martedì 30 aprile 2013

Inferno vuoto? Quando taluni scambiano la loro speranza (di non finirci) per teologia








di Ester M. Ledda

Due importanti esponenti della sinistra massimalista milanese sono un prete e una suora: don Virginio Colmegna e suor Claudia Biondi della Congregazione delle Suore Ausiliatrici delle Anime del Purgatorio. Nel 2011 parteciparono attivamente alla compagna elettorale del comunista Giuliano Pisapia, attuale sindaco di Milano, le cui politiche sociali vanno contro la vita, la famiglia e la libertà di educazione, i famosi «principi non negoziabili». Ovviamente per loro i principi non negoziabili sono altri (immigrazionismo, solidarismo, etc…), ma vorrei soffermarmi sul loro strano concetto di “misericordia”, al di fuori dell’ortodossia cattolica. 

In un’intervista rilasciata al settimanale Donna Moderna, nell’ottobre 2008, suor Claudia Biondi affermò che «l’inferno, se c’è, è vuoto». Don Virginio Colmegna è dello stesso parere, in quanto Gesù – dice il nostro -, dopo la morte, discese agli inferi per salvare le anime dalla punizione eterna. Naturalmente questi due non sono i soli ad essere “più buoni di Dio”, quasi tutti i cattocomunisti sono conviti che anche coloro che deliberatamente rifiutano Dio potranno goderlo ugualmente. Anche il sedicente monaco Enzo Bianchi, fondatore della “casa di tolleranza religiosa” di Bose, sostiene che “la salvezza di Gesù arriva fino all’inferno”. Hanno ragione? Assolutamente no. L’inferno non è vuoto: ci sono quelle anime – e ci resteranno per sempre – che hanno rifiutato, per loro libera scelta, la redenzione di Cristo. Non lo dice la Strega, lo dice la Chiesa cattolica.

È vero che Gesù, dopo la morte e prima della resurrezione nel suo vero Corpo, discese agli inferi – come dice il Credo – ma non andò all’inferno. Il Catechismo della Chiesa Cattolica, quello del 1992, spiega infatti che per “inferi” s’intende “il soggiorno dei morti”, un limbo in cui risiedevano le anime dei giusti morti prima della Croce – da Adamo ed Eva fino a San Giuseppe e San Giovanni Battista – che non potevano entrare in paradiso a causa del peccato originale (cfr. CCC n. 633). Cristo, dunque, liberò i giusti e non gli empi. L’inferno è uno stato di separazione definitiva e irrevocabile dalla Santissima Trinità (cfr. CCC n. 1033). Gesù stesso, nella parabola del ricco epulone e del povero Lazzaro, spiega che la sorte dei morti non è la stessa (cfr. Lc 16,19-31). Ciò che dice la Chiesa sull’inferno non è opinabile: chi non lo accetta è in errore, cioè in eresia.

Del resto, nel corso dei secoli, molti mistici hanno avuto visioni dell’inferno. Riporto alcune testimonianze di quei mistici ai quali la Chiesa ha dato i titoli di beati o di santi.



Don Giovanni Bosco, fondatore delle congregazioni dei Salesiani e delle Figlie di Maria Ausiliatrice, 1815-1888.

La visione dell’inferno di San Giovanni Bosco

«Mi trovai con la mia guida (l’Angelo Custode, nda), in fondo ad un precipizio che finiva in una valle oscura. Ed ecco comparire un edificio immenso, avente una porta altissima, serrata. Toccammo il fondo del precipizio; un caldo soffocante mi opprimeva, un fumo grasso, quasi verde, s’innalzava sui muraglioni dell’edificio e guizze di fiamme sanguigne. Domandai: “Dove ci troviamo”? “Leggi – mi rispose la guida – l’iscrizione che è sulla porta”! C’era scritto: “Ubi non est redemptio”!, cioè: “Dove non c’è redenzione”. Intanto vidi precipitare dentro quel baratro [...] prima un giovane, poi un altro, ed in seguito altri ancora; tutti avevano scritto in fronte il proprio peccato. Esclamò la guida: “Ecco la causa precipua di queste dannazioni: i compagni, i libri cattivi e le perverse abitudini”. 
Gli infelici erano giovani da me conosciuti. Domandai: “Ma dunque è inutile che si lavori tra i giovani, se tanti fanno questa fine? Come impedire tanta rovina”? “Coloro che hai visto, sono ancora in vita; questo però è il loro stato attuale e se morissero, verrebbero senz’altro qui”! Dopo entrammo nell’edificio; si correva con la rapidità del baleno. Lessi questa iscrizione: “Ibunt impii in ignem æternum”!, vale a dire “Gli empi andranno nel fuoco eterno”! “Vieni con me”!, soggiunse la guida. Mi prese per una mano e mi condusse davanti ad uno sportello, che aperse. Mi si presentò allo sguardo una specie d’immensa caverna, piena di fuoco. Certamente quel fuoco sorpassava mille e mille gradi di calore. Io questa spelonca non ve la posso descrivere in tutta la sua spaventosa realtà. Intanto, all’improvviso, vedevo cadere dei giovani nella caverna ardente.
 La guida disse: “La trasgressione del sesto comandamento è la causa della rovina eterna di tanti giovani”. “Ma se hanno peccato, si sono però confessati”. “Si sono confessati, ma le colpe contro la virtù della purezza le hanno confessate male o taciute affatto”. Ad esempio, uno aveva commesso quattro o cinque di questi peccati, ma ne disse solo due o tre. Vi sono di quelli, che ne hanno commesso uno nella fanciullezza ed ebbero sempre vergogna di confessarlo, oppure l’hanno confessato male e non hanno detto tutto. Altri non ebbero il dolore e il proponimento; anzi, taluni, invece di fare l’esame di coscienza, studiavano il modo di ingannare il confessore. E chi muore con tale risoluzione, risolve di essere nel numero dei reprobi e così sarà per tutta l’eternità [...].
 “E ora vuoi vedere perché la misericordia di Dio qui ti ha condotto”? La guida sollevò un velo e vidi un gruppo di giovani di questo Oratorio, che io tutti conoscevo, condannati per questa colpa. Fra essi vi erano di quelli che in apparenza tengono buona condotta. Continuò la guida: “Predica dappertutto contro l’immodestia”! Poi parlammo per circa mezz’ora sulle condizioni necessarie per fare una buona confessione e si concluse: “Mutare vita! [...] Mutare vita”! “Ora – soggiunse l’amico – che hai visto i tormenti dei dannati, bisogna che provi anche tu un poco di inferno”! Usciti dall’orribile edificio, la guida afferrò la mia mano e toccò l’ultimo muro esterno; io emisi un grido [...]. Cessata la visione, osservai che la mia mano era realmente gonfia e per una settimana portai la fasciatura».




Suor Teresa di Gesù, riformatrice del Carmelo, 1515-1582.


La visione dell’inferno di Santa Teresa d’Avila

«Un giorno mentre ero in orazione; mi trovai tutt’a un tratto trasportata intera nell’inferno. Compresi che Dio mi voleva far vedere il luogo che i demoni mi avevano preparato, e che io mi ero meritato con i miei peccati. Fu una visione che durò pochissimo, ma vivessi anche molti anni, mi sembra di non poterla più dimenticare. 
L’ingresso mi pareva un cunicolo molto lungo e stretto, simile a un forno assai basso, buio e angusto; il suolo tutto una melma puzzolente piena di rettili schifosi. In fondo, nel muro, c’era una cavità scavata a modo di nicchia, e in essa mi sentii rinchiudere strettamente. E quello che allora soffrii supera ogni umana immaginazione, né mi sembra possibile darne solo un’idea perché cose che non si sanno descrivere. Basti sapere che quanto ho detto, di fronte alla realtà sembra cosa piacevole. 
Sentivo nell’anima un fuoco che non so descrivere, mentre dolori intol­lerabili mi straziavano orrendamente il corpo. Nella mia vita ne ho sofferto moltissimi, dei più gravi che secondo i medici si possano subire sulla Terra, perché i miei nervi si erano rattrappiti sino a rendermi storpia, senza dire dei molti altri di diverso genere, causatimi in parte dal demonio. Tuttavia, non sono nemmeno da paragonarsi con quanto allora ho sofferto, specialmente al pensiero che quel tormento doveva essere senza fine e senza alcuna mitigazione. 

Ma anche questo era un nulla innanzi all’agonia dell’anima. Era un’oppressione, un’angoscia, una tristezza così profonda, un così vivo e disperato dolore che non so come esprimermi. Dire che si soffrano continue agonie di morte è poco, perché almeno in morte pare che la vita ci venga strappata da altri, mentre qui è la stessa anima che si fa in brani da sé. Fatto sta che non so trovare espressioni né per dire di quel fuoco interiore né per far capire la disperazione che metteva il colmo a così orribili tormenti. Non vedevo chi me li faceva soffrire, ma mi sentivo ardere e dilacerare, benché il supplizio peggiore fosse il fuoco e la disperazione interiore. 
Era un luogo pestilenziale, nel quale non vi era più speranza di conforto, né spazio per sedersi o distendersi, rinserrata com’ero in quel buco praticato nella muraglia. Orribili a vedersi, le pareti mi gravavano addosso, e mi pareva di soffocare. Non v’era luce, ma tenebre fittissime; eppure quanto poteva dar pena alla vista si vedeva ugualmente nonostante l’assenza della luce: cosa che non riuscivo a comprendere. Per allora Dio non volle mostrarmi di più, ma in un’altra visione vidi supplizi spaventosissimi, fra cui i castighi di alcuni vizi in particolare. A vederli parevano assai più terribili, ma non mi facevano tanta paura perché non li sperimentavo, mentre nella visione di cui parlo il Signore volle farmi sentire in ispirito quelle pene ed afflizioni, come se le soffrissi nel corpo [...]. 
Sentir parlare dell’inferno è niente. Vero è che io l’ho meditato poche volte perché la via del timore non è fatta per me, ma è certo che quanto si medita sui tormenti dell’inferno, su quello che i demoni fanno patire, o che si legge nei libri, non ha nulla a che fare con la realtà, perché totalmente diversa, come un ritratto messo a confronto con l’oggetto ritrattato. Quasi neppure il nostro fuoco si può paragonare con quello di laggiù. Rimasi spaventatissima e lo sono tuttora mentre scrivo, benché siano già passati quasi sei anni, tanto da sentirmi agghiacciare dal terrore qui stesso dove sono.
Mi accade intanto che quando sono afflitta da qualche contraddizione o infermità, basta che mi ricordi di quella visione perché mi sembrino subito da nulla persuadendomi che ce ne lamentiamo senza motivo. Questa fu una delle più grandi grazie che il Signore m’abbia fatto, perché mi ha giovato moltissimo non meno per non temere le contraddizioni e le pene della vita che per incoraggiarmi a sopportarle, ringraziando il Signore d’avermi liberata da mali così terribili ed eterni, come mi pare di dover credere».




