Non sapevo proprio a quale argomento dedicare questa rubrica. Mi ero stampato, però, un articolo di Matteo Matzuzzi, comparso sulla Nuova Bussola quotidiana. In cui si riferiva di un “Kasper senza freni”, che, ovunque vada, ripropone la sua visione: la Chiesa deve dare la comunione ai divorziati risposati. In nome della misericordia. Mi urtava quest’idea di un cardinale che, incurante delle riflessioni di tanti confratelli che lo invitano alla cautela, procede come un panzer nel riproporre se stesso, e nel tacciare, implicitamente, tutti gli altri di essere senza misericordia. Scrivere ancora di questo?
Mi è passato il dubbio dopo i soliti consigli di classe di fine anno. Chi insegna sa che dopo un quadro generale, si affrontano i singoli casi. E sa anche che quelli più tristi, più dolorosi, di solito sono quelli dei figli di genitori divorziati. Che magari hanno, al posto delle due figure genitoriali, una sola di esse, oppure una pletora di adulti che non sanno dove mettere: il padre e la madre (altrove affacendati), il nuovo compagno di lei, la nuova compagna di lui… Tanta confusione, tanto dolore, desiderio di suicidio, vite mai sbocciate… Quante volte, nella mia esperienza di insegnante, ho avuto modo di assistere, impotente, a questo strazio.
Kasper, quando parla di misericordia, ha sotto gli occhi il dolore infinito di questi ragazzi? I figli del divorzio sono milioni, eppure un cardinale della Chiesa sa parlare solo degli adulti, e non dice nulla di costoro. Siamo fatti così, anche noi cristiani: vediamo i poveri del Terzo mondo, ma non il vicino di casa; difendiamo il debole di turno, almeno a parole, ma ignoriamo il bimbo innocente che nel grembo materno viene assalito dai ferri del chirurgo; siamo pronti, d’altro canto, a difendere il feto che non vediamo, mentre calpestiamo il prossimo che si vede. L’ideologia è sempre in agguato. A me sembra che anche Kasper ne sia una vittima illustre. Anche se usa sempre una parola così dolce, così cristiana come “misericordia”.
Molto più realistico, e più cristiano, mi sembra il ragionamento del missionario padre Carlo Buzzi, di cui Magister ha pubblicato una lettera sul tema, appunto, della comunione ai divorziati risposati. Scrive padre Buzzi: “Ora per questi risposati, che tutto sommato hanno messo un po’ sotto i piedi il senso cristiano della sofferenza, del sacrificio, della sopportazione, della penitenza e hanno dimenticato che Gesù è salito sulla croce e che la croce, quando arriva, è la via per ogni cristiano per avvicinarsi al Redentore, è un po’ presuntuoso appellarsi alla misericordia di Dio, del quale hanno tenuto precedentemente poco conto. In senso soggettivo, penso che per loro è molto più esistenziale che si limitino al desiderio della comunione, invece che ricevere la comunione stessa. L’accettare volentieri questo digiuno farà molto bene alla loro anima e alla santità di quella comunità cristiana che è la Chiesa. Se invece si procede sulla strada tracciata dal cardinale Walter Kasper si faranno dei grossi danni: si renderà la Chiesa superficiale e accomodante; si dovrà negare l’infallibilità della cattedra di Pietro, perché è come se tutti i papi precedenti abbiano sbagliato; si dovrà prendere per stupidi tutti quanti hanno dato la vita come martiri per difendere questo sacramento”.
A queste considerazioni ne aggiungo due, una dottrinale e una storica. La prima: si è sempre insegnato, riguardo all’Eucaristia, che accedere ad essa è entrare in com-unione con Cristo. Ma come si può davvero ottenere l’unione con Dio, quando si è rotta l’unione con la persona che Lui ci ha posto al fianco? La comunione, così come la confessione, non è un gesto magico. Non basta inginocchiarsi, per essere assolti: occorrono il pentimento e il desiderio di non peccare più. Analogamente non basta ricevere l’Eucaristia, per essere in comunione con Cristo, perché chi lo ama, si sforza di osservare i suoi comandamenti. Ci viene dunque sempre chiesto qualcosa, una pur piccola com-partecipazione: Dio non salva l’uomo, senza l’uomo.
A queste considerazioni aggiungo un riflessione storica. Sostiene il cardinale tedesco che oggi i divorzi sono un numero inaudito, e per questo non si può che cambiare prassi (e dottrina). In verità nei primi secoli del cristianesimo, nell’impero romano, i divorzi erano certo più di oggi. Gli ebrei dell’epoca di Gesù non solo erano, spesso, poligami, ma di norma si ritenevano in diritto di ripudiare le mogli infedeli, sterili, cattive, o semplicemente che avessero bruciato la minestra. E i romani? All’epoca di Cristo il matrimonio romano era un istituto giuridicamente più fragile che mai. Giovenale (I sec. d. C.) ci racconta di una donna con 8 mariti in 5 anni, mentre Marziale cita a mo’ di esempio sulla corruzione dei costumi Telesilla, con i suoi 10 mariti. A sua volta Seneca, pochi anni prima, racconta come ai suoi tempi vi siano donne, oltre che uomini, che hanno preso l’abitudine “di contare gli anni non dal nome dei consoli, ma da quello dei loro mariti. Esse divorziano per maritarsi; si maritano per divorziare”. Eppure è proprio in questa stessa epoca che Cristo invita, senza ambiguità, né eccezioni, né casistica, all’amore esclusivo e al matrimonio indissolubile. Cristo, non Kasper.
Il Foglio, 15 maggio 2014
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