prima, e le cose mescolate le sarebbero d’ostacolo, sí che non avrebbe potere su alcuna cosa, come lo ha stando da sola in sé. È infatti la più sottile e la più pura di tutte le cose e possiede piena conoscenza di tutto e ha grandissima forza. E quante cose hanno vita, le maggiori e le minori, tutte domina l’intelligenza…” (op. cit., pp. 224-229). Questo nous è stato sempre inteso dalla tradizione occidentale come primeva intuizione dell’esistenza della Mente divina, ontologicamente separata (intellectus immixtus – san Tommaso d’Aquino) da tutta la realtà visibile nel suo complesso, natura e uomini; Mente che tutto domina e governa. Di essa la nostra mente è solo un pallido e limitato riflesso.
3, Gendün Rinpoche, Istruzioni spirituali. Dal cuore di un Maestro Mahāmudrā, ediz. italiana a cura di Vincenzo Noja, Le Lettere, Firenze, 2021, p. 118. Si tratta di una traduzione dal tedesco dello stesso Noja. L’edizione tedesca opera di un Maestro tedesco, Lama Sönam Lhündrup (Tilmann Borghart). Corsivi miei. Il samsāra è il divenire della nostra esistenza, di reincarnazione in reincarnazione, dominato dal dolore. Mahāmudrā significa “grande sigillo” e designa un tipo particolarmente elevato di meditazione.4. Op. cit., p. 205, nella sezione intitolata “Prepararsi alla morte”, pp. 199-220.

5. Giuseppe Tucci, Premessa a Il libro tibetano dei morti (Bardo Tödöl), a cura di Giuseppe Tucci, con Introduzione dello stesso, UTET, 1972, pp. 12-13. Ma vedi, Rinpoche, cit., p. 207 ss., più in dettaglio.
6. Kant, op. cit., p. 22: “Unmöglich ist das, was sich widerspricht”.7. Kant, op. cit., ivi.

8. Kant, op. cit., ivi. La parte finale del periodo recita in tedesco: “…aber nicht das hinreichende Criterium aller Wahrheit.”












lunedì 23 agosto 2021

Libertà e precetto in san Bonaventura e in Leone XIII. Di Silvio Brachetta




Nota redazionale. Questo articolo approfondisce il tema trattato dall’autore nell’ultimo Editoriale del Venerdì dell’Osservatorio: VEDILO QUI




Silvio Brachetta, 23 agosto 2021
By adminNOTIZIE DSC


Quanto la libertà, in san Bonaventura, sia legata al precetto lo si può capire anche con un semplice esempio. Devo scegliere se andare in vacanza a Torino o a Roma. La scelta è libera da coazione esterna, cioè libera da costrizione. Scelgo di andare a Torino. Qua devo fare ulteriori scelte libere: posso andare a piedi, in auto, in treno o in aereo. Scelgo il treno. Ma, una volta scelta Torino e il treno, sembra interdetta anche la libertà dalla coazione. Il treno ha uno (e un solo) percorso, ha orari stabiliti a priori, ha dei costi fissi di percorrenza. Non solo, ma la scelta del treno esclude altre scelte: non posso andare a Torino in treno e anche in aereo, ma devo obbligatoriamente seguire una via geografica e temporale definitiva.

Eppure, nonostante gli obblighi, mi dirò libero se – e solo se – raggiungerò Torino, perché questa è la scelta della mia volontà. Viceversa, se non raggiungerò Torino per un qualche intoppo, dirò che qualcosa ha impedito la libertà del mio volere. Se sono sano di mente, non dirò mai che gli obblighi del viaggio, delle leggi della fisica o della semplice logica, sono stati d’impedimento alla mia libertà.

La libertà, inoltre, non significa cambiare idea senza sosta o decidere di andare in località diverse nello stesso periodo di tempo. Non ha senso, né legame alcuno con la libertà, decidere di trascorrere le vacanze a Roma e a Torino nella medesima settimana, come è fuori dalla libertà essere paralizzati nell’indecisione sistematica tra Roma e Torino. Si finirebbe col morire di fame, come l’asino di Buridano.



