CULTURA E POLITICA DEL “SUICIDIO”
Stefano Fontana
Ormai abbiamo capito una cosa: dobbiamo guardarci le spalle e non solo davanti a noi. Una volta ci volevano ammazzare, ora vogliono che ci ammazziamo. Il suicidio, intanto con aiuto e accompagnamento, poi lasciato liberamente a se stesso, risulta più conveniente, raggiunge il risultato con minori sforzi e maggiori garanzie. Il riconoscimento del suicidio come il primo dei diritti umani – anche nel parlamento italiano se ne discute e in Inghilterra il riconoscimento è già avvenuto – permette l’estinzione dell’uomo non prodotta dall’esterno, ma dall’interno. Chi odia l’uomo non gli sta davanti minacciandolo, gli sta dietro le spalle e gli insegna ad odiare se stesso. Il suicidio, così antinaturale, diventa quasi naturale.
C’è una cultura e una politica del suicidio, molto più attrezzata di quella dell’omicidio. Le perverse ideologie moderne erano tutte incentrate sull’omicidio, sull’uccisione dell’avversario, sul patibolo e sul boia, sulla “presunzione di colpevolezza” che non ammettesse sconti e che non cessasse di fornire bersagli riconoscibili da abbattere. Anche le guerre ideologiche del corpo a corpo, delle incursioni dalle trincee, degli “arditi” della prima linea, erano incentrate sull’uccisione diretta dell’altro, pur se la costruzione nel fronte avverso di un efficiente nemico interno che agisse da dietro le spalle divenne sempre più una pratica efficiente. Anche lì si cominciò ad uccidere non di fronte ma alle spalle. Come fanno i terrorismi.
Questo passaggio culturale avvenne compiutamente nella postmodernità. Perdute le forti convinzioni delle grandi narrazioni e aumentato a dismisura lo scetticismo per tutte le Cause, si perse anche la voglia di combattere, preferendo instillare nel fronte nemico qualche virus che dall’interno lo indebolisse e lo spingesse al suicidio. Questo ultimo liberalismo postmoderno che oggi si suole chiamare Woke, demolisce i significati, svuota concetti e valori, cancella ogni tradizione, considera violenza ogni affermazione identitaria. Certo, viene divelto anche qualche monumento che attesti un passato, ma lo scopo non è di uccidere uno spirito, bensì di indurlo al suicidio per svuotamento. Oggi i titoli di conferenze e libri sul “suicidio” dell’Occidente non si contano. Tutti sono d’accordo che l’Europa si stia suicidando e che ciò avvenga dall’interno e consapevolmente, dato che il primo attore del suicidio è l’Unione Europea, ossia lo strumento creato dalla stessa Europa per darsi la morte. Il nemico si è fatto interno, opera da dietro le spalle, se lo si denuncia si diventa colpevoli di disfattismo, ossia, nel linguaggio di oggi, di populismo e di sovranismo.
Se andiamo alle fonti del passaggio dalle ideologie ottocentesche alla situazione attuale, incontriamo due altri famosi “suicidi” strettamente legati l’uno all’altro. Essi, a quel tempo solo agli esordi, hanno poi fatto una lunga strada. Il primo è il “suicidio dei cattolici” e il secondo è il “suicidio della rivoluzione”. In altre parole, incontriamo Antonio Gramsci (e Augusto Del Noce). Su L’Ordine Nuovo del 1 novembre 1919 il giovane Gramsci scriveva che i cattolici democratici avrebbero condotto il mondo cattolico al suicidio e lo avrebbero consegnano nelle mani dei comunisti. Sappiamo bene che proprio questo è avvenuto. Oggi, davanti ad un disegno di legge sul suicidio assistito, i cattolici, ormai suicidatisi, sono divisi e ininfluenti. Secondo Gramsci il suicidio dei cattolici voleva dire la secolarizzazione, ossia il passaggio da una cultura della trascendenza ad una dell’immanenza. Questo era per lui l’obiettivo del Partito Comunista, che richiedeva però, come scrisse in seguito Del Noce, un altro suicidio, quello della rivoluzione (“Il suicidio della Rivoluzione”, Milano1978) e la trasformazione del Partito in un partito radicale di massa che demolisce senza più costruire, che non combatte per qualcosa e contro qualcuno ma che solo sollecita il suicidio.
Gomez Davila diceva che “le cose buone non muoiono che per suicidio”. Aveva intuito che al centro delle trasformazioni della cultura e della politica si sarebbe imposta la questione del suicidio: l’avversario deve essere suicidato. Le cose vere, buone e belle, secondo Davila, non possono essere sconfitte. Anche Socrate diceva che nessuno può essere obbligato a fare il male, se non lo vuole fare. Si può essere costretti a farlo, ma non a volerlo fare. Per san Tommaso la verità (e quindi anche il bene) in seipsa fortis est et nulla impugnatione convellitur. Le cose buone non possono essere sconfitte, possono solo uccidersi da sé.
La tattica grossolana di distruzione delle cose buone usa violenze e minacce. Il cristianesimo e la Chiesa ne ha supportate, e superate, tante. Finché si trattava di tattiche poco raffinate da parte di nemici esterni, identificabili dai radar, le contraeree erano pronte a reagire. Nei tempi più vicini a noi, però, i nemici hanno adottato anche essi la tattica del suicidio. Massoneria e modernismo raffinarono le loro tecniche e Buonaiuti disse che “fino ad oggi si è voluto riformare Roma senza Roma, o magari contro Roma. Bisogna riformare Roma con Roma; fare che la riforma passi attraverso le mani di coloro che devono essere riformati”. Ossia suicidati.

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