
22 luglio 2025
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by Aldo Maria Valli
di Vincenzo Rizza
Caro Aldo Maria,
la Corte Costituzionale, con la recente sentenza n. 115 del 2025 (Corte costituzionale – Decisioni), ha dato coerente seguito a quanto affermato nella precedente decisione n. 68/2025 (Dal diritto allo psicodiritto – Aldo Maria Valli). Si è aggiunto, così, un nuovo tassello alla costruzione ideologica del nuovo ordine familiare, non più fondato sul dato naturale, ma sul desiderio. Si parla di “secondo genitore equivalente”, di “madre intenzionale” e si pretende che lo Stato riconosca a questa figura il diritto al congedo di paternità.
La volontà soggettiva diventa un surrogato della realtà biologica e la sfera giuridica vi si adegua. Con una particolarità: non è il legislatore a deciderlo (non che se fosse una scelta del legislatore sarebbe più accettabile) ma una Corte che di fatto si fa legislatore inventando nuovi “diritti” che traggono fondamento dal desiderio.
L’ovvio è ormai dimenticato e il minore non ha più diritto a un padre e a una madre ma alla caricatura della famiglia, a una generica coppia di “genitori equivalenti”, intercambiabili come comparse in un reality, in cui l’unico protagonista resta l’ego degli adulti.
Così la Corte, nonostante un sistema che vede il “riconoscimento di compiti differenziati delle due figure della madre e del padre in un sistema assistenziale obbligatorio strutturato sulla infungibilità dei ruoli” può tranquillamente affermare che “è ben possibile identificare nelle coppie omogenitoriali femminili una figura equiparabile a quella paterna all’interno delle coppie eterosessuali, distinguendo tra la madre biologica (colei che ha partorito) e la madre intenzionale, la quale ha condiviso l’impegno di cura e responsabilità nei confronti del nuovo nato, e vi partecipa attivamente”.
Peraltro, se ammettiamo il concetto di genitore intenzionale ed equivalente, perché fermarsi a uno solo? Perché non due, non tre, non quattro o una comunità intera? Se ciò che conta è l’intenzione affettiva e non il dato naturale, qualsiasi adulto che dichiari di voler “essere genitore” potrebbe rivendicare pari diritti: il passo dalla bigenitorialità alla poligenitorialità è brevissimo.
Il diritto minorile, per secoli, ha avuto un fondamento semplice e solido: il bambino nasce dall’unione di un uomo e una donna, e da quell’unione trae due figure di riferimento, quella paterna e quella materna. Non si tratta di un pregiudizio culturale o religioso: è un dato di fatto che precede (o almeno dovrebbe precedere) ogni legge. La Corte, invece, ha ceduto allo psicodiritto, tutelando non più l’oggettività ma il desiderio.
Nonostante tutto il minore continua ad avere diritto ad un padre e una madre, non ad una nebulosa di adulti “equivalenti”, “intenzionali” e affettivamente disponibili. Lo Stato, quando riconosce come genitore chi genitore non è, non estende i diritti: semplicemente li snatura sostituendo la realtà con una finzione, trasformando il diritto di famiglia in un teatro di proiezioni emotive, in un diritto liquido, incapace di garantire quella stabilità e quella solidità di riferimenti che l’infanzia esige (con buona pace del “migliore interesse del minore”, costantemente ribadito ma di fatto accantonato).
Cancellare la realtà, considerare la genitorialità solo una questione di intenzione, significa cancellare l’identità stessa del figlio, riducendolo a mero oggetto del desiderio. Un bambino, tuttavia, non ha bisogno di più intenzioni, ma di più verità.
by Aldo Maria Valli
di Vincenzo Rizza
Caro Aldo Maria,
la Corte Costituzionale, con la recente sentenza n. 115 del 2025 (Corte costituzionale – Decisioni), ha dato coerente seguito a quanto affermato nella precedente decisione n. 68/2025 (Dal diritto allo psicodiritto – Aldo Maria Valli). Si è aggiunto, così, un nuovo tassello alla costruzione ideologica del nuovo ordine familiare, non più fondato sul dato naturale, ma sul desiderio. Si parla di “secondo genitore equivalente”, di “madre intenzionale” e si pretende che lo Stato riconosca a questa figura il diritto al congedo di paternità.
La volontà soggettiva diventa un surrogato della realtà biologica e la sfera giuridica vi si adegua. Con una particolarità: non è il legislatore a deciderlo (non che se fosse una scelta del legislatore sarebbe più accettabile) ma una Corte che di fatto si fa legislatore inventando nuovi “diritti” che traggono fondamento dal desiderio.
L’ovvio è ormai dimenticato e il minore non ha più diritto a un padre e a una madre ma alla caricatura della famiglia, a una generica coppia di “genitori equivalenti”, intercambiabili come comparse in un reality, in cui l’unico protagonista resta l’ego degli adulti.
Così la Corte, nonostante un sistema che vede il “riconoscimento di compiti differenziati delle due figure della madre e del padre in un sistema assistenziale obbligatorio strutturato sulla infungibilità dei ruoli” può tranquillamente affermare che “è ben possibile identificare nelle coppie omogenitoriali femminili una figura equiparabile a quella paterna all’interno delle coppie eterosessuali, distinguendo tra la madre biologica (colei che ha partorito) e la madre intenzionale, la quale ha condiviso l’impegno di cura e responsabilità nei confronti del nuovo nato, e vi partecipa attivamente”.
Peraltro, se ammettiamo il concetto di genitore intenzionale ed equivalente, perché fermarsi a uno solo? Perché non due, non tre, non quattro o una comunità intera? Se ciò che conta è l’intenzione affettiva e non il dato naturale, qualsiasi adulto che dichiari di voler “essere genitore” potrebbe rivendicare pari diritti: il passo dalla bigenitorialità alla poligenitorialità è brevissimo.
Il diritto minorile, per secoli, ha avuto un fondamento semplice e solido: il bambino nasce dall’unione di un uomo e una donna, e da quell’unione trae due figure di riferimento, quella paterna e quella materna. Non si tratta di un pregiudizio culturale o religioso: è un dato di fatto che precede (o almeno dovrebbe precedere) ogni legge. La Corte, invece, ha ceduto allo psicodiritto, tutelando non più l’oggettività ma il desiderio.
Nonostante tutto il minore continua ad avere diritto ad un padre e una madre, non ad una nebulosa di adulti “equivalenti”, “intenzionali” e affettivamente disponibili. Lo Stato, quando riconosce come genitore chi genitore non è, non estende i diritti: semplicemente li snatura sostituendo la realtà con una finzione, trasformando il diritto di famiglia in un teatro di proiezioni emotive, in un diritto liquido, incapace di garantire quella stabilità e quella solidità di riferimenti che l’infanzia esige (con buona pace del “migliore interesse del minore”, costantemente ribadito ma di fatto accantonato).
Cancellare la realtà, considerare la genitorialità solo una questione di intenzione, significa cancellare l’identità stessa del figlio, riducendolo a mero oggetto del desiderio. Un bambino, tuttavia, non ha bisogno di più intenzioni, ma di più verità.
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