venerdì 29 luglio 2011

La basilica costantiniana di san Pietro in Vaticano



Una visione d'insieme del presbiterio della basilica costantiniana di san Pietro in Vaticano.

Si nota l'iconostasi (senza icone) simile a quella della basilica marciana a Venezia. Dietro l'iconostasi (che poteva essere racchiusa da tende) sorge l'imponente presbiterio raggiungibile da due gradinate. L'altare si trova sotto un ciborio. Il papa sedeva nella sede centrale dell'emiciclo a ridosso dell'abside. Il luogo venerato della sepoltura dell'apostolo Pietro era sotto l'altare e si raggiungeva seguendo un sottopassaggio laterale che consentiva di passare sotto l'area del santuario. Questa sistemazione del presbiterio si deve a Gregorio Magno (VII sec.) il quale sopraelevò il santuario creando un passaggio sottostante per la venerazione del sepolcro apostolico.

La costruzione del modello tridimensionale (dal quale è stata tratta questa foto) rende evidente un fatto: la celebrazione verso le porte della chiesa e non verso l'abside non comportava un faccia-faccia col popolo, molto in basso e lontano e, per altro, disposto in prevalenza nelle navate laterali, dal momento che la navata principale poteva essere utilizzata in certi momenti della liturgia. Rende pure più comprensibile il passo del canone romano (la preghiera consacratoria sul pane e sul vino) nel quale il papa diceva: "Memento Domine... et omnium circumstantium" (ricordati Signore... di tutti i circostanti). I circostanti non erano tanto il popolo, distante rispetto al celebrante, ma coloro che aiutavano il pontefice nella liturgia e lo attorniavano.

Queste brevi osservazioni consigliano caldamente di non vedere, in questo esempio di presbiterio antico, la cosiddetta "celebrazione verso il popolo" che sottende una mentalità allora inesistente. Per quel mondo, infatti, la preoccupazione principale del celebrante non era essere visto o compreso dal popolo ma essere gradito a Dio. Il popolo, a sua volta, non assisteva alla celebrazione per "vedere" il prete ma per assistere ad un evento sacro. La posizione teocentrica è tipicamente antica e medioevale e per essa definizioni come "celebrazione verso il popolo", anche se orientate verso l'assemblea, non avevano senso alcuno.

fonte: http://traditioliturgica.blogspot.com

mercoledì 27 luglio 2011

Musica sacra: la Chiesa torni ad essere fonte culturale


Ogni anno conduco un workshop di aggiornamento in Hong Kong incentrato sulla musica liturgica. Mi ritrovo con ragazzi, ragazze, uomini e donne che insieme a me voglio cercare di capire un po' meglio e di più in che modo la musica possa veramente svolgere quel compito che le è proprio, di favorire cioè l’elevazione delle nostre anime alla contemplazione di quel Mistero che è intangibile con semplici parole.

Per me è sempre una occasione di confronto importante, anche perché i corsisti sono tutti provenienti da una realtà che comunque non è quella della mia formazione alla musica liturgica: l’Asia, Hong Kong, la Cina continentale, Macao…insomma, devo cercare di vedere i problemi sotto angolature diverse per adattarle anche alla loro propria situazione.

Questa volta ho incentrato il mio workshop, della durata di due settimane, sugli insegnamenti di Joseph Ratzinger in materia di musica liturgica. Questi scritti da me usati sono precedenti alla sua elevazione al pontificato e anche il testo che li raccoglie, edito dalla Libreria Editrice Vaticana, non porta come autore Benedetto XVI ma Joseph Ratzinger. Quindi mi attengo alla Vaticana.

Negli scritti dell’illustre teologo ci sono vari spunti molto interessanti che meriterebbero di essere approfonditi. Quello di cui voglio trattare qui si trova a pagina 671:
“La musica sacra come fede diventata cultura è necessariamente coinvolta nell’odierna problematica del rapporto tra Chiesa e cultura”[1].

Questo spunto viene proseguito dall’autore ed incentrato sulla separazione che si è venuta storicamente a realizzare tra la Chiesa e la grande cultura. La Chiesa era la maggiore produttrice di cultura nel Medioevo e nel Rinascimento (ma qui l’autore vede i primi segni di scollamento) ma poi nel corso dei secoli, soprattutto nell’era segnata dall’Illuminismo, la cultura si è fatta sempre più profana. Questo è evidente per chi sa un po' di storia: seppure è vero che grandi artisti hanno continuato a produrre opere religiose e liturgiche, è altrettanto vero che la Chiesa non era più la principale committente per le loro produzioni, ma si affiancava ad altri enti e potentati. Inoltre, per quanto riguarda la musica, basta pensare a come dal Barocco scendendo fino a noi si sia registrata una predominanza di generi come l’opera e il sinfonico che non hanno di per sé una matrice liturgica o religiosa. Insomma, l’osservazione dello studioso è pienamente condivisibile.

Poco più avanti viene detto qualcosa che è ancora più interessante:
“Comunque, chi guarda tante chiese neogotiche o anche neoromantiche vede che la Chiesa, pur non potendo rinnegare il proprio tempo, è stata visibilmente respinta in una specie di sottocultura, che finiva ai margini della corrente principale di sviluppo culturale”.

Questo concetto di sottocultura mi sembra vada un attimo ponderato.
In effetti bisognerebbe prima chiarirsi su cosa si intende per cultura in questo caso. Perché già quando ci si mette a fare i conti con questi termini si rischia grosso, tanto essi sono sfuggenti e polisemantici. In effetti cultura può significare un bagaglio di conoscenze come una condivisione di valori, usanze e tradizioni da parte di un popolo. Nel nostro caso si vuole intendere che la cultura artistica condivisa dalla maggior parte del popolo, suoni, immagini e quanto altro, una volta era impregnata di cattolicesimo ma poi c’è stata una sorta di separazione facendo in modo che l’arte cattolica divenisse una sottocultura. Chiariamo questo: per l’autore il termine “sottocultura” non ha una accezione negativa, e riconosce anche come cose molto buone si siano prodotte in questo ambito. E' solo una constatazione sullo status questionis.

Ma cosa succede oggi? Succede un fenomeno che direi molto interessante e che possiamo dividere in due fasi. Nella prima fase alcuni uomini di Chiesa cercano di rincorrere la cultura ufficiale, anche nell’ambito della musica liturgica. Questo era probabilmente più vivo in passato, ma ancora oggi si crede che sposare la cultura significa introdurre la musica pop nella liturgia così da fare in modo che la gente partecipi di più e meglio perché è la sua cultura. Ma questa musica è popolare non nel senso che deriva dal popolo, ma lo è nel senso che è diffusa. Ora si deve distinguere fra ciò che viene dal popolo e ciò che il popolo (in un certo senso) riceve passivamente. Sappiamo bene che questa musica è il prodotto di una potente industria culturale, che è finalizzata puramente al consumo. Ora, nulla di male in se stesso, ma è questo il modello che vogliamo dare di musica liturgica?

Un altro aspetto è quello portato avanti da altre fazioni nella Chiesa stessa, che per stare al passo con i tempi e con la cultura dominante introducono nella liturgia espressioni derivate da quella che viene definita arte contemporanea. Quindi sentiamo composizioni per la liturgia con linguaggi veramente molto arditi che si farebbe fatica a seguire anche da persone preparate musicalmente. Anche qui si rincorre la cosiddetta cultura ufficiale ma non si medita troppo sul fatto che anche la cosiddetta arte contemporanea è una sottocultura, molto lontana da quella che il comune fedele fruisce quotidianamente.

Anche qui, non sto criticando la cosa in sé, l’arte contemporanea o la musica d’avanguardia, ma l’idea di applicarla alla liturgia per rincorrere i tempi. Già perché questo mi sembra il nodo del problema: la Chiesa si è fatta sempre più contenitore e sempre meno contenuto, essa si presta a linguaggi che sono nati in contesti e con motivazioni non cristiane e che molto difficilmente si prestano ad una redenzione liturgica.

La Chiesa dovrebbe tornare ad essere fonte culturale, non a rifugiarsi in linguaggi altri rincorrendo una modernità che per sua natura non può che essere sfuggente. Dovremmo sperare al contrario che il mondo della musica leggera si ispiri alle nuove creazioni provenienti da musicisti liturgici e i designer possano trovare nell’arte per la liturgia nuove idee e stimoli. Ricordiamo che la Chiesa “creò” un nuovo linguaggio, una nuova arte, una nuova cultura. Come ricominciare ad essere rincorsi e non a rincorrere? Come ridivenire cultura e non solo sottocultura? Ecco il solo e vero progetto culturale a cui dedicarsi con tutte le proprie forze.


1) Joseph Ratzinger. Cantate a Dio con Arte. Indicazioni Bibliche orientative per la Musica Sacra in Opera Omnia (Vol. IX), Teologia della Liturgia. Stato Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2010.


26 luglio 2011 (ZENIT.org)

martedì 26 luglio 2011

DOCUMENTI RIVELANO CHE PIO XII SALVÒ 11.000 EBREI ROMANI


Annuncio della Pave the Way Foundation

di Jesús Colina

ROMA, lunedì, 25 luglio 2011 (ZENIT.org).- In base alla documentazione scoperta di recente dagli storici, l'azione diretta di Papa Pio XII salvò la vita di più di 11.000 ebrei a Roma durante la II Guerra Mondiale.
Il rappresentante per la Germania della Pave the Way Foundation, lo storico e ricercatore Michael Hesemann, ha scoperto molti documenti originali di grande importanza nella sua ricerca negli archivi della chiesa di Santa Maria dell'Anima, la chiesa nazionale della Germania a Roma.
La Fondazione Pave the Way, con base negli Stati Uniti, fondata dall'ebreo Gary Krupp, ha annunciato il ritrovamento dei documenti in una dichiarazione inviata a ZENIT.
“Molti hanno criticato Pio XII per essere rimasto in silenzio durante gli arresti e quando i treni lasciarono Roma con 1.007 ebrei che vennero mandati al campo di concentramento di Auschwitz”, ha dichiarato Krupp. “I critici non riconoscono neanche l'intervento diretto di Pio XII per porre fine agli arresti del 16 ottobre 1943”.

“Nuove scoperte provano che Pio XII agì direttamente dietro le quinte per far terminare gli arresti alle 14.00 dello stesso giorno in cui erano iniziati, ma che non riuscì a fermare il treno dal destino tanto crudele”, ha aggiunto.
Secondo uno studio recente del ricercatore Dominiek Oversteyns, il 16 ottobre 1943 a Roma c'erano 12.428 ebrei.

“L'azione diretta di Papa Pio XII salvò la vita di più di 11.400 ebrei”, ha spiegato Krupp. “La mattina del 16 ottobre 1943, quando il Papa seppe dell'arresto degli ebrei, ordinò immediatamente una protesta ufficiale vaticana all'ambasciatore tedesco, che sapeva avrebbe avuto senz'altro esito”.

“Il Pontefice inviò allora suo nipote, il principe Carlo Pacelli, dal Vescovo austriaco Alois Hudal, guida della chiesa nazionale tedesca a Roma, che era secondo alcuni cordiale con i nazisti e aveva buone relazioni con loro. Il principe Pacelli disse a Hudal che era stato inviato dal Papa, e che Hudal doveva scrivere una lettera al governatore tedesco di Roma, il Generale Stahel, per chiedere di fermare gli arresti”.

Nella lettera del Vescovo Hudal al Generale Stahel si leggeva: “Proprio ora, un'alta fonte vaticana [...] mi ha riferito che questa mattina è iniziato l'arresto degli ebrei di nazionalità italiana. Nell'interesse di un dialogo pacifico tra il Vaticano e il comando militare tedesco, le chiedo urgentemente di dare ordine di fermare immediatamente questi arresti a Roma e nella zona circostante. La reputazione della Germania nei Paesi stranieri richiede una misura di questo tipo, e anche il pericolo che il Papa protesti apertamente”.

La lettera venne poi consegnata a mano al Generale Stahel da un confidente di Papa Pio XII, il sacerdote tedesco Pancratius Pfeiffer, superiore generale della Società del Divin Salvatore, che conosceva personalmente Stahel.

La mattina dopo, il Generale rispose al telefono: “Ho girato subito la questione alla Gestapo locale e a Himmler personalmente. Himmler ha ordinato che, considerato lo status speciale di Roma, gli arresti siano fermati immediatamente”.
Questi eventi vengono confermati anche dalla testimonianza ottenuta durante l'indagine del relatore (alto Giudice) della causa di beatificazione di Pio XII, il sacerdote gesuita Peter Gumpel.
Padre Gumpel ha dichiarato di aver parlato personalmente con il Generale Dietrich Beelitz, che era l'ufficiale di collegamento tra l'ufficio di Kesselring e il comando di Hitler. Il Generale Beelitz ascoltò la conversazione telefonica tra Stahel e Himmler e confermò che il Generale Stahel aveva usato con Himmler la minaccia di un fallimento militare se gli arresti fossero continuati.

Esenzioni

Un altro documento, intitolato “Le azioni dirette per salvare innumerevoli persone della nazione ebraica”, afferma che il Vescovo Hudal riuscì – attraverso i suoi contatti con Stahel e con il Colonello Barone von Veltheim – a ottenere che “550 istituzioni e collegi religiosi fossero esentati da ispezioni e visite della polizia militare tedesca”.

