23 aprile 2014
C’è un volumetto molto prezioso scritto da Alessandro Gnocchi, ma è come se l’avesse scritto Giovannino Guareschi: si intitola Il Catechismo secondo Guareschi ed è una sorta di scrittura postuma di quanto fu effettivamente chiesto al grandissimo autore, ossia una riproposizione accattivante del Catechismo (ovviamente di quello Maggiore di San Pio X). Se Guareschi si rifiutò, soprattutto per modestia, ci ha provato il suo più grande conoscitore, non per fornire un saggio della propria abilità personale ma per dimostrare quanto l’opera intera guareschiana sia permeata di cattolicità, di quella sana e perfettamente allineata alla Dottrina.
Accostando alcuni passi chiave del Catechismo Maggiore, Gnocchi li chiosa dal punto di vista del mondo guareschiano, traendo esempi lampanti dalle affascinanti vicende di Peppone e don Camillo. Eccone un esempio, relativo alla tanto attuale questione della Carità, da distinguere dai banali buonismo e pauperismo di facciata.
Carità, non ideologia
41 (897) D.: Che cosa è la Carità?
R.: La Carità è una virtù soprannaturale, infusa da Dio nell’anima nostra, per la quale amiamo Dio per se stesso sopra ogni cosa, e il prossimo come noi stessi per amor di Dio.
(898) D.: Per quali motivi dobbiamo noi amare Dio?
R.: Noi dobbiamo amare Iddio perché Egli è il sommo bene, infinitamente buono e perfetto; e inoltre per il comando che Egli ce ne fa, e per tanti benefici che da Lui riceviamo.
(899) D.: Come si deve amare Iddio?
R.: Dio si deve amare sopra tutte le cose, con tutto il cuore, con tutta la mente, con tutta l’anima e con tutte le forze.
È un tratto comune alla gran parte dei moderni predicatori della carità quello di scagliarsi con violenza contro qualcuno. Al di là della necessaria denuncia delle storture, è davvero singolare mancare di carità proprio con chi ne avrebbe più bisogno.
Si tratta di un errore gravissimo per un cristiano, che finisce per trasformare una virtù in un atteggiamento ideologico. E dunque a stravolgere la realtà. Come fa don Chichì, in un passaggio del racconto Vennero per suonare e tornarono salati. Il giovane curato progressista, con le sue prediche contro i ricchi, sta svuotando la chiesa. Molta gente, che ha lavorato tutta la vita per avere da parte qualcosa, non intende più andare a messa per sentirsi insultare. Don Camillo cerca di farlo capire al suo coadiutore, che lo investe:
“Il ricco è un ladro ed è quindi esatto dire che la proprietà è un furto. La Chiesa di Cristo è la Chiesa dei poveri perché solo dei poveri è il Regno dei Cieli.”
“La povertà è una disgrazia, non un merito” replicò don Camillo. “Non basta essere poveri per essere giusti. E non è vero che i poveri abbiano solo diritti e i ricchi solo doveri: davanti a Dio tutti gli uomini hanno esclusivamente doveri”.
Non vi è persona più triste di chi si affanni a umanizzare i doni divini. Non vi è universo più terrificante di quello in cui le virtù circolano a testa in giù.
Don Chichì è uno di questi uomini, persi dietro al sogno di un tale mondo capovolto. La carità, nel suo cervello, non chiede, prima di tutto, di amare Dio e, poi, di amare gli uomini per amore del Signore. Liberato l’orizzonte da un essere ingombrante come il Creatore, la virtù viene capovolta nella sua parodia, il filantropismo. Ma il semplice amore per gli uomini, essendo completamente astratto, non ha altra ragione che se stesso. Non ha vincoli ed è disposto a seguire qualsiasi via pur di alimentarsi e affermarsi. Per questo, messo davanti alla scelta tra due esseri concreti, non esita a stare con quello che rende di più. Laddove l’uomo caritatevole cerca, invece, di dividere se stesso per vivere vicino a entrambi.
L’opzione della parte più redditizia è quella che opera anche don Chichì, quando viene messo davanti alla scelta tra poveri e ricchi. L’ideologia e il plauso del mondo gli impongono di stare con i poveri e lui non esita. Non pensa, come fa invece don Camillo, che, davanti a Dio, tutti gli uomini sono uguali e, dunque, non è possibile decidere di stare da una parte o dall’altra.
Nasce da qui l’esaltazione della povertà come valore. Una bestemmia, secondo il vecchio parroco di Mondo piccolo, che la definisce nell’unico modo realmente possibile: una disgrazia. Ma la perversione del filantropo va ben oltre. Sente il bisogno della miseria e chiede il suo perpetuarsi. A patto che sia quella altrui, sulla quale esercitare tutta la proprie impietosa bontà.
(Alessandro Gnocchi, Il Catechismo secondo Guareschi, Le virtù, Carità, non ideologia, pp. 115-117)
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