Suor Veronica Giuliani, clarissa, 1660-1727.



Le visioni dell’inferno di Santa Veronica Giuliani


«Parvemi che il Signore mi facesse vedere un luogo oscurissimo; ma dava incendio come fosse stata una gran fornace. Erano fiamme e fuoco, ma non si vedeva luce; sentivo stridi e rumori, ma non si vedeva niente; usciva un fetore e fumo orrendo, ma non vi è, in questa vita, cosa da poter paragonare. 
In questo punto, Iddio mi dà una comunicazione sopra l’ingratitudine delle creature, e quanto gli dispiaccia questo peccato. E qui mi si dimostrò tutto appassionato, flagellato, coronato di spine, con viva, pesante croce in spalla. Così mi disse: “Mira e guarda bene questo luogo che non avrà mai fine. Vi sta, per tormento, la mia giustizia ed il rigoroso mio sdegno”. In questo mentre, mi parve di sentire un gran rumore. Comparvero tanti demoni: tutti, con catene, tenevano bestie legate di diverse specie. Le dette bestie, in un subito, divennero creature (uomini), ma tanto spaventevoli e brutte, che mi davano più terrore che non erano gli stessi demoni. Io stavo tutta tremante, e mi volevo accostare dove stava il Signore. Ma, con tutto ché vi fosse poco spazio, non potei mai avvicinarmi più. Il Signore grondava sangue, e sotto quel grave peso stava. O Dio! Io avrei voluto raccogliere il Sangue, e pigliare quella Croce, e con grand’ansia desideravo il significato di tutto. 
In un istante, quelle creature divennero, di nuovo, in figura di bestie, e poi, tutte furono precipitate in quel luogo oscurissimo, e maledicevano Iddio e i Santi. Qui mi si aggiunge un rapimento, e mi parve che il Signore mi facesse capire, che quel luogo era l’inferno, e quelle anime erano morte, e, per il peccato, erano divenute come bestie, e che, fra esse, vi erano anche dei religiosi [...]. Mi pareva di essere trasportata in un luogo deserto, oscuro e solitario, ove non sentivo altro che urli, stridi, fischi di serpenti, rumori di catene, di ruote, di ferri, botti così grandi, che, ad ogni colpo, pensavo sprofondasse tutto il mondo. E io non avevo sussidi ove rivolgermi; non potevo parlare; non potevo invitare il Signore. Mi pareva che fosse luogo di castigo e di sdegno di Dio verso di me, per le tante offese fatte a Sua Divina Maestà. E avevo davanti di me tutti i miei peccati [...]. Sentivo un incendio di fuoco, ma non vedevo fiamme; altro che colpi sopra di me; ma non vedevo nessuno. In un subito, sentivo come una fiamma di fuoco che si avvicinava a me, e sentivo percuotermi; ma niente vedevo. Oh! Che pena! Che tormento! Descriverlo non posso; e anche il sol ricordarmi di ciò, mi fa tremare. Alla fine, fra tante tenebre, mi parve di vedere un piccolo lume come per aria. A poco a poco, si dilatò tanto. Mi sembrava che mi sollevasse da tali pene; ma non vedevo altro».

«In un batter d’occhio mi ritrovai in una regione bassa, nera e fetida, piena di muggiti di tori, di urli di leoni, di fischi di serpenti [...]. Una grande montagna si alzava a picco davanti a me ed era tutta coperta di aspidi e basilischi legati assieme [...]. La montagna viva era un clamore di maledizioni orribili. Essa era l’inferno superiore, cioè l’inferno benigno. Infatti, la montagna si spalancò e nei suoi fianchi aperti vidi una moltitudine di anime e demoni intrecciati con catene di fuoco. I demoni, estremamente furiosi, molestavano le anime le quali urlavano disperate. A questa montagna seguivano altre montagne più orride, le cui viscere erano teatro di atroci e indescrivibili supplizi. Nel fondo dell’abisso vidi un trono mostruoso, fatto di demoni terrificanti. 
Al centro una sedia formata dai capi dell’abisso. Satana ci sedeva sopra nel suo indescrivibile orrore e da lì osservava tutti i dannati. Gli angeli mi spiegarono che la visione di Satana forma il tormento dell’inferno, come la visione di Dio forma la delizia del Paradiso. Nel frattempo, notai che il muto cuscino della sedia erano Giuda ed altre anime disperate come lui. Chiesi agli angeli di chi fossero quelle anime ed ebbi questa terribile risposta: “Essi furono dignitari della Chiesa e prelati religiosi».

«[...] Lucifero ha d’intorno le anime più graziate dal cielo, che nulla fecero per Iddio, per la sua gloria; e tiene sotto i piedi, a guisa di cuscino, e pesta continuamente le anime di quelli che mancarono ai loro voti. [...] O giustizia di Dio, quanto sei potente!».



Suor Anna Katharina Emmerick, agostiniana, 1774-1824.



La visione dell’inferno della Beata Anna Katharina Emmerick

«L’inferno mi apparve come un immenso antro tenebroso, illuminato appena da una scialba luce quasi metallica. Sulla sua entrata risaltavano enormi porte nere, con serrature e catenacci incandescenti. Urla di orrore si elevavano senza posa da quella voragine paurosa di cui, a un tratto, si sprofondarono le porte. Così potei vedere un orrido mondo di desolazione e di tenebre. L’inferno è un carcere di eterna ira, dove si dibattono esseri discordi e disperati. Mentre nel cielo si gode la gioia e si adora l’Altissimo dentro giardini ricchi di bellissimi fiori e di frutta squisite che comunicano la vita, all’inferno invece si sprofondano cavernose prigioni, si estendono orrendi deserti e si scorgono smisurati laghi rigurgitanti di mostri paurosi, orribili. 
Là dentro ferve l’eterna e terribile discordia dei dannati. Nel cielo invece regna l’unione dei Santi eternamente beati. L’inferno, al contrario, rinserra quanto il mondo produce di corruzione e di errore; là imperversa il dolore e si soffrono quindi supplizi in una indefinita varietà di manifestazioni e di pene. 

Ogni dannato ha sempre presente questo pensiero: che i tormenti, che egli soffre, sono il frutto naturale e giusto dei suoi misfatti. Quanto si sente e si vede di orribile all’inferno è l’essenza, la forma interiore del peccato scoperto. Di quel serpe velenoso, che divora quanti lo fomen­tarono in seno durante la prova mortale. Tutto questo si può comprendere quando si vede, ma riesce inesprimibile a parole. Quando gli Angeli, che scortavano Gesù, avevano abbattuto le porte infernali, si era sollevato come un subbisso d’imprecazioni, d’ingiurie, di urla e di lamenti. Alcuni Angeli avevano cacciato altrove sterminate torme di demoni, i quali avevano poi dovuto riconoscere e adorare il Redentore. Questo era stato il loro maggior supplizio. Molti di essi venivano quindi imprigionati dentro una sfera, che risultava di tanti settori concentrici. Al centro dell’inferno si sprofondava un abisso tenebroso, dov’era precipitato Lucifero in catene, il quale stava immerso tra cupi vapori. Tutto ciò era avvenuto secondo determinati arcani divini. [...]».




Suor Faustina Kowalska, propagatrice della devozione della Divina Misericordia, 1905-1938.



La visione dell’inferno di Santa Faustina Kowalska

«Assisto spesso anime di agonizzanti ed ottengo loro la fiducia nella divina Misericordia ed imploro da Dio la magnanimità della grazia divina che vince sempre. La Misericordia di Dio talvolta raggiunge il peccatore all’ultimo momento, in modo singolare e misterioso. All’esterno a noi sembra che tutto sia perduto, ma non è così; l’anima illuminata dal raggio di una vigorosa ultima grazia divina, si rivolge a Dio all’ultimo momento con un tale impeto d’amore che, in un attimo, ottiene da Dio il perdono delle colpe e delle pene. All’esterno però non ci dà alcun segno né di pentimento né di contrizione, poiché essi non reagiscono più alle cose esterne. Oh, quanto imperscrutabile è la divina Misericordia! 
Ma, orrore! Ci sono anche delle anime che respingono volontariamente e consapevolmente tale grazia e la disprezzano. Sia pure durante l’agonia, Iddio misericordioso dà all’anima un lucido momento interiore, in cui, se l’anima vuole, ha la possibilità di tornare a Dio. Però talvolta nelle anime c’è un’ostinazione così grande, che scelgono consapevolmente l’inferno, rendendo vane tutte le preghiere che altre anime innalzano per loro a Dio e gli stessi sforzi di Dio… [...] 
Sotto la guida di un angelo, sono stata negli abissi dell’inferno. È un luogo di grandi tormenti per tutta la sua estensione spaventosamente grande. Queste le varie pene che ho visto: la prima pena, quella che costituisce l’inferno, è la perdita di Dio; la seconda, i continui rimorsi di coscienza; la terza, la consapevolezza che quella sorte non cambierà mai; la quarta pena è il fuoco che penetra l’anima, ma non l’annienta; è una pena terribile: è un fuoco puramente spirituale acceso dall’ira di Dio; la quinta pena è l’oscurità continua, un orribile soffocante fetore, e benché sia buio i demoni e le anime dannate si vedono fra di loro e vedono tutto il male degli altri e il proprio; la sesta pena è la compagnia continua di Satana; la settima pena è la tremenda disperazione, l’odio di Dio, le imprecazioni, le maledizioni, le bestemmie. Queste sono pene che tutti i dannati soffrono insieme, ma questa non è la fine dei tormenti.
 Ci sono tormenti particolari per le varie anime che sono i tormenti dei sensi. Ogni anima con quello che ha peccato viene tormentata in maniera tremenda e indescrivibile. Ci sono delle orribili caverne, voragini di tormenti, dove ogni supplizio si differenzia dall’altro. Sarei morta alla vista di quelle orribili torture, se non mi avesse sostenuta l’onnipotenza di Dio. Il peccatore sappia che col senso col quale pecca verrà torturato per tutta l’eternità. [...] Scrivo questo per ordine di Dio, affinché nessun’anima si giustifichi dicendo che l’inferno non c’è, oppure che nessuno sa come sia. Io, Suor Faustina Kowalska, per ordine di Dio sono stata negli abissi dell’inferno, allo scopo di raccontarlo alle anime e testimoniare che l’inferno c’è. Quello che ho scritto è una debole ombra delle cose che ho visto. Una cosa ho notato e cioè che la maggior parte delle anime che ci sono, sono anime che non credevano che ci fosse l’inferno».