Solo in una di queste strutture, l'Istituto di San Giuseppe, venivano nascosti 80 ebrei.
La nota menziona anche il coinvolgimento “per una parte notevole” del principe Carlo Pacelli, nipote di Pio XII. “I soldati tedeschi erano molto disciplinati e rispettavano la firma di un alto ufficiale tedesco... Migliaia di ebrei locali a Roma, Assisi, Loreto, Padova ecc. vennero salvati grazie a questa dichiarazione”.

Michael Hesemann ha affermato che è ovvio che qualsiasi protesta pubblica da parte del Papa quando il treno partì avrebbe provocato la ripresa degli arresti.
Oltre a ciò, spiega che la Fondazione Pave the Way ha sul suo sito web l'ordine originale delle SS di arrestare 8.000 ebrei romani, che dovevano essere inviati al campo di lavoro di Mauthausen – per esservi tenuti come ostaggi – e non al campo di concentramento di Auschwitz. Si può pensare che il Vaticano credesse di poter negoziare il loro rilascio.

Si è anche appreso che il Vaticano ha riconosciuto che il Vescovo Hudal partecipò attivamente nell'aiutare alcuni criminali di guerra nazisti a sfuggire all'arresto dopo la fine del conflitto.
A causa della sua posizione politica, il Vescovo era persona-non-grata in Vaticano, e infatti venne rimproverato per iscritto dal Segretario di Stato vaticano, il Cardinale Giovanni Battista Montini (futuro Papa Paolo VI), per aver suggerito che il Vaticano aiutasse i nazisti a sfuggire all'arresto.
Gary Krupp, Direttore generale di Pave the Way, ha commentato che la Fondazione “ha dedicato ampie risorse per ottenere e diffondere pubblicamente tutte queste informazioni per storici e studiosi. Curiosamente, nessuno dei maggiori critici di Papa Pio XII si è disturbato a venire negli Archivi Vaticani aperti (aperti completamente dal 2006 fino al 1939) per studi originali, o ha voluto accedere al nostro sito web gratuito, in base ai registri a Roma e ai nostri”.

Krupp ha aggiunto di nutrire la sincera speranza che i rappresentanti degli studiosi della comunità ebraica romana compiano ricerche sul materiale originale che si trova solo a pochi passi da casa loro.
“Credo che scopriranno che la stessa esistenza oggi di quella che Papa Pio XII chiamava 'questa vibrante comunità' è dovuta agli sforzi segreti di questo Papa per salvare ogni vita”, ha detto. “Pio XII ha fatto ciò che ha potuto, mentre era sotto la minaccia di invasione, di morte, circondato da forze ostili e con spie infiltrate”.

Elliot Hershberg, presidente della Pave the Way Foundation, ha aggiunto: “Nel servizio della nostra missione, ci impegniamo a cercare di offrire una soluzione a questa controversia, che interessa più di un miliardo di persone”.
“Abbiamo usato i nostri collegamenti internazionali per ottenere e inserire sul nostro sito web 46.000 pagine di documenti originali, articoli originali, testimonianze oculari e interviste a studiosi per fornire questa documentazione pronta a storici ed esperti”.
“La pubblicità internazionale di questo progetto ha portato quasi ogni settimana a nuova documentazione, che mostra come ci stiamo muovendo per eliminare l'ingorgo accademico che esiste dal 1963”.



[Traduzione dall'inglese di Roberta Sciamplicotti]

fonte: www.zenit.org

sabato 23 luglio 2011

Padre Mariano: un maestro impareggiabile



Di Claudio Dalla Costa


Nato a Torino, il 22 maggio 1906, fin da giovane si sentì divorato da un fuoco interiore che lo portava a far conoscere Gesù.

Scriverà: “Confesso che molte volte mi viene una voglia matta di percorrere tutto il mondo, di avvicinare, se possibile, tutte le creature per invitarle ad amare sempre e di più Dio!...L’unico mio desiderio, che sento mi brucia la carne ed è incontenibile, è di fare totalmente la volontà di Dio, senza che le creature possano frapporvi ostacoli”.

Si era laureato in lettere all’università di Torino all’età di 21 anni. Per 13 anni insegnerà latino e greco in diversi licei. La ricerca della sua vocazione sarebbe durata a lungo, ben quattordici anni di attesa prima di realizzare che il Signore lo chiamava al sacerdozio e alla vita religiosa.

Nel 1927 scriveva: “Non attendo altro che il giorno benedetto in cui potrò correre a servire e lodare il Signore, senza restrizioni, senza limiti, ma con tutte le forze, e poiché queste sono poche, con tanto amore soprattutto”.

Nel novembre del 1939 si fidanza ma il fidanzamento dura solo circa dieci mesi. Poi, nel 1940, in modo del tutto imprevisto, l’incontro con L’Immacolata gli cambia la vita. Scriverà: “Proprio mentre da mesi dirigevo i miei passi verso la mèta che mi pareva quella buona (il matrimonio, ndr), l’Immacolata da me insistentemente invocata per una tempesta - che minacciava il mio nuovo orizzonte, mi fece improvvisamente una precisa sensazione fisica: come di una mano misteriosa che mentre attraversavo una grande piazza mi fermasse e mi obbligasse a tornare – contro voglia – sui miei passi. Sentii d’un tratto un disgusto mai provato, intollerabile, della vita comune nel mondo, e contemporaneo un desiderio irresistibile del sacerdozio, via che avevo sempre scartato”.

Fu ordinato sacerdote il 29 luglio 1945. Fu un vero artista della parola che aveva un forte impatto in chi lo ascoltava. Era molto preoccupato per i lontani, per coloro che sembrano avversi alla vita cristiana, che sono indifferenti al lato religioso della vita. Si dedicò con molto ardore alle missioni popolari, che voleva “antiche nello spirito e moderne nei mezzi”.

Vale a dire prediche nelle scuole, nei luoghi di lavoro, visite agli ammalati, conferenze nei teatri. Padre Mariano andava ovunque lo chiamassero e le folle accorrevano ad ascoltarlo. Parlava anche alla radio vaticana e alla radio italiana.

Ma fu con l’avvento della televisione che avvenne la sua definitiva consacrazione come oratore e scoprì che il Signore gli aveva accordato il carisma specifico della predicazione. Già all’avvicinarsi dell’evento della nascita della Tv, durante la quaresima del 1954, padre Mariano dalla radio inviò questo messaggio carico di significato: “Spunta l’orizzonte della televisione? Egli (l’apostolo, il sacerdote) non si ritiri in un cantuccio, sopportando quanto di male ne possa venire fuori, ma cerchi di prevenire sapendo bene il bene immenso che ne potrà scaturire. Pensate, per esempio, se tutti quelli che ascoltano questo nostro radio-quaresimale (più che centomila persone) mandassero questa sera (chi rimanda a domani non lo farà più) una lettera alla direzione generale della Televisione italiana a Roma, con la preghiera viva che per la quaresima del 1955 (quando già gli apparecchi televisivi saranno diffusi tra noi) venga offerto in televisione a tutti gli italiani un quaresimale quotidiano. Non credete che questo quaresimale potrebbe essere davvero realizzato? Voi tutti sareste apostoli, perché grazie a una semplice lettera moltiplichereste la parola di Dio, presentata nella forma suggestiva della televisione, per milioni e milioni di anime. Dobbiamo farci tutto a tutti per portare tutti a Cristo! Si deve fare qualcosa? Facciamolo!”.

E in una lettera inviata, per il Natale del 1954, ad una comunità religiosa, scriveva: “…Chiedo una preghiera fervorosa per una grande cosa: si inizia a Roma col 1954 la televisione. Per la parte religiosa i superiori hanno fatto il mio nome. Ci sono venti e più candidati. Pregate perché venga scelto il più innamorato dell’Immacolata e che faccia più bene alle anime. Se la Vergine santissima volesse fare tale onore ai cappuccini, Deo gratis! Pregate perché si faccia soltanto la volontà di Dio”.

L’apostolato della predicazione

Questa profezia si sarebbe presto avverata e sarebbe stato proprio lui a iniziare, nel gennaio 1955, le trasmissioni religiose con la rubrica quindicinale La posta di padre Mariano. Padre Mariano diceva che “dobbiamo pregare molto per i predicatori perché ci diano Gesù dal pulpito, non altro che Gesù”. Per quasi vent’anni quest’uomo tenne letteralmente attaccate alla TV milioni di persone tra cui molti atei e agnostici.

Un insegnante di filosofia che si professava ateo, diceva: “Io non credo in Dio, ma mi piace quel frate che ne parla, e ne parla, credo, perché lui lo possiede più che crederci”. Penso che siano proprio pochi gli uomini che non sono sensibili al fascino di Gesù, se la sua figura viene presentata in modo avvincente. Un suo biografo scrisse: “Il suo dire semplice e chiaro, punteggiato da aneddoti, slogans e persino da battute spiritose, rendeva piacevole l’ascolto e facilitava il ricordo. Aveva consapevolmente prese le distanze dal modo tradizionale di predicare”.

Il frate diceva: “Gli sviluppi della TV nel 1956 mi allarga il cuore ma cresce anche il peso della mia responsabilità. Sento che dovrò rispondere al Signore di tante e tante anime! Dicono che è una delle trasmissioni più attese; anche la Direzione è entusiasta. Avverto tuttavia la mia miseria, la pesante responsabilità e penso quanto dovrei essere più unito a Dio per il mio tremendo compito”.

Qui sta proprio uno dei punti fondamentali della sua predicazione vincente. Sapere che da questa attività dipende il bene di innumerevoli anime, che proprio quelle parole possono essere decisive per cambiare una vita, per convertire un cuore, per ridare una speranza. Senza questo senso della grave incombenza che deve affrontare chi sale sul pulpito, si rischia di trasformare l’omelia in una tra le tante attività di routine che il prete deve affrontare lungo la giornata.

All’apostolato della parola seguiva quello della penna. Il frate riceveva migliaia di lettere in cui chi gli scriveva gli confidava dubbi, incertezze, sofferenze, gioie, chiedeva consiglio. Lui trovava il tempo per rispondere a tutti e spesso usava aneddoti significativi per far passare il contenuto che voleva trasmettere. Achille Campanile disse di lui che è “l’unica barba della TV, ma uno dei pochi che non sia una barba”.

“Pace e bene a tutti”, il saluto dei terziari francescani, diventa anche il saluto di frate Mariano ai telespettatori. Albert Camus ha scritto: “Tutte le disgrazie degli uomini derivano dal non tenere un linguaggio chiaro”.

Anche certe disgrazie in cui incappa la Chiesa sono, a mio parere, dovute alla difficoltà di farsi capire. Per lui la parola aveva una certa sacralità e aveva paura che scivolasse via senza che la gente potesse afferrarla. Per questo motivo faceva di tutto per farsi capire. In secondo luogo, ripeteva con l’esegeta Luis Alonso Schökel: “Ricordate che chiarità è carità”. Infatti era convinto che “la fatica nel capire fa distrarre o fa dormire”. Pregava il Signore perché “mi faccia parlare come vuole Lui”.

Mi pare che oggi capiti quasi sempre il contrario, i predicatori parlano non come vuole Lui, bensì come vogliono loro e poi non lamentiamoci se i risultati sono quelli che sono. Confidava: “Abbiamo complicato tanto la faccenda dell’apostolato? Possibile che per fare un po’ di bene ci voglia davvero tanta tecnica, tanta carta stampata, tante macchine organizzative? Non lo voglio credere. Dio è così semplice! Basta farsi uomini con gli uomini, come Egli si è fatto uomo con noi. Forse la nostra parola ha poco mordente perché è fasciata di troppa seta: non è più nudamente evangelica”.

E ancora: “Qualche volta il sacerdote non ha vera del mondo che vuole avvicinare, quella conoscenza vera, intima, cordiale, dell’uomo d’oggi, che non è data dalle riviste o dalle settimane di aggiornamento, ma dalla preghiera fervorosa e dall’avvicinamento personale. Si sente in chi che avvicina di fatto poco le anime: i suoi ragionamenti sono scolastici, aerei, teorici, non aderenti al vero stato d’animo d’oggi…Si vive più di che di esperienza vissuta?”.

Qualcuno lo rimproverava di usare con troppa frequenza aneddoti e parabole per spiegare il Vangelo e rispondeva: “l’esempio oltre che a richiamare l’attenzione, viene compreso, si ricorda più facilmente ed è il mezzo migliore per approfondire e non dimenticare la predica”.

Predica senza predicare

Colpivano le sua forte carica di umanità, unita ad una grande dolcezza e ad un amore profondo per tutti gli uomini. Tanto che la televisione americana invitava i funzionari della TV italiana a studiare il fenomeno “padre Mariano”, capace di arrivare a punte di ascolto di 15 milioni di telespettatori. Il Catholic Comment on the News rilevava che era proprio padre Mariano il fattore vincente perché “conquista il suo uditorio con la sua vivacità e gentilezza senza far prediche vere e proprie. Il modo di esprimersi è così intimo che ogni spettatore ha la sensazione che parli direttamente a lui…”.