Necessità delle catene

Da qui si comprende l’insegnamento di san Bonaventura: «E, dunque, vi è una duplice necessità: la coazione e l’immutabilità. La necessità di coazione ripugna alla libertà d’arbitrio, mentre la vera necessità è l’immutabilità. Per questo l’arbitrio si dice libero non perché si possa volere in modo che si voglia anche l’opposto al volere, ma perché tutto quello che si vuole tende al suo stesso dominio, perché così vuole qualcosa che voglia volere. E perciò, nell’atto di volizione, [l’arbitrio] muove e domina se stesso. Pertanto, si dice libero [arbitrio], sebbene ordinato immutabile a quello [all’atto di volizione]»[1].

Bene interpreta Francesco Corvino le parole di Bonaventura: «[…] essere liberi non significa volere e disvolere momento per momento, ma significa avere la capacità e la forza di realizzare fino in fondo ciò che si è deciso liberamente»[2]. Bonaventura, insomma, circa la libertà, distingue due necessità: di coazione e d’immutabilità. La coazione (la costrizione) è l’incatenamento, senza consenso, della libera volontà da parte di un’altra persona. L’immutabilità, al contrario, è la volontà che incatena se stessa nella scelta, affinché – dopo la scelta – si realizzi il volere libero della volontà.

La stessa immutabilità del volere lo si ritrova in Dio. Le leggi fisiche e naturali, ad esempio, sono immutabili non perché Dio non sia libero, ma proprio in quanto libero, per realizzare ciò che vuole, secondo ragione. Nella stessa natura, quindi, risplende Dio, tanto nella ragione, quanto nella volontà. La ragione eterna di Dio è evidente nell’aspetto matematico e logico delle leggi fisiche, mentre la sua libera volontà si esprime pienamente nell’immutabilità delle medesime leggi. Questo, tra l’altro, è un argomento anche a favore della realtà personale di Dio. Ovvero, il fatto che il Creatore sia un Dio personale (e tri-personale per rivelazione) lo si può desumere pure dalla semplice osservazione delle leggi naturali, logiche e immutabili.



La scure e il martello

In Bonaventura volontà e ragione non possono sussistere separate. Se la volontà fosse l’unica potenza dell’anima, sarebbe cieca; e se lo fosse la ragione, l’uomo sarebbe paralizzato nella scelta, rendendo la ragione inoperativa. Bonaventura afferma che ragione e volontà non sono accidenti o essenze separate dall’essenza dell’anima, ma sono potenze – assolutamente omogenee tra loro – le quali «non si differenziano dall’essenza dell’anima»[3]. Esse, cioè, costituiscono con l’anima un’unica essenza.

Ragione e volontà sono omogenee al punto da non poter ammettere una loro differenza sostanziale. Bonaventura offre un esempio molto singolare: «[…] un carpentiere possiede strumenti diversi per compiere operazioni diverse, come la scure per tagliare ed il martello per battere, nondimeno può servirsi della stessa scure sia dalla parte della lama per tagliare sia dalla parte opposta alla lama per sostituire il martello»[4]. Ragione e volontà, dunque, sono come due operazioni dello stesso utensile; due strumenti del medesimo dispositivo – l’anima. In termini aristotelici, si può affermare che ragione e volontà si «sussumono per riduzione [reductio]» sotto l’essenza dell’anima[5]. Di conseguenza, il «libero arbitrio» è «la sintesi di ragione e volontà»[6].



Libertà nella scelta del bene e schiavitù nella scelta del male

La scelta, però, non è mai neutra: ha sempre a che fare con la scelta tra beni o con la scelta tra un bene e un male. Leone XIII, in particolare, pone in relazione la libertà con l’ambito morale. Nell’enciclica Libertas[7], il papa definisce la libertà come «la facoltà di scegliere i mezzi idonei allo scopo che ci si è proposti», laddove idonee sono le cose buone e inidonee le cattive. Lo scopo è il bene, naturale e soprannaturale. E, tuttavia, l’uomo, al contrario delle bestie, può comprendere che il bene soprannaturale è necessario, mentre i beni particolari e mondani non lo sono affatto. Leone XIII, anzi, afferma che i beni mondani sono «contingenti», mentre l’unica necessità è nelle «immutabili e necessarie ragioni del vero e del bene».

