Apologia di Socrate
di Lucia Comelli, 04 gennaio 2022
Socrate nacque e visse ad Atene nel quinto secolo avanti Cristo. A differenza di altri filosofi, non fondò una scuola, né scrisse libri, ma tenne il suo insegnamento nei ginnasi e nelle pubbliche piazze della città, come una sorta di predicatore laico, esercitando un grandissimo fascino sui molti concittadini, specie se giovani, e profonda avversione tra altri. Morì nel 399 a.C., condannato a bere la cicuta, dopo un processo che lo vide pretestuosamente accusato di empietà, un delitto lontanissimo dall’animo suo, e di corrompere i giovani.
Dopo un periodo di tempo passato ad ascoltare la parola degli ultimi naturalisti, senza esserne per nulla soddisfatto, Socrate concentrò definitivamente il suo interesse – come i sofisti – sulla problematica dell’uomo. A differenza di questi ultimi, tuttavia, mise a fuoco una questione ultimativa: che cos’è essenzialmente l’uomo? Qual è la sua autentica natura?
L’uomo, egli rispose, è la sua anima (psyché): infatti è questa che lo contraddistingue da qualunque altra cosa. Il corpo per l’uomo – secondo il filosofo – è pertanto solo uno strumento di cui l’anima si serve. E per anima Socrate intende per la prima volta l’io consapevole, la coscienza: in questo modo – come ha scritto Giovanni Reale, nella sua Storia della filosofia antica [1] – egli ha dato il via alla tradizione morale e intellettuale su cui l’Europa si è spiritualmente costruita.
Se l’essenza dell’uomo è l’anima, conoscere sé stessi significa conoscere la propria anima e insegnare agli uomini a curarsene è il compito del vero educatore, una missione che Socrate ritenne di aver ricevuto dal Dio, come si legge nell’Apologia.[2]
Avendo posto al centro della sua antropologia, la dimensione trascendente dell’uomo, Socrate capì, a differenza dei sofisti, che la virtù non si acquisisce impadronendosi di una serie di tecniche, ma maturando una ‘sapienza umana’, cioè acquistando la consapevolezza che ciò che più conta nella vita è il bene della nostra anima.
Per questo, i valori veri non sono quelli tradizionali, legati al corpo (come la vita, la salute, la forza fisica o la bellezza) e ai beni esteriori (quali la ricchezza, la potenza e la fama), bensì i valori interiori, e in particolare quello della scienza (della conoscenza) dell’uomo, che tutti li assomma. Socrate infatti, pur non disprezzando i beni materiali, ne subordinò l’effettiva validità al buon uso – cioè all’utilizzo a vantaggio dell’anima propria o altrui – che dipende dalla retta coscienza di sé. In questo modo, egli introdusse nella cultura il concetto di libertà interiore. Prima di lui, in effetti, la parola libertà aveva un significato esclusivamente giuridico e politico: libero era l’uomo che non era, come lo schiavo, asservito ad altri.
Con il suo insegnamento, la libertà assume invece anzitutto il significato morale di signoria della razionalità sugli impulsi e sulle passioni, cioè il significato di autodominio: virtù questa di cui il filosofo dette, in diverse occasioni, eccezionale testimonianza.
In effetti, chi si abbandona al soddisfacimento dei desideri e degli impulsi è costretto a dipendere dalle cose, dagli uomini e dalla società, cioè da circostanze esterne che non può mai controllare del tutto, e in questo modo perde la sua libertà, la tranquillità e la stessa felicità, che il filosofo identifica con la serenità e l’armonia interiori.
Socrate nutriva una tale fiducia nella razionalità umana che riteneva impossibile fare il male del tutto consapevolmente: certo, rubando, io so di danneggiare l’altro, ma non sono cosciente del male che faccio a me stesso, cioè del disordine e dello squilibrio che introduco nell’anima. Per questo è così importante per Socrate ricordare incessantemente ai concittadini quale fosse il loro vero bene, tanto che per farlo aveva trascurato ogni altro affare, riducendosi a vivere in povertà:
finché io abbia respiro e ne sia capace, non cesserò mai di filosofare e di esortarvi e ammonirvi …perché non del corpo abbiate cura, né delle ricchezze, né di alcuna altra cosa prima è più che dell’anima, sì che ella diventi ottima e virtuosissima – infatti – non dalle ricchezze nasce virtù, ma dalla virtù nascono le ricchezze e gli altri beni per gli uomini, sia come singoli che come parte di una città [3].