Cova da Iria, 13 luglio 1917. I volti terrorizzati dei tre pastorelli durante la visione dell’inferno.



La visione dell’inferno dei tre veggenti di Fatima
Durante l’apparizione del 13 luglio 1917, la Madonna mostrò ai tre piccoli veggenti, Lucia do Santos e Francisco e Giacinta Marto, l’inferno. Racconta Lucia: «[...] La Signora aprì di nuovo le mani, come nei due mesi precedenti. Sembrò che il riflesso penetrasse la terra e vedemmo come un mare di fuoco. Immersi in quel fuoco i demoni e le anime, come se fossero braci trasparenti e nere, o bronzee, in forma umana, che fluttuavano nell’incendio, trasportate dalle fiamme che uscivano da loro stesse, insieme a nuvole di fumo che cadevano da ogni parte uguali al cadere delle scintille nei grandi incendi, senza peso né equilibrio, tra grida e gemiti di dolore e disperazione che suscitavano orrore e facevano tremare di paura. I demoni si distinguevano per le forme orribili e schifose di animali spaventosi e sconosciuti, ma trasparenti come neri carboni roventi”. Eravamo spaventati e come per chiedere aiuto, alzammo gli occhi alla Madonna, che ci disse con bontà e tristezza: “Avete visto l’inferno, dove vanno a finire le anime dei poveri peccatori… Quando recitate il rosario, dopo ogni mistero dite: O Gesù mio, perdonate­ci, liberateci dall’inferno, portate in cielo tutte le anime, soprattutto quelle più bisognose”. [...]».

All’apparizione successiva, il 13 agosto, la Madonna aggiunse: «Pregate, pregate molto e fate sacrifici per i peccatori. Badate che molte, molte anime vanno all’inferno, perché non vi è chi si sacrifichi e preghi per loro».


Vorrei che coloro che sostengono che l’inferno è vuoto riflettessero su due frasi: la prima è di Santa Faustina, la seconda di Nostra Signora di Fatima.

1) «Una cosa ho notato e cioè che la maggior parte delle anime che ci sono, sono anime che non credevano che ci fosse l’inferno». Come dice il proverbio: “Uomo avvisato, mezzo salvato”.

2) «Badate che molte, molte anime vanno all’inferno, perché non vi è chi si sacrifichi e preghi per loro». Quindi, cari sacerdoti e religiosi, se sperate in un inferno vuoto o, almeno, poco affollato, anziché occuparvi di campagne elettorali, andate a flagellarvi per i peccatori.




http://www.papalepapale.com/strega/?p=1183 27 aprile 2013

Anniversario dell’Istruzione Universae Ecclesiae. Messa antica, istruzioni per l’uso







[Ricorre in questi giorni il secondo anniversario della promulgazione – il 30 aprile 2011, nella memoria liturgica di san Pio V – dell’Istruzione «Universae Ecclesiae» sull’applicazione della Lettera Apostolica Motu Proprio data «Summorum Pontificum» di S.S. Benedetto XVI, pubblicata su specifico mandato di Benedetto XVI dalla Pontificia Commissione «Ecclesia Dei». Ricordiamo la ricorrenza trascrivendo il nono capitolo del recente volume di Massimo Introvigne, L’eredità di Benedetto. Quello che Papa Ratzinger lascia al suo successore Francesco, Sugarco, Milano 2013, pp. 110-116.]




Il 13 maggio 2011 la Pontificia Commissione «Ecclesia Dei», su specifico mandato di Benedetto XVI, ha pubblicato l’attesa Istruzione «Universae Ecclesiae» sull’applicazione della Lettera Apostolica Motu Proprio data «Summorum Pontificum» di S.S. Benedetto XVI [1]. Come si ricorderà, tale lettera apostolica del 7 luglio 2007 [2] liberalizzava l’uso della liturgia «antica», celebrata secondo il rito detto di san Pio V (1504-1572) e con l’uso del Messale del 1962 del beato Giovanni XXIII (1881-1963). L’Istruzione riporta l’approvazione esplicita di Benedetto XVI e porta la data formale del 30 aprile 2011, festa liturgica di san Pio V.

L’Istruzione interviene su una materia quanto mai controversa, e per comprenderne la portata è necessaria un po’ di storia. Dopo la riforma liturgica del 1969 del venerabile Paolo VI (1897-1978) – che non si limitava a passare dal latino alle lingue correnti, ma modificava profondamente la liturgia – si poneva il problema della sorte della liturgia precedente, la cosiddetta «Messa antica» o «Messa di san Pio V», spesso detta anche «Messa in latino», ma in modo impreciso perché anche la Messa secondo la riforma del 1969 può essere celebrata in lingua latina. Non poteva esistere nessun dubbio sulla volontà del venerabile Paolo VI di rendere la «nuova Messa» obbligatoria come rito ordinario della Chiesa latina, mentre le Chiese orientali conservavano le loro antiche liturgie. Qualcuno riteneva che la Messa antica fosse stata abrogata, e fosse vietata salvo speciali permessi o indulti concessi a singoli o congregazioni: un’obiezione che si fondava anche su commenti privati e interviste dello stesso venerabile Paolo VI. In favore della Messa antica sorse un vasto movimento, che in parte accettò anche la nuova Messa accanto all’antica, in parte rifiutò la Messa nuova, andando nel secondo caso a confluire nella galassia di movimenti – il più noto dei quali è la Fraternità Sacerdotale San Pio X fondata dall’arcivescovo Marcel Lefebvre (1905-1991) – che contestavano anche tutti o alcuni dei documenti del Concilio Ecumenico Vaticano II. Per questi movimenti la Messa antica non era l’unica – e forse neppure la principale – ragione di dissenso con Roma, ma ne divenne in qualche modo la bandiera.

Proprio in occasione della scomunica di mons. Lefebvre nel 1988, come l’Istruzione Universae Ecclesiae ora ci ricorda, il beato Giovanni Paolo II, il quale «con lo speciale Indulto Quattuor abhinc annos, emanato nel 1984 dalla Sacra Congregazione per il Culto Divino, [aveva concesso] a determinate condizioni la facoltà di riprendere l’uso del Messale Romano promulgato dal Beato Papa Giovanni XXIII», «con il Motu Proprio “Ecclesia Dei” [appunto] del 1988, esortò i Vescovi perché fossero generosi nel concedere tale facoltà in favore di tutti i fedeli che lo richiedevano». In seguito a tale motu proprio nacquero anche gli istituti detti appunto «Ecclesia Dei» costituiti da sacerdoti e religiosi i quali intendevano preservare il rito antico e nello stesso tempo aderivano al Magistero conciliare e post-conciliare dei Pontefici, prendendo esplicitamente le distanze da mons. Lefebvre. Questi istituti, pur celebrando con il rito antico, s’impegnavano a non contestare non solo la validità – che non era contestata neppure da mons. Lefebvre, almeno in via generale – ma neppure la legittimità del nuovo rito.

Con il motu proprio Summorum Pontificum Benedetto XVI – dal momento che l’appello ai vescovi perché «fossero generosi», per usare un eufemismo, non sempre era stato accolto – fece un passo in più. Chiarì definitivamente che l’antico rito non era stato «mai abrogato» [3] e che rito antico e rito nuovo sono «due usi dell’unico rito romano» [4]. Svincolò dall’approvazione previa dei vescovi le Messe private di singoli sacerdoti, cui peraltro, spiegò, «possono essere ammessi – osservate le norme del diritto – anche i fedeli che lo chiedessero di loro spontanea volontà» [5], e quelle di ordini e società religiose, ordinando che potessero essere celebrate con il rito antico senza richiedere alcun permesso. Per le parrocchie e i santuari il Papa chiedeva ai parroci e rettori di accogliere «volentieri» [6] le richieste di fedeli legati al rito antico e, qualora ci fossero problemi con i parroci, invitava i fedeli a rivolgersi al vescovo, a sua volta – scriveva Benedetto XVI – «vivamente pregato di esaudire il loro desiderio» [7]. Se il vescovo «non può provvedere» [8], aggiungeva il motu proprio, «la cosa venga riferita alla Commissione Pontificia “Ecclesia Dei”» [9].