A decidere, in ogni caso, del vero e del bene non è certo la volontà, ma ogni scelta volontaria «è sempre preceduta dal giudizio sulla verità dei beni e sul bene da anteporre agli altri». E, dunque, «nessun filosofo dubita che l’atto di giudicare appartenga alla ragione e non alla volontà». Non ha senso alcuno un desiderio che non sia sottomesso alla ragione, anche perché la volontà cieca potrebbe incappare in un male e ottenere il contrario di quanto intendeva realizzare.

L’errore di molti è la separazione, in ambito morale, della verità dalla volontà. Non comprendono che, per via di un principio di logica elementare, separando la volontà dalla verità (afferrata dalla ragione), si ottengono risultati diversi da quelli voluti dal medesimo volere e, pertanto, non si è liberi, ma schiavi di una scelta errata. La scelta, infatti, è errata quando ci si aspetta un bene e ne viene un male.

L’uomo, inoltre, dopo la caduta adamitica (peccato originale) solo a fatica e con una guida esterna (legge umana e divina) può raggiungere la verità e – di conseguenza – approdare ad una scelta omogenea al proprio volere. La scelta, pertanto, si dice omogenea al proprio volere – e dunque libera – solo se è guidata dalla retta ragione. Ma la ragione dev’essere «retta» in modo effettivo, non solo come intenzione: proprio a motivo della ferita causata dal peccato originale, è molto difficile, se non impossibile, che la ragione sia «retta» senza l’ausilio della grazia. Senza la legge, senza la grazia, senza «idonei e saldi presidi» – scrive Leone XIII – che indirizzano i desideri verso il bene voluto, il libero arbitrio non porta alla libertà, ma alla schiavitù. E, siccome il peccato è la scelta di un male, «chiunque commette il peccato è schiavo del peccato» (Gv 8, 34).

Tutto questo è detto a proposito tanto del bene naturale, quanto del bene morale – tanto del bene privato, quanto del bene comune. Il precetto divino della legge, in questo quadro, non è mai di ostacolo alla libertà, anche se soggetto a coazione transitoria (educazione dei giovani, leggi legittime dello stato), poiché conduce alla liberazione dell’uomo, ovvero lo incatena al desiderio immutabile della sua stessa volontà.

Silvio Brachetta



[1] «Cum enim duplex sit necessitas, videlicet coactionis et immutabilitatis, necessitas coactionis repugnat libertati arbitrii, necessitas vero immutabilitatis non, pro eo quod arbitrium dicitur liberum, non quia sic velit hoc ut possit velle eius oppositum, sed quia omne quod vult appetit ad sui ipsium imperium, quia sic vult aliquid ut velit se velle illud; et ideo in actu volendi se ipsum movet et sibi dominatur, et pro tanto dicitur liberum, quamvis immutabiliter ordinetur ad illud.», Bonaventura da Bagnoregio, II Sent., d. 25, p. 1, a. un., q. 2 concl.

[2] Francesco Corvino, Bonaventura da Bagnoregio, francescano e pensatore, Città Nuova, 2006, p. 288.

[3] Cfr. Corvino, Bonaventura da Bagnoregio, cit., pp. 274-275.

[4] Bonaventura da Bagnoregio, II Sent., d. 24, p. 1, a. 2, q. 1 concl.

[5] Ivi.

[6] Corvino, Bonaventura da Bagnoregio, cit., p. 283.

[7] Leone XIII, Lettera enciclica Libertas, 20/06/1888. Tutti i virgolettati successivi sono relativi a quest’opera.







domenica 22 agosto 2021

Ite ad Ioseph - Don Elia. Solenne novena a San Giuseppe dal 23 al 31 agosto 2021





Sancti per fidem vicerunt regna (cf. Eb 11, 33).


In situazioni di emergenza è facile lasciarsi prendere dalla ricerca frenetica di soluzioni immediate. Anche in un buon cristiano, istintivamente, si mette in moto il mulinello dei pensieri e scatta l’ansia dell’incerto futuro. Non nego di certo che la prospettiva di esser sospeso dal lavoro, soprattutto per chi ha famiglia, sia particolarmente preoccupante, come pure quella, per uno studente, di non poter più aver accesso ai corsi. Vorrei tuttavia richiamare il fatto che, per chi ha una fede viva, il primo e più spontaneo riflesso, di fronte a una difficoltà inaspettata e apparentemente insormontabile, è quello di rivolgersi al Cielo. Il credente sa che ogni evento della storia umana, piccolo o grande, è disposto o permesso da Dio per il suo maggior bene; alla luce di questa consapevolezza, la priorità assoluta è chiedere luce dall’alto sul modo giusto di affrontare il problema contando sul Suo aiuto.

