lunedì 30 aprile 2012

"Noi apparteniamo a lui ed egli appartiene a noi"



Omelia del Card. Ranjith per l'ordinazione di nuovi sacerdoti










del Card. Malcolm Ranjith *
* Cardinale Arcivescovo di Colombo (Sri Lanka)





Cari sacerdoti,


Il Decreto del Concilio Vaticano II sul ministero e la vita sacerdotale "Presbyterorum Ordinis", introduce l'ufficio del sacerdote con queste parole: "I presbiteri, in virtù della sacra ordinazione e della missione che ricevono dai Vescovi, sono promossi al servizio di Cristo maestro, sacerdote e re; essi partecipano al suo ministero, per il quale la Chiesa qui in terra è incessantemente edificata in popolo di Dio, corpo di Cristo e tempio dello Spirito Santo". Perciò, cari sacerdoti, ricevendo oggi il sigillo dello Spirito Santo e l'unzione con il sacro crisma per divenire sacerdoti del Signore, che è Sommo Sacerdote secondo l'ordine di Melchisedek, è importante che voi riflettiate sul valore e la dignità dei doni che ricevete e sulla sfide della missione a cui siete chiamati a rispondere negli anni a venire.

Il triplice ufficio di maestro, sacerdote e re, che sono le componenti della stessa missione di Gesù, da oggi in avanti vi appartiene. E come affermava la citazione del Decreto "Presbyterorum Ordinis", ponendo le nostre mani su di voi, venite costituiti al servizio della Chiesa per realizzare nel vostro tempo e nel vostro ambiente la medesima triplice missione di Cristo. Dovete perciò sempre ricordare che ciò che ricevete non è in realtà la vostra personale missione, ma la missione di Cristo. Tale convinzione, da una parte deve darvi un forte senso di fiducia e dall'altra deve farvi pronti ad accettare umilmente ogni genere di sofferenza come una via propria del Signore per compiere la sua missione in voi e attraverso di voi.




Chiamata alla comunione con Cristo

La sfida più importante che la vostra missione vi impone, sarà quella di rimanere intimamente e profondamente uniti con il Signore. Anzi, dovrà essere la vostra quotidiana scelta basilare: la vostra opzione fondamentale, per così dire. Il Signore non vuole tanto che voi facciate grandi cose o addirittura dei miracoli, quanto di lasciare che Egli faccia ciò che desidera con la vostra vita. Il Vangelo dichiara chiaramente che è stato il Signore a scegliere i suoi discepoli, non loro hanno scelto lui, per farli "pescatori di uomini" (Mc. 1,17). Le sue parole sono chiare - "kai poieso humas genesthai halieis anthropon" - "Io vi farò diventare pescatori di uomini". E' sempre il Signore a essere il protagonista nel farci diventare quello che lui vuole, non quello che vogliamo noi. Notate l'uso del tempo futuro "poieso": l'accento sta in ciò che egli farà, non ciò che gli apostoli faranno. Tutto quello che egli richiede dai suoi apostoli è di rimanere fermamente uniti a lui o ancorati in lui: "Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla" (Gv. 15,5).

Pertanto, il segreto della nostra fecondità sacerdotale, fecondità non mondana ma in Dio, sussiste solo nella misura in cui siamo uniti a lui. Le parole greche "koris emou ou dunasthe poiein ouden" sono vitali qui: la traduzione letterale sarebbe "senza di me non avete il potere di fare nulla". E' bene notare il doppio negativo: "non avete il potere" e "di fare nulla". Scrisse al riguardo l'Arcivescovo Fulton Sheen: "il sacerdote non appartiene a se stesso, ma a Cristo. Non si deve mai preoccupare di sapere chi è, non è di se stesso. E' di Cristo" ("Quei preti misteriosi", Edizioni San Paolo, 2005, p. 221). Le parole di Gesù "non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti" (Gv. 15, 16) confermano la nostra stretta identità con Gesù come sacerdoti ed è secondo tutta la telogia vocazionale delle Scritture.

In una parola, noi apparteniamo a lui ed egli appartiene a noi. Perciò, miei cari sacerdoti, il compito più importante che vi attende è di crescere in comunione con Gesù il Signore ogni giorno. Lasciate che sia lui a farvi crescere e fate tutto ciò che a lui piace. Il che significa che dovrete amarlo smisuratamente come la vostra opzione più importante nella vita. San Giovanni Battista ci ha indicato la direzione: "Lui deve crescere; io, invece, diminuire" (Gv. 3,30). In questo modo, il presbitero non è soltanto un uomo di Dio, ma è la visibile manifestazione di Gesù - l'alter Christus - almeno, questo è ciò che deve diventare.

Come affermò San Giovanni Maria Vianney, il Curato d'Ars: "Se dovessi incontrare un sacerdote e un angelo, saluterei prima il sacerdote e poi l'angelo. Quest'ultimo è l'amico di Dio, ma il sacerdote tiene il suo posto" (Il piccolo catechismo del Curato d'Ars, Tan Books and Publishers, 1951, p. 36). San Paolo, scrivendo ai Galati, spiega la sua intima relazione con il Signore come una coesistenza: "Sono stato crocifisso con Cristo, e non vivo più io, ma Cristo vive in me" (Gal. 2, 20). Come pure che egli portava sul suo corpo "le stigmate di Gesù" (Gal. 6, 17). Tanto grande era la sua intimità con il Signore.




Egli prende possesso di noi

Cari sacerdoti, come tali è vero che dovrete fare molte cose, avrete molti obiettivi da raggiungere, ma nessuno di questi sarà così importante come lo è il compito primario che il Signore vi ha assegnato: "stare con lui" (Mc. 3,14). Sì, dal mattino alla sera, in ogni momento della vostra giornata e con gioia, dovrete sentire un grande desiderio di stare con lui, di piacere a lui, di parlare e condividere i vostri pesi con lui, e lasciare che lui prenda possesso della vostra vita facendone un libro su cui tutti possano leggere di lui.

Papa Benedetto XVI vede nell'imposizione stessa delle mani da parte del vescovo sugli ordinandi, "la presa di possesso" di Cristo sulla persona. Scrive il Papa: "Al centro dell'ordinazione presbiterale vi è l'antichissimo rito dell'imposizione delle mani, con le quali egli ha preso possesso di me dicendomi: 'tu appartieni a me'. Tuttavia, oltre a questo, disse anche: 'tu sei sotto la protezione delle mie mani. Sei sotto la protezione del mio cuore. Sei al sicuro nel palmo delle mie mani, ed è proprio così che sei nell'immensità del mio amore. Rimani nelle mie mani, e dammi le tue'. Ricordiamoci poi che le nostre mani sono state unte con olio, che è il segno dello Spirito Santo sotto il suo potere. Perché le mani? La mano dell'uomo è lo strumento dell'azione umana, è il simbolo della capacità umana di affrontare il mondo, appunto 'tenendolo in mano'" (Sacerdoti di Gesù Cristo", Edizioni Family, Oxford, 2009, p. 12).

Il significato dell'unzione che riceviamo alla nostra ordinazione, è in effetti l'appartenenza a Dio. Nell'antichità, l'eletto del Signore veniva unto versando una giara di olio prezioso sul suo capo, che scendeva sulla sua barba e su tutto il corpo (cfr. Sal. 133,2) ma oggi viene effuso sulle vostre mani per significare questa appartenenza. Appartenere a Cristo vuol dire anche essere totalmente identificati con lui perfino sulla croce. Diceva San Josè Maria, il fondatore dell'Opus Dei: "essere sacerdoti è essere sempre in croce" (The Forge, Scepter, Londra, 1988, n. 882). Un'appartenenza che non ha né lunghezza né larghezza. E' illimitata ed infinita. E' lo spazio che il Signore dispone perché lo amiamo e lo serviamo" (cfr. Ef. 3,17-19).




Preghiera e lavoro

L'antica regola monastica aveva il duplice aspetto della santificazione del giorno - ora et labora - prega e lavora, il contenuto stesso della vita consacrata. Il Vangelo ci mostra che Gesù stesso operava così intensamente che non trovava nemmeno il tempo per mangiare (cfr. Mc. 3,20). Ma trascorreva una considerevole quantità di tempo nella preghiera: quaranta giorni di preghiera e digiuno (cfr. Mt. 4,1-11) prima della sua vita pubblica; una notte di preghiera prima di scegliere gli apostoli (cfr. Mc. 3,13); preghiera nel momento della Trasfigurazione (cfr. Mc. 9,2-8); preghiera alla risurrezione di Lazzaro (cfr. Gv. 11,41-42) e al giardino del Getsemani prima di subire la sua Passione (Mt. 26,36ss.) e finalmente la preghiera sacerdotale di Gesù (cfr. Gv. 17).

In Gesù troviamo dunque un perfetto equilibrio tra lavoro e preghiera, e ciò deve valere anche per la nostra vita sacerdotale. Un lavoro senza preghiera è solo un grande rumore incentrato sull'ego senza alcun significato interiore e potenza trasformativa, forse buono in sé ma privo di senso, e la preghiera senza lavoro è avere ideali ma nessuna realizzazione. Nel caso di un sacerdote, il lavoro è sempre contemplativo ed ha una dimensione divina e santificante. La sua fatica quotidiana diventa un sacrificio gradito a Dio se è profumata di preghiera. Anzi, la sua crocifissione si compie con molte preghiere, come quelle del giardino del Getsemani, e con le sette parole conclusive del Signore "Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito". Gesù è il sacerdote la cui vita è divenuta un'offerta gradita a Dio "con molte preghiere e lacrime" sulla croce del Calvario, come ci insegna la Lettera agli Ebrei. Per lui la croce, per quanto dolorosa, non rappresentava solo un compito che doveva adempiere, ma che abbracciò con amore e nell'orazione.

Soprattutto il sacerdote, miei cari, nell'imitare Cristo nelle sue funzioni sacerdotali, deve tendere alla santificazione della vita e del mondo attorno a lui. Leggiamo nella "Pastores dabo vobis": "I sacerdoti vengono elevati alla condizione di strumenti vivi di Cristo eterno Sacerdote, per proseguire nel tempo la sua mirabile opera, che ha reintegrato con efficacia l'intero genere umano. Dato quindi che ogni sacerdote, nel modo che gli è proprio, agisce a nome e nella persona di Cristo stesso, fruisce anche di una grazia speciale, in virtù della quale, mentre è al servizio della gente che gli è affidata e di tutto il popolo di Dio, egli può avvicinarsi più efficacemente alla perfezione di Colui del quale è rappresentante" (Pastores Dabo Vobis n. 20).

In altre parole, i presbiteri santificano il mondo attorno a sé lasciando che la propria vita sia completamente assunta e spesa per "dare a Dio un'umana natura". Come Maria, il cui "fiat" divenne il mezzo col quale Dio è entrato nella storia mediante Cristo e ha redento l'umanità. Così, anche il "sì" sacerdotale è il mezzo attraverso il quale si compie l'opera di santificazione del mondo. Il sacerdote diventa il locus della missione santificante di Dio. Lascia che la sua vita divenga l'altare sul quale il sacrificio redentivo di Cristo continua a celebrarsi. E' l'Eucaristia che si traduce in tutte le concrete scelte di vita di un sacerdote.

Scrive Papa Benedetto nella "Sacramentum Caritatis" al n. 80: "La spiritualità sacerdotale è intrinsecamente eucaristica. Il seme di una tale spiritualità si trova già nelle parole che il vescovo pronuncia nella liturgia dell'Ordinazione: 'ricevi le offerte del popolo santo per il Sacrificio eucaristico. Renditi conto di ciò che farai, imita ciò che celebrerai, conforma la tua vita al mistero della croce di Cristo Signore".

Perciò, cari sacerdoti, raccogliete insieme tutti i sacrifici che fate nel compiere la vostra missione di istruire, santificare e governare nell'imitazione di Cristo, e uniteli all'Eucaristia e ai sacramenti che celebrate ogni giorno, perché la vostra vita sia gradita a Dio e voi diventiate il soggetto dell'azione redentrice - la storia miracolosa che Egli vuole scrivere perché la vostra gente la legga - e sperimentiate "l'ampiezza, la lunghezza, l'altezza e la profondità" (Ef. 3, 18) dell'amore di Dio per loro.

Che Dio vi benedica e vi sia d'aiuto nel momento in cui cominciate il cammino della vostra vita sulle orme di Gesù, vostro vero Pastore, Sacerdote e Profeta. Amen.




+ Malcolm Card. Ranjith
Arcivescovo di Colombo

21 aprile 2012, Ordinazioni Sacerdotali nella Cattedrale di Santa Lucia a Colombo.


La Fede e il dubbio




di Francesco Agnoli



Tra l’uomo che ha fede e l’uomo che non la ha ci dovrebbe essere una differenza fondamentale: che il primo professa una serie di certezze, di Verità indubitabili, non negoziabili, mentre il secondo contrappone a queste certezze il dubbio, talora lo smarrimento.

Fede, infatti, significa certezza nell’esistenza di Dio, cioè di un significato, di una Verità, di un Bene assoluto. Questa certezza è presente in chi crede in una religione rivelata, nell’esistenza di un Dio che è sceso incontro all’uomo, in prima persona. Il cattolico è dunque un uomo di solide certezze. Non un uomo “in ricerca della Verità”, come spesso si dice, ma un uomo che la ha già incontrata e che ricerca, invece, con grande fatica, di amarla e di penetrarla sempre di più, certo di non poter mai giungere sino al fondo.

Eppure, nel pensiero cattolico contemporaneo, non sembra che sia così. Il “cattolico adulto”, per usare una definizione di comodo, è figlio del modernismo, così ben analizzato da Pio X nella Pascendi: egli vuole essenzialmente sposare la sua fede in Cristo con le filosofie contemporanee, che dissolvono la Verità nell’individualismo, nel libero esame, nello scetticismo. Per questo, che si parli di Dio, di etica, o di tutto ciò che è importante, si fa sempre difensore del dubbio, come metodo e come obiettivo. Vi sono parole che da sole bastano a farlo inviperire: Verità, principi non negoziabili, errore…insomma tutto ciò che allude ad una chiara definizione, ad una evidente e certa distinzione tra ciò che è vero e ciò che non lo è.