Trascorsi tre anni dal motu proprio del 2007, com’era stato annunciato, è stata promossa un’inchiesta tra i vescovi di rito latino, dei cui risultati si è tenuto conto per l’Istruzione Universae Ecclesiae. L’Istruzione sintetizza la triplice finalità del motu proprio del 2007, così articolandola: «a) offrire a tutti i fedeli la Liturgia Romana nell’usus antiquior, considerata tesoro prezioso da conservare; b) garantire e assicurare realmente, a quanti lo domandano, l’uso della forma extraordinaria; c) favorire la riconciliazione in seno alla Chiesa». Quanto al secondo punto, si sottolinea come tale facoltà «vada interpretata in un senso favorevole ai fedeli che ne sono i principali destinatari».

È impensabile che non si sia tenuto conto anche delle tante lamentele pervenute alla commissione «Ecclesia Dei» nei confronti di vescovi i quali non applicavano le norme del motu proprio, quando pure non lo criticavano esplicitamente o ne promuovevano una sorta di boicottaggio. Forse tenendo conto di questi problemi, la Universae Ecclesiae ribadisce anzitutto che «il Motu Proprio Summorum Pontificum costituisce una rilevante espressione del Magistero del Romano Pontefice e del munus a Lui proprio di regolare e ordinare la Sacra Liturgia della Chiesa e manifesta la Sua sollecitudine di Vicario di Cristo e Pastore della Chiesa Universale», formula particolarmente impegnativa e solenne per indicare un Magistero da cui dovrebbe essere impensabile che un vescovo cattolico si discosti.

Una parte centrale della Universae ecclesiae riguarda appunto il ruolo dei vescovi. Essi sono chiamati ad «adottare le misure necessarie per garantire il rispetto della forma extraordinaria del Rito Romano, a norma del Motu Proprio Summorum Pontificum». Adottare le «misure necessarie» per conseguire un certo scopo evidentemente esclude la messa in discussione o il boicottaggio di quello scopo. Certo, afferma l’Istruzione, i vescovi «devono vigilare in materia liturgica per garantire il bene comune e perché tutto si svolga degnamente, in pace e serenità nella loro Diocesi», ma questa vigilanza non può essere arbitraria. Al contrario, deve essere «sempre in accordo con la mens del Romano Pontefice chiaramente espressa dal Motu Proprio Summorum Pontificum». Detto in altre parole, ai vescovi non spetta decidere se è opportuno affiancare al nuovo rito, che evidentemente mantiene il suo ruolo di rito ordinario, il rito antico come rito straordinario. Questo è già stato deciso dal Papa. Ai vescovi spetta semmai stabilire come possa essere introdotto o conservato nelle loro diocesi il rito antico, in stretta conformità non solo alla lettera ma anche alla mens, cioè allo spirito, del motu proprio, il cui scopo è favorire il rito antico e non ostacolarlo.

Dal momento che le controversie non saranno certo arrestate dalla Universae Ecclesiae, molto opportunamente l’Istruzione trasforma il semplice «riferimento» alla Commissione «Ecclesia Dei» del motu proprio in una vera e propria procedura giuridica di appello: «In caso di controversia o di dubbio fondato circa la celebrazione nella forma extraordinaria, giudicherà la Pontificia Commissione Ecclesia Dei».
L’Istruzione ribadisce che per le Messe private non è necessario chiedere alcun permesso, e che esigere tali permessi è un abuso. Precisa pure che «nel caso di un sacerdote che si presenti occasionalmente in una chiesa parrocchiale o in un oratorio con alcune persone ed intenda celebrare nella forma extraordinaria, come previsto dagli artt. 2 e 4 del Motu Proprio Summorum Pontificum, il parroco o il rettore di chiesa o il sacerdote responsabile di una chiesa, ammettano tale celebrazione, seppur nel rispetto delle esigenze di programmazione degli orari delle celebrazioni liturgiche della chiesa stessa». È dunque chiaro che se un gruppo di fedeli, accompagnato da un proprio sacerdote, si presenta in una chiesa per celebrare una Messa con il rito antico il parroco non può rispondere «Sono contrario alla Messa antica» oppure «Devo chiedere al vescovo». Se la Chiesa non è impegnata da altre celebrazioni, il parroco o rettore deve «ammettere tale celebrazione».

O meglio, la deve ammettere a meno che gli consti che le persone e i sacerdoti che la chiedono fanno parte di gruppi che rifiutano l’autorità del Papa, non solo in teoria ma anche in pratica – per esempio contestandone sistematicamente il Magistero –, ovvero di gruppi che, anche accettando in generale l’autorità del Pontefice, rifiutino la validità o la legittimità della nuova Messa. La formula è molto precisa: «I fedeli che chiedono la celebrazione della forma extraordinaria non devono in alcun modo sostenere o appartenere a gruppi che si manifestano contrari alla validità o legittimità della Santa Messa o dei Sacramenti celebrati nella forma ordinaria e/o al Romano Pontefice come Pastore Supremo della Chiesa universale».

Sono esclusi dai benefici della Universae Ecclesiae non solo i fedeli che «appartengano» ai gruppi che il Papa in altra occasione ha indirettamente chiamato «anticonciliaristi» [10] ma anche coloro, che pur senza «appartenervi», li «sostengano» con parole, scritti o offerte. Non solo coloro che contestano l’autorità del Papa ma anche quelli che contestano «solo» la nuova Messa. E per essere rubricati fra tali contestatori non è necessario mettere in dubbio la «validità» del nuovo rito; è sufficiente contestarne la «legittimità». I due concetti, canonicamente, non sono sinonimi, e la norma sembra scritta quasi apposta per descrivere la posizione della Fraternità Sacerdotale San Pio X, la quale afferma che – a certe condizioni – la nuova Messa è valida, ma afferma pure che non è «legittima», cioè non è una Messa cui i fedeli possano assistere senza mettere in pericolo la loro fede.

Per quanto riguarda le regolari celebrazioni nelle parrocchie e nei santuari, l’Istruzione offre precisazioni sulla questione del cosiddetto «gruppo stabile» (coetus fidelium stabiliter existens) che è titolato a richiederla. «Un coetus fidelium potrà dirsi stabiliter exsistens ai sensi dell’art. 5 § 1 del Motu Proprio Summorum Pontificum, quando è costituito da alcune persone di una determinata parrocchia che, anche dopo la pubblicazione del Motu Proprio, si siano unite in ragione della loro venerazione per la Liturgia nell’Usus Antiquior, le quali chiedono che questa sia celebrata nella chiesa parrocchiale o in un oratorio o cappella; tale coetus può essere anche costituito da persone che provengano da diverse parrocchie o Diocesi e che a tal fine si riuniscano in una determinata chiesa parrocchiale o in un oratorio o cappella». Non è dunque obbligatorio che tutti i membri del gruppo stabile siano della stessa parrocchia, anzi neppure della stessa diocesi.

Anche nel caso in cui non ci sia un «gruppo stabile» abbastanza numeroso, il vescovo non è autorizzato a chiudere la pratica magari tirando un sospiro di sollievo. Al contrario, spiega l’Istruzione, «nei casi di gruppi numericamente meno consistenti, ci si rivolgerà all’Ordinario del luogo per individuare una chiesa in cui questi fedeli possano riunirsi per ivi assistere a tali celebrazioni, in modo tale da assicurare una più facile partecipazione e una più degna celebrazione della Santa Messa». Anche qui, «individuare una chiesa» è cosa evidentemente diversa dal rispondere che non c’è nessuna chiesa disponibile.

Ci vuole, certo, un «sacerdote idoneo». Ma, precisa l’Istruzione, non c’è bisogno di un provetto liturgista o di un docente universitario di lingua latina. Per il latino, è sufficiente «una sua conoscenza basilare, che permetta di pronunciare le parole in modo corretto e di capirne il significato». Per «la conoscenza dello svolgimento del Rito, si presumono idonei i sacerdoti che si presentano spontaneamente a celebrare nella forma extraordinaria, e l’hanno usato precedentemente». Certo, questo è un punto di partenza. La Chiesa vuole che la sua liturgia sia la più degna possibile e per questo «si chiede agli Ordinari di offrire al clero la possibilità di acquisire una preparazione adeguata alle celebrazioni nella forma extraordinaria. Ciò vale anche per i Seminari, dove si dovrà provvedere alla formazione conveniente dei futuri sacerdoti». Mancano perfino i sacerdoti in grado d’insegnare come si celebra con il vecchio rito? Risponde l’Istruzione che «nelle Diocesi dove non ci siano sacerdoti idonei, i Vescovi diocesani possono chiedere la collaborazione dei sacerdoti degli Istituti eretti dalla Pontificia Commissione Ecclesia Dei, sia in ordine alla celebrazione, sia in ordine all’eventuale apprendimento della stessa».

Altre norme precisano che nel Messale del 1962 in latino «potranno e dovranno essere inseriti nuovi santi e alcuni dei nuovi prefazi», secondo norme che saranno emanate in seguito; che i sacerdoti che lo desiderano possono usare il Breviario del 1962 in lingua latina; e che è confermata la facoltà di usare la formula antica per la Cresima, mentre per l’Ordine sacro l’antico rito può essere seguito solo negli istituti «Ecclesia Dei» «e in quelli dove si mantiene l’uso dei libri liturgici della forma extraordinaria», dunque non nelle diocesi, il che spiacerà a qualche sostenitore del rito antico.

Al di là di questo ultimo elemento, il senso generale dell’Istruzione è chiaro. Si tratta di un’Istruzione a favore della maggiore diffusione del rito antico, e intesa a rimuovere gli ostacoli che derivano da un’errata o maliziosa lettura del precedente motu proprio. Tutto questo – come Benedetto XVI ha precisato nel discorso del 6 maggio 2011 ai partecipanti al IX Congresso Internazionale di Liturgia – non per contrapporre riforma liturgica e rito antico, ma per integrarli e «riconciliarli». «Non poche volte – ha detto il Papa in quell’occasione – si contrappone in modo maldestro tradizione e progresso. In realtà, i due concetti si integrano: la tradizione è una realtà viva, include perciò in se stessa il principio dello sviluppo, del progresso. Come a dire che il fiume della tradizione porta in sé anche la sua sorgente e tende verso la foce» [11]. Il Papa chiede dunque insieme ossequio alla riforma liturgica del venerabile Paolo VI e al motu proprio del 2007: «piena fedeltà alla ricca e preziosa tradizione liturgica e alla riforma voluta dal Concilio Vaticano II, secondo le linee maestre della [costituzione sulla liturgia del Vaticano II] Sacrosanctum Concilium e dei pronunciamenti del Magistero» [12].