La concezione di Socrate, e dopo di lui tutta la filosofia morale greca, si mostra – in questa convinzione dell’“involontarietà” del peccato – intellettualistica: assegna infatti una parte pressoché esclusiva alla ragione, riducendo fondamentalmente il male morale ad un errore di valutazione. Sfugge a Socrate e all’etica greca il ruolo fondamentale che nell’agire umano gioca la volontà e quindi la libertà: esso diventerà invece centrale nella visione cristiana, che rivelerà all’uomo la profondità sconvolgente del male morale, rendendo possibile – come ha scritto mirabilmente il teologo Charles Moeller – a romanzieri quali Shakespeare o Dostoevskij costruire personaggi di lucida perfidia, quali lady Macbeth o Stavrogin (protagonista de I demoni). [4]
Anche il metodo dell’insegnamento di Socrate [5], fondato appunto sul dialogo, risulta legato alla scoperta della vera natura umana: esso tende infatti a spogliare l’anima dell’interlocutore dall’illusione del sapere attraverso la confutazione delle sue convinzioni iniziali che – sotto l’incalzare delle domande del filosofo – si mostrano logicamente insostenibili (in questa parte iniziale, Socrate utilizza ampiamente lo strumento dell’ironia). Quando l’interlocutore confessa infine la propria ignoranza, inizia il processo costruttivo della maieutica, intesa come l’arte socratica di aiutare l’anima di chi gli sta di fronte a partorire il vero che essa trova nel profondo di se stessa.
Pertanto le finalità del dialogare socratico sono fondamentalmente di natura etica ed educativa: dialogare con Socrate (sulla natura della virtù, del coraggio, del bene …) portava insomma l’interlocutore ad un esame morale, a render conto della propria vita, come ben rilevarono i contemporanei:
Chiunque stia vicino a Socrate e si metta con lui a ragionare, quale sia il soggetto preso a trattare, trascinato nelle spire del discorso, è inevitabilmente costretto ad andare innanzi, finché non casca a rendere conto di sé, e a dire anche in che modo viva e in che modo sia vissuto, e, una volta che c’è cascato, Socrate non lo lascia più, se non ne ha vagliato ben bene ogni parola [6].
È proprio in questo dover rendere conto della propria vita il filosofo addita la vera ragione che gli costò la vita: metterlo a morte per molti significava vendicarsi dello scacco subito dialogando con lui e liberarsi dal fastidioso compito di mettere a nudo la propria anima.
Socrate avrebbe potuto comunque salvarsi dalla morte se durante il processo avesse supplicato i concittadini di perdonarlo, rinnegando la missione che Dio gli aveva affidato, invece ne rivendicò il valore:
Vi dico che proprio questo è per l’uomo il bene maggiore, ragionare ogni giorno della virtù e degli altri argomenti sui quali mi avete udito disputare e far ricerche su me stesso e sugli altri, e che una vita che non faccia tali ricerche non è degna di essere vissuta [7].
affrontando impavido la condanna:
Potrà, sì, Anito [8], condannarmi a morte, cacciarmi in esilio, spogliarmi dei diritti civili: tutte cose che costui crederà, e altri con lui, siano grandi mali, ma non io: io credo sia un male molto maggiore tentare, come fa lui, di mandare a morte un uomo innocente…
Infatti:
A un uomo virtuoso non è possibile intervenga alcun male, né in vita né in morte [9].
Con questa convinzione che la morte fisica uccide il corpo, ma non l’anima, dopo un breve soggiorno in carcere – al termine di una giornata passata con gli amici più cari a dialogare dell’immortalità dell’anima – il filosofo bevve serenamente la cicuta [10].
Anche prima della venuta di Cristo, alcuni uomini, come Socrate, scoprirono di poter attingere nella profondità della loro anima alla forza della Verità (dello Spirito), che Dio comunica a chi cerca con tutto se stesso il bene, per poter vivere degnamente e senza paura: non scordiamo la loro testimonianza, appiattendoci – come succede spesso oggi per timore della morte – su una concezione puramente biologica, materiale, dell’esistenza!
[1] G. Reale, Storia della filosofia antica, Vita e Pensiero, vol. I
[2] L’Apologia è lo scritto in cui Platone riporta i discorsi che Socrate pronunciò a propria difesa durante il processo.
[3] Ibidem.
[4] Cfr. Saggezza greca e paradosso cristiano (1948). Moeller è stato un teologo, critico letterario e sacerdote belga.
[5] Come ha scritto Giovanni Reale “Al discorso lungo di parata, che è monologo chiuso” dei Sofisti, Socrate sostituisce “il dialogo aperto, pronto via via piegarsi alle esigenze più profonde di coloro che insieme ricercano e mettono a confronto per così dire anima con anima”.
[6] Dal Lachete platonico.
[7] Dall’Apologia.
[8] Anito, portavoce degli artigiani e dei politici, fu uno degli accusatori di Socrate.
[9] Ivi. L’unico vero male è per il filosofo quello morale, che noi stessi – peccando – infliggiamo alla nostra anima.
[10] A queste ultime ore di vita del suo maestro, Platone ha dedicato il Fedone, un dialogo bellissimo.
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