Un giornale scrisse: “La gente è affamata di spiritualità, e l’umile frate gliela distribuisce a piccole dosi settimanali”. Anche adesso la gente è affamata di Dio, e va alla disperata ricerca di surrogati che, anziché sfamarla, la rendono ancora più affamata. Se si percepisse davvero la fame di Dio che c’è in giro, e che gli uomini cercano in tutti i modi di saziare, si avrebbe molto più a cuore il carisma della predicazione. Dove si preparava per le sue trasmissioni padre Mariano? “È qui (in chiesa) che mi preparo sempre alla televisione. Gesù eucaristico è il mio maestro. Studio Lui. Ascolto Lui. Interrogo Lui. Guardo Lui.”.

Non sarà perché manca questo allenamento costante faccia a faccia del Signore che poi tante prediche non hanno l’effetto desiderato? “Guardate a Lui e sarete raggianti” (33,6) dice il salmista, e dove contemplarlo se non nel tabernacolo? Conviene sempre rifarsi all’esempio dei santi, hanno sempre qualcosa da insegnare.

Gemellaggio spirituale

C’è una donna che riveste grande importanza nella vita di padre mariano. Si tratta di Caterina Serra, primatista italiana degli 800 metri, selezionata per le olimpiadi di Berlino del 1936. Proprio in quell’anno i due si incontrarono perchè la ragazza, fino ad allora non praticante, aveva deciso improvvisamente di frequentare l’Azione Cattolica. Qualche giorno dopo Caterina decise di entrare nel monastero delle clarisse cappuccine di Torino, prendendo il nome di suor Maria Giuseppina. Passarono diversi anni e la suora riuscì ad avere l’indirizzo di padre Mariano e gli scrisse la prima lettera. Iniziò così la loro corrispondenza, che conta 107 lettere, che durò fino alla morte del frate.

Una grande comunione di anime si era creata tra i due, e tutto questo li portava ad essere collaboratori nell’apostolato delle anime. La confidenza e la fiducia reciproca conduceva padre Mariano ad aprire il suo cuore e raccontarle le gioie e le speranze, ma anche le preoccupazioni e gli insuccessi della sua attività pastorale. Alcune espressioni del Nostro frate la dicono lunga di come tenesse in gran conto delle preghiere, dei sacrifici e dell’offerta della propria vita di suor Maria Giuseppina.

Si sentiva “indegnissimo di avere una Sorella spirituale e validissima ausiliaria”, oppure: “Quando mi elogiano e ringraziano…, io rido dentro di me, pensando a chi non riceve mai un e fa il 90% del lavoro! Ah, come sarà magnifico il mettere le cose a posto nella vera vita: qui tutto è parvenza, illusione e inganno – i veri valori qui nessuno li conosce”.

Diceva di sé: “Quante belle scoperte in Paradiso! Il povero P. Mariano si vedrà che era un semplice piffero suonato da labbra invisibili”. Se padre Mariano era la punta di diamante, non bisogna sottovalutare il lavoro di chi rimaneva nelle retrovie. Per questo confidava a suor Giuseppina: “(la trasmissione) Chi è Gesù raccoglie i massimi consensi. Il Signore mi ha proprio “ispirato” quando ho pensato di fare questa rubrica – e Lei ne sa qualcosa, briccona sorella spirituale, che lavora in silenzio con il sacrificio e la preghiera, come l’ape silenziosa”.

La comunione dei santi è una realtà indiscutibile. Lui semina, altri fanno germogliare, lui predica e altri nel silenzio pregano e offrono a Dio una vita di penitenza e amore per la conversione dei fratelli.

Dirà: “È questo olocausto della clausura, ignorata per sempre dagli uomini, ma tanto cara al Signore” che ottiene le grazie dal Signore e non le parole del frate. Quindi per la riuscita della predicazione prima di tutto mettersi davanti al Signore e chiedere cosa dire e come dirlo per attirare a Lui le anime. Poi avere chi prega per la riuscita del proprio lavoro, che intercede continuamente per i fratelli ai quali va annunciata la Parola di Dio. È questa l’opera principale dei monasteri di clausura che accompagnano tutta l’attività pastorale della Chiesa.

Mai si devono disgiungere l’azione e la contemplazione nella visione cattolica dell’esistenza. Non ci può essere l’una senza l’altra. Anche nel campo specifico della predicazione è quanto mai necessario creare un solido legame tra chi ha il mandato di annunciare il Vangelo e chi ha il compito, nascosto ma non meno fecondo, di pregare per la buona riuscita dell’annuncio.

E per questo motivo che Giorgio La Pira scrisse: “Si cerca oggi con tanta passione – ed è giusto farlo – la produzione e il dominio della energia nucleare: ebbene: ecco qui un altro tipo di , di energia divina immessa nella storia degli uomini! È l’orazione connessa col mistero della Croce e diventata acqua viva – la grazia (la vita stessa di Dio) – che si riversa fecondatrice su ciascuno e su tutti”.

E ancora Giorgio La Pira a ricordarci che “la più potente forza storica, che muove i popoli e le nazioni, che finalizza la storia intera è l’orazione!”. Tanto che qualcuno afferma che la preghiera è il cuore dell’evangelizzazione. Per tornare a padre Mariano va detto che il suo impegno alla televisione gli portava via tempo ed energie e per questo motivo, all’inizio della sua attività televisiva, aveva scritto al Ministro Provinciale dei cappuccini per chiedere un collaboratore. Non gli venne dato nessun aiuto e fu costretto a continuare da solo quest’immensa opera di evangelizzazione.

Questo perché, come ci ricorda il cappuccino, anche tra i suoi confratelli pochi capivano “il valore eccezionale di questo apostolato televisivo, arma di oggi e dell’avvenire per conquistare anime a Cristo”. Una caratteristica fondamentale di questo frate era la misericordia verso tutte le persone. Per attirare gli uomini a Dio non servono la severità e la durezza ma la bontà e la pazienza. Sul suo volto era sempre stampato il sorriso di un vero e proprio giullare di Dio che esprimeva la perfetta letizia francescana.

Un brillante comunicatore

Un suo biografo ha indicato tre caratteristiche nella sua predicazione: chiarezza, brevità, incisività. Un giornalista americano scrisse che il programma di padre Mariano: “stimola l’interesse dei telespettatori; e così il tempo della trasmissione non risulta mai noioso e comunque mai troppo lungo”, due caratteristiche queste quasi sempre presenti nelle prediche che ascoltiamo nelle nostre chiese. Il cappuccino Giancarlo Fiorini scrive: “I contenuti erano ridotti all’essenziale e venivano proposti in piccole dosi, intervallandoli con riferimenti a fatti e persone, ad esperienze personali, ad aneddoti e perfino a barzellette. Era un discorso facile da capire ma pieno di contenuto esistenziale”.

E ancora: “In ogni trasmissione poi citava degli esempi o dei fatti, intercalandoli con riflessioni teoriche. Sorprende la conoscenza di tanti episodi e frasi significative, di persone di ieri e soprattutto di oggi, di iniziative valide e di movimenti che perseguono finalità positive; in questo era agevolato dalla passione per la lettura e dal suo schedario (o zibaldone, come lo chiamava), contenente oltre cento cartelle ordinate per argomenti, che aggiornava di continuo. A chi non condivideva l’alternanza nell’esposizione di idee e fatti concreti, rispondeva che l’esempio, oltre a richiamare l’attenzione, viene compreso subito, si ricorda più facilmente ed è uno stimolo per approfondire e personalizzare. Inoltre era convinto che conoscere l’esperienza spirituale di cristiani autentici, di convertiti e di uomini illustri del nostro tempo, ha una forza trascinante ben superiore ad ogni discorso: un fatto vale cento ragionamenti”.

Diceva: “La Chiesa vuole – e quanto spesso lo ripete! – che l’omelia della messa sia breve, breve: non passi i dieci minuti. Perché un discorso sia immortale – pare che la Chiesa dica, raccomando la brevità ai ministri di Dio – non è necessario che duri eternamente. Economia nelle parole: come se quello che si dice si dovesse telegrafare per esempio in America, con la tariffa – non indifferente – di a parole”.

Il suo parlare era fluido, brillante ed aderente alla vita. La capacità di sintesi, il modo avvincente con cui raccontava le cose e il calore umano che emanava dalla sua persona attaccavano il telespettatore al teleschermo. E poi la Grazia di Dio faceva il resto, toccando i cuori e le menti, provocando conversioni, cambiamenti di vita, suscitando il desiderio di una maggior intimità con Dio e un maggior amore ai fratelli.

Gli stessi indici di gradimento gli davano ragione: oscillavano tra il 77 e l’81%, indici mai più raggiunti nella storia della televisione italiana. Basti pensare che la trasmissione Lascia o raddoppia, condotta da Mike Bongiorno, raggiunse l’indice di gradimento del 74 nel 1957, del 67 nel 1958 e del 56 nel 1959. Morirà il 27 marzo del 1972 a Roma. È in corso il processo di beatificazione.

Il cardinale Ugo Poletti, nell’omelia funebre, così si espresse: “Era come vedere ancora san Francesco, con un largo sorriso sul volto, con la gioia che sprizza dagli occhi, con una disponibilità per quanti volevano chiedergli qualche cosa, con la semplicità che disarma e conquista, con quel linguaggio caldo, carico di umanità, e di fede”. (da Avete finito di farci la predica? Riflessioni laicali sulle omelie – Effatà Editrice 2011)



fonte: http://www.libertaepersona.org/dblog/

venerdì 22 luglio 2011

La ritualità cattolica e il dogma eucaristico, come intesi prima del Concilio Vaticano II, restano vitale orizzonte della nostra vita liturgica


Pubblichiamo una vecchia, ma molto interessante intervista che il prof. Pietro De Marco rilasciò a Roberto Beretta,giornalista di "Avvenire", per l'edizione on line di "Toscana Oggi" e per il mensile "Il Timone".




D – Perché, da un lato, “restaurare” una liturgia mai abrogata e, perché, dall’altro, se era il latino l’obiettivo, non promuovere la forma latina del Messale di Paolo VI invece di tornare a quello di Pio V? In più, tornare a Pio V non è forse regredire agli “abusi” del passato per rimediare a quelli del presente?



R. – Vi è un aspetto tecnico giuridico che non è mio mestiere trattare, anche se mi cimenterei volentieri. Certo è che le dichiarazioni di non abrogazione della “forma antica del Rito romano” si sono moltiplicate di recente, ma lo stesso cardinale Jorge Medina Estévez, cui dobbiamo affermazioni nette in proposito, sembrò adombrare in passato, firmando nel 1999 come prefetto della congregazione per il culto divino le risposte ai quesiti posti da Gaetano Bonicelli, allora arcivescovo di Siena, una tacita abrogazione da parte di Paolo VI. L’argomento "e silentio" relativamente agli atti di Paolo VI, che oggi pesa correttamente a favore della non abrogazione tacita, è stato a lungo usato in direzione opposta.

Inutile ripetere quello che troppe voci hanno attestato recentemente: gli ordinari amministravano la concessione della celebrazione dell’anticus ordo missae con molta parsimonia, forse apprensione, talora ostilità, in sostanza troppo ad libitum, nonostante il cosiddetto indulto della "Quattuor abhinc annos" risalisse al 1984 e il più deciso motu proprio "Ecclesia Dei" – ancora un atto del vescovo di Roma in prima persona! – al 1988.

La decisione di Benedetto XVI di sottrarre la celebrazione della messa tridentino-gregoriana alle contingenze locali è un ammirevole atto d’imperio, quale attiene alla missione petrina. La "Summorum pontificum" risolve i tentennamenti e le resistenze perenni nelle Chiese locali, e tra gli specialisti, alla luce di una convinzione maturata in molte sedi, anche entro la congregazione per il culto divino, da oltre un decennio. In effetti una svolta è in atto già nel 1996, con l’avvio della preparazione della Editio typica tertia del Messale di Paolo VI, ed è confermata dalla sua promulgazione (2000) ed edizione (2002).

Nella Institutio del Messale non solo si rafforzava il richiamo ad un massimo di rigore (a fondamento teologico) negli “adattamenti” di gesti e parole a situazioni, non solo si aveva la fermezza di dire fine alla Stagione delle “sperimentazioni”, ma fu ulteriormente marcata l’essenza sacrificale del rito e l’infungibilità del sacerdote. La Institutio generalis del 2002 (ma anticipata nel luglio 2000) e alcuni attenti, non minimizzanti, commentari delle sue novità vanno assolutamente letti; essa si trovò naturalmente tra i due fuochi della minimizzazione di parte “riformatrice” e della insoddisfazione di parte “tradizionalista” non
scismatica.



D. – Perché, a maggior ragione, questa correzione di rotta non basta agli occhi del pontefice e, con ogni probabilità, di altri?



R. – Non basta perché non si tratta solo di venire incontro caritatevolmente (nonché secondo verità) ad istanze di una frammentata minoranza. Si deve pur riconoscere (tardivamente? questo non vale certo per Joseph Ratzinger) che alcune delle severe riserve che vennero dall’interno della Chiesa agli indirizzi della riforma liturgica degli anni Sessanta, riserve coltivate poi per decenni da ambienti diversi e certamente non scismatici, hanno conservato e visto confermate nel tempo le loro buone ragioni.