In mille occasioni, il cattolico modernista risponde al suo oppositore con frasi ironiche di questo genere: “Beati quelli pieni di certezze come te, io non ne ho”. Dove si deve leggere, tra le righe, un misto di compatimento e di finta umiltà: chi professa il dubbio metodico si crede anzitutto più intelligente, e in secondo luogo più umile, rispetto ad un interlocutore che ha certezze solo perché un po’ grullo, sempliciotto e saccente. Cristo? Io non ho certezze, professa il cattolico adulto, e intanto trasforma il mandato di evangelizzare tutte le genti, in un indifferentismo che chiama ecumenismo. L’aborto? Io non ho certezze, ribadisce, tendendo la mano al radicale e votando la legge 194; L’eutanasia? Nel dubbio finisce sempre per invitare Beppino Englaro a parlare nella sua parrocchia…

Invece, a mio parere, la Fede e il dubbio non possono stare insieme, almeno non in questo modo. La Fede è la certezza che ciò che Cristo ha rivelato sia vero, buono, giusto, per ogni uomo. Non per fiducia in una propria personale posizione o filosofia; ma per fiducia in Colui che è creatore dell’universo. La Fede è dunque intransigente, come l’amore. Chi ama, ama davvero, integralmente, o quantomeno desidera farlo. Chi crede nel Salvatore non può disegnarsene uno da seguire a tempi alterni e secondo le voglie: non sarebbe un Salvatore, ma, al massimo, un filosofo, o un saggio. Ciò non significa che chi crede rinunci alla sua intelligenza, al suo giudizio, ad una analisi personale.

Significa, al contrario, che la Fede è anche una libera scelta, della ragione e della volontà, ma una scelta, diciamo così, una volta per tutte: non è un scegliere di volta in volta, liberi da vincoli, da principi, ma un aver imboccato una strada, quella indicata da Cristo, perché se ne è riconosciuta la validità, la verità, la bellezza. In essa si vuole stare, pur cadendo mille volte.

La fede, insomma, è obbedienza alla Verità rivelata, non a se stessi. Un cattolico che ha fede dunque, scaccia i dubbi: Dio esiste e di conseguenza, nella vita morale, il bene e il male non sono relativi al suo volere o al suo discernimento…E’ questa grulleria o saccenza? Al contrario, questa visione della fede contiene in sé, oltre che una grande saggezza (l’uomo non si è mai salvato da solo), una grande umiltà: l’uomo di fede non dubita del suo Salvatore, ma di sé, certamente, e molto! Confrontarsi con i dogmi e le Verità rivelate significa infatti mettersi sempre in discussione; significa tendere verso un dover essere e sentire la propria inadeguatezza. L’ uomo di fede, così, mentre con la mente e col cuore professa il Credo, nella pratica sperimenta la sua miseria, e mette in dubbio il suo stesso operato, costantemente.

Al contrario, il cattolico che vanta la sua apertura mentale, che si lancia negli elogi sperticati del dubbio fine a se stesso, non solo nega la propria fede, ma lungi dal professare una vera umiltà, finisce per porsi, di fronte alle singole scelte, con lo stesso atteggiamento dell’uomo che non crede, cioè al di là del bene e del male. Si lascia infatti aperta ogni strada e ogni scelta, nella teoria, per poterla percorrere, poi, nella pratica. Elogia il dubbio, ma in verità erge se stesso a criterio di ogni decisione, negando una Verità che lo sovrasti e a cui adeguarsi. Nella Fede cattolica vi è dunque grande spazio, certamente, per il dubbio: riguardo a se stessi, lo ripeto, ed anche, come è umano, riguardo a Dio. Ma non c’è spazio per il dubbio metodico, rivendicato come parte integrante, anzi costituente, della Fede stessa.


(Il Foglio)

domenica 29 aprile 2012

L’accesso al Tempio celeste





Noi, come gli Efesini dell’anno 60 o 62, ai quali san Paolo scrive una magnifica lettera nella quale dice che non siamo più ospiti e stranieri ma concittadini dei santi e uomini della casa di Dio, noi ameremo, molto più di ogni tesoro della terra, la grazia che la santa Chiesa prodiga ai suoi figli quando li eleva al di sopra del tempo e dona loro un assaggio delle gioie eterne. Il valore del fiume liturgico, carico di tutto l’oro del mondo, risiede nel fatto che si getta nell’oceano della vita divina: lo scorrere d’immagini e segni si arresta sulla soglia del santuario, non lasciando penetrare se non le anime che passano dall’orazione alla preghiera pura, quando acconsentono all’abolizione di segni e all’avvento della pienezza. «Allora gli eletti — è scritto nell’Apocalisse — non avranno più bisogno di ceri poiché il Signore stesso sarà loro luce».
Alla domanda su come gli attori del dramma liturgico siano condotti sul cammino della Patria, e in quale misura possano avere accesso alla «Bellezza che chiude le labbra» (sant’Angela da Foligno), bisogna rispondere che il cammino di ascesi si realizza su due piani. C’è, l’abbiamo visto, il piano dei mezzi offerti dalla Creazione, materiale vasto di immagini e di simboli; e c’è il piano della fine prevista, che è l’entrare all’interno delle frontiere del mondo celeste. Si può dire, senza timore di sbagliarsi, che lo spiegarsi liturgico nella sua interezza si snoda in un universo di figure e di simboli che richiamano la nostra condizione di esiliati come anche il mistero della nostra appartenenza alla Città di Dio. Siamo dunque invitati a porre attenzione alla rete di segni che è indirizzata a noi. Il segno più evidente e fondamentale verso il quale è richiesta la nostra massima attenzione, quello che ci indica che abbiamo realmente passato la soglia del Regno, è la gioia.

L’invasione della gioia

«Che cos’è la liturgia?», domandava un giorno Carlo Magno al suo ministro e consigliere Alcuino, che gli rispose: «La liturgia, è la gioia di Dio». Possiamo arricchire quest’affermazione dicendo che essa è insieme la gioia di Dio e la gioia dell’intera creazione.
Ecco ciò che canta l’Exsultet della notte pasquale: «Che esulti il coro degli angeli… che gioisca anche la terra (tellus) irradiata da tale splendore». E il prefazio della Messa di Pentecoste evoca anch’esso il trasalire di gioia della creazione alla discesa dello Spirito santo sugli apostoli: «Per questo, inondati di gioia, l’umanità esulta su tutta la terra!». Allo stesso modo, il Sanctus non evoca la condizione di un universo sommerso dai flutti della gloria divina? «I cieli e la terra sono pieni della tua gloria». Ecco quello che ci dicono i testi durante il tempo pasquale: «In Lui il cielo risuscita, il Lui risuscita la terra. Nella tua risurrezione, o Cristo, il cielo e la terra gioiscono, alleluia!».
Questa gioia, secondo il suo livello, che sia un’eco o che sia un’anticipazione del soggiorno beato, si esprime liricamente, soprattutto attraverso il canto, la luce, i paramenti bianchi, la processione.
Il canto gregoriano è un’eco del cantico della Gerusalemme celeste. Alla Messa e all’ufficio divino, il canto non è un ornamento facoltativo né un desiderio lodevole di abbellire il culto. Il canto è un dato essenziale del culto cattolico perché il culto sulla terra imita il culto celeste che è un canto di lode e azione di grazie. È il grande panegirico dell’Apocalisse dove gli eletti e gli angeli formano un coro attorno all’Agnello. E questo coro canta Amen e Alleluia. Amen: tutto è bene così; alleluia: lodate Yahvé! Sono questi, dice sant’Agostino, i due clamori dell’eternità. Si è dovuto attendere il secolo XII per vedere l’uso generalizzato delle Messe basse. Fino ad allora, la «celebrazione dei divini misteri» — così si designava la Messa — era sempre accompagnata dal canto e dall’incenso perché l’oblazione del sacrificio è attualizzazione della croce e partecipazione alla liturgia del cielo.
Il canto gregoriano esprime tutto ciò meglio di qualsiasi altro canto terreno perché ci introduce in un mondo senza tempo dove è messa al bando ogni espressione naturalista. Anche durante la settimana santa, la supplica e il dolore non alterano la serenità di un canto che si situa al di sopra del dolore, come l’ammirevole canto dei greco-slavi, con in più una nota di giubilo che appartiene solo alla melodia gregoriana. La musica del Rinascimento ha prodotto passi di bellezza incontestabile. Ma non è il canto proprio della Chiesa latina. La Sposa del Cristo non può riconoscersi neppure nell’espressionismo moderno che si attacca alle emozioni sensibili, o anche sentimentali. I negro-spiritual respirano una tristezza melanconica dove il ritmo sincopato a due tempi costringe come le catene che stringevano i cantori neri della Louisiana. Ciò che manca a queste espressioni religiose è la luce della Pasqua, la gioia del cielo, la gloriosa libertà dei figli di Dio condotti nel Regno del suo amore [1].
I paramenti e la luce sono anch’essi delle immagini della vita celeste. Derivano dal più antico culto di Mosé, probabilmente anche da un dato ancora più primitivo, legato a un simbolismo naturale. Al tempo della Chiesa primitiva, giocavano un ruolo essenziale nella liturgia battesimale, nel corso della quale i neofiti portavano l’alba di lino bianco che significava aver rivestito il Cristo e ricevevano la candela che li designava come figli della luce: «Prima eravate tenebre, ora siete luce nel Signore. Camminate come figli della luce». Questi due riti, accompagnati da due ingiunzioni finali, formano la conclusione del rito battesimale attuale: sono giunti a noi come testimonianza della teologia della veste e della luce per esprimere la gioia.
Il rito della processione rimanda sempre al cammino dell’umanità riscattata verso il santuario del cielo. La Chiesa è evidentemente l’immagine del paradiso; immagine individuabile è visibile nell’architettura dei nostri templi di pietra: il portale delle cattedrali raggiante di sculture che riproducono gli eletti, segna la separazione con il mondo profano e l’ingresso nel mondo celeste. Tutte le processioni terminano all’interno del santuario e imitano il movimento ascendente della vita umana verso l’eternità. Questo è il senso che suggeriscono le orazioni che accompagnano la processione della Candelora, quella delle Palme e quelle di uso monastico.
Nella cerimonia della Dedicazione di una Chiesa, il carattere drammatico dell’ingresso nel santuario è sottolineato ancora dal rito del bussare tre volte alla porta chiusa: il pontefice batte ripetutamente tre volte con il pastorale (la croce) alla porta della chiesa dietro la quale si trovano il diacono e gli accoliti che rappresentano gli angeli, e un dialogo sublime si stabilisce tra una parte e l’altra.
Il pontefice canta: «Elevamini portae eternales», «apritevi porte eterne ed entri il Re della gloria!».
Il diacono risponde: «Quis est iste Rex gloriae?», «chi è il Re della gloria?».
Il pontefice: «Dominus forti set potens, Dominus potens in praelio», «il Signore forte e potente, il Signore potente in battaglia».
Chi non vede qui lo svolgersi come in filigrana della storia escatologica della salvezza? Gesù il Cristo, gran sacerdote, vittorioso per mezzo del legno della croce, penetra nel tempio celeste per celebrarvi alla fine dei tempi una dedicazione eterna. Ciò che significa è vissuto dagli autori del dramma liturgico.
Nel rito bizantino della Messa solenne, le offerte sono portate in processione dalla sacrestia all’altare. Il chierico, che rappresenta le gerarchie angeliche, canta il mirabile Cherouvikon: «Noi che misticamente rappresentiamo i cherubini e che in onore della vivificante Trinità, cantiamo l’inno del tre volte santo, lasciamo con sollecitudine ogni interesse mondano per ricevere il Re del creato, invisibilmente scortato dalle milizie angeliche. Alleluia!».

Il sacrificio del cielo

I Padri Jean-Jacques Olier e Charles de Condren hanno messo in luce la famosa tesi del sacrificio del cielo, che ha fatto colare fiumi d’inchiostro ed è stata aspramente criticata in ciò che presentava di eccessivo. Oggi sembra si sia arrivati a un accordo, tuttavia non sulla continuità dell’atto sacrificale di Cristo-Sacerdote in cielo — poiché la Scrittura afferma, al contrario, che Gesù Cristo è morto una sola volta [2] —, ma sullo stato sacrificale: Gesù, avendo conservato le stigmate della Passione, appare nella gloria come vittima gloriosa di un sacrificio compiuto [3].
Se si scarta l’idea di una morte sacrificale che si riprodurrebbe nell’eternità, la tesi del sacrificio celeste cara alla Scuola francese, conserva il suo valore. Padre de Condren ha su questo argomento delle idee illuminanti che meritano di essere citate:
«Questo grande sacrificio che Gesù Cristo fa a Dio in cielo con i suoi santi, offrendosi lui stesso con loro, è lo stesso sacrificio che i sacerdoti e tutta la Chiesa offrono per loro sulla terra nella santa Messa. Con questa differenza: la comunione che ricevono i santi da Gesù Cristo in cielo è senza interruzione ed eterna, mentre la nostra è giornaliera e passeggera giacché qui siamo soggetti alle vicissitudini del tempo e alle necessità della vita presente, mentre in cielo non c’è altro termine se non l’eternità e altra occupazione se non il sacrificio e la Comunione eterna. In cielo i santi comunicano con Dio e con Gesù Cristo nel godere della sua vista faccia a faccia, proprio come Egli è. Qui noi comunichiamo con Lui senza godere della sua visione e lo vediamo solo con gli occhi della Fede… Nell’antica legge, lo si aveva solo in figure senza la verità. Ora noi abbiamo la Verità sotto forma di figure e in cielo, luogo di godimento e di luce, potremo essere appagati dalla stessa Verità da scoprire senza veli».
Come esprimere la relazione che esiste tra la Messa, la croce e lo stato di Cristo glorioso? Il concilio di Trento dirà che la Messa è il rinnovo sacramentale non cruento del sacrificio del Calvario e che nella Messa colui che compie il sacrificio è la vittima stessa, è lo stesso sacrificio del Calvario. A ben vedere il concilio di Trento affermava questo in funzione antiprotestante poiché si negava che la Messa fosse un vero sacrificio e l’offerta sacramentale fosse una vera vittima. Non si voleva relegare nell’ombra l’altro aspetto del sacrificio, messo in luce dai Padri della Chiesa, secondo i quali la Messa è in relazione diretta con la liturgia che si svolge in cielo. C’è in effetti un’identità assoluta di essere e di azione tra l’Ostia deposta sul corporale e l’Agnello celeste, il Kyrios della gloria.
Si può affermare senza errore che la Messa è il sacrificio del cielo, perché ciò che il celebrante delle nostre Messe su questa terra tiene tra le sue dita è il Cristo glorioso, che si offre in quel momento alla maestà del Padre. È per questo che non c’è un segno speciale nella Messa per rappresentare lo stato celeste. Il pane eucaristico è una realtà celeste: «panem coelestem accipiam…». È ciò che suggerisce la pregevole preghiera Supplices Te rogamus (dopo la consacrazione) [4], e i commentatori di quest’orazione del Canone si esprimono tutti in maniera realistica. Non che Cristo discenda, come per una specie di stato di bilocazione per trovarsi tra le dita del sacerdote, ciò che sarebbe metafisicamente assurdo, ma al contrario nel senso che è la comunità che accede a un livello superiore per cogliere il suo Salvatore risuscitato come appare nella gloria.
Il diacono Fiorenzo sottolinea i testi dove sant’Agostino celebra l’altare invisibile sul quale il sommo Sacerdote offre il sacrificio eterno di lode perché «tutta la società riscattata, cioè l’immensa assemblea dei santi, è offerta a Dio in sacrificio universale per il sommo Sacerdote in paradiso».
Le Supplices e i commenti che ne hanno fatto i Padri ci liberano dalla falsa teologia del sacrificio che tende a far credere che Cristo, come racchiuso nell’ostia, si trovi in uno stato diminuito (in statu decliviori), così come da espressioni infelici come il «divino prigioniero del Tabernacolo» e altri fiori di eloquenza, più sentimentali che veridici, cari agli oratori del secolo XIX. Molto più profonda e grandiosa è la prospettiva dei Padri della Chiesa e di alcuni autori nutriti dell’antica base teologica che, come farà più tardi Padre Olier, invita a vedere che c’è «un sacrificio in paradiso, il quale nello stesso tempo è offerto sulla terra, poiché l’ostia che si presenta è portata sull’altare del cielo. Ed è diverso da questo sacrificio solo per il fatto che qui si presenta sotto veli e simboli e lì è scoperto e senza veli».