Chi scrive, in passato, ha sperimentato la temporanea perdita dell’incarico e del relativo sostentamento, ma anche la mirabile sollecitudine della Provvidenza, che grazie alla generosità di tanti fratelli gli ha assicurato il necessario in tutto: «Il Signore è il mio pastore; nulla mi mancherà» (Sal 22, 1). Nella prova siamo spinti a perfezionare la fede e la speranza esercitandole in modo concreto; di conseguenza anche la carità si rafforza, sia perché il cuore si purifica dagli attaccamenti, sia perché un abbandono più pieno richiede un amore più intenso. Già il solo accrescimento delle virtù teologali è una grazia notevole, ma le avversità ben sopportate ci rendono pure più generosi col prossimo; nel rapporto con noi stessi, poi, esse ci fortificano interiormente e ci liberano da inutili fardelli, come le vane preoccupazioni e le esigenze superflue che insensibilmente ci soffocano il cuore.

Il nostro Maestro desidera altresì prepararci all’eventualità della persecuzione, che per i cristiani non è certo un fatto eccezionale. Vari decenni di accomodamento con il nemico – è vero – ci hanno illuso di poter scendere a patti su tutto. La cosiddetta apertura al mondo ha assuefatto gran parte dei cattolici a una tranquilla acquiescenza alle massime della cultura dominante e sottomissione alle regole dettate dal regime anticristico, che continua ad esser da loro idolatrato anche dopo aver deposto la sua maschera ammiccante e mostrato il suo volto mostruoso. I moderni credenti, con molti gerarchi alla loro testa, si fanno merito e vanto di trasgredire gravemente la legge divina per obbedire a uomini corrotti e depravati; se provate a far loro notare l’incoerenza, diventano violenti. La peculiarità della nuova persecuzione, perciò, è che proviene non solo dall’esterno della Chiesa, ma anche dall’interno; i suoi agenti si arruolano perfino fra quanti, fino a ieri, ci erano amici o sodali.


«Sarete odiati da tutti a causa del mio nome, ma chi avrà perseverato sino alla fine, costui sarà salvato» (Mc 13, 13). «Sarete traditi anche dai genitori, dai fratelli, dai parenti e dagli amici […]. Con la vostra pazienza acquisterete le vostre anime» (Lc 21, 16.19). Il cristiano non è sospinto da un rassegnato fatalismo né da uno spirito di eroismo vittimistico, ma da un indomito amore per Gesù, fuoco che gli brucia il cuore e ne irradia la gioia di soffrire per Lui. Chi non si sente pronto Gli chieda di accenderlo e farlo divampare, senza far calcoli sulle proprie forze, bensì esprimendo una fiducia incondizionata nella Sua potenza. Il Martirologio ricorda parecchi casi di fedeli inizialmente pavidi di fronte al pericolo, che poi si trasformarono repentinamente in intrepidi testimoni della fede. Il nostro Diletto ci accorderà immancabilmente tutte le grazie di cui avremo bisogno a seconda delle circostanze, sia sul piano materiale che su quello spirituale; non è certo a corto di mezzi.

Non è proibito, naturalmente, implorarlo perché intervenga in nostro soccorso, proprio perché il vero credente, lungi dall’essere un fatalista o un vittimista, sa che la sua preghiera è una forza attiva che, prevista nel piano divino fin dall’eternità, può modificare la storia. Tuttavia, perché le nostre suppliche siano efficaci, fino a risultare irresistibili sul cuore di Dio, è indispensabile che sgorghino da un cuore completamente puro, esente, in particolare, da quella rabbia e quell’angoscia che sono due facce della stessa medaglia, la ribellione orgogliosa di chi vorrebbe dirigere persino i decreti della Provvidenza. La bocca che presume di poter essere ascoltata dagli orecchi di Dio, inoltre, deve astenersi da tutto ciò che li offende: critiche, offese, volgarità, maldicenze… È molto allettante, nelle odierne circostanze, lasciarsi andare a sfoghi scomposti nelle reti sociali, approvandosi gli uni gli altri in una frustrante ricerca di facili consensi; il fatto è che ciò inaridisce terribilmente l’anima, la allontana da Dio e la priva di innumerevoli grazie, peggiorandone ancor più la situazione.