Non sfuggì e non sfugge a critici più severi che, nelle mani dei liturgisti e biblisti (pochi i teologi) del Consilium ad exequendam constitutionem de sacra liturgia, la messa della tradizione secolare tridentino-gregoriana si stava riducendo alla figura-evento della Cena, della sua commemorazione più che
riattualizzazione, sotto la presidenza del presbitero.

Enorme il rischio, col tacere l’evento culmine della transustanziazione e sottovalutare la natura sacrificale e propiziatoria del rito, di smarrire la peculiare realtà della messa.

Si sostenne anche, e sottilmente a mio parere, che la nozione di presenza veniva equivocata, nei testi prodotti dal Consilium, col porre sullo stesso piano la presenza di Cristo nella Parola e la presenza nel sacrificio eucaristico. Le riserve furono e restano eccessive, ed eccepibili nel merito; perché furono però preveggenti quanto alla recezione delle “riforme” nelle Chiese locali?

Una domanda importante; dovremo raccogliere il coraggio e l’intelligenza per rispondervi. Resta, a mio parere, colpevole la sottovalutazione, spesso sprezzante, delle critiche conservatrici da parte dei liturgisti impegnati a più titoli nella “riforma”. Eppure ebbero dinanzi agli occhi le derive teologiche e pastorali puntualmente e precocemente (già negli anni Sessanta) realizzate. È vero che negli anni Sessanta-Settanta, non solo nella Chiesa, gli occhi di moltissimi (e non mi tiro fuori iuventute mea) erano come accecati.

Si capisce che la disciplina del nuovo rito, anche nella revisione del 2000-2002,non solo non basti ai “tradizionalisti” (non sarebbe decisivo, considerata la loro rigidità) ma, ciò che conta, “non basti” a Roma. Essa non è, ovvero ha mostrato di non essere, freno in sé sufficiente alle concezioni banalizzanti, attivistico-comunitarie, della materia liturgica che sono subentrate alle sfide manipolatorie di qualche anno fa. Né basta il latino della typica tertia: non è il latino il problema, ne è solo un corollario.

La nuova legittimazione erga omnes della intatta validità (ma legittimità e legittimazione non vanno di pari passo) del Missale romanum tridentino o di Pio V (nelle revisioni posteriori, fino a quella pio-giovannea del 1962), e la sanzione positiva della sua scelta alternativa libera, decise da Benedetto XVI, vanno oltre le pratiche di pacificazione, quanto a intentio magisteriale. Esse dichiarano che la ritualità cattolica e il dogma eucaristico, come intesi prima Concilio Vaticano II, restano vitale orizzonte della nostra vita liturgica.

Inoltre, nel permettere che due diverse sensibilità si affianchino liberamente e con pari dignità, Benedetto riconduce la forma cattolica alla sua essenziale natura di complexio (espressione che preferisco di gran lunga a “diversità” o “pluralismo”: complexio è diversità necessariamente articolata in unità secondo il senso).
Sottolineo ancora che la sensibilità e la determinazione del pontefice non sono, ovviamente, isolate. Le opinioni ai vertici della congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti sembrano decisamente favorevoli a restituire alla tradizione liturgica preconciliare e al lavoro del Concilio come tale il suo valore intrinseco e il suo peso regolativo. Anche a difesa delle diverse forme di attuazione della riforma liturgica, poiché dall’arbitrio nulla viene risparmiato, anzitutto ciò che si presenta come nuovo.



D. – Ma valeva comunque la pena di emettere il motu proprio, di fronte ai rischi di conflittualità e ai rischi di recupero di antiche carenze e “abusi” legati alla liturgia tridentina?


R. – La ricchezza tradizionale intera del culto cristiano è, per Benedetto, il canone cui attingere nuovamente. È criterio strettamente connesso all’essenza stessa dell’analogia fidei. L’obiettivo della “riconciliazione interna nel seno della Chiesa” diviene parte di un più ampio intervento per l’intera comunità credente, indipendentemente da storiche tensioni con le minoranze tradizionaliste.

Conosciamo la reazione, spesso innervosita, degli episcopati. La moderatio sacrae liturgiae esercitata dal vescovo dovrà, comunque, essere intesa dagli ordinari in conformità alla intentio del pontefice, con più attento senso, rispetto al passato (almeno per alcuni casi), delle necessità della Chiesa e della struttura della Tradizione.

Questo quadro può essere generatore di conflittualità intraecclesiale? Avrei voglia di replicare che l’argomento della conflittualità (come rischio, anche spirituale o morale) è spesso usato per proteggere i gruppi, o gli stati di cose, “egemoni” o prevalenti.

La libera opzione del Missale romanum del 1962, che potremmo chiamare tridentino-giovanneo, agirà come paradigma stabilizzatore delle fluttuanti liturgie in lingua corrente. Il cardinale Karl Lehmann ha riconosciuto in questa stessa direzione, mi pare, che il motu proprio è un buon motivo per promuovere “con nuova attenzione una celebrazione degna dell’eucaristia e degli altri riti sacramentali”. Chiaramente per la Chiesa tedesca l’obiettivo della “riconciliazione interna nel seno della Chiesa” (formula del cardinale Camillo Ruini, in "Avvenire" dell'8 luglio) diviene un intervento medicinale a spettro ampio, indipendentemente dalla presenza di minoranze scismatiche.

Si conferma, a mio avviso, con la "Summorum pontificum" il taglio inconfondibile del programma di Benedetto XV. La sua visione strategica opera ad integrazione-compimento del magistero di Giovanni Paolo II, con quelle caratteristiche di fermo discernimento sui temi della verità e della ragione che il cardinale Ratzinger aveva praticato come prefetto della congregazione per la dottrina della fede. Rendere esplicita e governare fermamente, nell’unità, una feconda complexio è in profondità la funzione petrina. Ne valeva, e ne varrà, sicuramente la pena.



D. – I rilievi critici sul rito antico non hanno peso? Scarsa presenza della Parola e del popolo, ritualismo e tentazione “magica”, infine ”una liturgia che dimentica la bellezza del simbolo per diventare pedantemente allegorica”...



R. – Si tratta, anzitutto, di una caratterizzazione deteriore quanto corrente del rito antico, che chi lo ha praticano e interiorizzato nella sua formazione cristiana contesta fermamente. Il rito antico porta con sé, ed esprime in gesti e parole, ricchezze insostituibili. Ricordo che i maestri della primissima fase della riforma liturgica, da Martimort a Jungmann al nostro Righetti, al grande liturgista Odo Casel (meno prossimo al Concilio: era morto nel 1948) e tanti altri, conoscevano la magnificenza simbolica, non “allegorica”, del rito cristiano entro e a partire dalla liturgia gregoriano-tridentina, che non hanno mai pensato di sconvolgere.

Opere di filosofia liturgica – se posso esprimermi così – che hanno nutrito tante generazioni, quelle di Guardini e di Hildebrand, nascono entro lo stesso ordo e la stessa esperienza. Così "Il senso teologico della liturgia" di Cipriano Vagaggini.
Una frattura vi fu. Infatti, che hanno a che fare Casel o Jungmann o il magnifico “saggio di liturgia teologica generale” di padre Cipriano (la quarta edizione è del 1965), o la stessa costituzione liturgica del Concilio,
con gli indirizzi della “riforma” diffusa e dello stesso Consilium ad exequendam?

In questa frattura prende corpo, oserei dire, ufficiosamente nella Chiesa lo stereotipo evocato nella domanda. Le critiche protestanti e modernistiche al ritualismo e al magismo della messa avevano sempre ricevuto la loro adeguata risposta. Ma il “riformatore”, questa volta il riformatore cattolico, ha bisogno di
un contromodello, di un paradigma negativo, e non va per il sottile.

Certo, la riforma forse non guidata ma disciplinata, ed era difficilissimo, da Paolo VI ha introdotto nell’actio liturgica più Scrittura, più memoriale e più popolo. Roma riuscì allora con difficoltà (per qualcuno non vi riuscì del tutto) ad evitare la deriva “protestante”. Deriva temibile, perché lex orandi e lex credendi sono legate tra loro e perché, comunque, nella Tradizione tutto è fortemente connesso. Sequenze intere di elementi fondamentali simul stant, simul cadunt. Non nascondiamoci che molte élites teologiche cattoliche, specialmente nelle cerchie europee ecumenizzanti, lo sapevano e lo speravano.

Non si tratta, dunque, di smarrire quello che della vita liturgica attuale apprezziamo; né è ragionevole pensare che il motu proprio abbia non solo l’intentio – che non ha – ma la forza obiettiva di produrre effetti indesiderati del genere e su larga scala. Ma dobbiamo saper prendere atto che Parola e popolo sarebbero da soli poca cosa (e davvero un po’ magico-teurgica) senza la realtà del Corpo mistico e del "mirabile mysterium praesentiae realis Domini sub speciebus eucharisticis": realtà che precede, fonda e trascende la comunità orante.

mercoledì 20 luglio 2011

La musica per riscoprire il mistero eucaristico




Intervista a Marco Ronchi, autore di “La musica nella liturgia


di Antonio Gaspari



ROMA, mercoledì, 20 luglio 2011 (ZENIT.org).- Il centro della fede cattolica passa per il mistero eucaristico, celebrato nella liturgia di ogni messa.

Questa è una verità indiscussa che però risulta intaccata e banalizzata dal processo di secolarizzazione.

Tuttavia non basta l’analisi critica per recuperare la bellezza e la passione per la liturgia. Così Marco Ronchi, direttore di cori liturgici, esperto di musica sacra e pratica del canto Gregoriano, ha scritto il libro “La musica nella liturgia” edito da Lindau.

Si tratta di un libro in cui si spiega il contributo della musica sacra nell’attribuire forma e significato al sacrificio eucaristico.

“Attraverso i principali testi del magistero e di autori fedeli ai valori tradizionali della liturgia cattolica – si legge nella presentazione –, il libro offre indicazioni utili per restituire alla musica sacra la propria funzione essenziale all’interno del rito eucaristico e a quest’ultimo la dignità che gli spetta in quanto mistero divino”.

Per meglio comprendere il senso e i misteri della liturgia e le sue relazioni con la musica sacra, ZENIT ha intervistato Marco Ronchi.

Perché è così importante la liturgia nella pratica religiosa?

Ronchi: Voglio rispondere servendomi di una testimonianza d'eccellenza: quella dei santi. Nel corso dei due millenni di cristianesimo sono tantissimi i santi che hanno espresso il loro attaccamento alla celebrazione dell'Eucarestia, considerandola elemento imprescindibile per la vita di fede. E loro se ne intendevano di fede! Padre Pio affermava che durante la celebrazione della Messa provava tutto ciò che aveva provato Cristo durante la sua Passione e la sua crocifissione. E non si riferiva a un vago sentimento o a semplici pensieri, ma alle vere e proprie sofferenze corporali e alle sensazioni fisiche che Gesù aveva sperimentato sul Calvario. Penso che questo sia un aspetto particolarmente importante per i nostri tempi, colmi di relativismo e di soggettivismo (ciò che vale per me è ciò che io penso e provo): l'Eucarestia è il "luogo" dove siamo certi di incontrare Cristo così come Lui intende presentarsi a noi, secondo le sue condizioni e le modalità da Lui stabilite ("Fate questo in memoria di me"); possiamo così perdere noi stessi per immedesimarci in Lui, per fare le stesse esperienze che il nostro Salvatore ha fatto durante la sua permanenza su questa terra. E queste condizioni sono proprio rappresentate dalla liturgia, cioè dall'insieme di pratiche e indicazioni che riguardano il rito sacro. Non quindi un'esperienza soggettiva, non un'esperienza di fede secondo i nostri gusti, ma un incontro reale, "fisico" col Dio vivente. Comprese le sofferenze che Egli ha accettato di subire attraverso il proprio Figlio incarnato.

Che relazione c’è tra la musica sacra e la liturgia?

Ronchi: Potremmo dire, forzando un po' le cose, che non c'è alcuna relazione fra liturgia e musica, in quanto sono la stessa cosa. La musica sacra è liturgia, sempre che, naturalmente, si tratti davvero di musica liturgica. Le preghiere, le invocazioni, le antifone sono liturgia. I gesti, i riti, i paramenti sacri sono liturgia. Per divenire parte costituente di un tutto che è da considerare alla stregua di un organismo vivente (in questo modo Benedetto XVI si riferisce alla liturgia) non è però sufficiente introdursi "di soppiatto" in esso, ignorando l'essenza del corpo ospitante: il risultato che si rischia di ottenere è quello di provocare un rigetto o di causare una malattia generale dell'organismo. Fuori di metafora, non è sufficiente comporre musica, anche se ben riuscita (per non parlare di quella sgradevole) e basata su un testo religioso, ed eseguirla poi nel corso della Messa per considerarla automaticamente musica liturgica. La musica liturgica è preghiera, persino quando è pura musica strumentale, priva di parole: si tratta anche in questo caso di una forma di comunicazione, di un'espressione sincera di lode, di una richiesta di perdono, rivolta al Padre celeste. Ci sono concetti, soprattutto fra quelli più sublimi, che non possono essere espressi attraverso le semplici parole; ecco che intervengono in aiuto la musica, i gesti, i segni, i riti, i simboli. Tutti elementi fondamentali della liturgia, purché corrispondano perfettamente alla natura della celebrazione eucaristica così da immedesimarsi in essa, farsi un tutt'uno con essa.