Gli angeli tra noi

Sotto questa luce si comprenderanno meglio le continue allusioni alla presenza degli angeli nel culto cattolico. Fin dall’inizio della Messa è in presenza di tutta la corte celeste e di san Michele Arcangelo che i fedeli della terra si battono il petto. Anche il rito dell’incenso si fa per intercessione del grande Arcangelo «che è alla destra dell’altare dell’incenso» (messale romano). Durante il Gloria la comunità terrestre si associa alla liturgia degli angeli per mezzo di una sola voce — una voce —, l’espressione è molto profonda e richiede una spiegazione, per cantare insieme il Trisagion, l’inno angelico per eccellenza, il canto supremo con il quale i Serafini adorano il Dio tre volte Santo che abita una luce inaccessibile. Al canto del Trisagion, scrive san Giovanni Crisostomo, «l’uomo è come portato lui stesso in cielo, è presso il trono della gloria; vola con i Serafini, canta l’inno sacro».
L’affermazione del grande Dottore non è un’iperbole. La Messa è un’avventura mistica di portata incalcolabile. Il mistero della croce sanguinante si rinnova con dolcezza, provocando uno squarcio nel paradiso. Il sogno di Giacobbe si realizza: gli angeli salgono e discendono e la loro presenza affettuosa rende più soave la nostra partecipazione all’austero sacrificio. Chiunque si accosti all’altare suscita l’aiuto amichevole e l’ammirazione dei nostri fratelli invisibili. Nel suo trattato sui misteri, sant’Ambrogio avverte quelli che saranno illuminati: «Vi mettete in cammino verso l’altare; gli angeli vi guardano, hanno visto che vi mettete in marcia; hanno visto la vostra condizione prima miserabile divenire ora sublime».
Ma è la comunione al sacrificio eucaristico che realizzerà ciò che significano i salmi, le luci, i simboli. La comunione sacramentale infatti non ci permette soltanto di «ricevere» l’anima, il corpo, il sangue e la divinità di Gesù Cristo; ci unisce in una specie di simbiosi nell’atto di culto del Figlio diletto come si svolge nel santuario celeste: siamo uno con la persona di Cristo che agisce come sacerdote e vittima. La conoscenza prosegue nel co-agire in una realtà dove si cancellano le frontiere del mondo terrestre con il mondo celeste. Quando nel capitolo XII della Lettera ai Romani san Paolo esorta i cristiani a offrire i loro corpi come ostie viventi, sante, gradite a Dio — «sicut hostiam viventem, sanctam, Deo placentem» —, il consiglio dell’apostolo trova la sua realizzazione più perfetta nell’atto stesso della comunione sacramentale che fa di colui che si comunica l’attore di una liturgia angelica, filiale e celeste sotto lo sguardo amante di Dio creatore e Padre.
Il terzo punto che si offre alla nostra meditazione è quello del legame intimo che esiste tra rito e uomo, dell’educazione di questo attraverso quello e del pericolo che comporta ogni svalutazione di questo legame vitale. L’anima cristiana è così abituata all’atmosfera celeste, che circonda ogni minimo aspetto liturgico all’interno del santuario, che rischia di non percepire lo sconvolgente messaggio che le è indirizzato e il vuoto che lascerebbe la sua scomparsa.




[1] Nulla esprime meglio la nuova condizione del cristiano e lo stato di gioia nel quale si trova che l’altisonante frase seguente di san Paolo: «Ringraziando con gioia il Padre che ci ha messi in grado di partecipare alla sorte dei santi nella luce. È lui infatti che ci ha liberati dal potere delle tenebre e ci ha trasferiti nel regno del suo Figlio diletto, per opera del quale abbiamo la redenzione, la remissione dei peccati» (Col 1,12). Il verbo esprime bene un’azione passata: «ci ha trasferiti», «transtulit». Il battesimo ci ha trasportati in un altro mondo.
[2] «Cristo risuscitato dai morti non muore più; la morte non ha più potere su di lui. Per quanto riguarda la sua morte, egli morì al peccato una volta per tutte» (Rm 6,9-10). «Cristo è morto una volta per sempre per i peccati» (1 Pt 3,18).
[3] «Vidi ritto in mezzo al trono circondato dai quattro esseri viventi e dai vegliardi un Agnello» (Ap 5,6).
[4] «Ti supplichiamo, Dio onnipotente: fa’ che questa offerta, per le mani del tuo angelo santo, sia portata sull’altare del cielo davanti alla tua maestà divina, perché su tutti noi che partecipiamo di questo altare, comunicando al santo mistero del corpo e sangue del tuo Figlio, scenda la pienezza di ogni grazia e benedizione del cielo».


[Dom Gérard Calvet O.S.B. (1927-2008), La santa liturgia, trad. it., Nova Millennium Romae, Roma 2011, pp. 21-32]

tratto da Romualdica

sabato 28 aprile 2012

L’INTERVENTO DEL PAPA SULL'USO DI ''PER MOLTI'' INVECE CHE ''PER TUTTI'' DURANTE LA CONSACRAZIONE CHIUDE UNA DISPUTA SOTTERRANEA CHE HA DIVISO I VESCOVI






di Gianni Valente

 Una volta tanto, Benedetto XVI ha voluto parlare in tedesco affinché il messaggio arrivasse chiaro e distinto a tutti, italiani compresi. La lettera firmata il 14 aprile scorso per i vescovi suoi connazionali affronta in maniera articolata la vicenda delle formule post-conciliari di consacrazione del vino durante le celebrazioni eucaristiche. Un intervento deciso per ribadire le indicazioni già espresse in merito dalla Sede Apostolica all’inizio del Pontificato ratzingeriano, che finora avevano trovato scarsa ricezione da parte di episcopati, come quello italiano, solitamente solleciti nell’allinearsi ai suggerimenti pastorali e liturgici , inviati da Oltretevere.

Al centro della questione c’è la formula usata durante la preghiera eucaristica per consacrare il vino, così che diventi il sangue di Cristo. Il Rito Romano in latino, rifacendosi al racconto d’istituzione dell’Eucaristia riportato nell’originale in greco dei Vangeli sinottici, ha usato fin dai primi secoli le parole lì attribuite a Cristo stesso per dire che il suo sangue era stato versato "per molti" ("pro multis", corrispondente al greco pollòn). Nelle versioni in lingua corrente del Messale latino predisposte dopo il Concilio, il "pro multis" è stato tradotto con l’espressione "per tutti".

Fino a quando, nel 2006, la Congregazione per il Culto Divino, con una lettera firmata dall’allora cardinale prefetto Francis Arinze, ha tentato di revocare tale slittamento lessicale, dando disposizione a tutte le Conferenze Episcopali nazionali di ripristinare nelle nuove edizioni dei Messali in via di revisione una traduzione della formula di consacrazione che fosse corrispondente alle parole latine "pro multis".

Da allora, in molti casi, l’adeguamento richiesto dalla Santa Sede è proceduto lento pede e in ordine sparso, man mano che venivano approvate le nuove versioni del Messale Romano nelle diverse lingue correnti. La più lesta è stata la Chiesa che è in Ungheria, dove la correzione richiesta nella formula di consacrazione del calice è entrata in vigore già dalla Pentecoste del 2009. A seguire, sono arrivate alcune Chiese latinoamericane (Cile, Argentina, Paraguay, Uruguay, Bolivia), dopo l’approvazione della versione castigliana del Messale Romano da esse predisposta. In Argentina il passaggio dal "por todos" al "por muchos" è avvenuto la prima domenica di Quaresima 2010, mentre in Cile era già stato realizzato nella prima domenica d’Avvento 2009. Nelle Chiese anglofone, l’approvazione vaticana della versione inglese del Messale Romano, dopo un percorso lungo e travagliato, è avvenuta soltanto un anno fa, e il nuovo Messale con "for many" al posto di "for all" è entrato in uso solo nell’Avvento del 2011.

Il caso italiano fa storia a sé. La questione del "pro multis" è stata messa ai voti durante l'Assemblea plenaria della Conferenza Episcopale tenuta ad Assisi nel novembre del 2010. E secondo i dati filtrati anche sul sito curato dal vaticanista Sandro Magister, su 187 votanti ci sono stati 171 voti a favore del mantenimento del "per tutti". Una riluttanza al cambiamento richiesto che in precedenza si era già manifestata al livello delle Conferenze Episcopali regionali. Differenti sensibilità sull’argomento si sono manifestate in tempi recenti anche nel Collegio cardinalizio.

Uno dei supporter storici dell’adeguamento dei Messali nazionali al "pro multis" latino è il cardinale singalese Malcolm Ranijth Patabendige Don. L’attuale arcivescovo di Colombo sosteneva con decisione la prospettiva del ritorno al "per molti" già negli anni in cui era a Roma in qualità di segretario della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti. Secondo il porporato, il ritorno alla formula del "per molti" al posto del "per tutti" rappresenta anche un richiamo opportuno "alla serietà della vocazione cristiana", in una situazione in cui a suo giudizio "è molto presente un ottimismo esagerato nella salvezza che fa giungere al Paradiso tutti quanti senza richiedere il dono della fede e lo sforzo della conversione".

Invece il cardinale gesuita, Albert Vanhoye in un’intervista rilasciata a 30Giorni della primavera del 2010, ha espresso una posizione più articolata. Secondo l’insigne biblista, la traduzione del "pro multis" in "per tutti" adottata da molte Chiese nel post-Concilio poggiava su ragioni esegetiche per nulla irrilevanti. Partendo dal fatto che Gesù parlava in aramaico, e non in greco o in latino. "In italiano - notava in quell’intervista il rettore emerito del Pontificio Istituto biblico - molti si contrappone implicitamente a tutti. Se si dice che molti alunni sono stati promossi all’esame, vuol dire che non tutti sono stati promossi. Invece in ebraico non c’è questa connotazione dialettica. La parola 'rabim' significa soltanto che c’è un grande numero. Senza specificare se questo grande numero corrisponde o non corrisponde a tutti". Secondo Vanhoye "è chiaro che l’intenzione di Gesù nell’Ultima Cena non è stata rivolta a un certo gruppo determinato, anche se numeroso, di individui. La sua intenzione è stata universale. Gesù vuole la salvezza di tutti".

In realtà, l’indicazione di tornare a traduzioni più letterali del "pro multis" usato dalla edizione in latino del Messale romano, in accordo, su questo punto, con la gran parte delle anafore in uso preso le Chiese d’Oriente, non può essere liquidata come letteralismo o fissismo liturgico. E non intende di per sé ridurre la portata universale delle promesse di Cristo. Già la lettera firmata nel 2006 dal card. Arinze respingeva categoricamente le insinuazioni di quanti negli ultimi anni hanno perfino sollevato dubbi sulla validità delle Messe celebrate usando la formula "per tutti". Secondo quanto scritto dal cardinale nigeriano, l’espressione "per molti" è da preferirsi perché "mentre rimane aperta ad includere ogni singola persona umana, rispecchia anche il fatto che questa salvezza non è compiuta quasi in maniera meccanica, senza il proprio volere o partecipazione".

È questo il nucleo teologico e pastorale che ha spinto Benedetto XVI a un intervento diretto, rivolto ai vescovi tedeschi, ma non solo a loro, per vincere le perduranti ritrosie al passaggio dal "per tutti" al "per molti". Nella sua lettera, il Papa ha elencato egli stesso le obiezioni al cambiamento richiesto ("Cristo non è morto per tutti? La Chiesa ha cambiato il suo insegnamento? E' capace di farlo e può farlo? Si tratta di una reazione che vuole distruggere l'eredità del Concilio?") negando per esse ogni fondamento. A Papa Ratzinger, da sempre, sta a cuore soprattutto suggerire la gratuità della salvezza portata da Gesù. Fin da quando era giovane teologo, ha sempre diffidato delle formule teologiche che interpretano la storia della salvezza in chiave determinista, come un meccanismo obbligante a cui tutti sono sottomessi, che lo vogliano o meno. Anche da prefetto dell’ex Sant’Uffizio ha manifestato la sua costante allergia per le teologie secondo cui la grazia è data “a priori” a tutti gli uomini.