[1] Cfr. Pontificia Commissione«Ecclesia Dei», Istruzione «Universae Ecclesiae» sull’applicazione della Lettera Apostolica Motu Proprio data «Summorum Pontificum» di S.S. Benedetto XVI, del 30-4-2011. Dove non diversamente indicato, tutte le citazioni del presente capitolo fanno riferimento a questo testo.
[2] Cfr. Benedetto XVI, Lettera Apostolica Summorum Pontificum Motu Proprio data, del 7-7-2007.
[3] Ibidem.
[4] Ibidem.
[5] Ibidem.
[6] Ibidem.
[7] Ibidem.
[8] Ibidem.
[9] Ibidem.
[10] Cfr. Idem, Incontro con il clero delle Diocesi di Belluno-Feltre e di Treviso, Auronzo di Cadore, del 24-7-2007.
[11] Cfr. Idem, Discorso ai partecipanti al Convegno promosso dal Pontificio Ateneo Sant’Anselmo, nel 50° anniversario di fondazione, del 6-5-2011.
[12] Ibidem.












http://romualdica.blogspot.it/

La vergogna "buona" e la confessione: un binomio tradizionale ripresentato da Papa Francesco







Papa Francesco ha parlato ieri della confessione, e ha fatto un accenno alla "vergogna" che prende il penitente nel confessare i propri peccati. L'Osservatore Romano cita l'omelia mattutina del 29 aprile:
Tante volte — ha detto il Santo Padre — pensiamo che andare a confessarci è come andare in tintoria. Ma Gesù nel confessionale non è una tintoria». La confessione è "un incontro con Gesù che ci aspetta come siamo. “Ma, Signore, senti, sono così”". "Ci fa vergogna dire la verità: ho fatto questo, ho pensato questo. Ma la vergogna è una vera virtù cristiana e anche umana. La capacità di vergognarsi: non so se in italiano si dice così, ma nella nostra terra a quelli che non possono vergognarsi gli dicono sinvergüenza. Questo è "uno senza vergogna", perché non ha la capacità di vergognarsi. E vergognarsi è una virtù dell'umile".
Papa Francesco ha quindi ripreso il passo della lettera di san Giovanni. Sono parole, ha detto, che invitano ad aver fiducia: "Il Paràclito è al nostro fianco e ci sostiene davanti al Padre. Lui sostiene la nostra debole vita, il nostro peccato. Ci perdona. Lui è proprio il nostro difensore, perché ci sostiene. Adesso, come dobbiamo andare dal Signore, così, con la nostra verità di peccatori? Con fiducia, anche con allegria, senza truccarci. Non dobbiamo mai truccarci davanti a Dio! Con la verità. In vergogna? Benedetta vergogna, questa è una virtù.
Un tema quanto mai tradizionale quello della "vergogna giusta" (la benedetta vergogna di papa Bergoglio) e ben attestato nella storia della spiritualità del sacramento penitenziale.
Uno dei testimoni di questa lunga tradizione a proposito della "erubescentia", cioè il diventare rossi per la vergogna, è naturalmente il Santo confessore francescano Antonio di Padova. Così scrive nel Sermone per la XII domenica post Pentecosten:
Ci sono dei muti, che nella confessione si limitano a mugolare, perché confessano i loro peccati balbettando: essi si vergognano di confessarli, i peccati, e non di commetterli. Dice sant'Agostino: La vergogna è la componente maggiore della penitenza. Qui si tratta della vergogna giusta, quella che conduce alla gloria, quando uno si vergogna del suo peccato e vergognandosi lo rivela in confessione. Dice infatti Isaia: «Vergògnati, Sidone, dice il mare» (Is 23,4). Il mare, vale a dire l'amarezza interiore, fa sì che l'uomo, rivelando nella confessione il peccato, senta vergogna di averlo commesso.
Antonio cita questa frase attibuendola ad Agostino: "Erubescentia maxima pars est poenitentiae". Ma è pseudo-agostiniana; questa locuzione "Erubescentia enim ipsa partem habet remissionis" si trova invece nel Decretum di Graziano (pars II, c. 88). Nella Glossa Ordinaria a Matteo 3,6 troviamo citata questa espressione: "Conféssio peccáti pudórem habet, et ipsa erubescéntia est gravis poena. Ideóque jubémur confitéri peccáta, ut erubescéntiam patiámur pro poena" (La confessione dei peccati suscita pudore, e la vergogna stessa è una penitenza pesante. Per questo ci viene comandato di confessare i nostri peccati, proprio per sopportare come penitenza la vergogna). Questa frase è tratta dalle Sentenze di Pietro Lombardo (Libro IV dist. 17) sotto il titolo: "Non basta confessarsi solo a Dio se tuttavia ci si può confessare anche all'uomo". Tutto ciò fa capire che le argomentazioni contro il confessarsi dovevano essere già fiorenti nel XII secolo... come lo sono fino ad oggi.

Papa Francesco, lo si nota sempre più, utilizza nella sua predicazione un armamentario ascetico e spirituale ben sperimentato dalla tradizione, ma sa ripresentarlo con sapienza e arguzia "moderna", riuscendo a "confezionarlo" in maniera adatta all'uditorio dei nostri giorni. 




http://www.cantualeantonianum.com


Benedetto XVI: Dottore della Chiesa






Benedict XVI: Doctor of the Church




Perhaps it may seem a bit premature, but here goes: Benedict XVI should be declared a Doctor of the Church.

There are, if I count correctly, 33 such esteemed Doctors, the most recent being St. Thérèse of Lisieux, who died in 1897, and the most recently declared being St. Hildegard of Bingen, who died in 1179 but was declared a Doctor of the Church by Pope Benedict in October of 2012. Benedict XVI would be number 34 (assuming no others are named beforehand).

A Doctor of the Church must be holy. Check.

Joseph Ratzinger was, in heart and mind, an academic, a man deeply in love with the truth, a man made to teach. But then he was named an archbishop in 1977, and in 1981, prefect of the Congregation for the Doctrine of the Faith, overseeing the faith, morals, and doctrine of the Church. And finally in 2005, he was elected Pope.

What does this have to do with holiness? I would submit that Joseph Ratzinger suffered a kind of white martyrdom, leaving what he loved the most, a quiet life of learning and teaching, to undertake what the Church needed the most. I am sure that he hated, as prefect of the CDF, being called “Rome’s Rottweiler,” as much as he disliked the unpleasant task of drawing theologians’ toes up to the doctrinal line. And if ever a man availed himself of the Room of Tears, it was the newly-elected Benedict.

Even under the superhuman pressures of the papacy, Benedict continued to write — that is, to teach — providing an enormous spiritual-intellectual legacy that we have only just begun to appreciate.
And that gets us to the other two qualifications for a Doctor of the Church: depth of insight in writings, and a sufficiently large number of writings, that the Church can whole-heartedly recommend as revealing the authentic Catholic Tradition.

His Jesus of Nazareth series alone would, I suspect qualify him on both counts. But as a casual scroll on Amazon through the pages upon pages of books by Joseph Ratzinger and then Pope Benedict XVI makes clear, the treasury of his writings overflows.

I have not had the time to read nearly as much of Benedict’s writings as I would like. But every time I read something I am astounded at the depth and breadth of his understanding, especially his profound grasp of the history of the Church — not only as an institution, but how the Church has interacted with Greek and Roman philosophy, struggled to evangelize in a hostile pagan empire, built a new civilization — Christian Europe — on the rubble of that collapsed empire, invented the university, wrestled with the Reformation and confronted newly-minted, hostile modern philosophies, and tangled with secular movements out to erase the Church from history. There seems to be no time or subject, in this 2000-year drama that Benedict has not penetrated.

I recall my first brush with his brilliance. I had just written a book (with Jonathan Witt), A Meaningful World, which laid out, in great detail, what we thought to be a new and important approach to demonstrating the existence of God through the intelligibility of the universe. Our argument was, to boil it down, that science itself depends on the pre-existing deep intelligibility of the universe. The universe seems to be constructed, layer upon layer, to be known by rational creatures like us. A randomly-contrived universe simply couldn’t be like that.

And then I read Pope Benedict’s Regensburg Address. O humility! The Pope laid out in a few paragraphs what it took us 250 pages to articulate — and set it in the context of the history of philosophy and theology.
In my most recent book, Worshipping the State, I set out a very careful historical argument showing — I thought in a very novel way — that it was the Church itself that had invented the distinction of church and state, and that modern liberalism (which likes to pose as the church-state inventor) was actually in the process of destroying it.

And then I read Benedict’s Without Roots, The Dialectics of Secularization and Christianity and the Crisis of Cultures. O humility squared! Scooped again.

You get the picture, so there’s no sense drawing any more humiliating examples. Everywhere I stepped upon previously uncharted territory, I found it well- and deeply-trod with Benedict’s footprints. I would have been far better, and gotten far deeper, if I’d only come to him first. And I know I’m not the only one who has had this experience.

That’s the sign of a great teacher, a great Doctor of the Church.


Monday, April 29, 2013



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Ratzinger (coi suoi libri) torna in Vaticano. Da un mese Bergoglio ha in mano la sua enciclica





di Paolo Rodari

Mancano poche ore al ritorno di Benedetto XVI in Vaticano. Da quando il Papa emerito metterà piede nel suo nuovo alloggio, il monastero Mater Ecclesiae, inizierà entro le mura leonine l’inedita “coabitazione” col suo successore Papa Francesco.

