mercoledì 28 maggio 2014

Confessioni di un convertito







Avevo questo libro di R. H. Benson (Confessioni di un convertito, Gribaudi, 1966, pag. 144, euro 8,50) nella libreria da parecchi anni ma, chissà come, mi è capitato tra le mani proprio in questi giorni. Come resistere a un’autobiografia di uno tra i più noti convertiti dall’anglicanesimo dell’inizio ‘900?


di Rita Bettaglio (26/05/2014)

Così l’ho preso in mano e mi sono addentrata in un mondo che conosco per sommi capi, avanzando per mano coll’autore del “Il padrone del mondo”. E’ stato un viaggio interessantissimo perché i dubbi e la complessità del mondo spirituale inglese di fine XIX secolo non sono poi così differenti dai fantasmi in cui si dibatte il povero cattolico d’oggi.

Se uno non se ne fosse ancora reso conto, Benson ci fa toccare con mano, sviscerandolo nei particolari, che tra un cattolico e un anglicano c’è un abisso, un vero e proprio abisso esistenziale. E’ totalmente diversa l’aria che si respira, la terra da cui si trae nutrimento: sicurezza e serenità di una ferma dottrina da una parte, soggettivismo e volubilità dall’altra.

Il cattolico, anche il più ignorante, può contare sulla dottrina immutabile custodita dalla Chiesa di Roma e dal Papa, mentre l’anglicano è abbandonato a se stesso, a opinioni assai variabili e diverse a seconda del pastore o della comunità di riferimento. E’, come dice la Scrittura, esposto ad ogni vento di dottrina e non ha mezzi autorevoli per ripararsi.

Purtroppo in questi ultimi tempi (a dire il vero è già parecchio) vediamo sempre più cattolici “fai da te” che, brancolano nel buio delle loro coscienze, senza il lume della conoscenza della dottrina, il sano e vecchio catechismo.

Ma non distraiamoci. Eravamo a Benson e alla sua personale vicenda.

Robert Hugh Benson, classe 1871, era figlio, niente meno, che dell’arcivescovo anglicano di Canterbury, massima autorità spirituale della Chiesa d’Inghilterra. Fu ordinato pastore nel 1894 e nel 1904 si convertì al cattolicesimo e successivamente divenne sacerdote. Morì nel 1914 a seguito di una crisi cardiaca.

I dieci anni tra la sua ordinazione e la conversione al cattolicesimo furono per lui un graduale morire e rinascere, come lui stesso narra nelle pagine di “Confessioni di un convertito”. Leggere queste pagine è assai utile per un cattolico perché lo aiuta a rendersi conto che della straordinaria ricchezza in cui siamo immersi e di cui non ci avvediamo. Quello che noi diamo per scontato è stato per Benson una sudata conquista, un cammino sofferto verso la Vera Chiesa, quella che, sola, soddisfece il suo desiderio di pienezza.

L’unità della Chiesa intorno al Vicario di Cristo, alla Tradizione e al Magistero è qualcosa che gli anglicani (e neppure gli altri cristiani non cattolici) non conoscono.
I sacramenti, la loro realtà efficace, sono divenuti, nell’anglicanesimo dei tempi di Benson, qualcosa di vago, soggettivo e vuoto. Qualcosa su cui si sorvola con imbarazzo perché costringerebbe ad una riflessione teologica e personale seria.

La Chiesa d’Inghilterra di fine XIX secolo è un insieme multiforme, a svariate gradazioni: dalla Chiesa Bassa, decisamente su posizioni protestanti a quella Alta, nelle sue numerose declinazioni, più vicina alla tradizione cattolica. Più vicina ma sempre lontana, percorsa da mille fremiti e senza guida alcuna.
Tot capita, tot sententiae: è questo che c’è, non solo nella Chiesa d’Inghilterra, ma ovunque al di fuori della Chiesa di Roma.

Il cammino spirituale di Benson fu lungo e difficile anche perché, nonostante la sua elevata posizione sociale che gli rendeva disponibile i migliori strumenti formativi disponibili, non ebbe una guida spirituale personale e non provò, se non quando già ordinato, il rapporto personale con Dio. Non gustò mai, finchè fu anglicano, la bellezza e l’utilità della comunione dei santi straordinariamente mediata dalla Vergine Maria.