Un apriorismo che secondo lui sfigura la dinamica gratuita e storica della redenzione operata da Cristo, toglie tutto il gusto dell’avventura cristiana e contiene il rischio di un imperialismo religioso ed etico nei confronti dei non cristiani. Per questo, già molto prima di diventare Papa, lui sottolineava l’urgenza di cogliere nella formula di consacrazione l’intenzione autentica di Cristo. Come ha scritto in un suo saggio del 2001, "se c’è l’una o l’altra formula ['per tutti” o “per molti'], in ogni caso dobbiamo ascoltare la totalità del messaggio: che il Signore ama davvero tutti ed è morto per tutti. E l’altra cosa: che egli non spinge in disparte la nostra libertà in una magia divertita, bensì ci lascia dire sì nella sua grande misericordia".


Vatican Insider  28 aprile 2012


Parole attuali sul dissenso






di Andrea Tornielli



Cari amici, vi ripropongo queste sempre attuali parole dell’allora cardinale Joseph Ratzinger, ancora prima di essere chiamato a Roma da Giovanni Paolo II.

«Il magistero ecclesiale protegge la fede dei semplici; di coloro che non scrivono libri, che non parlano in televisione e non possono scrivere editoriali nei giornali: questo è il suo compito democratico. Esso deve dare voce a quelli che non hanno voce».

«Non sono i dotti – diceva in un’omelia pronunciata a Monaco nel dicembre 1979 – a determinare ciò che è vero della fede battesimale, bensì è la fede battesimale che determina ciò che c’è di valido nelle interpretazioni dotte. Non sono gli intellettuali a misurare i semplici, bensì i semplici misurano gli intellettuali. Non sono le spiegazioni intellettuali la misura della professione di fede battesimale, bensì la professione di fede battesimale, nella sua ingenua letteralità, è misura di tutta la teologia. Il battezzato, colui che sta nella fede del battesimo, non ha bisogno di essere ammaestrato. Egli ha ricevuto la verità decisiva e la porta con sé con la fede stessa…».

Nella stessa omelia, l’allora cardinale Ratzinger aggiungeva: «Dovrebbe essere finalmente chiaro anche che dire dell’opinione di qualcuno che essa non corrisponde alla dottrina della Chiesa cattolica non significa violare i diritti umani. Ciascuno deve avere il diritto di formarsi e di esprimere liberamente la propria opinione. La Chiesa con il Concilio Vaticano II si è dichiarata decisamente a favore di ciò e lo è ancora oggi. Ma ciò non significa che ogni opinione esterna debba essere riconosciuta come cattolica. Ciascuno deve potersi esprimere come vuole e come può davanti alla propria coscienza. La Chiesa deve poter dire ai suoi fedeli quali opinioni corrispondono alla loro fede e quali no. Questo è un suo diritto e un suo dovere, affinché il sì rimanga sì e il no no, e si preservi quella chiarezza che essa deve ai suoi fedeli e al mondo».



http://2.andreatornielli.it/?p=4035

Dopo sette anni. Il segreto di papa Ratzinger


 Benedetto XVI sarà ricordato più per le omelie che per le encicliche. E per i suoi gesti audaci, controcorrente. Come quando a Madrid, di fronte a un milione di giovani e nel bel mezzo di un violento temporale... 






di Sandro Magister

 ROMA, 27 aprile 2012 – Nessuno l'ha detto, una settimana fa, nel diluvio di omaggi per il settimo compleanno di Benedetto XVI da papa. Ma l'elemento che più ha svelato il senso profondo del suo pontificato è stato un temporale.

 Era una notte torrida a Madrid, nell'agosto del 2011. Davanti a papa Benedetto, nella spianata, un milione di giovani, età media 22 anni, un'incognita. All'improvviso un turbine d'acqua, di fulmini, di vento si abbatte su tutti, senza riparo. Saltano grappoli di riflettori, volano via cartelloni, anche il papa si infradicia. Ma resta al suo posto, davanti all'esplosivo tripudio di ragazzi e ragazze per l'inaspettato fuori programma dal cielo. 

Quando cessa la pioggia, il papa accantona il discorso scritto, rivolge ai giovani poche parole. Invita a guardare non lui ma quel Gesù che dice vivo e presente nell'ostia consacrata, sull'altare. Si inginocchia in silenzio adorante. E altrettanto accade sulla spianata. Tutti si inginocchiano sulla terra bagnata. In totale silenzio. Per una buona mezz'ora.

 A Madrid non era la prima volta che Benedetto XVI si inginocchiava davanti all'ostia santa, in prolungato silenzio. L'aveva già fatto a Colonia nel 2005, da poco eletto papa, anche là nella veglia notturna con miriadi di giovani, nello stupore di tutti.

 Nelle valutazioni di questo papato, pochi hanno capito l'audacia di questi gesti controcorrente. Ma quando Benedetto XVI li compie e li spiega, lo fa con l'aria pacata di chi non vuole inventare nulla di proprio, ma semplicemente andare al cuore dell'avventura umana e del mistero cristiano.

 Anche Raffaello, cinque secoli fa, in quel sublime affresco delle Stanze Vaticane che è la "Disputa del Santissimo Sacramento", pose l'ostia consacrata al centro di tutto, sull'altare di una grandiosa liturgia cosmica che vede interagire il Padre, il Figlio, lo Spirito Santo, la Chiesa terrena e celeste, il tempo e l'eterno.

 Quando Benedetto XVI convocò il suo primo sinodo, nel 2005, lo dedicò proprio all'eucaristia. E volle che fosse proiettato per tutta la durata dell'assise proprio quell'affresco di Raffaello, su uno schermo davanti ai vescovi lì convenuti da tutto il mondo. Di Joseph Ratzinger hanno fatto discutere le dotte lezioni all'università di Ratisbona e al Collège des Bernardins di Parigi, alla Westminster Hall di Londra e al Bundestag di Berlino. Ma si scoprirà un giorno che il vero distintivo di questo papa sono le omelie, come prima di lui lo sono state per san Leone Magno, il papa che fermò Attila.

 Le omelie sono le parole di Benedetto XVI che fanno meno notizia. Le pronuncia durante la messa, pericolosamente vicino, quindi, a quel Gesù che addita vivo e presente nei segni del pane e del vino, a quel Gesù che – egli predica instancabile – è lo stesso che spiegò le Sacre Scritture ai viandanti di Emmaus, così simili agli uomini smarriti di oggi, e si rivelò loro allo spezzare del pane, come nel dipinto del Caravaggio alla National Gallery di Londra, e appena riconosciuto scomparve, perché la fede è così, non è mai visione geometricamente compiuta, è gioco inesauribile di libertà e di grazia.

 Alla nessuna o poca fede di tanti uomini d'oggi, alle messe banalmente ridotte ad abbracci di pace e assemblee solidali, papa Benedetto vuole offrire la fede corposa in un Dio che si fa realmente vicino, che ama e perdona, che si fa toccare e mangiare. Questa era anche la fede dei primi cristiani. Benedetto XVI l'ha ricordato all'Angelus di due domeniche fa.

La nascita della domenica come "Giorno del Signore", ha detto, fu un gesto di audacia rivoluzionaria proprio perché straordinario e sconvolgente fu l'avvenimento che l'originò: la risurrezione di Gesù e poi il suo apparire da risorto tra i discepoli ogni "primo giorno della settimana", cioè il giorno d'inizio della creazione. Il pane terreno che diventa comunione con Dio, ha detto il papa in un'altra omelia, "vuol essere l'inizio della trasformazione del mondo. Affinché diventi un mondo di risurrezione, un mondo di Dio".

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 Questa nota è uscita su "L'Espresso" n. 18 del 2012, in edicola dal 27 aprile, nella pagina d'opinione dal titolo "Settimo cielo" affidata a Sandro Magister. 

Sul “caso Ligabue-nella-liturgia” mi trovo attaccato da Corriere (Melloni) e Avvenire (Tarquinio)… E sentite come…




di Antonio Socci 

Bach come Jovanotti? Ieri, sul Corriere della sera, il corsivista Alberto Melloni, campione di cattoprogressismo, per rispondere al mio articolo sui funerali di Morosini, stabiliva una sorprendente equivalenza, per la liturgia cattolica, fra le canzoni di Ligabue e la musica di Mozart.

 Dunque cantare in chiesa, a un funerale, la Messa da Requiem di Mozart è la stessa cosa che schitarrare – come hanno fatto a Bergamo – le canzonette di Ligabue (con queste memorabili parole: “quando questa merda intorno/ sempre merda resterà/ riconoscerai l’odore/ perché questa è la realtà”).

 Vorrei dire che, se Melloni detesta Mozart perché è amato da Ratzinger, provi a farsi spiegare la grandezza teologica del suo Agnus Dei da Karl Barth. In ogni caso equiparare Mozart a Ligabue significa che manca o l’abc del giudizio culturale o il senso del ridicolo o la pietà. O forse tutti e tre.

 Soprattutto manca la consapevolezza che la liturgia è la cosa più sacra della Chiesa e non se ne può disporre a piacimento, perché non è fatta da noi, non è il luogo delle nostre trovate, ma vi riaccade la passione e morte del Figlio di Dio. Stabilito che in chiesa un corale di Bach non è la stessa cosa di una canzonetta di Vasco Rossi, c’è poi il capitolo della musica sacra della tradizione e delle moderne canzonette religiose.

 Personalmente non ho pregiudizi, anche se la qualità dei testi e delle musiche va valutata. Ma quello che tracima dalla prosa di Melloni è soprattutto l’evidente disprezzo per la tradizione cattolica che lo induce a definire il gregoriano un “belare”. E siccome Melloni sostiene che per avvicinarsi a Dio non c’è differenza fra “belare in gregoriano” e “quelle canzoni stile Pooh che riempiono le navate di tante parrocchie”, voglio informarlo che invece la Chiesa stabilisce una rigorosa gerarchia.

In particolare definisce il gregoriano come il canto proprio della Chiesa (poi viene la polifonia). Lo ha proclamato non in uno di quei Concili che i cattoprogressisti disprezzano, ma proprio in quel Concilio Vaticano II di cui Melloni si proclama esperto e si autonomina portabandiera.

 Infatti nella Costituzione “Sacrosantum Concilium” afferma che “la tradizione musicale di tutta la chiesa costituisce un tesoro di inestimabile valore, che eccelle tra le altre espressioni dell’ arte, specialmente per il fatto che il canto sacro, unito alle parole, è parte necessaria ed integrale della liturgia solenne”. Aggiunge: “Senza dubbio il canto sacro è stato lodato sia dalla sacra scrittura, sia dai padri e dai romani pontefici che recentemente, a cominciare da san Pio X, hanno sottolineato con insistenza il compito ministeriale della musica sacra nel servizio divino. Perciò la musica sacra sarà tanto più santa quanto più strettamente sarà unita all’ azione liturgica”.

 Il Concilio prescrive: “Si conservi e si incrementi con somma cura il patrimonio della musica sacra”. E proclama: “La chiesa riconosce il canto gregoriano come proprio della liturgia romana: perciò, nelle azioni liturgiche, a parità di condizioni, gli si riservi il posto principale. Gli altri generi di musica sacra, e specialmente la polifonica, non si escludono affatto nella celebrazione dei divini uffici, purché rispondano allo spirito dell’ azione liturgica, a norma dell’ art. 30”.

 Come si vede il Concilio Vaticano II è agli antipodi di chi boccia sprezzantemente il gregoriano come un “belare” e lo equipara all’inserimento nella liturgia sacra delle canzonette di Ligabue o di Vasco Rossi. Si comprende così che pure i tanti arbitri perpetrati nella liturgia non discendono affatto dal Concilio ed è grave sbandierarlo a sproposito.

 Già nel 1971 Ratzinger – che era stato un uomo del Concilio – denunciò la grande devastazione teologica che il progressismo stava perpetrando, per cui “anche a dei vescovi poteva sembrare ‘imperativo dell’attualità’ e ‘inesorabile linea di tendenza’, deridere i dogmi”. Nel 1997, da prefetto dell’ex S. Uffizio, il cardinale Ratzinger scriverà: “sono convinto che la crisi ecclesiale in cui oggi ci troviamo, dipende in gran parte dal crollo della liturgia”.

 Accanto ai tanti abusi che si sono perpetrate nella liturgia, col post-Concilio, Ratzinger ha sottolineato pure la decadenza della musica liturgica: “E’ divenuto sempre più percepibile il pauroso impoverimento che si manifesta dove si scaccia la bellezza… La Chiesa ha il dovere di essere anche ‘città della gloria’, luogo dove sono raccolte e portate all’orecchio di Dio le voci più profonde dell’umanità. La Chiesa non può appagarsi del solo ordinario, del solo usuale: deve ridestare la voce del Cosmo, glorificando il Creatore e svelando al Cosmo stesso la sua magnificenza, rendendolo bello, abitabile, umano”.

 Poi, proprio Ratzinger, da Papa, ha cercato di riportare tutti alla retta dottrina anche riordinando la liturgia e ridando legittimità all’antico rito della Chiesa (che è il rito in cui si celebrava messa pure al Concilio Vaticano II). Sorprendente è l’opposizione che tanti vescovi e preti hanno fatto a questo Motu proprio “Summorum pontificum”.

Un caso clamoroso è scoppiato proprio nella stessa diocesi di Bergamo dove si è svolto il rito funebre di Piermario Morosini. E’ stato denunciato dal collega Alessandro Gnocchi sul “Foglio” del 17 novembre scorso. Era morto il padre dello stesso Alessandro e la famiglia aveva chiesto di celebrare le esequie secondo il rito gregoriano a cui aveva ridato pieno accesso il Motu proprio del papa. Ma il parroco, dopo aver preso istruzioni in Curia, ha risposto di no.

 E’ la stessa Curia che poi lascia cantare le canzoni di Ligabue durante la Messa per Morosini, canzoni – ripeto – con questi testi: “quando questa merda intorno/ sempre merda resterà/ riconoscerai l’odore/ perché questa è la realtà”. Così tutta la tolleranza liturgica che i progressisti alla Melloni sbandierano per chi si vuole cimentare con Ligabue in chiesa, non deve più valere per chi chiede semplicemente il rito cattolico autorizzato dal Papa? La “pietà” di Melloni dov’era quando sui giornali è scoppiato questo caso?