Lei sostiene nel libro che la musica sacra può fornire un contributo determinante per contrastare il riduzionismo e la banalizzazione della pratica liturgica. Ci può illustrare il suo punto di vista?

Ronchi: Il capitolo centrale del libro si occupa del fenomeno del sacro, che costituisce la chiave principale di lettura della vita di fede in generale e del rito eucaristico in particolare (non a caso chiamato "sacramento"). Si può definire come sacro tutto ciò che ha a che fare con Dio, in opposizione alla sfera del profano, che è assenza di Dio o lontananza da Lui. Nella Bibbia questa distinzione è continuamente richiamata da Dio stesso, con l'invito, rivolto al popolo ebraico, a non contaminare ciò che Gli appartiene con pratiche o elementi profani. Ma, contrariamente a ciò che qualcuno crede, la distinzione fra sacro e profano non viene meno nel Nuovo Testamento; proprio nel discorso eucaristico, pronunciato immediatamente prima della Passione e riportato dal Vangelo di Giovanni, Gesù ribadisce a più riprese la distanza fra la dimensione mondana e la vita di fede che contraddistingue i veri discepoli ("voi non siete del mondo"). La liturgia ha a che fare essenzialmente col sacro, è espressione sacra per eccellenza, cioè primaria manifestazione di Dio nel mondo della carne e della materia. Tutto ciò che ne fa parte deve quindi contribuire massimamente a garantire questa connotazione del rito. La musica ha uno spiccato potere di caratterizzazione. Per fare un esempio comprensibile a tutti, se ascoltassimo in lontananza della musica ad alto volume e fortemente ritmata saremmo in grado facilmente di affermare che poco lontano si trova una discoteca, così come se ci giungesse alle orecchie un suono di trombe e tamburi al ritmo di marcia ci aspetteremmo di vedere una parata militare che si avvicina. Non ci è necessario conoscere in anticipo le melodie che ascoltiamo: nella maggior parte dei casi basta lo stile generale della musica per consentirci di individuare con precisione il corrispondente genere musicale. La musica sacra non fa eccezione: esistono precisi aspetti stilistici e tecnici che contraddistinguono le sacre melodie, e che, di conseguenza, fanno in modo che queste contribuiscano a rendere la liturgia nel suo complesso sacra.

Di quale musica e di quale liturgia parla?

Ronchi: Vorrei evitare di parlare di una certa musica e di una certa liturgia. In tanti, in troppi l'hanno fatto e continuano a farlo, presentando la propria opinione e il proprio punto di vista sul tema. Martin Mosebach, nel suo libro Eresia dell'informe, afferma giustamente che ogni riforma liturgica porta con sé un'inevitabile conseguenza negativa: ci costringe a parlare della liturgia e a perdere l'innocenza di assumerla come qualcosa di donato da Dio, qualcosa che ci è consegnato dai Cieli. Ho cercato quindi, ahimè, di parlarne, andando però alla fonte e, non potendo interrogare direttamente Colui che l'ha istituita, mi sono rivolto al suo Corpo mistico, la Chiesa. Ho quindi interrogato i documenti del Magistero, le Encicliche dei papi (invito caldamente a riscoprirle, poiché contengono tutto il patrimonio di fede che ci è stato tramandato, al di fuori di tanti discorsi, articoli di giornale e dibattiti che spesso non fanno altro che allontanarci dalle genuine radici della nostra fede), le costituzioni del Concilio Vaticano II. Devo naturalmente assumermi l'inevitabile responsabilità dell'interpretazione, che è mia e quindi fallibile. Quel che emerge è un profilo di Messa che è molto più sacrificio (ecco che ricompare ancora la stessa radice di sacro) che non momento conviviale o raduno festoso, molto più manifestazione di Dio che atto creativo dell'uomo, espressione di fede sicuramente contigua alla sfera del simbolico e dell'arte, essenzialmente protesa a educare e accompagnare l'uomo nel proprio cammino di fede. E la musica sacra svolge in essa un ruolo essenziale per il raggiungimento dei medesimi scopi.

Quali sono le condizioni per una musica propriamente liturgica?

Ronchi: E' sorprendente notare come, nell'arco di più di un secolo, le indicazioni che la Chiesa ci offre per qualificare la musica come liturgica siano rimaste sostanzialmente immutate. Da san Pio X, che nel 1903 scriveva il motu proprio Tra le sollecitudini, attraverso gli scritti e i documenti di papa Pio XII, papa Paolo VI, il Concilio Vaticano II, il beato papa Giovanni Paolo II, fino all'attuale papa Benedetto XVI, sempre il modello che viene additato è quello del canto gregoriano e della polifonia del '500. Il che non esclude affatto che si possa comporre musica liturgica anche ai nostri tempi (molti autori lo fanno, nel completo rispetto delle indicazioni del magistero), ma sempre in conformità agli stilemi, alle caratteristiche melodiche, ritmiche e armoniche che sono proprie o del gregoriano o della polifonia sacra. E' inoltre considerato un requisito essenziale il fatto che si tratti di vera arte. Siamo di fronte però, temo, a un'indicazione estremamente fuorviante, non perché inesatta o imprecisa, ma perché non facilmente comprensibile all'uomo contemporaneo. Non sappiamo infatti più cosa sia vera arte. La prima idea che ci viene in mente pensando all'arte e agli artisti è quella di creatività, di espressione libera delle proprie sensazioni e dei propri sentimenti, di improvvisazione spontanea. La Chiesa è in grado, anche su questa materia, di riportarci alla verità e all'essenzialità dei fenomeni, e ci spiega quindi cosa è vera arte, svelando in questo modo l'intimo legame che esiste fra l'espressione artistica e l'Eucarestia. E accompagnandoci a riscoprire il significato autentico della partecipazione ai sacri misteri e il ruolo determinante che la musica, quale vera espressione artistica, ricopre all'interno della celebrazione.


fonte: http://www.zenit.org/article-27463?l=italian

Nonostante la secolarizzazione, cresce la devozione mariana





Intervista a monsignor Nicola Bux




di Antonio Gaspari



Nonostante la secolarizzazione c’è un fenomeno che stupisce sociologi e studiosi della religione. Si tratta della devozione mariana, che sembra resistere a tutto.

Centinaia di milioni di fedeli pregano ogni giorno il rosario e alimentano i gruppi di preghiera ed i pellegrinaggi mariani.

I santuari mariani sono sempre più frequentati, e moltissime vocazioni provengono dai gruppi di devozione mariana.

Il fervore mariano cresce particolarmente nei momenti di crisi.

Per cercare di capire e di discernere un fenomeno così vivo nella Chiesa cattolica, ZENIT ha intervistato monsignor Nicola Bux,teologo e liturgistaconsultore dell’Ufficio delle Celebrazioni Liturgiche del Sommo Pontefice.


Alcuni, anche all’interno della Chiesa, sono critici verso l'eccessivo devozionalismo mariano. Lei cosa ne pensa?


Bux: È il segno che la Madonna è presente e opera per condurre l’uomo a Gesù suo figlio. Lasciarsi condurre vuol dire affidarsi totalmente a Dio, in latino “devovere”, da cui viene il termine devozione. Senza la devozione l’uomo non si salva come insegna san Francesco di Sales. Non mi sembra che oggi si ecceda nella devozione, semmai avviene il contrario, questa è assente; non pochi sacerdoti e fedeli vivono la Liturgia senza devozione, perciò non si consegue la salvezza dell’uomo. Manca infatti la glorificazione di Dio quale premessa indispensabile, e questa si esprime proprio con la devozione.


La Vergine Maria ha un posto centrale nella teologia e nella storia della Chiesa cattolica. Può spiegarci il perché?

Bux: Grazie a Lei, al suo assenso, il Verbo eterno si è fatto carne, cioè è potuto entrare nella storia umana. Ogni uomo, in certo senso, è chiamato ad offrire la propria carne a Dio per entrare nel cuore degli uomini, come Maria Vergine. Ma bisogna essere vergini, cioè non contaminati, non succubi della mentalità mondana. Solo così si può collaborare alla redenzione del mondo, sull’esempio della Madonna.


Il fenomeno della apparizioni solleva critiche, soprattutto dal mondo della scienza. La Chiesa è molto prudente e cauta. Qual è il suo parere in proposito?


Bux: San Basilio ricorda che tutto ciò che ha un carattere sacro, deriva dallo Spirito Santo. Questo porta a riflettere sulle manifestazioni del sacro, per cercare di comprendere se siano effetto dei doni dello Spirito Santo. Tra questi va annoverato il dono della visione mistica. La teologia mistica ha studiato molto bene uno dei fenomeni più noti: la "visione". La visione, secondo Sant'Agostino, può essere di tre tipi: corporale, spirituale o immaginaria, intellettuale. Una delle più note visioni è quella dell'Apostolo Paolo sulla via di Damasco, quando vide una luce abbagliante: era una visione corporale, ossia attraverso i suoi occhi fisici. Nello stesso tempo gli venne manifestata in modo immaginario la sembianza di Anania, da cui avrebbe dovuto recarsi: quindi la visione oltre che corporale fu anche immaginaria. Infine, l'Apostolo nel medesimo istante intese con la sua mente il disegno della volontà di Dio su di lui: ecco la visione intellettiva. Nell'attuale dibattito pro e contro le apparizioni diMedjugorje, sarebbe utile confrontarsi con tali tipologie della mistica, al fine di acclarare se e quale tipo di visione i "veggenti" abbiano avuto. Si può aggiungere che solo in caso di visione corporale si sarebbe di fronte ad una apparizione oggettiva.


A Medjugorje si verificano fenomeni straordinari, soprattutto per quanto riguarda il numero delle confessioni, la passione per la preghiera, le conversioni numerose e sorprendenti. Perché accade tutto ciò?


Bux: Da molti, anche nella Chiesa, si sono perse di vista la natura ed il significato dei sacramenti, soprattutto l’eucaristia e la penitenza. Essi sono i mezzi ordinari con cui il Signore opera per salvare l’uomo e ricondurlo a sé. Ovunque i sacramenti vengono amministrati e celebrati, come ricorda in una celebre omelia San Cirillo di Alessandria, tenuta ad Efeso durante il Concilio che definì la Vergine Maria quale Madre di Dio, proprio grazie alla sua intercessione le genti sono condotte alla conversione.


ROMA, martedì, 19 luglio 2011 (ZENIT.org)

martedì 19 luglio 2011

Il Concilio Vaticano II: rottura o continuità con la Tradizione?



Da Libertà e Persona http://www.libertaepersona.org/



di Massimo Tonon



Nell’affrontare l’interpretazione del Concilio vanno considerati i due orientamenti con i quali esso viene valutato: quello della “rottura” e quello della “continuità” con la tradizione, cioè con il magistero precedente.
Queste due definizioni sono state formulate da Benedetto XVI nel discorso rivolto alla Curia il 22 dicembre 2005, nel quale auspicava che si guardasse al Concilio Vaticano II alla luce “dell’ermeneutica della riforma, del rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto-Chiesa che il Signore ci ha dato”, contrapponendo questa interpretazione all'“ermeneutica della discontinuità e della rottura”, che invece considera il concilio come una “transizione epocale”, secondo le parole di Giuseppe Alberigo.

L’“ermeneutica della continuità” non è una novità: essa è presente nel Magistero pontificio fin dall’avvento di Giovanni Paolo II, il quale inaugurò una “lettura normalizzante” del Concilio.
Secondo l’interpretazione dell’”ermeneutica della discontinuità e della rottura”, invece, alcune peculiarità del concilio portavano necessariamente a ritenerlo un momento di cesura tra il periodo post-tridentino e il nuovo corso che a esso sarebbe seguito.
Per questo, nella valutazione globale del Concilio Vaticano II bisogna tenere conto anche, e forse soprattutto, della profondità del rinnovamento che esso portò in una serie di campi fondamentali, talvolta tornando anche a tradizioni ormai abbandonate da secoli (si pensi, per esempio, alla reistituzione del diaconato permanente, e alla possibilità per i sacerdoti di concelebrare) e restituendo il giusto valore alle chiese locali e alle diverse culture, che il monolitismo post-tridentino aveva fatto perdere di vista, costringendo la Chiesa cattolica ad adattarsi alla situazione peculiare del mondo moderno.