S’incontreranno i due? Bergoglio, quando ne sentirà il bisogno, lascerà la residenza di Santa Marta per andare dall’altra parte dei giardini vaticani a trovare il suo predecessore? Difficile rispondere. Di certo c’è che una certa collaborazione fra i due è già iniziata, almeno sul piano teologico.

Infatti, come Ratzinger scrisse la sua prima enciclica, la “Deus caritas est”, nel Natale del 2005, rimodellando un testo sul quale stava lavorando il suo predecessore Giovanni Paolo II, così Papa Francesco potrebbe dare presto alle stampe – si dice entro il prossimo autunno – la sua prima lettera enciclica intervenendo su una bozza dedicata la tema della fede che Benedetto XVI gli ha consegnato durante il loro ultimo incontro avvenuto a Castel Gandolfo il 23 marzo. Se la pubblicazione avverrà, potrebbe essere l’inizio di una collaborazione, seppur discreta, anche su altri temi. Ratzinger, infatti, entra al Mater Ecclesiae insieme alla maggior parte dei suoi libri – altri rimarranno nell’archivio segreto – per i quali è stato creato un ampio studio, e seppure non si dedicherà a scrivere, consigli anche teologici al suo successore sarà ben attrezzato per darne.

La “bozza Ratzinger” di questa nuova enciclica, un testo di circa 30-40 cartelle, ha avuto una genesi fulminea. Lo scorso ottobre Benedetto XVI, aprendo un anno dedicato alla fede, ha chiesto all’ufficio dottrinale dell’ex Sant’Uffizio di lavorare su una prima bozza che avesse al centro il tema della fede alla luce dei suoi interventi in merito, non soltanto i testi papali ma anche i libri, su tutti il volume del 1968 “Introduzione al cristianesimo”.

I teologi vaticani, dopo poche settimane, gli hanno inviato un testo che egli ha rimandato indietro chiedendo un ulteriore lavoro. La seconda bozza gli è stata consegnata circa un mese prima dell’annuncio della rinuncia al soglio di Pietro. Egli l’ha tenuta con sé, per poi consegnarla a Bergoglio – evidentemente soddisfatto del lavoro dei teologi vaticani – dicendogli di decidere lui cosa farne. Dicono oltre il Tevere: «Il testo è completo. Non è stato scritto di suo pugno da Ratzinger ma è ratzingeriano in tutto. Dottrinalmente è ineccepibile e ben fatto».

La fede è stato il tema principale del pontificato di Ratzinger. “Dove c’è Dio, là c’è futuro”, fu non a caso il titolo che egli volle dare alla sua terza visita in Germania, nel 2011. Il programma del pontificato aveva al centro il tentativo di riavvicinare gli uomini a Dio. Ma la sfida riguardava e riguarda anche la Chiesa, nella consapevolezza più volte esplicitata che la crisi profonda della Chiesa odierna «è una crisi di fede». È anzitutto la Chiesa ad aver perso la bussola, quasi a non conoscere più l’abc della fede. Di qui un anno dedicato al tema. Di qui un’enciclica ora nelle mani di Bergoglio che, dopo un suo intervento, potrebbe renderla pubblica.





http://www.paolorodari.com/2013/04/30/

lunedì 29 aprile 2013

L'incantesimo di papa Francesco








La sua popolarità è in buona misura legata all'arte con cui parla. Tutto gli viene perdonato, anche quando dice cose che dette da altri verrebbero investite dalle critiche. Ma le prime proteste cominciano ad affiorare





di Sandro Magister

ROMA, 29 aprile 2013 – Ha fatto rumore, sui media, il cenno critico che papa Francesco ha riservato allo IOR, Istituto per le Opere di Religione, la discussa "banca" vaticana, nell'omelia della sua messa mattutina nella Domus Sanctae Marthae, mercoledì 24 aprile:

"Quando la Chiesa vuol vantarsi della sua quantità e fa delle organizzazioni, e fa uffici e diventa un po’ burocratica, la Chiesa perde la sua principale sostanza e corre il pericolo di trasformarsi in una ONG. E la Chiesa non è una ONG. È una storia d’amore... Ma ci sono quelli dello IOR… Scusatemi, eh!… Tutto è necessario, gli uffici sono necessari… eh, va bè! Ma sono necessari fino ad un certo punto: come aiuto a questa storia d’amore. Ma quando l’organizzazione prende il primo posto, l’amore viene giù e la Chiesa, poveretta, diventa una ONG. E questa non è la strada".

Queste sue omelie mattutine papa Jorge Mario Bergoglio le pronuncia interamente a braccio. E la frase riportata sopra è la trascrizione letterale fornita poche ore dopo dalla Radio Vaticana.

Ma lo stesso giorno, nel riferire in altro modo la stessa omelia, "L'Osservatore Romano" ha tralasciato l'inciso: "Ma ci sono quelli dello IOR… Scusatemi, eh!".

Questa disparità tra la radio e il giornale della Santa Sede è un indizio dell'incertezza che ancora regna in Vaticano su come trattare mediaticamente le omelie feriali del papa, quelle che egli pronuncia nella messa delle 7, nella cappella della residenza in cui abita.

A queste messe accede un pubblico selezionato, ogni mattina diverso. E il 24 aprile c'erano tra i presenti un buon numero di dipendenti dello IOR.

Queste omelie del papa vengono interamente registrate. Ma non seguono l'iter dei suoi discorsi ufficiali, per le parti improvvisate a braccio.

Non vengono cioè trascritte dalla registrazione audio, poi messe in bella copia nella lingua e nei concetti, poi sottoposte al papa e infine rese pubbliche nel testo approvato.

Il testo integrale delle omelie feriali di papa Bergoglio resta segreto. Ne vengono solo forniti due parziali resoconti, dalla Radio Vaticana e da "L'Osservatore Romano", redatti indipendentemente tra loro e quindi con una maggiore o minore ampiezza delle citazioni testuali.

Non si sa se questa prassi – mirata sia a tutelare la libertà di parola del papa, sia a difenderla dai rischi dell'improvvisazione – verrà mantenuta o modificata.

Sta di fatto che quanto si sa di queste omelie semipubbliche è ormai una parte importante dell'oratoria tipica di papa Francesco.

*

È un'oratoria stringata, semplice, colloquiale, imperniata su parole od immagini di immediata presa comunicativa.

Ad esempio:

- l'immagine "Dio spray", usata da papa Francesco il 18 aprile per mettere in guardia dall'idea di un Dio impersonale "che è un po’ dappertutto ma non si sa cosa sia";

- oppure l'immagine "Chiesa babysitter", usata il 17 aprile per stigmatizzare una Chiesa che solo "cura il bambino per farlo addormentare", invece che agire come una madre con i suoi figli;

- oppure la formula "cristiani satelliti", usata il 20 aprile per bollare quei cristiani che si fanno dettare la condotta dal "senso comune" e dalla "prudenza mondana", invece che da Gesù.

Stefania Falasca, amica da tempo di Bergoglio – che le telefonò la sera stessa della sua elezione a papa –, gli ha chiesto dopo una messa mattutina alla Domus Sanctae Marthae: "Padre, ma come le vengono queste espressioni?".

"Un semplice sorriso è stata la sua risposta". A giudizio di Falasca, l'uso di tali formule da parte del papa "in termini letterari si chiama 'pastiche', che è appunto l’accostamento di parole di diverso livello o di diverso registro con effetti espressionistici. Lo stile 'pastiche' è oggi un tratto tipico della comunicazione del web e del linguaggio postmoderno. Si tratta dunque di associazioni linguistiche inedite nella storia del magistero petrino".

In un editoriale del 23 aprile sul quotidiano della conferenza episcopale italiana "Avvenire", Falasca ha avvicinato l'oratoria di papa Francesco al "sermo humilis" teorizzato da sant'Agostino.

Papa Bergoglio introduce questo stile anche nelle omelie e nei discorsi ufficiali. Ad esempio, nell'omelia della messa crismale del Giovedì Santo, nella basilica di San Pietro, ha molto colpito il suo esortare i pastori della Chiesa, vescovi e preti, a prendere "l'odore delle pecore".

Un'altro tratto tipico della sua predicazione è l'interloquire con la folla, sollecitandola a rispondere in coro. L'ha fatto per la prima volta e ripetutamente al "Regina Coeli" di domenica 21 aprile, ad esempio quando disse: "Grazie tante per il saluto, ma anche salutate Gesù. Gridate 'Gesù' forte!". E il grido "Gesù" salì effettivamente da piazza San Pietro.

*

La popolarità di papa Francesco è dovuta in buona misura a questo suo stile di predicazione e alla facile, diffusa fortuna che hanno i concetti su cui egli più insiste – la misericordia, il perdono, i poveri, le "periferie" – visti riflessi nei suoi gesti e nella sua stessa persona.

È una popolarità che fa velo alle altre cose più scomode che egli pure non manca di dire – ad esempio con i suoi frequenti richiami al diavolo – e che dette da altri scatenerebbero critiche, mentre a lui si perdonano.

In effetti, i media hanno sinora coperto di indulgenza e di silenzio non solo i riferimenti dell'attuale papa al diavolo ma anche tutta una serie di altri suoi pronunciamenti su punti di dottrina tanto capitali quanto controversi.

Il 12 aprile, ad esempio, parlando alla pontificia commissione biblica, papa Francesco ha ribadito che "l'interpretazione delle Sacre Scritture non può essere soltanto uno sforzo scientifico individuale, ma dev’essere sempre confrontata, inserita e autenticata dalla tradizione vivente della Chiesa". E quindi "ciò comporta l'insufficienza di ogni interpretazione soggettiva o semplicemente limitata ad un’analisi incapace di accogliere in sé quel senso globale che nel corso dei secoli ha costituito la tradizione dell'intero popolo di Dio".

Di questa frustata del papa contro le forme di esegesi prevalenti anche in campo cattolico praticamente nessuno si è accorto, nel silenzio generale dei media.