Il giovane pastore non si arrese e continuò a cercare, nel suo mondo religioso, qualcosa che lo soddisfacesse e la sua sete parve temporaneamente placarsi quando incontrò la Comunità di Mirfield. Si trattava di una comunità di pastori anglicani che conducevano una vita ispirata alle regole degli antichi ordini religiosi, principalmente ai redentoristi e ai benedettini. La maggioranza dei membri della comunità, che conducevano una vita comunitaria improntata alla semplicità e alla preghiera, “passavano la metà dell’anno in preghiera e in attività formative, e l’altra metà in opere di apostolato e missionarie” (pag.60).

Benson rimase molto legato, anche affettivamente, a questa comunità. Il problema era però il semestre di predicazione lontano da Mirfield.

“Penso che l’aspetto più faticoso delle mie attività esterne fosse il doversi ogni volta adattare alle dottrine e ai riti più diversi. (…) Trovavo tutti i tipi di insegnamenti e rituali. In una chiesa indossavano elaborate stole senza paramenti e dottrinalmente non erano certo impeccabili; in un’altra i paramenti venivano utilizzati solo per quei servizi in cui gli esponenti importanti della comunità protestante non partecipavano; l’insegnamento della Presenza Reale veniva trascurato con cura, e la Confessione veniva emarginata come “Sacramento della Riconciliazione”, oppure proposta a pochi eletti come servizio ristretto per un’élite. E va considerato che questi aspetti non sono che una piccola parte delle innumerevoli divisioni e scuole di pensiero che convivono nella Chiesa Anglicana; divisioni che tuttavia era impossibile trascurare” (pag. 66).

L’inquieto pastore avvertiva, sempre più forte, “il bisogno di una chiesa docente il cui compito era di preservare e interpretare le verità del cristianesimo per ogni generazione. (…) La Chiesa docente deve sapere con sicurezza qual è il tesoro che deve custodire, soprattutto su quei punti che riguardano la salvezza dei suoi figli” (pag. 83). Invece rappresentava una “Chiesa che era incapace di prendere decisioni anche sulle materie direttamente attinenti la salvezza delle anime” (ibidem). Si rendeva conto di insegnare opinioni personali e questo non lo lasciava tranquillo.

La luce si manifestò per gradi, fino a portarlo al passo più importante della sua vita, divenire cattolico. Ma questo avvenne in un modo del tutto inaspettato: non “torrenti di grazia, fiumi di piacere, una gloria abbagliante e suoni dall’aldilà” ma “una cappa pesante illuminata da un’unica luce, la stella della fede divina, ferma e sicura come dio nel suo trono” (pag. 116). Non fu certo tutto rose e fiori, neppure il suo ingresso nella Chiesa cattolica ma, alla fine del suo racconto Benson eleva un inno di ringraziamento a Dio che (scusandomi per la lunghezza, forse eccessiva, di questo mio scritto) desidero condividere.

“Ora capisco la coerenza in tutto ciò che ha fatto Dio: Lui che ha creato con un solo sangue tutte le nazioni della terra; che accoglie tutte le aspirazioni, anche quelle provenienti dagli anfratti più oscuri; che trae anche dai sistemi più distorti e deformati un raggio di luce riflettente la gloria eterna; che contempla per tutte le anime un posto nella Sua economia di salvezza. Da una parte vi è la sete, il desiderio, l’agitazione; dall’altra la soddisfazione e la pace; non vi sono istinti senza finalità, piscine che non riflettano il sole, luoghi su questo martoriato pianeta che non siano illuminati dal cielo. E attraverso questo cammino tra la selva selvaggia mi ha portato, grazie alla Sua infinita bontà in quel luogo dove è discesa la Gerusalemme celeste, che è madre di tutti noi: mi ha tirato fuori dall’argilla e dal fango e ha posto i miei piedi sulla roccia: mi ha sollevato da quei sentieri faticosi che non raggiungono alcunchè, per portarmi a quella strada comoda che conduce a Lui” (pag141).

“Ecco la tenda di Dio tra gli uomini” (Ap, 21,3).

Un libro che fa davvero bene all’anima. Leggetelo.







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