Alla luce di tutto questo, un esclusivo riferimento ai testi, benché necessario, sarebbe riduttivo e non esaustivo, perché l’identità del Concilio è stata determinata soprattutto dall’effettivo svolgimento delle assemblee e dalla ricezione dell’evento da parte della comunità dei fedeli. Il significato precipuo del Concilio, quindi, secondo questa visione, consiste nell’“aver impegnato risolutamente la Chiesa sulla via dell’avvenire con una triplice correzione al tempo stesso pastorale, spirituale e intellettuale”. L’”ermeneutica della continuità”, invece, non partiva da una visione storica dell’evento, bensì da una interpretazione teologica dello stesso, come si evince anche dal discorso di Benedetto XVI; essa lo poneva, per definizione, in continuità con tutta la tradizione della Chiesa e lo considerava soltanto uno dei ventuno Concili ecumenici. Questa ermeneutica riteneva insostenibili, da un punto di vista teologico, i due termini pre- e post-conciliare perché, come ebbe a dire il card. Ratzinger, “l’unica maniera di rendere credibile il Vaticano II è presentarlo chiaramente com’è: una parte dell’intera e unica tradizione della Chiesa e della sua Fede”.
Per i sostenitori di questa interpretazione, il Concilio coincideva con i suoi documenti ufficiali, che dopo l’approvazione del papa erano diventati un atto del Magistero, se non infallibile, almeno autentico.
In questo senso, essi tendevano a far passare in secondo piano il dibattito conciliare e tutte le caratteristiche dovute al momento storico in cui si è svolto, vedendo nel concilio un momento di quella particolare categoria della storia che è chiamata “historia salutis”. Lo stesso mons. Lefebvre, a questo riguardo, diceva: ”Quello che può sembrare un voltafaccia non ha nulla che debba sorprenderci. Una volta che uno schema veniva promulgato dal papa, non era più uno schema ma un atto magisteriale, mutando perciò natura, […] io non posso separarmi dal Santo Padre: se il Santo Padre firma, moralmente io sono obbligato a firmare”.

Perciò la sola interpretazione autentica del Vaticano II, alla stregua di ogni altro Concilio, era quella che emergeva alla luce della fede e della tradizione: esso andava considerato quasi come una continuazione e un ulteriore “approfondimento” del Concilio Vaticano I e del Concilio di Trento.
Questa idea, che era alla base degli schemi preparatori, si accordava però male sia con le intenzioni di papa Giovanni XXIII, sia con quelle della maggioranza dei padri conciliari che, infatti, rifiutarono tutti gli schemi proposti, provocando la costernazione della minoranza, che tuttavia riuscì più volte a far emergere il proprio punto di vista.

Proprio questa situazione ha fatto sì che tra i fautori della continuità emergano due posizioni distinte: la prima, maggioritaria e presente soprattutto tra gli studiosi più vicini alla Santa Sede, che ritiene che i testi del concilio siano effettivamente in continuità con la tradizione, tra essi vi sono il card. Siri, o più recentemente mons. Guido Pozzo; la seconda, minoritaria, che sostiene ci siano nei documenti conciliari elementi di discontinuità con la tradizione, come Romano Amerio, e lo stesso mons. Lefebvre.
In un articolo apparso su Avvenire del 10 dicembre 2010, il prof. Corrado Gnerre ha definito queste due posizioni come “minimalista” e “massimalista”. “La ‘minimalista’, che afferma la continuità, ma conservando tutto com’è; la ‘massimalista’, che afferma ugualmente la continuità, ritenendo però necessario intervenire con un eventuale documento per annotare quelle parti dei testi conciliari che più difficilmente sono armonizzabili con i documenti del magistero precedente. È ‘ermeneutica della continuità’ in entrambi i casi. […] il Concilio Vaticano II è un fatto. Piuttosto da parte di costoro si vuole prendere in considerazione l’opportunità di andare molto più a fondo per capire davvero le cause di un ormai troppo lungo ‘inverno’ della Chiesa. […] Mi sembra che per la prima volta s’invochi da parte del Magistero un’ermeneutica per un atto del Magistero stesso, un atto per giunta pastorale, quindi che ha volutamente utilizzato un linguaggio che sarebbe dovuto essere quanto più possibile chiaro, semplice e aperto a tutti”.

Il problema che si pone, dunque, è inerente l’interpretazione del valore dei testi Conciliari. Se, dal punto di vista dell’”ermeneutica della rottura”, un superamento dei testi era plausibile in quanto il riferimento a essi non è esclusivo, questo era meno immediato per i sostenitori dell’”ermeneutica della continuità”, i quali li ritenevano costitutivi del Concilio stesso.
Per questo è molto importante cercare di capire il valore dato a un Concilio che, per la prima volta nella storia della Chiesa, è stato dichiarato – e si è auto-qualificato – come pastorale.

lunedì 18 luglio 2011

CIRCA L'ARTICOLO DI SEVERINO DIANICH




L'articolo “Missa antiqua o moderna?”, pubblicato su Vita pastorale n. 7/2011, pp. 16-18, a firma Severino Dianich, ha scandito in modo sconcertante il rintocco del quarto anniversario del Motu proprio Summorum Pontificum del 7 luglio 2007. L'autore colleziona, infatti, una serie di affermazioni in stridente dissonanza con la lettera e con lo spirito del Documento pontificio, del resto mai degnato di una citazione, come se non fosse il più autorevole intervento sulla questione. Forse un Teologo di valore, qual è Dianich, è dispensato dal prendere in seria e rispettosa considerazione il Magistero ecclesiale? Forse scambia, anche lui, l'intervento di Sua Santità Benedetto XVI per una benevola concessione a una minoranza di nostalgici? In realtà, trattasi di una approfondita riflessione sul problema teologico, serio, implicato in una Riforma liturgica di vasta e radicale portata, come quella prodotta in seguito al Concilio Vaticano II: avvenimento più unico che raro nella storia della Chiesa. Non dimentichiamo che la Chiesa nel corso della sua storia ha saputo coniugare un solido aggancio al principio della Tradizione ed insieme una certa duttilità ad adattare lo stesso principio a situazioni del tutto nuove: pensiamo per esempio al fatto che nel Secolo VI, si mal digeriva anche solo il minimo sospetto che Papa Gregorio Magno avesse modificato qualche uso liturgico romano, mutuando dal Rito bizantino (circa l'Alleluja, il Kyrie, il Pater e le vesti dei Suddiaconi); e che nel Secolo IX, mentre i Prelati tedeschi, confinanti infastiditi dalla nascita di una Chiesa particolare indipendente ai loro confini, nonché gli Esperti e i Prelati veneziani e romani, contestavano ai Missionari greci Cirillo e Metodio di aver osato introdurre la lingua parlata nella Liturgia presso i Popoli Slavi, appartenenti alla giurisdizione missionaria-patriarcale di Roma, Papa Adriano II approvò e benedisse i Libri liturgici presentati dai due santi Fratelli Missionari.


Ci permettiamo qualche osservazione su alcuni punti del predetto articolo.


L'Autore parte definendo “legittima promozione” il dispositivo del Motu proprio circa la Liturgia in rito tridentino, e mette in discussione la denominazione “antiqua”. In realtà, non di “promozione” si tratta, ma di chiarificazione di un fraintendimento generale: il Rito preconciliare, precisa il documento pontificio, “non è mai stato abrogato” (SP, 1). “Antiqua” è solo uno dei vari aggettivi appropriati alla Liturgia in uso nella Chiesa Latina fino al Concilio Vaticano II ed oltre. Non appropriazione indebita, ma solo conseguenza naturale della scelta di denominare “Novus” l'“Ordo Missae”, confezionato dall'apposita Commissione post-conciliare incaricata e avvallata da Papa Paolo VI.


Il Dianich continua sostenendo che la Commissione liturgica successiva al Concilio Vaticano II ha finalmente realizzato, a distanza di quattro secoli, quanto la Commissione liturgica del Concilio di Trento avrebbe voluto, ma non fu in grado di fare, se non “in piccola parte”, data l'inferiorità di mezzi e di uomini (?!), a disposizione in quel tempo. Con una strana trasposizione storico-ideologica, l'Autore immagina che Pio V avesse insediato una Commissione dopo il Concilio di Trento con le stesse intenzioni e gli stessi criteri della Commissione che ha prodotto la Riforma liturgica dopo il Concilio Vaticano II. Ma davvero Pio V e i suoi Esperti intendevano trasformare e adattare la Liturgia romana ai tempi moderni (di allora), abrogando la forma in uso, sotto accusa per abbandono delle forme più antiche, più autentiche per definizione? Le “sovrastrutture introdotte” erano davvero“infinite”? I Padri del Concilio e gli Incaricati del Papa, erano convinti che occorresse demolire l'edificio liturgico in uso, snaturato, secondo Dianich, dalla Devotio moderna-individualista, e ricostruirlo dalle fondamenta con un collage di antichità taglia-copia-incolla? Non pare proprio.


Nessun Cattolico, in quel tempo, dubitava che l'impianto dell'edificio liturgico non fosse più sostanzialmente sano e autentico. Secondo la convinzione comune, dagli Intellettuali agli Illetterati, il progetto originario non era mai andato smarrito e nessuno aveva mai osato modificarlo. Come avrebbe potuto accadere in una Chiesa attaccata scrupolosamente, da sempre, al principio “nihil innovetur”, specialmente nella Liturgia, realtà sacra e intangibile per eccellenza, fin nei minimi particolari? Qualche “sfrondamento” e qualche correzione erano ritenuti sufficienti per riportare il tutto al suo splendore più puro, che non era necessariamente lo stadio più arcaico.


Quanto alla lingua liturgica, il Concilio di Trento ammetteva senza difficoltà il pluralismo linguistico, e non solo linguistico, delle Liturgie orientali. Il pluralismo legittimo era fuori discussione anche all'interno della Chiesa Latina, dove restavano consentiti Messali alternativi a quello di Pio V, purché dotati di un minimo d'antichità. L'uso della lingua parlata in ambito liturgico, a istruzione e a edificazione spirituale dei Fedeli, non fu condannato, anzi fu caldamente raccomandato, purché integrativo e non esclusivo. Trento condanna solo chi sostiene che nella Chiesa latina “la Messa deve essere celebrata solo in lingua volgare (…); e che è da condannare dire sottovoce la parte del Canone e le parole della Consacrazione” (Sess. XXII, Can IX), e detto per inciso, affermazioni di tal fatta oggi sono diventate la nuova vulgata dei liturgisti. Tornando al tempo del Concilio di Trento si può dire che, data la situazione dell'Europa d'allora, teatro di una conflagrazione religiosa, culturale, politica a carattere nazionalistico, dagli esiti drammatici e imprevedibili, i Padri sanzionarono il principio tradizionale dell’unità linguistica ritenendo, tra le altre considerazioni, più sicuro per l'unità della Chiesa il mantenimento del Latino, come unica lingua ufficiale liturgica. Il Concilio Vaticano II esprimeva lo stesso giudizio ancora nel 1964: “Linguae latinae usus, salvo particulari iure, in Ritibus latinis servetur” (SC, 36).


Che la lettura della Sacra Scrittura offerta dal Nuovo Lezionario successivo al Concilio Vaticano II sia più abbondante della precedente, e più varia, è fuori di dubbio. Che sia meglio scelta e più proficua si può dubitare. L'ultima traduzione, poi, sembra privilegiare sistematicamente l'italiano più sciatto e scadente, abbassando il linguaggio al livello più basso, invece di elevare il popolo alla nobiltà della Liturgia e al senso proprio del Testo divinamente ispirato. Si potrebbero collezionare, in proposito, molte perle lessicali tra il raccapricciante e il comico. Ben più provveduto fu Paolo VI che affidò il lavoro di traduzione a un gruppo di fini Letterati oltre che a validi Biblisti (i quali non sono tutti bravi linguisti, e sono soliti scambiarsi stroncature inesorabili).


Che gli amboni e il canto del Vangelo siano simbolicamente importanti è certo. Che gli uni e l'altro siano attualmente valorizzati è discutibile. L'Autore è in grado di precisare dove, nell'antichità, si collocavano i Fedeli durante la Liturgia della Parola e durante la Preghiera eucaristica? Certo la disposizione dell'assemblea, nei tempi passati, non era quella di oggi. Egli sembra dare per scontato che la lettura e il canto dei testi liturgici dal Messale sull'altare, deprecati come errore gravissimo, siano la forma normale, prevista da Trento, invece non è così. La Liturgia normativa tridentina è quella solenne, cantata, con tanto di Ministri, Diaconi, Suddiaconi, Lezionari, Processioni, Accoliti, Turiferari, Ceroferari e Amboni, ecc...


Sorprendono la svalutazione e banalizzazione dei significati simbolici e cosmici della Liturgia romana. La lettura o, meglio, il canto del Vangelo, non è rivolto alla parete, ma al Nord, che vi sia o meno una parete. E' la regione delle tenebre, che deve essere illuminata dalla luce di Cristo, Sole che sorge: L'Oriente.