 Anche il direttore di “Avvenire” Marco Tarquinio domenica mi ha criticato, richiamandomi alla necessità di fare – nel caso di Morosini – “un’eccezione alla regola, per puro amore e puro dolore” visto che “senza l’amore siamo solo cembali che tintinnano”. Ma non sono io che posso autorizzare tali “eccezioni”: Tarquinio chieda al Vaticano.

Io, da parte mia, mi domando: perché il direttore di “Avvenire” non intervenne anche per difendere il diritto al rito gregoriano della famiglia Gnocchi, visto che in quel caso non si trattava neanche di “un’eccezione alla regola”, ma di rispettare la regola data dal Papa? Perché Tarquinio non richiamò la Curia di Bergamo al dovere di carità nei confronti di quella famiglia e al dovere di obbedire al Papa?

 Il direttore di “Avvenire” recentemente ha difeso con accanimento lo scrittore Enzo Bianchi dalle legittime critiche rivolte a lui da alcuni teologi cattolici: sarebbe auspicabile che con altrettanto zelo difendesse anche un Motu proprio così caratterizzante del pontificato di Benedetto XVI come il “Summorum pontificum”, da chi lo snobba.

 Sottolineo infine che il cuore del mio articolo sulle esequie del calciatore non erano tanto le canzoni di Ligabue, quanto la mancanza da parte dei pastori di una parola cristiana sulla necessità della preghiera per i defunti e soprattutto sulla vita eterna. E noto con tristezza che pure in tutto lo scritto del direttore di Avvenire (di 2887 battute) non c’è un solo richiamo a questo che è il cuore della dottrina cattolica. Nemmeno nell’articoletto di Melloni, ma di questo non mi sorprendo.

 Sconcerta però che i Novissimi (morte, giudizio, inferno e paradiso) siano scomparsi da gran parte della predicazione e della catechesi. Certo, parlare dell’inferno non è “progressista”. Però è la più grande carità. E pregare per i defunti è la vera pietà.

Lo Straniero 25 aprile 2012

giovedì 26 aprile 2012

La carità senza preghiera scade nell'attivismo







 di Massimo Introvigne

 Nell'udienza generale del 25 aprile, Benedetto XVI ha proseguito la sua «scuola della preghiera» continuando la catechesi sulla Chiesa nascente e sulle «situazioni impreviste, nuove questioni ed emergenze a cui ha cercato di dare risposta alla luce della fede, lasciandosi guidare dallo Spirito Santo». Nella catechesi odierna il Pontefice ha mostrato come la vera carità cristiana debba sempre essere strettamente unita alla preghiera e alla contemplazione, per evitare il rischio di ridursi a un semplice attivismo più o meno umanitario.

L'episodio che il Papa ha preso in esame è narrato nel capitolo sesto degli Atti degli Apostoli: «il numero dei discepoli [...] andava aumentando, ma quelli di lingua greca iniziavano a lamentarsi contro quelli di lingua ebraica perché le loro vedove venivano trascurate nella distribuzione quotidiana». Di fronte a questa disputa, che era importante e rischiava di creare serie divisioni, gli Apostoli decidono di riunire tutti i discepoli. «In questo momento di emergenza pastorale risalta il discernimento compiuto dagli Apostoli. Essi si trovano di fronte all’esigenza primaria di annunciare la Parola di Dio secondo il mandato del Signore, ma - anche se è questa l'esigenza primaria della Chiesa - considerano con altrettanta serietà il dovere della carità e della giustizia, cioè il dovere di assistere le vedove, i poveri, di provvedere con amore alle situazioni di bisogno». 

In questo momento «due realtà che devono vivere nella Chiesa - l'annuncio della Parola, il primato di Dio, e la carità concreta, la giustizia -, stanno creando difficoltà e si deve trovare una soluzione, perché ambedue possano avere il loro posto, la loro relazione necessaria». Gli Apostoli, alla fine, trovano questa soluzione: «Non è giusto che noi lasciamo da parte la Parola di Dio per servire alle mense. Dunque, fratelli, cercate fra voi sette uomini di buona reputazione, pieni di Spirito e di sapienza, ai quali affideremo questo incarico. Noi, invece, ci dedicheremo alla preghiera e al servizio della Parola» (At 6,2-4).

Il primo insegnamento che il Papa ne trae è che «esiste da quel momento nella Chiesa, un ministero della carità. La Chiesa non deve solo annunciare la Parola, ma anche realizzare la Parola, che è carità e verità». Secondo insegnamento: «questi uomini non solo devono godere di buona reputazione, ma devono essere uomini pieni di Spirito Santo e di sapienza, cioè non possono essere solo organizzatori che sanno "fare", ma devono "fare" nello spirito della fede con la luce di Dio, nella sapienza nel cuore, e quindi anche la loro funzione - benché soprattutto pratica - è tuttavia una funzione spirituale». Questo elemento è importantissimo per il nostro tempo, che spesso fraintende la carità degradandola a puro «fare» e quindi a puro umanitarismo. «La carità e la giustizia non sono solo azioni sociali, ma sono azioni spirituali realizzate nella luce dello Spirito Santo».

Esaminiamo meglio quanto riferiscono gli Atti degli Apostoli: «vengono scelti sette uomini; gli Apostoli pregano per chiedere la forza dello Spirito Santo; e poi impongono loro le mani perché si dedichino in modo particolare a questa diaconia della carità». Il Pontefice vi scorge un parallelo evangelico con «quanto era avvenuto durante la vita pubblica di Gesù, in casa di Marta e Maria a Betania. Marta era tutta presa dal servizio dell’ospitalità da offrire a Gesù e ai suoi discepoli; Maria, invece, si dedica all’ascolto della Parola del Signore (cfr Lc 10,38-42)». Si sbaglierebbe a vedere in questo episodio, come in quello degli Atti degli Apostoli, solo un richiamo al primato della vita spirituale, che pure è presente. In realtà, «in entrambi i casi, non vengono contrapposti i momenti della preghiera e dell’ascolto di Dio, e l’attività quotidiana, l’esercizio della carità». Potrebbe sembrare che sia così dalle parole di Gesù: «Marta, Marta, tu ti affanni e ti agiti per molte cose, ma di una cosa sola c’è bisogno, Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta» (Lc 10,41-42). E anche da quelle degli Apostoli: «Noi… ci dedicheremo alla preghiera e al servizio della Parola» (At 6,4). In queste espressioni c'è certamente l'affermazione della «priorità che dobbiamo dare a Dio». Ma nello stesso tempo certamente non è «condannata l'attività per il prossimo, per l'altro».

Quella che è criticata da Gesù e dagli Apostoli è una carità che rifiuta di «essere penetrata interiormente anche dallo spirito della contemplazione». Come fa spesso, il Papa cita sant'Agostino (354-430), il quale spiega che «questa realtà di Maria è una visione della nostra situazione del cielo, quindi sulla terra non possiamo mai averla completamente, ma un po' di anticipazione deve essere presente in tutta la nostra attività». In qualche modo, perché non si riduca a semplice umanitarismo, nella carità deve sempre «essere presente anche la contemplazione di Dio. Non dobbiamo perderci nell'attivismo puro, ma sempre lasciarci anche penetrare nella nostra attività dalla luce della Parola di Dio e così imparare la vera carità, il vero servizio per l'altro, che non ha bisogno di tante cose - ha bisogno certamente delle cose necessarie - ma ha bisogno soprattutto dell'affetto del nostro cuore, della luce di Dio».

Il Pontefice cita pure, a proposito dell'episodio di Marta e Maria, sant'Ambrogio (339 o 340-397): «Cerchiamo di avere anche noi ciò che non ci può essere tolto, porgendo alla parola del Signore una diligente attenzione, non distratta: capita anche ai semi della parola celeste di essere portati via, se sono seminati lungo la strada. Stimoli anche te, come Maria, il desiderio di sapere: è questa la più grande, più perfetta opera». Per sant'Ambrogio è sempre necessario che «la cura del ministero non distragga dalla conoscenza della parola celeste» e dalla preghiera. Non si tratta dunque di dare meno spazio alla carità rispetto alla preghiera, ma di vivere la carità nella preghiera. «I Santi, quindi, hanno sperimentato una profonda unità di vita tra preghiera e azione, tra l’amore totale a Dio e l’amore ai fratelli».

Benedetto XVI cita, ancora, san Bernardo (1090-1153), definito «un modello di armonia tra contemplazione ed operosità», il quale, «nel libro "De consideratione", indirizzato al Papa Innocenzo II [?-1143] per offrigli alcune riflessioni circa il suo ministero, insiste proprio sull’importanza del raccoglimento interiore, della preghiera per difendersi dai pericoli di una attività eccessiva, qualunque sia la condizione in cui ci si trova e il compito che si sta svolgendo. San Bernardo afferma che le troppe occupazioni, una vita frenetica, spesso finiscono per indurire il cuore e far soffrire lo spirito». Anche questo, nota il Pontefice, «è un prezioso richiamo per noi oggi, abituati a valutare tutto con il criterio della produttività e dell’efficienza». Non si tratta di svalutare la carità, insiste il Pontefice, ma di viverla nella luce di Dio che sola gli conferisce il suo vero significato. «Il brano degli Atti degli Apostoli ci ricorda l’importanza del lavoro - senza dubbio viene creato un vero e proprio ministero -, dell’impegno nelle attività quotidiane che vanno svolte con responsabilità e dedizione, ma anche il nostro bisogno di Dio, della sua guida, della sua luce che ci danno forza e speranza. Senza la preghiera quotidiana vissuta con fedeltà, il nostro fare si svuota, perde l’anima profonda, si riduce ad un semplice attivismo che, alla fine, lascia insoddisfatti».

Il Pontefice suggerisce di tornare a una «bella invocazione della tradizione cristiana da recitarsi prima di ogni attività»: «Actiones nostras, quæsumus, Domine, aspirando præveni et adiuvando prosequere, ut cuncta nostra oratio et operatio a te semper incipiat, et per te coepta finiatur», cioè: «Ispira le nostre azioni, Signore, e accompagnale con il tuo aiuto, perché ogni nostro parlare ed agire abbia sempre da te il suo inizio e in te il suo compimento». Nel brano degli Atti degli Apostoli, una volta che i sette sono stati scelti gli Apostoli «non si limitano a ratificare la scelta di Stefano e degli altri uomini», ma «dopo aver pregato, imposero loro le mani» (At 6,6). Anche successivamente, in occasione dell’elezione di Paolo e Barnaba, il gesto si ripete: «dopo aver digiunato e pregato, imposero loro le mani e li congedarono» (At 13,3). Così, si «conferma di nuovo che il servizio pratico della carità è un servizio spirituale. Ambedue le realtà devono andare insieme». Questa imposizione delle mani preceduta dalla preghiera mostra che «non si tratta semplicemente di conferire un incarico come avviene in un’organizzazione sociale». Siamo di fronte invece a «un evento ecclesiale in cui lo Spirito Santo si appropria di sette uomini scelti dalla Chiesa, consacrandoli nella Verità che è Gesù Cristo: è Lui il protagonista silenzioso, presente nell’imposizione delle mani affinché gli eletti siano trasformati dalla sua potenza e santificati per affrontare le sfide pratiche, le sfide pastorali. E la sottolineatura della preghiera ci ricorda inoltre che solo dal rapporto intimo con Dio coltivato ogni giorno nasce la risposta alla scelta del Signore e viene affidato ogni ministero nella Chiesa».

Quell'antico «problema pastorale che ha indotto gli Apostoli a scegliere e ad imporre le mani su sette uomini incaricati del servizio della carità, per dedicarsi loro stessi alla preghiera e all’annuncio della Parola, indica anche a noi il primato della preghiera e della Parola di Dio, che, tuttavia, produce poi anche l'azione pastorale». Lo indica anzitutto ai vescovi e ai sacerdoti. «Per i Pastori questa è la prima e più preziosa forma di servizio verso il gregge loro affidato. Se i polmoni della preghiera e della Parola di Dio non alimentano il respiro della nostra vita spirituale, rischiamo di soffocare in mezzo alle mille cose di ogni giorno: la preghiera è il respiro dell’anima e della vita». E dalla meditazione sul brano degli Atti degli Apostoli emerge anche un «altro prezioso richiamo»: «nel rapporto con Dio, nell’ascolto della sua Parola, nel dialogo con Dio, anche quando ci troviamo nel silenzio di una chiesa o della nostra stanza, siamo uniti nel Signore a tanti fratelli e sorelle nella fede, come un insieme di strumenti che, pur nella loro individualità, elevano a Dio un’unica grande sinfonia di intercessione, di ringraziamento e di lode». È la stessa sinfonia che deve unire carità e contemplazione.


La Bussola Quotidiana 25-04-2012

mercoledì 25 aprile 2012

Gli sguardi deformati sui martiri cristiani del comunismo

Una drammatica pagina di storia ignorata e fraintesa dalla memoria comune europea

Cardinal Stefan Wyszyński


 di ANDREA POSSIERI

Molto raramente, all'interno del dibattito storiografico, trova uno spazio importante l'analisi del rapporto tra la Chiesa cattolica e il movimento comunista internazionale che vada al di là delle consuete riflessioni sulla ostpolitik. E ancora più sporadicamente, all'interno della memoria collettiva europea, viene riservato un ambito degno di nota a tutti quei martiri della fede - ovvero quelle migliaia di laici e consacrati che hanno pagato con la vita il solo fatto di essere cristiani - i quali, invece, hanno caratterizzato, in tempi e latitudini differenti, tutta la storia del Novecento. E non a caso, Alain Besançon, in Le malheur du siecle (1998), sottolineava amaramente che nonostante "ci siano stati sotto il comunismo più martiri della fede che in qualunque altra epoca della storia della Chiesa, non si riscontrano né fretta né zelo nel compilarne il martirologio".

 Per questi motivi, il convegno internazionale "La Chiesa cattolica dell'Europa Centro-orientale di fronte al comunismo: atteggiamenti, strategie, tattiche", svoltosi il 24 aprile presso l'Accademia d'Ungheria a Roma, è stato un momento importante di discussione per poter mettere a fuoco temi e campi di ricerca ancora poco studiati, per gettare nuova luce su alcune figure simbolo di queste vicende - come i cardinali Jószef Mindszenty e Stefan Wyszynski, in Ungheria e in Polonia, o il Vescovo Áron Márton in Romania - e, infine, per accrescere, attraverso l'acquisizione di nuove fonti documentali, le conoscenze sulle strategie della Santa Sede in quei regimi dittatoriali. Proprio lo studio di materiali d'archivio inediti ha permesso ad Antal Molnár, dell'Accademia d'Ungheria, di riportare alla luce la figura del gesuita ungherese, padre Béla Bangha. Un personaggio pressoché ignoto alla storia ecclesiastica universale, al quale si deve, invece, sia la stesura del decreto contro la propaganda comunista emanato nel 1938 in occasione della 28ª Congregazione Generale della Compagnia di Gesù, che l'avvio del moderno giornalismo cattolico in Ungheria grazie a un lavoro costante durato trent'anni.