Il 19 aprile, nell'omelia mattutina, si è scagliato contro i "grandi ideologi" che vogliono interpretare Gesù in una chiave puramente umana. Li ha definiti "intellettuali senza talento, eticisti senza bontà. E di bellezza non parliamo, perché non capiscono nulla".

Anche in questo caso, silenzio.

Il 22 aprile, in un'altra omelia mattutina, ha detto con forza che Gesù è "l'unica porta" per entrare nel Regno di Dio e "tutti gli altri sentieri sono ingannevoli, non sono veri, sono falsi".

Con ciò ha quindi ribadito quella verità irrinunciabile della fede cattolica che riconosce in Gesù Cristo l'unico salvatore di tutti. Ma quando nell'agosto del 2000 Giovanni Paolo II e il cardinale Joseph Ratzinger pubblicarono proprio su questo la dichiarazione "Dominus Iesus" furono contestati aspramente da dentro e fuori la Chiesa. Mentre ora che papa Francesco ha detto la stessa cosa, tutti zitti.

Il 23 aprile, festa di san Giorgio, nell'omelia della messa con i cardinali nella Cappella Paolina ha detto che "l’identità cristiana è un’appartenenza alla Chiesa, perché trovare Gesù fuori della Chiesa non è possibile".

E anche questa volta, silenzio. Eppure la tesi secondo cui "extra Ecclesiam nulla salus", da lui riaffermata, è quasi sempre foriera di polemica…

*

Questa benevolenza dei media nei confronti di papa Francesco è uno dei tratti che caratterizzano questo inizio di pontificato.

La soavità con cui egli sa dire le verità anche più scomode agevola questa benevolenza. Ma è facile prevedere che prima o poi essa si raffredderà e lascerà il passo a un riaffiorare delle critiche.

Una prima avvisaglia si è avuta dopo che papa Bergoglio, il 15 aprile, ha confermato la linea severa della congregazione per la dottrina della fede nel trattare il caso delle suore degli Stati Uniti riunite nella Leadership Conference of Women Religious.

Le proteste che si sono subito levate da queste suore e dalle correnti "liberal" del cattolicesimo non solo americano sono suonate come l'inizio della rottura di un incantesimo.




http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1350508

Il Concilio, vittima di opposte fazioni

 

(di Benedetta Cortese su La Nuova Bussola Quotidiana) Riscoprire il Concilio vedendolo dentro la tradizione della Chiesa. Questa l’intenzione di Stefano Fontana, autore di un’indagine sul Vaticano II dal titolo “Il Concilio restituito alla Chiesa” (La Fontana di Siloe, Torino 2013). La Nuova Bussola Quotidiana lo ha intervistato.

Dottor Fontana, siamo nel pieno dell’Anno del Concilio Vaticano II, voluto da Benedetto XVI come complemento dell’Anno della Fede. Come stanno andando le cose secondo lei?

Non mi sembra che questo Anno del Concilio stia aiutando molto a capire il Concilio. Molte pubblicazioni hanno spesso riproposto le note posizioni, senza nessun passo in avanti.

Le varie realtà, a seconda del loro orientamento sul Vaticano II, chiamano questo o quel relatore a conferma di una tesi piuttosto di un’altra. È lo stesso schema rigido che si ripropone. Mi aspettavo di meglio e di più.

Benedetto XVI, nel famoso discorso del 22 dicembre 2005, aveva tracciato le linee per la giusta ermeneutica del Concilio. Non ne è rimasto niente?

Già allora le due tendenze principali avevano interpretato il discorso del Papa come una conferma delle proprie posizioni. In seguito hanno continuato così, come se il Papa non avesse parlato.

La commemorazione del Vaticano II è avvenuta spesso a suon di slogan e di frasi fatte. Continua a fare presa un Concilio inesistente e irreale, ma che ormai si è imposto come a-priori collettivo. Una vulgata del Concilio che non percepisce nemmeno lontanamente i problemi che stanno dietro il Concilio.

Non si onora il Concilio facendone un’enfatica apoteosi, ma comprendendolo nella linea indicata da Benedetto XVI e dagli altri Pontefici prima di lui.

Lei ha pubblicato un libro sul Concilio. Con che intenzione?

Con l’intenzione di capire il Concilio, ossia di collocarlo al suo posto. Senza questo chiarimento la Chiesa non può stare. Fingere che il problema non ci sia significa di fatto accettare due chiese. Il Concilio è un problema che non si può eludere.

Un problema il Concilio o un problema il post Concilio?

È stato un problema l’applicazione del Concilio, ma lo è stato anche il Concilio. Ciò non significa né che il Concilio non sia autorevole e non meriti obbedienza, meno che meno che esso contenga degli errori, né che esso sia un Concilio “minore”.

Allora in cosa consiste il problema Concilio?

Consiste nella sua indole pastorale. Sembra un paradosso, ma è così. L’indole pastorale del Concilio doveva essere la soluzione dei problemi ed invece è diventata il problema.

In che senso?

Elenco brevemente alcuni nodi problematici connessi con l’indole pastorale del Vaticano II. I precedenti Concili non erano anche pastorali? Erano Concili dogmatici, ma il dogma non c’entra nulla con la pastorale? È possibile un Concilio solo pastorale che non ripensi anche la dottrina? Paolo VI aveva chiaramente in testa che no. Quindi il Vaticano II ripensò anche la dottrina. Allora fu anche dottrinale, pur se non dogmatico. La dottrina fissata dal Vaticano II che valore ha, dato che il Concilio pretese per sé la qualifica di pastorale? Il Vaticano II non voleva primariamente ripensare la dottrina, ma interrogarsi sulla pastorale, però le esigenze pastorali richiedevano di ripensare tutta la dottrina e in questo modo si ebbe un Concilio pastorale che ripensò tutta la dottrina, forse più dei precedenti Concili che si pronunciarono solo su singoli argomenti dottrinali. Questi sono solo alcuni esempi.

Benedetto XVI disse che il Concilio non è un superdogma, ma quando fu eletto Papa disse subito di voler realizzare il Concilio. Nel suo libro come viene affrontata questa questione?

Il Concilio è spesso diventato un superdogma. Altro paradosso: un Concilio pastorale che diviene superdogmatico. Sembra che quanto la Chiesa aveva fatto prima fosse tutto sbagliato. La celebrazione della messa con rito antico fu considerata la principale eresia, ed era quanto la Chiesa aveva sempre celebrato. Il catechismo di Pio X fu di fatto considerato eretico. Qualsiasi contestatore del magistero fu canonizzato come “anticipatore” del Concilio. Come si fa ad evitare queste interpretazioni fazione e forzose? Realizzando il Concilio, come disse Benedetto XVI. Ma per realizzarlo bisogna comprenderlo nella sua vera realtà. Non vedo quindi nessuna contraddizione tra le due frasi di Benedetto XVI.

Lei dice “comprenderlo nella sua vera realtà”. Il suo libro si intitola “Il Concilio restituito alla Chiesa”: è questo il significato?

Sì, è questo. Del Concilio si è spesso impadronito il mondo. La Chiesa lo deve recuperare a se stessa, ricollocarlo nella propria tradizione. Superando però i nominalismi. Tutti si dicono d’accordo con questa affermazione, ma poi hanno della tradizione concezioni diverse e allora l’equivoco torna da capo.

Quali sono le principali concezioni della tradizione in campo?

Direi quella di Ratzinger e quella di Rahner. Secondo la prima c’è un nucleo di verità immutabili che vengono trasmesse pur nella storicità della tradizione. Nel secondo caso l’interpretazione e la ricezione della tradizione fanno parte integrante del messaggio stesso. Nel primo caso assume il primato la dottrina, nel secondo la pastorale.

Questo significa che il Vaticano II ha proclamato il primato della pastorale sulla dottrina?

Di fatto oggi la pastorale ha preso il sopravvento sulla dottrina fino a farla sparire in molti casi. In alcuni capitoli del mio libro descrivo molti comportamenti ecclesiali che lo testimoniano ampiamente. Il problema è stabilire se questo primato della pastorale fosse presente nel Vaticano II stesso o se sia dovuto a difetti di applicazione.

La tesi che espongo nel libro è che nel Vaticano II ci furono delle “fessure” attraverso le quali la tesi del primato della pastorale in seguito penetrò nella Chiesa. Fessure non volute, ma fessure. Non era intenzione dei Papi né dei Padri conciliari anche se, storicamente, si può provare che alcuni Padri conciliari avrebbero voluto introdurre forme di modernismo nella dottrina della Chiesa cattolica. Ma ciò non avvenne, per la sorveglianza dottrinale e pastorale dei Pontefici e l’assistenza dello Spirito Santo.

Negli anni Sessanta tutte le teologie di moda proclamavano il primato della prassi sulla teoria…

In effetti è così. Né Giovanni XXIII né Paolo VI volevano questo. Però l’insistenza sull’indole pastorale poteva prestarsi anche a queste interpretazioni.

Faccio un esempio. Nei confronti del mondo, il Concilio espresse più apprezzamento che condanna, per esplicita indicazione di Giovanni XXIII. Le teologie del tempo dicevano che Cristo ama il mondo e non la Chiesa, annullando con ciò la missione salvifica della Chiesa rispetto al mondo. Le due cose sono incompatibili, ma nel clima degli anni Sessanta la cosiddetta “apertura al mondo” fornì delle fessure anche a queste interpretazioni distorte, che hanno dato frutti amari fino ai nostri giorni.

Secondo lei, il Concilio volle esprimere una completa dottrina sul rapporto con il mondo?

Ecco un altro problema che va messo al suo posto e restituito alla Chiesa. Il Concilio non volle esporre tutta la dottrina cattolica. Per questo bisogna ricorre al Catechismo. Ciò significa che, per esempio, la Gaudium et spes non pretese di esporre tutta la dottrina circa il rapporto Chiesa-mondo.