L'Autore cita con compiacimento l'ingresso solenne del Vangelo nell'antica Santa Sofia di Costantinopoli, con ceri, turiboli, accoliti, diaconi, verso l'ambone sopraelevato, e l'evangeliario prezioso, toccato e baciato con fervore dai Fedeli (oggi, alcuni Liturgisti parlerebbero di superstizione popolare...). A parte il fatto che nella Grande Chiesa, l'altare stava dietro una magnifica, elaborata, iconostasi d'argento, che i Veneziani, assidui frequentatori di Bisanzio, riprodussero nell'alta balaustra-iconostasi di San Marco (che dava fastidio al Patriarca Angelo Roncalli), la descrizione di quell'antico rito ha qualcosa in comune con quanto accade nelle nostre Chiese da cinque decenni? Da noi i pulpiti sono stati divelti o dismessi. Proprio essi: gli eredi di quell'ambone bizantino, dall'alto dei quali la Parola scendeva dalla bocca dei predicatori nel cuore dei fedeli. Fedeli raccolti di fronte, al centro della navata; non necessariamente rivolti, tutti e sempre, verso un'unica direzione: il fondo della Chiesa, dove oggi c'è l'esposizione di tutto, come su un bancone del Supermercato; senza traccia di sacralità e di arcano: altare, ambone, sede, battistero, coro con chitarre e batteria, e quant'altro... (stendiamo un pietoso silenzio sulle innumerevoli e pregevoli balaustre, sedi presbiterali e cattedre episcopali, brutalmente aggredite, devastate ed eliminate da un novello clericalismo iconoclasta-sanculotto).


Quanto alla processione offertoriale, assente nella vecchia Messa “bassa”, conviene riferirsi al rito bizantino e al rito romano solenne-non riformato: nell'uno e nell'altro caso, ciò che viene presentato all'altare, pane e vino, è, comunque, già appartenente al rito sacro, appositamente e ritualmente preparato sull'abaco o sulla proskomidia, portato dal diacono col velo omerale, accompagnato dai ministri, con turibolo, candelieri, e, nel Rito bizantino, dalla croce, dalla “lancia” e dalla stola episcopale, affidate ai Presbiteri.


Sulla recita del Canone sottovoce o in silenzio, si può riflettere, ma Dianich cita ancora una volta Jungmann, come un oracolo. Altrettanto per la comunione in bocca e per la balaustra. E' proprio il caso di dire: “Timeo hominem unius libri”! Asserire che le balaustre siano un'invenzione del Secolo XVI è archeologicamente inaudito. Basta vedere le ricerche di padre Bellarmino Bagatti sulle Chiese primitive in Terra Santa.


Circa l'importanza delle Reliquie per l'altare, anche qui, come per la balaustra-iconostasi, è difficile evitare l'impatto massiccio e risolutivo della tradizione orientale, come è difficile prendere per buona la storia delle Reliquie di Saint Denis, che sarebbero responsabili del passaggio del Celebrante dall'altra parte. Completamente ignorata la tradizione riguardante i Martiri e l'antichissima Celebrazione dell'Agape-Eucaristia sulle loro tombe, talvolta sarcofaghi. Nel suo prezioso libretto “Arte e liturgia”, Luis Bouyer confessa di avere personalmente contribuito a far passare “carte false” ai Padri conciliari del Vaticano II per convincerli che la Eucaristia primitiva era celebrata verso il popolo, mentre “si sa perfettamente che non era così”. Lo stesso Teologo, convertito dal Luteranesimo, spiega come si svolgeva anticamente la Celebrazione: l'assemblea si spostava dal nartece al pulpito, e dal pulpito all'altare per la Consacrazione; tutti rivolti in preghiera, Presidente e Fedeli, alla pari, verso il Tempio Santo, il luogo del Sacrificio gradito a Dio, verso la Croce di Cristo, l'Oriente (come fanno i Cristiani-Ortodossi, e mutatis mutandis, gli Ebrei e i Mussulmani).


La recita del Prologo di San Giovanni, stupendo e fondamentale, al termine della Messa non dovrebbe urtare chi ha lamentato, poco prima, la povertà della mensa della Parola.


La conclusione di Dianich è un peana alla Riforma liturgica successiva al Vaticano II, come superamento dell'individualismo a esaltazione della partecipazione comunitaria del Popolo, in precedenza atomizzato dallo spregevole individualismo intimista. Ma ci si domanda, quali sono, in concreto, le impronte della famigerata “Devotio moderna” nel Messale tridentino? E com'è stato possibile un sì grandioso miracolo di progresso? La Chiesa preconciliare, conciata così male dalla Liturgia degenerata, disgraziatamente in vigore ab immemorabili, come è stata capace di arrivare tanto in alto? Per opera dello Spirito Santo? Certo! Lo Spirito Santo può fare tutto. Potrebbe anche avere solo permesso la distruzione della vecchia Liturgia: era davvero necessario cancellare, in un colpo solo, in nome di una meravigliosa Riforma archeologizzante (non conciliare, ma postconciliare), il patrimonio custodito nei secoli, senza la minima soluzione di continuità. Quella Chiesa, infatti, era conservatrice per antonomasia ed escludeva, per principio, qualsiasi discontinuità e novità, anche solo per uno jota o un apice.


A un Teologo di valore, qual è Severino Dianich, che merita e ha tutto il nostro rispetto, non si addicono né la figura del Tuttologo sommario né l'iscrizione tra i Talebani progressisti (intendendo per Talebani - non importa se conservatori o progressisti - quelli che coltivano il pregiudizio per sistema e hanno bisogno di qualcosa o qualcuno da denigrare e anatemizzare senza remissione). Gesù stesso fu vittima di questo tipo d'approccio. Alcuni, infatti, dicevano: non è col dito di Dio, ma “è nel nome di Beelzebub, il Capo dei Demoni, che egli scaccia i Demoni!” (Lc 11, 15): e sappiamo come è andata a finire.


Per concludere ci domandiamo è proprio questa la strada da percorrere per giungere ad una pace liturgica? Non è ora di finirla con gli anatemi dei “dotti”? Non sarebbe più proficuo per tutti imitare la saggezza e l’equilibrio del Santo Padre Benedetto XVI il quale, tramite la Pontificia Commissione Ecclesia Dei, ha chiesto ai fautori della “Messa antica” di non manifestarsi “contrari alla validità o legittimità della Santa Messa o dei Sacramenti celebrati nella forma ordinaria” (Universae Ecclesiae, n. 19)? E non varrà forse anche il contrario? Perfino per gli illustri teologi e le riviste pastorali? Pensiamo di sì ed è lo stesso Santo Padre a ricordarcelo: “Ciò che per le generazioni anteriori era sacro, anche per noi resta sacro e grande, e non può essere improvvisamente del tutto proibito o, addirittura, giudicato dannoso. Ci fa bene a tutti conservare le ricchezze che sono cresciute nella fede e nella preghiera della Chiesa, e di dar loro il giusto posto. Ovviamente per vivere la piena comunione anche i sacerdoti delle Comunità aderenti all’uso antico non possono, in linea di principio, escludere la celebrazione secondo i libri nuovi. Non sarebbe infatti coerente con il riconoscimento del valore e della santità del nuovo rito l’esclusione totale dello stesso” (Lettera del Santo Padre Benedetto XVI ai vescovi di tutto il mondo per presentare il Motu Proprio “ Summorum Pontificum cura” sull'uso della liturgia romana anteriore alla riforma del 1970).

Lettera firmata

fonte: http://unafides33.blogspot.com/

domenica 17 luglio 2011

Universae Ecclesiae: un’Istruzione che guarda al futuro della Chiesa




di Guido Pozzo e Nicola Bux



La Costituzione liturgica del concilio Vaticano II, afferma che “La Chiesa, quando non è in questione la fede o il bene comune generale, non intende imporre, neppure nella Liturgia una rigida uniformità” ( Sacrosanctum concilium, n. 37).

Non sfugge a molti che oggi sia in questione la fede, per cui è necessario che le varietà legittime di forme rituali debbano ritrovare l’unità essenziale del culto cattolico. Il papa Benedetto XVI lo ha ricordato accoratamente:


“Nel nostro tempo in cui in vaste zone della terra la fede è nel pericolo di spegnersi come una fiamma che non trova più nutrimento, la priorità che sta al di sopra di tutte è di rendere Dio presente in questo mondo e di aprire agli uomini l’accesso a Dio. Non ad un qualsiasi dio, ma a quel Dio che ha parlato sul Sinai; a quel Dio il cui volto riconosciamo nell’amore spinto sino alla fine (cfr Gv. 13,1) in Gesù Cristo crocifisso e risorto” (Lettera ai Vescovi in occasione della revoca della scomunica ai quattro Presuli consacrati dall’Arcivescovo Lefebvre, 10 marzo 2009).

Giovanni Paolo II ammoniva che


“la sacra liturgia esprime e celebra l’unica fede professata da tutti ed essendo eredità di tutta la Chiesa non può essere determinata dalle Chiese locali isolate dalla Chiesa universale” (Ecclesia de Eucharistia, n. 51) e che “La liturgia non è mai proprietà privata di qualcuno, né del celebrante, né della comunità nella quale si celebrano i Misteri” (Ivi, n 52).

Nella Costituzione liturgica si afferma:


“il Sacro Concilio,in fedele ossequio alla tradizione, dichiara che la Santa Madre Chiesa considera con uguale diritto e onore tutti i riti legittimamente riconosciuti, e vuole che in avvenire essi siano conservati e in ogni modo incrementati” (Sacrosanctum concilium, n. 4).

La stima per le forme rituali è il presupposto dell’opera di revisione che di volta in volta si rendesse necessaria. Ora, le due forme ordinaria e extraordinaria della Liturgia Romana, sono un esempio di incremento. Chi agisce al contrario, intacca l’unità del rito romano che va tenacemente salvaguardata, non svolge autentica attività pastorale o corretto rinnovamento liturgico, ma priva piuttosto i fedeli del loro patrimonio e della loro eredità a cui hanno diritto. Da tali atti arbitrari derivano insicurezza dottrinale, perplessità e scandalo e, quasi inevitabilmente, reazioni aspre (cfr Istruzione Redemptionis Sacramentum, n. 11).

Dinanzi a tale situazione, tutti i Pastori della Chiesa devono promuovere la conoscenza e l’osservanza dello Ius divinum nel culto, perché è Dio che dall’Antico Testamento ha stabilito come deve essere adorato; per questo è “culto divino”.

In continuità col magistero dei suoi predecessori, Benedetto XVI ha promulgato nel 2007 il Motu Proprio Summorum Pontificum, con cui “ha reso più accessibile alla Chiesa universale la ricchezza della Liturgia Romana”(art.1), dando mandato alla Congregazione per la Dottrina della Fede, con la Pontificia Commissione Ecclesia Dei di pubblicare l’Istruzione Universae Ecclesiae per favorirne correttamente l’applicazione.

Nell’Introduzione del documento si afferma: “Con tale Motu Proprio il Sommo Pontefice Benedetto XVI ha promulgato una legge universale per la Chiesa …” (art. 2). Non è un indulto, o una legge per gruppi particolari, ma una legge per tutta la Chiesa, una “legge speciale” che pertanto “deroga a quei provvedimenti legislativi,inerenti ai sacri Riti,emanati dal 1962 in poi ed incompatibili con le rubriche dei libri liturgici in vigore nel 1962”(art. 29).

Va qui ricordato l’aureo principio patristico da cui dipende la comunione cattolica: “ogni Chiesa particolare deve concordare con la Chiesa universale, non solo quanto alla dottrina della fede e ai segni sacramentali, ma anche quanto agli usi universalmente accettati dalla ininterrotta tradizione apostolica, che devono essere osservati non solo per evitare errori, ma anche per trasmettere l’integrità della fede, perché la legge della preghiera della Chiesa corrisponde alla sua legge di fede”(art.3).

Il celebre principio lex orandi-lex credendi richiamato in questo articolo, è alla base del ripristino della forma extraordinaria: non è cambiata la dottrina cattolica della Messa nel rito romano, perché liturgia e dottrina sono inscindibili.

La Liturgia è stata ed è, nella disciplina della Chiesa, materia riservata al Papa, mentre gli Ordinari e le Conferenze episcopali hanno alcune competenze delegate, specificate dal diritto canonico. I sacerdoti non possono introdurre in essa alcun cambiamento (cfr Sacrosanctum concilium, n. 22), ma ben formati in seminario allo spirito della liturgia cattolica (cfr ivi, n. 17) devono celebrare con rigore e fedeltà ai libri liturgici approvati e con l’adeguata sensibilità pastorale per aiutare e formare tutti i fedeli a vivere la liturgia della Chiesa una, santa, cattolica e apostolica.

Pertanto “Il Motu Proprio costituisce una rilevante espressione del Magistero del Romano Pontefice e del munus a Lui proprio di regolare e ordinare la Sacra Liturgia della Chiesa (Cfr C.I.C. can. 838,1 e 2) e manifesta la Sua sollecitudine di Vicario di Cristo e Pastore della Chiesa Universale (Cfr C.I.C. can. 331)” (art. 8). Al Papa, che ha ereditato le chiavi di Pietro, è dovuta l’obbedienza, innanzitutto in materia liturgica e sacramentale.

In secondo luogo, l’Istruzione riafferma che vi sono ora


“… due forme della Liturgia Romana, definite rispettivamente ordinaria e extraordinaria: si tratta di due usi dell’unico Rito romano … L’una e l’altra forma sono espressione della stessa lex orandi della Chiesa. Per il suo uso venerabile e antico, la forma extraordinaria deve essere conservata con il debito onore” ( art. 6).

E’ un passo fondamentale da tenere a mente da parte di Pastori e fedeli.