Non è certo senza motivo che proprio in questa stagione storica così inquietante il Signore stia sempre più svelando il formidabile ruolo svolto, nella società e nella Chiesa, da Colui che Gli fece da padre sulla terra. Come capo della Santa Famiglia, san Giuseppe continua ad esercitare l’autorità ricevuta dal Cielo a beneficio dell’immensa famiglia di Dio. Prima ancora di invocare la Sua intercessione a nostro favore, però, dobbiamo prendere la ferma risoluzione di imitarne le qualità interiori, le virtù eminenti, i comportamenti pratici. La Sua funzione di protettore e patrono si esplica anzitutto nella paziente opera di educatore che svolge nei confronti delle membra del Corpo Mistico, così come vi assolse verso l’umanità del Capo. Per essere certo che un pensiero, una parola o un’azione siano graditi a Gesù e a Maria, domandati se sarebbero ammessi da Lui, se fosse tuo padre; il Suo sguardo dolce e severo ti darà un’infallibile risposta.


Mantenendo la calma e confidando nella Sua intercessione, puoi anche tentare, se davvero è utile e necessario, qualche procedura umana mirante ad assicurare il rispetto dei tuoi diritti: una diffida da parte di un avvocato, di solito, basta a mettere in riga i prevaricatori; se non è sufficiente, ci si può collegare in un ricorso collettivo oppure appellare alle istanze superiori di giudizio, a livello nazionale o europeo. Anche ai cristiani più ferventi è lecito avvalersi delle risorse offerte dal sistema giuridico, purché lo facciano mettendo al primo posto la fiducia nella Provvidenza e si aspettino il buon esito dal volere di Dio, completamente abbandonati al Suo beneplacito. Col cuore sgombro dall’aggressività e dal risentimento, essi si adoperano a superare le avversità contando sugli effetti della grazia, che si innesta sul loro agire e lo eleva al piano soprannaturale, ma può pure risolvere il problema in modalità impensabili, con interventi del tutto inaspettati.


Molto spesso, prima di arrivare a situazioni conflittuali, puoi sciogliere un nodo interpellando la coscienza di chi hai di fronte e facendo leva sulla sua umanità in modo tranquillo e pacato. Ciò che quasi sempre complica enormemente una controversia è l’atteggiamento polemico e irruente con cui ci si illude di intimidire la controparte e se ne stimola invece il bellicoso orgoglio. La fermezza è senz’altro vincente, ma in virtù non tanto della veemenza, quanto della serena determinazione dovuta alla certezza del proprio buon diritto. Il dominio di sé non è certo indice di remissività, bensì di forza interiore; l’impetuosità, viceversa, tradisce spesso l’insicurezza di chi si sente inadeguato di fronte alle sfide della vita. Impariamo allora da san Giuseppe a praticare queste virtù, così preziose nelle attuali circostanze, e mettiamoci umilmente alla Sua scuola.

Sia per essere da Lui educati in questo senso, sia per impetrare il Suo intervento a nostro favore, è quanto mai urgente pregarlo con insistenza. A tal fine trovo molto opportuna un’iniziativa alla quale raccomando di aderire. Si tratta di una solenne novena da recitare immediatamente prima dell’avvio dell’anno sociale, dal 23 al 31 agosto. Per renderla ancora più efficace, sarebbe importante consacrarsi al santo Patriarca prima di cominciarla. Sollecitato dal maggior numero di devoti, Egli non mancherà certamente di rispondere né sul piano materiale né su quello spirituale, purché ci sforziamo di far assomigliare il nostro al Suo cuore castissimo, mite e paziente. In questo modo anche le parole che, attraverso di Lui e Maria, rivolgeremo al Figlio divino saliranno al Suo trono dritte come frecce per l’innocenza e la purezza degli animi da cui sgorgheranno.

Solenne novena a San Giuseppe
(dal 23 al 31 agosto 2021)

Pubblicato da mic