Di tutt'altra figura, ben nota alla storia del cattolicesimo, si è invece occupato il professore Stanislaw Wilk, dell'Università Cattolica Giovanni Paolo II di Lublino, che ha tratteggiato uno stimolante profilo biografico del cardinale Wyszynski, definito come "l'invincibile difensore della Chiesa polacca". Un difensore instancabile del quale è stato sottolineato sia lo sforzo per la rinascita di una forte identità nazionale polacca (in cui il culto della Madonna e della presenza cattolica svolgeva una parte preminentissima) che il tentativo di dialogo che il primate polacco seppe svolgere con il regime comunista nonostante la reclusione a cui venne sottoposto. Un tentativo molto apprezzato dalla Santa Sede che cercò, sempre, in tutti i regimi comunisti dell'Europa orientale, di costruire dei ponti di dialogo con le cosiddette democrazie popolari. In particolare, András Fejérdy, dell'Accademia d'Ungheria in Roma, analizzando le strategie della Santa Sede per effettuare nomine episcopali in Ungheria tra il 1945 e il 1964, ha sottolineato l'esistenza di due diversi periodi: il primo, che durò fino al 1962 circa, in cui "la Santa Sede cercò di far valere il diritto di libera nomina senza prendere in considerazione le esigenze statali"; e poi il secondo, dopo il fallimento di questa prassi, quando la Santa Sede si dimostrò sempre più aperta alle trattative e all'accettazione di un modus vivendi che la portò a essere costretta ad accettare un compromesso maggiore, cioè la prassi del gentlemen's agreement del 1964.

Un convegno come questo che ha fatto luce su aspetti nuovi e, spesso, ai margini del dibattito storiografico, rappresenta un punto di partenza insostituibile per un'analisi sistematica del rapporto tra la Chiesa cattolica e il movimento comunista internazionale. Un punto di partenza, però, e non un momento conclusivo. Si potrebbe dire, parafrasando quanto afferma uno dei relatori, Philippe Chenaux, nella prefazione del suo libro L'ultima eresia. La Chiesa cattolica e il comunismo in Europa da Lenin a Giovanni Paolo II, che questo tipo di riflessioni costituiscono "un primo tentativo di bilancio di una storia ancora in costruzione". Uno degli snodi fondamentali di queste vicende risiede, infatti, non solo nelle drammatiche ed eroiche testimonianze dei cardinali Mindszenty in Ungheria, Wyszynski in Polonia o Beran in Cecoslovacchia - che rappresentano, appunto, un punto di partenza insostituibile - ma si colloca in quel particolare rapporto politico-culturale che esiste tra la cruda realtà dei regimi dell'Est e la rappresentazione simbolica del comunismo che, invece, venne elaborata nei paesi oltre cortina.

E non è secondario che, ancora oggi, sono in gran parte da ricostruire le modalità con le quali vennero raccontate, sottaciute o del tutto ignorate, nell'opinione pubblica occidentale, le vicende biografiche di quei martiri della fede che furono imprigionati, torturati e uccisi dai regimi comunisti. Vicende umane che sono state lette e interpretate secondo le mode e le sensibilità culturali proprie del tempo, che hanno finito per delimitare, diluire, stemperare fino a cancellare dalla memoria collettiva europea queste storie di uomini e donne in una sorta di "oblio cristiano del comunismo" come ha scritto Besançon. È questo il prodotto di una dinamica che richiama alla mente il binomio Est-Ovest, non tanto per l'andamento delle relazioni internazionali tra i due sistemi di alleanze contrapposte, quanto perché la genesi culturale, le matrici ideologiche e lo sviluppo teleologico-dottrinario del comunismo è stato tutto di marca occidentale - tanto che oggi in molti concordano nel sostenere che il comunismo è l'ultima utopia universalistica elaborata da un mondo occidentale in espansione - mentre la sua diretta applicazione, la sua costruzione statual-partitica, quella coercitivo-repressiva e il suo sviluppo geopolitico è tutto caratterizzato, invece, da una forte caratterizzazione orientale, a tratti dispotico-asiatica. In questo modo, da questa relazione binaria e conflittuale, si è sviluppata, da un lato, in occidente, la lotta politico-culturale e, quindi, la controversa percezione pubblica del comunismo e, dall'altro lato, in oriente, l'instaurazione manu militari del regime e la repressione brutale del dissenso.

Paradossalmente, i regimi comunisti che si instaurarono nell'Europa Orientale, facendo a meno della democrazia interna e della ricerca del consenso tramite libere elezioni, dipesero militarmente e politicamente dall'Unione Sovietica, ma allo stesso tempo, tutto il movimento comunista internazionale, Urss compresa, non poteva fare a meno della legittimazione politica che proveniva dalle opinioni pubbliche occidentali. Opinioni pubbliche che proprio per questo vennero investite costantemente da una lunga serie di mitologie politiche sui paesi del socialismo realizzato e sul comunismo in genere che se oggi potrebbero apparire risibili trovarono, invece, un pubblico numeroso ben disposto ad accettare ora il mito del piano, ora quello della lotta per la pace e, infine, quello del socialismo dal volto umano. È per questo motivo, eminentemente politico, che risulta fondamentale capire come vennero raccontate e percepite a Ovest, nel mondo libero, quelle straordinarie figure dei martiri della fede dell'Europa orientale, i cui profili biografici risultano, ancora oggi, inesorabilmente influenzati dai residui storici di quella storica contrapposizione politico-culturale e che, spesso, rendono difficile un giudizio storico equanime. Un giudizio che, a volte, necessiterebbe di una complessa analisi stratigrafica tale è la somma di opinioni e valutazioni che si sono cumulate nel tempo.

 Il caso del cardinale Mindszenty, per fare un esempio, è un caso di scuola. Il primate ungherese, infatti, non solo scontò la persecuzione e il carcere in Ungheria, ma da un certo momento in poi, grossomodo dalla metà degli anni Sessanta, scontò anche una prigione morale, simbolica e culturale nell'opinione pubblica occidentale che, per motivi molto diversi, lo relegò sempre più ai margini del discorso pubblico, fino a renderlo desueto e incomprensibile per i tempi moderni. Mindszenty, e con lui molti altri, finì per essere considerato un uomo del passato, legato a un'idea monarchica e principesca della Chiesa e, in definitiva, nel rappresentare un mondo cattolico, conservatore e reazionario, che era stato superato dalle magnifiche sorti progressive della storia. Eppure, come affermò il cardinale di Vienna Franz König, nel maggio del 1975, quando dette l'ultimo addio al defunto cardinale József Mindszenty, si potrebbe dire che defunctus adhuc loquitur. È proprio così, quel testimone del Vangelo di Cristo, quel profondo e viscerale rappresentante della nazione ungherese, "parla anche da morto". E rimane, ancora oggi, un simbolo per tutti quei martiri della fede perseguitati e uccisi nei regimi comunisti dell'Europa centro-orientale.


L'Osservatore Romano 26 aprile 2012

martedì 24 aprile 2012

Quel ministero di consolazione chiamato esorcismo. A colloquio con il vescovo Luigi Negri





di Marta Lago



È «un fenomeno di grande profondità, complessità e perversività».
Si tratta dell’azione del demonio che «condiziona la vita cercando di scardinare la fede dal cuore degli uomini».
Infatti, «c’è una presenza diabolica certamente nella mentalità che domina questa nostra società», «una mentalità sostanzialmente ateistica, diabolica nel senso che si dice: “Se si toglie Dio, l’uomo si realizza pienamente”.

Già il beato Giovanni Paolo II, quando nel 1976 predicò gli esercizi spirituali a Paolo VI, dedicò un capitolo a questo dilagare della mentalità del peccato originale nella storia della cultura moderna e contemporanea» e quindi «è necessario che il fenomeno venga impostato con chiarezza dal punto di vista culturale».

Con queste parole, il vescovo di San Marino - Montefeltro, Luigi Negri, membro della commissione per la dottrina della fede della Conferenza episcopale italiana, ha spiegato al nostro giornale il contesto del settimo corso sul ministero dell’esorcismo, tenutosi a Bologna e a Roma — simultaneamente in videoconferenza — dal 16 al 21 aprile scorsi, nelle sedi degli organizzatori, il Gruppo di ricerca e informazione socio-religiosa (Gris) e il Pontificio Ateneo Regina Apostolorum .

Con il patrocinio della Congregazione per il Clero, al corso hanno partecipato più di duecento persone: più della metà sacerdoti, alcuni religiosi e il resto laici, uomini e donne, la maggior parte proveniente dall’Italia e da altri Paesi europei.

C’è stata pure una consistente rappresentanza degli Stati Uniti e dell’America meridionale, in particolare dal Brasile, ma anche del Canada e d’Israele, per citare alcuni esempi. Tra i partecipanti c’erano sacerdoti che si stanno preparando al ministero dell’esorcismo; gli altri iscritti cercavano una formazione specifica per il loro impegno ecclesiale o per la loro professione.

Monsignor Negri, incaricato della lezione inaugurale, ha sottolineato come il corso ha saputo affrontare tutti gli aspetti — antropologici, fenomenologici e sociali; teologici, liturgici, canonici, pastorali e spirituali; medici, neuro-scientifici, farmacologici e psicologici, e perfino criminologici, legali e giuridici — «anche i più problematici, con un notevole peso culturale».

Il presule ricorda che «il potere che la Chiesa ha sul demonio, che è lo stesso potere che aveva Cristo, fa parte integrante della sua missione e si esprime come diaconia della verità e diaconia della carità». Perciò si cerca di «dare una chiarezza di giudizio sulla presenza del male, del demonio, nella normalità della vita culturale e sociale, e accompagnare coloro che vengono aggrediti dal potere del demonio con un lungo e significativo cammino di carità», al cui termine, «in certe situazioni c’è appunto l’esorcismo».

Questo è un atto liturgico — il cui esercizio compete al sacerdote autorizzato dal vescovo — che si potrebbe definire come «ministero di consolazione» da esercitare tenendo conto di uno sguardo più ampio perché, oltre ai casi specifici, «abbiamo di fronte un’umanità che deve essere liberata dall’errore e deve essere consolata nel cammino della vita esercitando noi nei loro confronti — ricorda monsignor Negri — la stessa carità che il Signore ha avuto con i primi che ha incontrato».

L’estrema sofferenza umana è il denominatore comune di tutti gli aspetti che, con serenità e serietà, hanno affrontato i relatori e i partecipanti durante il corso. Perché l’azione straordinaria del demonio infligge una sofferenza indicibile, per infestazione, vessazione, ossessione o possessione. E perché si constata l’aumento di tale azione nel nostro tempo attraverso il contatto, sempre più frequente, della gente con il mondo dell’occulto e con le sue più svariate espressioni.

Azione straordinaria tra le cui cause si può quindi individuare l’esercizio di riti malefici contro una persona o l’avvicinamento più o meno diretto a pratiche occulte.
Come dimostra l’esperienza esorcistica, sono incrinature attraverso le quali penetra l’azione demoniaca.

Perciò non sono affatto irrilevanti — per citare solo alcune situazioni — la frequentazione di medium e di maghi, la superstizione, la partecipazione a sedute spiritiche e a riti esoterici, a sette e a culti satanici. Tutto ciò con un minore o un maggiore livello di coinvolgimento.

Presente in qualunque ambito, la fenomenologia delle “sette” è stata minuziosamente esaminata durante il corso per la sua inarrestabile crescita riguardo sia alla varietà sia al numero di adepti. E sebbene non tutte le sette siano specificatamente sataniche, i relatori le hanno definite nell’insieme come diaboliche per natura, poiché, sotto un manto di segretezza, sono volte esclusivamente a sfruttare la persona vulnerabile, privandola della sua libertà — che viene distrutta, danneggiando così la famiglia e la società — calpestando i suoi diritti, imponendole un modello ferreo di esistenza, richiudendola in una struttura totalizzante, portandola a un isolamento sociale e affettivo e perciò a una spersonalizzazione attraverso numerosi abusi più o meno evidenti.

Un contesto drammatico, dalle ripercussioni non di rado criminali, nel quale abbondano le sostanze psicoattive — una delle forme più dirette di alterazione del comportamento — e azioni
rituali della più diversa natura, fino a incorrere nel pericolo di lesioni e di morte e nelle derive sacrileghe.
Il senso religioso non ha nulla a che vedere con le sette.

Queste, al massimo, lo strumentalizzano, anche nel loro riuscito avvicinamento ai giovani, tanti ancora minorenni. A questi fattori si aggiunge, tra l’altro, il fascino che il satanismo esercita sugli adolescenti. I satanisti veri e propri non sono numerosi, ma — anche attraverso internet — è molto diffusa la cultura satanica, dove non è rara l’istigazione alla violenza e al suicidio.

Il sostrato di tutte queste tendenze è la ricerca del potere che penetra da ogni dove, che dà impulso alla pretesa di trarre determinati benefici da una situazione di allontanamento da Dio. Con radici precise nella dittatura del relativismo, nella crisi delle relazioni interpersonali in un quadro iper-tecnologico, nell’esaltazione del soggettivismo, nel delirio di onnipotenza che fa della persona un “dio”.

È urgente allora ripassare questa casistica per tenere alta la prevenzione, per dare aiuto, e chiaramente per prestare la dovuta attenzione pastorale a tutte le persone che vivono un’insopportabile sofferenza spirituale e ne portano addosso le devastanti conseguenze. Queste
hanno bisogno di accoglienza, di ascolto, di accompagnamento, di un autentico riscatto, che esse stesse chiedono. Tutto ciò esige dal sacerdote, e soprattutto dall’esorcista (e dalla scienza) una buona dose di prudenza e di discernimento per giungere — di fronte alla manifestazione di determinati segni — a una certezza sul nesso causa-effetto.
Senza cadere nella credulità, ma neppure nel razionalismo che scarta a priori una manifestazione preternaturale.