Infatti, l’articolo seguente, riporta un passaggio-chiave della Lettera del Santo Padre ai Vescovi, che accompagna il Motu Proprio:


“Non c’è nessuna contraddizione tra l’una e l’altra edizione del Messale Romano. Nella storia della liturgia c’è crescita e progresso, ma nessuna rottura. Ciò che per le generazioni anteriori era sacro, anche per noi resta sacro e grande, e non può essere improvvisamente del tutto proibito o, addirittura, giudicato dannoso” (art. 7).

L’Istruzione, in linea col Motu Proprio, non riguarda solo quanti desiderano continuare a celebrare la fede nello stesso modo con cui la Chiesa l’ha fatto sostanzialmente da secoli; il Papa vuole aiutare i cattolici tutti a vivere la verità della liturgia affinché, conoscendo e partecipando all’antica forma romana di celebrazione, comprendano che la Costituzione Sacrosanctum Concilium voleva riformare la liturgia in continuità con la tradizione.

Questo porta a vivere pure la forma ordinaria in comunione con la Chiesa degli Apostoli, dei Padri e dei Santi, da Leone Magno a Gregorio Magno, da Tommaso d’Aquino a Pio V, da Carlo Borromeo a Pio da Pietrelcina e Giovanni XXIII. Se non si concepisse in tal modo la liturgia, il cuore e la mente dei fedeli non sarebbero modellati in modo da vivere bene la fede, la morale e la spiritualità.

Per capire le finalità del Motu Proprio, l’Istruzione ricorda ancora all’art. 8 che esso intende


“offrire a tutti i fedeli la Liturgia Romana nell’Usus Antiquior, considerata tesoro prezioso da conservare” – a tutti i fedeli, non solo un gruppo particolare, particolarmente affezionato alla tradizione – e “garantire e assicurare realmente a quanti lo domandano, l’uso della forma extraordinaria, nel presupposto che l’uso della Liturgia Romana in vigore nel 1962 sia una facoltà elargita per il bene dei fedeli e pertanto vada interpretata in un senso favorevole ai fedeli che ne sono i principali destinatari”.

Giovanni Paolo II nel 1988 disponeva la “generosa” applicazione delle norme già emanate dalla Sede Apostolica circa il Messale del 1962; ora i Vescovi devono non solo “garantire e assicurare”, ma soprattutto favorire la riconciliazione e l’unità nella Chiesa, evitando spaccature e spinte antitetiche nella comunità cristiana, così come la marginalizzazione e l’isolamento dei fedeli che seguono la forma extraordinaria, e nello stesso tempo evitare forme di contestazione del Messale di Paolo VI.

La forma extraordinaria e la forma ordinaria del rito romano, non vanno intese l’una come eccezione e l’altra come regola, ma in analogia al rapporto che sussiste nell’anno liturgico tra il tempo per annum o ordinario e i tempi “forti” ovvero “extraordinari” per la loro pregnanza. I cristiani bizantini pure, usano tre forme di liturgia in diversi tempi dell’anno: di S.Giovanni Crisostomo, di S.Basilio e dei Presantificati.

Quindi, si tratta di “una nuova normativa all’uso della Liturgia Romana in vigore nel 1962”(art.7).L’Istruzione, per chiarire che il Messale Romano del 1962 non è stato abrogato, fa a questo punto una annotazione importante:


“al momento dell’introduzione del nuovo Messale(ndr di Paolo VI), non era sembrato necessario emanare disposizioni che regolassero l’uso della Liturgia vigente nel 1962”(ivi). Ora tale normativa si è imposta “…in ragione dell’aumento di quanti chiedono di poter usare la forma extraordinaria”(ivi).

A tal fine, gli art. 9-11 dell’Istruzione descrivono i compiti della Pontificia Commissione Ecclesia Dei che ha potestà vicaria per i ricorsi nei confronti di decreti e provvedimenti dell’Ordinario in decernendo e in procedendo, e per l’edizione dei libri liturgici della forma extraordinaria, dopo l’approvazione della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti.

L’Istruzione “a seguito dell’indagine compiuta presso i Vescovi di tutto il mondo” passa a indicare le Norme specifiche per “garantire la corretta interpretazione e la retta applicazione del Motu Proprio”(art.12). Sono quindi indicate le competenze dei Vescovi diocesani che “…devono vigilare in materia liturgica per garantire il bene comune e perché tutto si svolga degnamente, in pace e serenità nella loro Diocesi, sempre in accordo con la mente del Romano Pontefice chiaramente espressa dal Motu Proprio Summorum Pontificum” (art. 13).

Nello stesso senso, va l’art. 14: “E’ compito del Vescovo diocesano prendere le misure necessarie per garantire il rispetto della forma extraordinaria del Rito Romano, a norma del Motu Proprio Summorum Pontificum”. Il can. 838,1 del C.I.C., riprendendo la Sacrosanctum Concilium 22,1, dice che “regolare la Sacra Liturgia compete propriamente alla Sede Apostolica e, a norma di diritto, al Vescovo diocesano”, significa che questi deve comportarsi secondo la norma del can. 135,2 che dispone: “da parte del legislatore inferiore non può essere data validamente una legge contraria al diritto superiore”(cfr anche can.33,1).

I Vescovi devono cioè applicare il Motu Proprio, nel senso di facilitare e non ostacolare. Ad essi come Pastori incombe osservare, considerare, soprattutto incontrare le realtà dei fedeli che richiedono la forma extraordinaria; anche visitare i siti internet che descrivono come tale realtà sia in continua crescita. Molti giovani, sono attratti dalla Messa in forma extraordinaria perché mette particolarmente in risalto il Sacrificio eucaristico e l’adorazione della Presenza reale di Gesù Cristo sull’altare – obbediente alle parole consacratorie del sacerdote – in uno “stato di vittima immolata”, immolatitius modus(cfr Pio XII, Enciclica Mediator Dei, n 70) a causa della separazione del corpo dal sangue.

Non saremo attenti a cogliere questo segno dei tempi?


Il Motu Proprio garantisce anche i diritti dei fedeli (cfr C.I.C. cann.214-223). Infatti, accanto ai diritti e doveri dei Pastori della Chiesa, vi sono quelli dei fedeli laici.

Importante perciò è la sezione sul “cœtus fidelium” (art. 15-19). In particolare che:


“Un cœtus fidelium potrà dirsi stabiliter existens ai sensi dell’art. 5, § 1 del Motu proprio Summorum Pontificum, quando è costituito da alcune persone (ndr, il termine alcuno indica una quantità indeterminata) di una determinata parrocchia che, anche dopo la pubblicazione del Motu Proprio, si siano unite in ragione della venerazione per la Liturgia nell’Usus Antiquior, le quali chiedono che questa sia celebrata nella propria parrocchia o in una rettoria; tale cœtus può essere anche costituito da persone che provengono da diverse parrocchie o diocesi e che a tal fine si riuniscano in una determinata chiesa parrocchiale o rettoria” (art. 15).

Dunque, un cœtus può anche formarsi dopo la pubblicazione del Motu Proprio, come sono pienamente legittimi quelli costituitisi prima di esso. Poi: “Sarà il senso pastorale a determinare concretamente il numero di persone necessario per costituire tale cœtus”. Non si celebra la Messa ordinaria anche per pochi fedeli? Il Signore è presente là dove “due o tre sono riuniti” nel Suo nome.

Circa l’opportunità, deve prevalere il senso pratico. Pertanto, i parroci e rettori di Chiese sono invitati a dare ospitalità a sacerdoti e fedeli che si presentino occasionalmente per la celebrazione straordinaria – come avviene del resto per quella ordinaria – pur nel rispetto delle esigenze d’orario(cfr art.16). Si deve dedurre che, in ogni chiesa, deve esserci la suppellettile necessaria per la Messa in forma extraordinaria, che si può celebrare anche dove vi sia solo l’altare ‘verso il popolo’, ma rivolgendosi ad Dominum.

Importante anche la sezione dell’Istruzione sul “sacerdos idoneus” (art. 20-23): tra i vari requisiti v’è la lingua latina: “è necessaria una sua conoscenza basilare, che permetta di pronunciare le parole in modo corretto e di capirne il significato” (art. 20). Quindi, un sacerdote idoneo a celebrare la Messa in forma extraordinaria, non deve essere un esperto nel latino liturgico, che è di una grande ricchezza e complessità (ad es. le orazioni antiche …).

Dice sant’Agostino:


“La comprensione è la ricompensa più grande della fede. Non tentare di comprendere per arrivare a credere, ma abbi fede per arrivare a comprendere” (De Magistro,11,37).

Il latino è la lingua propria della Chiesa in quanto lingua universale, con cui il Papa si rivolge a tutti i popoli; inoltre ha l’attributo dell’immutabilità, a fronte delle lingue volgari in continua mutazione: questo garantisce l’inalterabilità della lex orandi e credendi. Il fascino esercitato dal cattolicesimo su anglicani quali Newman e Benson, su ortodossi quale Solov’ev e Florensky, è dovuto all’universalismo della liturgia esaltato dalla lingua latina, la quale fa sì che in tutte le parti del mondo si possa dire: Io sono nella stessa Chiesa cattolica.

Nell’art. 21, si chiede ai Vescovi di offrire al clero la possibilità di acquisire una preparazione adeguata alle celebrazioni nella forma extraordinaria; poi, di provvedere alla formazione dei seminaristi, in modo speculare a quanto chiede l’Esortazione Apostolica Sacramentum Caritatis:


“i futuri sacerdoti, fin dal tempo del seminario, siano preparati a comprendere e a celebrare la santa Messa in latino, nonché a utilizzare testi latini e a eseguire il canto gregoriano …” (n. 62). I Vescovi sono esortati a promuovere tale celebrazione come pure corsi di aggiornamento liturgico servendosi della collaborazione di coloro che la conoscono e dei sacerdoti degli Istituti eretti dalla Commissione Ecclesia Dei (cfr art.22).

Quanto ai religiosi, l’art. 24 dell’Istruzione chiarisce che la Messa sine populo può essere celebrata senza il permesso del Superiore(cfr Motu Proprio n 3); per quella cum populo, si segua la propria regola, fermo restando, come detto dianzi, che non si possono emanare norme contrarie al diritto superiore.

Gli articoli 25-29 applicano la disciplina liturgica ed ecclesiastica di cui abbiamo detto all’inizio, codificata in buona parte nei libri liturgici. Pertanto:


“I libri liturgici della forma extraordinaria vanno usati come sono. Tutti quelli che desiderano celebrare secondo la forma extraordinaria del Rito Romano devono conoscere le apposite rubriche e sono tenuti ad eseguirle correttamente nelle celebrazioni” (art. 25; cfr anche art. 29).

Si tratta dei libri liturgici posteriori all’enciclica Mediator Dei di Pio XII che raccolgono le riforme di quest’ultimo sulla liturgia tridentina, che aveva già sperimentato leggeri cambiamenti, ma in distinti momenti durante i secoli; sono inoltre i libri liturgici con cui i Padri conciliari di rito Romano, ovvero la gran maggioranza, celebravano, quando preparavano ed approvavano la Costituzione liturgica.

Questi, dunque, non sono in contrasto con quelli postconciliari che “vanno usati come sono”,ossia conoscendo ed eseguendo le rubriche, senza commistione con l’Ordo Missae, il Lezionario e il Calendario della forma ordinaria.

In seguito saranno date disposizioni circa i nuovi santi e alcuni dei prefazi del Novus Ordo(cfr art.26).In particolare, per le letture sia nella messa letta, che in quella cantata e nella solenne, c’è possibilità di proclamarle solo in latino, o solo in lingua corrente, o in latino seguito dalla traduzione(cfr art.27).

Gli art. 30-32 riguardano i sacramenti della Cresima e dell’Ordine sacro. Per quest’ultimo, come è noto, il Motu Proprio non ha introdotto alcun cambiamento, al fine di evitare, per i candidati al sacerdozio nei seminari e studentati, differenze e disomogeneità nei gradi e ministeri in preparazione all’Ordine sacro. Non così, a motivo della loro specificità, per gli appartenenti agli Istituti retti dall’Ecclesia Dei. Senza escludere che questa materia possa essere rivista in rapporto alla disciplina generale attuale, basata sul Motu proprio Ministeria quædam di Paolo VI.

Gli ultimi tre articoli dell’Istruzione favoriscono la celebrazione del Triduo sacro nella forma extraordinaria (art. 34), l’uso dei libri liturgici propri degli Ordini religiosi in vigore nel 1962 (art. 35), e soprattutto l’uso del Pontificale Romanum, del Rituale Romanum (con la grande ricchezza delle benedizioni) e del Cæremoniale Episcoporum in vigore nel 1962 (art. 36).

“Nel rapporto con la liturgia si decide il destino della fede e della Chiesa”, è impresso sul dorso del volume XI “Teologia della liturgia” dell’Opera omnia del Santo Padre. Se la liturgia necessita della fede come presupposto, ci avvicineremo ad essa con pace e serenità, cioè con la pazienza dell’amore a cui inneggia san Paolo nell’inno alla carità.

Dunque, l’Istruzione, in linea col Motu Proprio, non è un passo indietro ma guarda al futuro della Chiesa, al cui centro sta la croce di Cristo, come sta al centro dell’altare: Lui, Sommo Sacerdote cui la Chiesa rivolge il suo sguardo oggi, come ieri e sempre.


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