Nella Costituzione pastorale non si parla del comunismo. È possibile impostare dottrinalmente in modo completo il rapporto con il mondo moderno senza parlare del comunismo? La scelta aveva scopi pastorali. Però comportò anche conseguenze dottrinali. Ma chi concludesse, su queste basi, che il comunismo non era più un problema della Chiesa solo perché la Chiesa non ne parlava, fraintenderebbe le cose. Sarebbe come dire che il diavolo non è un problema della Chiesa perché nel Vaticano II non se ne parla. Ma se ne parla nel Catechismo.

È molto dannoso attribuire al Vaticano II la volontà di esprimere in toto la fede della Chiesa, ciò lo costituirebbe come superdogma superiore anche al catechismo e alla tradizione apostolica. Inutile negare, però, che questo è stato fatto e si continua a fare.

Nel suo libro, lei tratta a fondo il problema del linguaggio dei documenti del Vaticano II. Può dirci qualcosa?

Il Vaticano II non fu un Concilio dogmatico, quindi non adoperò il linguaggio definitorio, ma un linguaggio che qualcuno definisce narrativo. È quindi spesso difficile capire con precisione i suoi insegnamenti. Una frase di un documento bisogna per forza collegarla con altre frasi dello stesso e spesso bisogna completare il quadro con riferimento ad altri documenti del Concilio.

Spesso nemmeno in questo caso si ha una completa panoramica dell’argomento. Tanto è vero che il magistero ha in seguito precisato mote cose. Se tutto fosse stato chiaro non ce ne sarebbe stato bisogno.

La famosa prima frase della Gaudium et spes, sempre citata da tutti, anche da coloro che del Concilio non hanno letto altro, non trasmette nessun preciso significato teologico, ha bisogno di essere completata da altre frasi del documento e di altri documenti. Spesso, invece, il Concilio si cita per frasi ad effetto, fermandosi ad esse e facendone una definizione di fede.

Benedetto XVI è stato definito anticonciliarista. Cosa ne pensa?

I Papi non sono né conciliaristi né anticonciliaristi, ossia né dogmatizzano il Vaticano II ponendolo al di sopra della fede insegnata dagli Apostoli, né lo liquidano come un incidente di percorso. Il Concilio si inserisce nella tradizione della Chiesa da cui trae luce.

Cosa fare, allora?

Il lavoro da fare è lungo. Passerà molto tempo. Benedetto XVI ha tracciato la linea. Del Concilio bisogna parlare, ma non a partire dalle proprie posizioni ideologiche incancrenite o dalle frasi fatte di cui ci si riempie la bocca.

Benedetto XVI ha indicato una strada: un movimento che dal basso, e con la guida del Papa, riscopra il Concilio vedendolo dentro la tradizione della Chiesa e non in contrasto con essa. Una riscoperta non nel segno della rottura, ma della riforma nella continuità, lenta e progressiva, sempre più consapevole e diffusa. A questo mi auguro possa servire anche il mio libro.


(di Benedetta Cortese su La Nuova Bussola Quotidiana)

Marcia per la vita 2013










L’ABITO ECCLESIASTICO NELL’ORIENTE BIZANTINO






 di don Marcello Stanzione

Un lungo velo nero, che avvolge il copricapo a cilindro degli ecclesiastici ortodossi, dà un aspetto inconfondibile all’alto clero di queste Chiese Cristiane orientali, quello celibe e più colto da cui vengono scelti i quadri dirigenti: patriarchi e metropoliti vescovi e archimandriti. Questo velo, che cade sul petto con due sottili bande di stoffa e ricade dietro a punta abbracciando le spalle sino a mezza schiena – portato anche in determinati momenti del rito, sopra i colorati paramenti -, conferisce a questi uomini di Chiesa quella caratteristica sagoma trapezoidale che rappresenta indubbiamente una delle immagini più evocative dell’Ortodossia.

Non è forse altrettanto risaputo che questo indumento, che fa di questi ecclesiastici gli unici uomini per così dire “velati”, non connota affatto lo stato clericale, ma bensì la condizione monastica. Anticamente – e ancora oggi, soprattutto al monte Athos, in qualche comunità che ama ritornare all’antico – questo velo veniva steso direttamente sul capo senza il berretto sottostante, durante la preghiera e le celebrazioni liturgiche. Il vescovo ortodosso lo porta, perché, almeno dall’alto medioevo, egli viene scelto tra i monaci. Ancor oggi, se il vescovo prescelto appartiene al clero secolare, prima dell’ordinazione deve rivestire l’abito monastico. 

Il medesimo monocromo nero – che rappresenta pertanto una parte considerevole del “paesaggio” umano tipico dell’Ortodossia – connota il monachesimo femminile; anche le monache, figure vestite di nero che lasciano solo vedere il triangolo del volto delimitato da un fazzoletto che copre la fronte e le guance, portano direttamente sul capo il lungo velo nero che discende fino a metà schiena (in Russia invece le monache più anziane portano il velo sull’alto berretto cilindrico proprio del clero). 

Difficilmente chi ha esperienza del monachesimo occidentale riesce ad avere una corretta comprensione di quello ortodosso, nonostante la matrice comune delle due esperienze religiose, provenienti entrambe dall’antico monachesimo cristiano, documentato , già nel IV e V secolo, nei deserti egiziano e siro –palestinese. Risulta soprattutto fuorviante una certa osmosi che si è verificata nell’occidente latino tra chierici e monaci, per cui ai primi sono stati imposti requisiti e compiti della condizione monacale, come il celibato e la recita quotidiana dell’ufficio divino, e ai secondi vengono talvolta affidati incarichi pastorali, propri del clero secolare. 

Sono soprattutto due i presupposti teorici del monachesimo ortodosso che lo fanno apparire così diverso da quello cattolico: il principio della coessenzialità del monachesimo alla vita della Chiesa e quello dell’assoluta unitarietà della vita monastica, per cui non esiste pluralità di regole e l’estrema varietà delle forme di vita non altera la dimensione rigorosamente unitaria della professione monastica. 

Il termine monaco, etimologicamente viene dal greco monos che vuol dire “solo”; ora, anche se è un cenobita, se vive cioè nell’ambito di una comunità egli è nondimeno pienamente monaco, in quanto è primariamente il consorzio a cui egli appartiene a essere isolato rispetto all’altro più ampio consorzio, quello della società civile. Se poi è un eremita, se cioè vive in un piccolissimo gruppo sotto la guida di un anziano in una kaliva (capanna), spesso nell’ambito di un villaggio monastico (la skiti), oppure se dimora solitario in un esicasterio costruito in un luogo accessibile solo per ripidissimi sentieri ferrati a picco sul mare, non è mai integralmente solo, perché membro di questa società dove non si genera fisicamente ma spiritualmente e che tuttavia continua a riprodursi. 

Ciò che conta e che qualifica il monaco ecclesiasticamente è sociologicamente prima di tutto l’essere monaco e quest’unità si esprime esteriormente in una foggia d’abito comune a tutti i monaci ortodossi. Come l’Ortodossia non conosce più regole che differenzino profondamente una famiglia religiosa da un’altra, così non esistono diversi ordini monastici: apparentemente il pluralismo è totale, in quanto ogni monastero ha la sua regola particolare, ma tutte seguono un archetipo comune, attributo collettivamente alla sapienza ispirata dei padri. 

L’abito monastico viene convenzionalmente definito “abito angelico”, non solo perché, secondo una “leggenda delle origini monastiche, esso non è frutto della fantasia dell’uomo ma viene dall’alto – in quanto indossato dall’angelo che in visione lo mostrò all’egiziano Pacomio, il legislatore della vita in comune -, ma soprattutto perché chi lo indossa, nel suo distacco dal mondo e nella sua rinuncia alla sessualità, anticipa in terra la condizione del secolo futuro, dove i redenti “non si sposano, ma sono come gli angeli nel cielo” (Mt22,30). E anzi, “il rituale della Chiesa greca – afferma il Leclerq – sottolinea la presenza degli Angeli alla vestizione monastica”. E gli Angeli, rivestendo la persona della “veste angelica”, la rivestono e l’arricchiscono interiormente della “virtù angelica”, che è particolarmente la verginità liliale della mente, del cuore,

La maniera di vestire degli ecclesiastici ortodossi è quasi uguale in tutte le Chiese di tradizione bizantina. Il vestito, presso i Greci, consta essenzialmente dell’anterìon, che è una specie di talare senza bottoni, le cui due parti sul davanti sono sovrapposte e tenute strette alla vita da una cintura di stoffa – la cintura di pelle è monastica – e lateralmente da fermagli. Per i monaci è di color nero, ma per il clero secolare può essere di qualunque colore, solitamente blu scuro. 

Sopra l’anterìonsi portava spesso il kondòn, soprabito che non oltrepassa il ginocchio, con le maniche un po’ più larghe di quelle dell’anterìon. Sul kondòn o anche direttamente sopra l’anterìon, si mette il ràson, un mantello talvolta pieghettato, con maniche ampie. E’ il capo più importante del vestiario dei monaci e degli ecclesiastici, a partire dai diaconi. Quelli che non erano ancora diaconi, per lo più, portavano solo il kondòn. I preti , i diaconi e qualche volta i chierici portano in capo il kalimàfkiono kamilàfkion, un cappello cilindrico nero. Presso i Greci, i Bulgari e i Rumeni, tutti gli ecclesiastici, che sono almeno diaconi, lo portano con un piccolo bordo sporgente in cima. I monaci, gli archimandriti, i vescovi ed i patriarchi coprono il kalimàfkion con un velo nero, che ricade sulle spalle, chiamato epanokamilàfkion. 
Gli ecclesiastici, siano essi regolari o secolari, si lasciano crescere la barba. I Russi e i Rumeni portano spesso i capelli tagliati all’altezza del colletto dell’abito, mentre i Greci lasciano crescere anche i capelli che vengono raccolti a coda sotto il kamilafkion. Una delle pene ecclesiastiche inflitte ai chierici resisi indegni era quella di tagliare loro la capigliatura.




da Don Marcello Stanzione (Note) Domenica 28 aprile 2013