Quando, quasi quarant’anni fa, Paolo VI disse che uno dei maggiori bisogni della Chiesa è la difesa da «quel male, che chiamiamo il Demonio», sapeva già che quell’affermazione poteva apparire semplicistica, superstiziosa e irreale. Tuttavia, non esitò a indicare «l’intervento in
noi e nel nostro mondo» di questo «agente oscuro e nemico». «Il male non è più soltanto una deficienza, ma un’efficienza, un essere vivo, spirituale, pervertito e pervertitore.
Terribile realtà. Misteriosa e paurosa». «Esce dal quadro dell’insegnamento biblico ed ecclesiastico — ammonì — chi si rifiuta di riconoscerla esistente».

L’esorcismo cerca di espellere i demoni o di liberare dal dominio demoniaco grazie all’autorità spirituale che Gesù ha affidato alla sua Chiesa. La curiosità morbosa si fissa su segnali terribili dell’azione maligna, ma svia l’attenzione dal potere meraviglioso di Dio e della sua azione salvifica, cosa di cui si rendono conto non solo gli esorcisti ma anche le persone che ricorrono a essi. Perciò gli stessi esorcisti — che sono intervenuti durante il corso — ben consapevoli della durissima realtà che devono affrontare ogni giorno, non hanno esitato a spiegare il loro delicato e difficile ministero in termini di gioia e di speranza, di opera di misericordia, di enorme crescita nella fede.

Nell’esperienza della consolazione autentica — per tutte le persone coinvolte — che proviene dalla presenza liberatrice di Cristo vivo e risorto.



(©L'Osservatore Romano 23-24 aprile 2012)

lunedì 23 aprile 2012

Ritorno alla bellezza



"E' arrivato il momento di costruire Chiese capaci di parlare di Dio ai credenti di oggi e alle generazioni future"

di Michael S. Rose







Il futuro del restauro e del rinnovamento




Col senno di poi, molti cattolici oggi riconoscono il fatto che l'architettura sacra sperimentale progettata e costruita nella seconda metà del XX secolo, è miseramente fallita. Le forme "innovative" usate dagli architetti negli anni '60 e '70 - credevano di essere proprio bravi - non soltanto risultano già antiquate all'inizio di questo nuovo secolo, ma sono pure brutte. Queste non-chiese degli anni '80 - '90, che si possono benissimo scambiare per delle biblioteche, uffici postali o cliniche, sono talmente banali e senza ispirazione da aver mancato completamente l'obiettivo di attrarre, evangelizzare o elevare i cuori e le menti a Dio. Chiese che sembrano non riconoscere che Cristo si è fatto carne ed è venuto a dimorare in mezzo a noi. Finiscono per non servire più la comunità cristiana e di non manifestare in nessun modo la presenza di Cristo. Così pure l'aggiornamento delle chiese tradizionali compiuto senza alcuna sensibilità, asportando ogni ornamento e decorazione cattolica da quei sacri edifici, non soltanto le ha denudate fisicamente, ma ha influito sulla liturgia e religiosità dei fedeli.

Fortunatamente, però, proprio il fatto di rendersi conto di tale fallimento - da parte dei laici, dei sacerdoti, dei Vescovi come anche degli architetti - è il primo passo verso il rinnovamento dei nostri spazi sacri. Il progettista Francis Gibbon, ad esempio, definisce adesso il rinnovamento che fece nel 1968 della chiesa di Santa Maria Stella del Mare a Baltimora, "uno stupro" di quella chiesa. Helen Marikle Passano, la benefattrice principale per il restauro della cappella del 1869 al collegio Notre Dame di Baltimora, ricorda di aver desiderato la "modernizzazione" della cappella quando era studentessa al collegio. "Credevamo che, rendendo la cappella più contemporanea, sarebbe stato un bel segno di progresso. Ma sapete la novità? Abbiamo deciso di farla tornare come era prima", ha raccontato al Baltimore Sun. "E' ora di riportarla alla sua gloria originale". A questo scopo, ha offerto 1,5 milioni di dollari per eliminare tutte le alterazioni degli anni '60 "tipo il soffitto piatto e condutture metalliche sottostanti gli spazi a volta che venivano in questo modo oscurati, la pannellatura di legno che rivestiva le pareti intonacate e la moquette che nascondeva l'elegante pavimento con assi di pino". Finalmente anche la Santa Sede è intervenuta sul problema del rinnovamento all'inizio di quest'anno, quando il Cardinal Jorge Medina Estevez, prefetto della Congregazione per il Culto Divino, ha informato l'Arcivescovo di Milwaukee, Rembert Weakland, che la sua proposta di restauro della cattedrale non era conforme alle norme liturgiche e che avrebbe rappresentato un cattivo servizio ai cattolici di Milwaukee.

Questo "periodo del rendersi conto" deve condurre a quattro vie distinte per migliorare l'architettura delle chiese cattoliche e far sì che quegli spazi ridotti a luoghi d'incontro tornino ad essere luoghi sacri. La prima via è restaurare o "rinnovare" le chiese cattoliche tradizionali. Vale a dire, gli architetti e i parroci devono operare di comune accordo per restituire i vecchi edifici di orientamento tradizionale, ristrutturati negli ultimi trenta o quarant'anni, alla loro gloria originale. La seconda via è recuperare e ristrutturare le chiese moderniste costruite nella seconda metà del XX secolo, riorientandole. Molti edifici infatti eretti negli anni 1960 e '70, sebbene di forma irregolare, possono essere trasformati all'interno in bei spazi di trascendenza. La terza via è quella di trasformare brutte chiese moderniste in oratori parrocchiali o edifici scolastici, e costruire "chiese sostitutive" che siano degli autentici luoghi sacri progettati in continuità con la tradizione della Chiesa. La quarta via è forse la più facile: costruire delle belle chiese ex-novo nel momento in cui si erigono nuove parrocchie.


Ri-orientare la Chiesa ristrutturata
Il primo passo deve essere sempre quello di recuperare la forma gerarchica. Il presbiterio deve sempre essere ben distinto dalla navata dove si raduna l'assemblea. In molti casi, ciò significa che gli altari, che erano stati spostati al centro dell'assemblea, devono tornare al loro luogo appropriato che è il presbiterio. La piattaforma d'altare, di solito con uno o due gradini, che persiste nella navata con tante sedie attorno, non è in alcun modo un santuario sufficientemente definito. La maggior parte, se non tutte, delle chiese tradizionali sono disegnate secondo il modello basilicale crociforme. Ciò significa che esiste già un'ubicazione propria del santuario. Ubicazione propria che si trova alla "testa" elevata dell'edificio sacro, mentre la navata rappresenta il corpo.

In altre chiese ristrutturate, il santuario col tabernacolo è stato trasferito in una delle pareti laterali della navata con tutto l'edificio riorientato di modo che, entrando in chiesa, non c'è più un incedere naturale lungo il corridoio centrale verso l'altare del sacrificio. Questo tipo di rinnovamento è in realtà un disorientamento. La posizione propria del presbiterio è quella di stare alla testa dell'edificio e la navata riorientata verso l'altare.

Anche il santuario deve essere "ridefinito" cioè, se la piattaforma elevata del santuario era stata rimossa, deve essere recuperata. Se la balaustra per la Comunione era stata eliminata, rimetterla costituirà una linea di confine con il presbiterio, e sarà funzionale alla Comunione nel caso in cui si amministrasse ai fedeli inginocchiati alla balaustra. Una balaustra recuperata deve armonizzarsi con l'architettura della chiesa e specialmente dell'altare. Tuttavia, in molti casi, l'altare nelle chiese ristrutturate è inadeguato in se stesso.

Gli altari a forma di mensa che hanno sostituito gli altari maggiori dei secoli scorsi, sono manchevoli in molti aspetti. Per prima cosa, sono spesso fatti solo di legno. Per rendere di nuovo centrale la natura sacrificale, nell'altare dovrebbe essere incastonata una pietra, una semplice piastra orizzontale sulla quale il sacerdote pone il Divino Sacrificio della Messa. L'altare deve essere installato in modo permanente e costruito di materiale durevole. Una semplice tavola come quelle che si usano nelle nostre case per cene di ricevimento, è del tutto insufficiente.

In alcune chiese ristrutturate fortunatamente l'altare maggiore è ancora presente, anche se spesso serve solo per ospitare fiori o candelieri da quando il Vaticano II ha introdotto l'altare mobile. La soluzione più ovvia in queste chiese fortunate è quella di eliminare l'altare mobile inadeguato e ritornare all'altare maggiore che è spesso il naturale punto focale della chiesa, accentuato da un dossale o baldacchino. Tra i sacerdoti più giovani è in aumento infatti la prassi, incoraggiata dal Cardinale Ratzinger, di tornare alla Messa 'ad orientem' o 'ad absidem' , cioè recitare la Preghiera Eucaristica rivolti nella stessa direzione dell'assemblea verso l'altare rialzato.

Per quanto molti sacerdoti e non pochi laici siano convinti che questa prassi sia stata proibita o resa illegittima, non è affatto così. Né si può dire che tale prassi plurisecolare sia in alcun modo inopportuna. Infatti, è del tutto naturale per un sacerdote guidare i fedeli volgendosi insieme a loro verso il Signore. Soluzione tanto ovvia che solo dei motivi politici non la rendono possibile.

In molte altre chiese l'altare maggiore con dossale o baldacchino sono stati sommariamente rimossi. Situazione certo sfortunata, ma per le parrocchie impegnate nel rinnovamento può essere un'opportunità per progettare e costruire qualcosa di ancora più degno e più bello dell'originale. E' il caso ad esempio della cattedrale di San Paolo a Worcester, dove una nuova cattedra con dossale sono stati costruiti nel 1996 per rimpiazzare una parete di cemento semicircolare che era stata montata al posto del vecchio dossale.

E' anche il caso di parecchie chiese tradizionali restaurate nella diocesi di Victoria, in Texas. E' una diocesi nota per la conservazione delle "chiese dipinte" nella zona di Schulenburg. Alcune di queste chiese avevano abbandonato molti arredi dei loro presbitèri poco tempo dopo il Concilio Vaticano II. Una generazione più tardi però 9 parrocchie della diocesi hanno tentato di riprendersi ciò che avevano dismesso. L'altar maggiore decorato e dossale nella chiesa di San Giuseppe a Moulton, ad esempio, è stato completamente ricostruito di sana pianta da carpentieri del posto nel 1994.

Non c'è proprio alcuna buona ragione perché non si costruiscano nuovi altari dignitosi, completi di un bel dossale o baldacchino a seconda dello stile o disegno della chiesa. Sono elementi che non solo riportano l'altare al centro, ma lo nobilitano.


Riportare il tabernacolo in evidenza
Un altro importante aspetto, forse il più importante, del rinnovamento di un presbiterio è quello di riportare il tabernacolo alla sua originaria posizione al centro del santuario, dietro l'altare. Nel 1997 Padre Richard Simon della chiesa di San Tommaso di Canterbury a Chicago ha fatto da apri-pista in questo senso. Ha annunciato ai parrocchiani di aver deciso questa scelta liturgica perché si era reso conto che l'esperimento di togliere il tabernacolo dal santuario era fallito. Nella sua lettera del 24 giugno 1997 ai parrocchiani scriveva:

"Io credo che buona parte della sperimentazione iniziata trenta anni fa sia fallita. Non siamo né più santi né più cristocentrici oggi di quanto non lo fossimo allora. Infatti, abbiamo una generazione di giovani che in gran parte sono perduti per la Chiesa, poiché non abbiamo dato loro il dono prezioso che è al cuore del cattolicesimo: la Presenza Reale di Gesù. La Messa è diventata uno spettacolo, un veicolo per la comunicazione di un ordine del giorno di attualità popolare. L'edificio chiesa non è più luogo d'incontro con il Signore ma una sorta di centro sociale, non un luogo di preghiera ma un luogo di chiacchiere. In molte chiese, compresa la nostra, il tabernacolo era stato rimosso dal centro della chiesa per far risaltare la Messa e la presenza del Signore al momento della Santa Comunione. Ma questo esperimento è fallito.

Abbiamo perso il senso del sacro che un tempo apparteneva fortemente alla liturgia cattolica. Il comportamento di molti in chiesa è oltraggioso. Al termine della Messa, è impossibile trattenersi in preghiera. Il livello del rumore raggiunge un picco tale che sembra di essere a un evento sportivo. Lo scambio della pace assomiglia a un veglione di capodanno. Cristo è dimenticato sull'altare. Si può replicare dicendo che Egli è presente nell'assemblea ecclesiale ma, per quanto ciò sia vero, non deve mai avvenire a detrimento del Signore presente sull'altare. Se realmente il Signore fosse riconosciuto nell'assemblea, sarebbe ancora più alta la sacralità del momento. Cosa che semplicemente non avviene... Perciò ho deciso di riportare il tabernacolo alla sua forma originaria al centro del presbiterio e di iniziare una campagna di rieducazione alla sacralità della liturgia e al significato della Presenza Reale. Non mi risparmierò in questo sforzo fino a quando non sia recuperato il senso del sacro. Vi rammenterò che in chiesa si deve mantenere un rispettoso silenzio.

Cibo, giocattoli e socializzazione sono di casa altrove, ma non in chiesa che è il luogo dell'incontro con il Dio vivente. Sarà una catechesi impopolare, ma non importa. Sento già un'obiezione: 'dove siederà il prete?'. Siederò dove la tradizione ha sempre voluto che il sacerdote sedesse, dalla parte del santuario. Come in molte chiese la cattedra del "presidente" sta presso il tabernacolo. Sono stufo di sedere sul trono che appartiene al mio Signore. La detronizzazione dell'Eucaristia ha portato all'intronizzazione del clero, e io non ne voglio più sapere. La Messa è diventata prete-centrica. Il celebrante è tutto. Io sono un peccatore salvato per grazia come voi e non il centro dell'Eucaristia. Lasciate che io riprenda il mio posto davanti al Signore e non al posto del Signore. Sono ordinato al sacerdozio di Cristo nell'Ordine di presbitero, e come tale rivesto un umile ruolo particolare. Sono fratello maggiore nel Signore e con voi cerco di seguirlo e di adorarlo. Vi prego, permettete che io riporti Cristo al centro della nostra vita con tutto ciò che gli appartiene".

Una volta che Padre Simon riportò il tabernacolo al suo posto originario al centro del presbiterio dietro all'altare, fu sorpreso, disse, della risposta. Fu straordinariamente positiva ed efficace. Un certo senso di riverenza fu davvero recuperato a Messa nella sua chiesa. Il 16 settembre 1997 riferì l'esito dell'iniziativa con una "lettera prestampata":

Non potete immaginare la risposta che ebbi alla lettera del 24 giugno che avevo scritta ai miei parrocchiani. Ricevetti così tante chiamate e lettere che finii per dire grazie in una lettera prestampata. "Devo semplicemente scrivere grazie per il vostro sostegno e preghiere". Molti pensano che io sia stato coraggioso a fare quello che ho fatto. Coraggioso? Ho soltanto letto il Catechismo e ho spostato un po' di mobili. La risposta è stata eccezionalmente positiva. In parrocchia, alcuni hanno perfino pianto di gioia quando hanno visto il cambiamento. Mi sto dando dei calci da solo perché non l'ho fatto anni prima. Una risposta così confortante. Molti mi scrissero esprimendo il loro senso di solitudine nella battaglia per l'ortodossia cattolica. Non siete soli, risposi, né tra i laici né tra il clero.

Forse avete sentito la definizione di neo-conservatore: un progressista che è stato aggredito dalla realtà. Io mi ci ritrovo in pieno. Ero in collegio negli ultimi anni '60 e ho fatto tutto il percorso: barba, sandali, proteste, volantinaggio per il femminismo e tutto il resto ... Se una parrocchia come questa e una persona come me si possono rivoltare contro una assurda sperimentazione liturgica, allora può succedere a chiunque e dappertutto. Non arrendetevi! Ad esempio, se vi hanno tolto gli inginocchiatoi dalla chiesa, andate davanti e inginocchiatevi sul duro pavimento. Vi sorprenderete nel vedere quanti si uniranno a voi. E' quello che è successo qui.
Illuminati dall'iniziativa ben pubblicizzata di Padre Simon, molti altri parroci hanno riportato il tabernacolo in prominenza nelle loro chiese. Non si è trattato solo di "spostare dei mobili", come ha detto, ma riportare un tipo di riverenza orante nella sua chiesa che lui e molti altri desideravano. Col tabernacolo posto direttamente dietro all'altare sull'asse principale della chiesa, i due elementi operano insieme in unità: il tabernacolo è ridivenuto estensione dell'altare, punto focale della chiesa, come il Santissimo Sacramento è estensione del Divin Sacrificio della Messa.
Se l'Eucaristia conservata è estensione della Messa, ne consegue logicamente che, in termini di architettura, il tabernacolo dovrebbe essere situato in diretta relazione con l'altare, o su di esso o dietro. Questa disposizione ha conseguenze che vanno ben al di là di un progetto d'interno. In ultima analisi, è un fatto di devozione e di culto. Nelle parole di Giovanni Paolo II, una giusta devozione al Santissimo Sacramento conduce inevitabilmente a una più piena partecipazione della celebrazione eucaristica. Nella sua lettera per il 750° anniversario della festa del Corpus Domini, ha scritto: "Al di fuori della celebrazione eucaristica, la Chiesa si prende cura di venerare l'Eucaristia che deve essere conservata...come il centro spirituale della comunità religiosa e parrocchiale. La contemplazione prolunga la comunione e permette di incontrare durevolmente Cristo, vero Dio e vero uomo...La preghiera di adorazione in presenza del SS.mo Sacramento unisce i fedeli al mistero pasquale, li rende partecipi del sacrificio di Cristo, di cui l'Eucaristia è il sacramento permanente".

Intrinseco a questa teologia eucaristica è il crocifisso, la rappresentazione figurata del sacrificio di Cristo sul Calvario, ripresentato in modo incruento sull'altare per le mani del sacerdote ordinato. Il crocifisso - il corpo di Cristo sulla croce - è stato tolto da molte chiese durante le ristrutturazioni e sostituito da croci processionali simboliche o da figure del Cristo risorto o dipinti di grano, sole e uccelli. Se questi nuovi simboli risultano graditi ad alcuni, il ricupero del crocifisso è parte integrante di un appropriato ritorno del santuario. E' il crocifisso che simboleggia direttamente l'intero significato della Messa.


Recuperare l'arte sacra
Un altro elemento particolarmente significativo per il ritorno del santuario è il ricupero dell'arte sacra. Molte chiese sono state purtroppo imbiancate a calce una trentina di anni fa nel tentativo iconosclastico di eliminare le cosiddette "distrazioni" dalla casa di Dio nella corsa a ridurre la chiesa a una non-chiesa. Altre parrocchie hano avuto le loro statue sommariamente asportate per la stessa ragione. Per fortuna, queste purghe insipienti stanno diminuendo, ma intanto un gran numero di chiese sono state spogliate e lasciate vuote perché qualche parroco, liturgista o progettista era schiavo della moda e del cattivo gusto. E' quello che l'arhitetto di chiese Francis Gibbons ha chiamato "stupro".

Ma non tutto è perduto. Con i nuovi metodi di arte preservatrice e restaurativa, murali e affreschi si possono recuperare, statue imbiancate si possono riportare ai loro colori originali e opere deteriorate di arte sacra si possono restaurare. Questi progressi nell'arte di preservazione dovrebbe dare speranza ai molti parroci che desiderano il ritorno del sacro nelle loro chiese.

Inotre, contrariamente alla pubblica percezione, vi sono artisti di talento che si possono commissionare per eseguire nuovi decorosi murali o mosaici in chiese che non riescono più a recuperare il loro patrimonio artistico. Quanto alle statue, icone e altri pezzi artistici "mobili", esiste un tesoro di vecchia arte sacra disponibile nei negozi di antiquariato architetturale negli Stati Uniti e oltre. Bastano poche telefonate per mettere in contatto un parroco o un restauratore con gruppi che hanno spesso salvato opere d'arte inestimabili da chiese cattoliche chiuse o rase al suolo. Lo stesso vale per arredi architetturali come vecchi confessionali, vasi sacri, crocifissi, stazioni della via crucis, banchi e balaustre da comunione. Alcuni dei più noti siti internet di vendita all'asta, ad esempio, propongono continue offerte di belle opere d'arte. Purtroppo, avviene che il più delle volte questi oggetti finiscono per essere usati per scopi profani invece che per chiese nuove o restaurate. Abbiamo appreso tutti di confessionali usati come cabine telefoniche in ristoranti, o banchi con decorazioni incise a mano usati come sedie nei bar.


Riordinare la navata
Gli stessi passi occorrono per recuperare la navata. Preziose cappelle laterali e stazioni della via crucis scomparse negli ultimi decenni, si possono rinnovare o acquistare da antiquari e aziende di salvataggio architetturale. A volte la distruzione degli interni di chiese non si è limitata a ciò che ha rimosso. Rivestimenti di legno, controsoffitti con pannelli acustici e tappezzerie su tutte le pareti sono lo scempio ulteriore. La buona sorte ha voluto che simili materiali risalgano alla fine degli anni '60 e '70, quando si ristrutturavano le abitazioni nella stessa maniera. L'uso di questi materiali scadenti non va più di moda, Deo gratias. Rimuovere questi articoli "domestici" non farà male a nessuno.

Sono materiali fragili e di scarsa durata che si possono facilmente rimuovere. Con un po' di fortuna, possono avere anche preservato ciò che intendevano nascondere. I pannelli del del controsoffitto una volta rimossi possono rivelare volte, lucernari o affreschi del soffitto intatti e in buona condizione. La rimozione delle moquettes può rivelare un pavimento a terrazzo o ad asse di legno duro, la rimozione di pannellatura lignea può far emergere belle pareti di intonaco, a volte decorate con eleganti incisioni o perfino mosaici.

Più difficili da risolvere sono invece gli arredi moderni che spesso sostituiscono gli arredi tradizionali. Gli arredi moderni spesso non si sposano con il disegno e lo stile originale dell'edificio. Le suppellettili da sedute sono un altro importante motivo di recupero. Innanzitutto, per quelle chiese che hanno fatto togliere le panche: installate nuovi inginocchiatoi! Per quelle chiese che hanno messo di traverso o voltati i banchi del corridoio laterale della navata per osservare meglio, si suppone, l'altare: rimetteteli rivolti in avanti! E per quelle chiese che hanno scartato le vecchie panche per delle sedie mobili di scarso valore (o costose), l'ideale sarebbe collocare in chiesa nuove panche di legno con inginocchiatoi. Passerà presto la moda delle sedie imbottite di tipo casalingo.

Quando si procede al restauro di una chiesa storica, la parrocchia deve affidarsi a restauratori competenti con un curriculum comprovato di serietà. Restauratori che siano sensibili all'architettura originale della chiesa, ma che non necessariamente ricreino in toto tutto ciò che esisteva nel passato. Tuttavia, ogni nuovo arredamento e/o opere artistiche devono corrispondere allo schema architetturale e non sembrare dei corpi estranei.

Il restauratore si deve preoccupare di 1) riordinare la chiesa con una ben definita nartece, navata e presbiterio secondo il disegno originario, 2) ristabilire un programma iconografico di arte sacra e arredi, 3) recuperare ogni tipo di verticalità che fosse andata perduta, e 4) ristabilire una totalità unificata così che la chiesa torni ad essere un luogo sacro con qualità trascendenti.


Recupero dei restauri
Qualcuno si chiederà: "dobbiamo tenerci questo brutto edificio che sembra ... (riempite lo spazio vuoto); che possiamo fare per migliorarlo secondo il suo disegno moderno?". Per fortuna, in alcuni casi la risposta è semplice. Nella sua teoria di non-chiesa, Soewick ha espresso il desiderio che l'edificio abbia un "interno usa e getta", un interno cioè che possa essere facilmente alterato per rispondere alle esigenze dei fedeli in qualsiasi tempo. Ed infatti, gli interni di molte non-chiese costruite nella seconda metà del XX secolo si cambiano facilmente. I loro "interni usa e getta" si possono semplicemente gettare e commissionare nuove mobilia e opere d'arte sacra.

Naturalmente, il nuovo architetto o progettista non ha alcun obbligo di sottoscrivere la teoria modernista dell'interno usa e getta. Ha però l'obbligo di trasformare l'edificio in una bella chiesa. Si può fare, ma non progettando un altro interno che si possa gettar via. L'architetto ha l'opportunità di ricollegarsi alla tradizione al fine di creare un luogo sacro che trascenda le generazioni e possibilmente anche le culture.

Proprio come avviene con il progetto di restauro di una chiesa tradizionale, il primo compito è di riorientare adeguatamente gli spazi interni in una gerarchia di presbiterio e navata. Cosa più difficile da realizzare nell'edificio modernista che non nella chiesa tradizionale, poiché il piano pavimentario può essere abbastanza irregolare. Chiese a circolo, chiese a ventaglio stile teatro, e piante asimmetriche sono tre schemi popolari che hanno bisogno di essere corretti.

A questo proposito, l'altare va installato alla "testa" dell'edificio in un presbiterio distinto che sia elevato rispetto alla navata e in buona prominenza quando l'assemblea è seduta. Un altare di chiesa modernista da recuperare, il più delle volte non è neppure degno di essere usato come tavola da cucina. Esiste ora l'opportunità di progettare un altare nuovo che si ponga non soltanto quale punto focale della chiesa ma che dia il tono per il nuovo interno. Ogni altro elemento del recupero deve in qualche modo condurre all'altare.

Un nuovo baldacchino o dossale può dare all'altare la nobiltà e la prominenza che merita, e la stretta connessione del tabernacolo con l'altare è tanto importante nella ristrutturazione di un edificio modernista quanto lo è nel recupero di una chiesa storica. Lo stesso vale per altri elementi e arredi - panche, arte sacra, pulpito e balaustra per la comunione. Non c'è nessuna buona ragione per non introdurre gli ornamenti tradizionali di una chiesa cattolica in un edificio modernista, creando così un senso del trascendente e dell'eterno.


Rimpiazzare le chiese
Certamente quando è possibile, è preferibile iniziare ex-novo il progetto di una chiesa che serva da "città sul monte", che con la sua forma tradizionale e gli elementi esterni abbia la capacità di dare significato, ispirare, educare e attirare cattolici e non-cattolici. Dal momento che molte chiese moderniste, se non la maggior parte, non sembrano essere strutture permanenti, si possono allora adattare ad altro uso di utilità parrocchiale come, ad esempio, edificio scolastico, magazzino alimentare, teatro, palestra od oratorio parrocchiale.

Molte tra le chiese moderniste, per come si presentano, si prestano facilmente a tale trasformazione. Non poche persone, quando entrano in una di queste nuove chiese o non-chiese, esclamano: "Oh, pare più una palestra (o teatro, ecc.)". Se pare una palestra o un teatro, ci sono buone probabilità che possa facilmente convertirsi in palestra o teatro, mentre nelle vicinanze si erigerà una nuova chiesa progettata in continuità con la tradizione cattolica di architettura sacra. Sono appunto chiamate "chiese sostitutive".

Inoltre, un parroco o un vescovo possono con facilità salvare la faccia dicendo ai parrocchiani che la struttura moderna di cui stanno attualmente usufruendo, era intesa solo come soluzione temporanea in attesa del tempo in cui i parrocchiani avrebbero contribuito a costruire una casa di Dio permanente capace di parlare alle generazioni future di cattolici. Ebbene, il tempo è arrivato.

Per ultimo, la più grande opportunità sta forse nell'erezione di una nuova parrocchia. Il parroco, l'architetto e i parrocchiani possono partire da livello zero, per così dire, con il grande vantaggio di poter guardare indietro e aver assistito a cinquant'anni di costruzione di chiese brutte, senza alcuna ispirazione, ed evitare così di cadere in una moda passeggera che scomparirà ancor prima che questa generazione si estingua. Siamo davvero nella bella occasione di collegarci con la tradizione creando contenitori trascendenti di significato, che non soltanto sembrino chiese ma che siano veramente chiese nella loro essenza.

fonte: Sacred Architecture, spring 2002
http://www.sacredarchitecture.org/images/uploads/volumesPDFs/Issue_6_2002.pdf
trad. it. a cura di d. Giorgio Rizzieri
(23/04/2012)