sabato 24 maggio 2014

Un biglietto per tre: il rabbino, l'imam e il papa





Un ebreo e un musulmano nel seguito ufficiale di Francesco in Terra Santa. Ma non tutto fila liscio nei rapporti con l'ebraismo e l'islam. La strategia di Bergoglio: "accarezzare i conflitti" 




di Sandro Magister

ROMA, 23 maggio 2014 – Jorge Mario Bergoglio non è nuovo agli imprevisti, quando mette piede in Terra Santa. La prima e finora unica volta che ci andò, nell'ottobre del 1973, incappò nella guerra del Kippur e poté visitare poco o nulla.

Questa volta ci torna da papa, il viaggio è lampo, di soli tre giorni tra sabato 24 e lunedì 26 maggio, ma il programma è mozzafiato, con una grossa novità già prima della partenza: Francesco ha voluto come membri del suo seguito ufficiale un ebreo e un musulmano, Abraham Skorka e Omar Abboud, due suoi amici argentini.

Il rabbino Skorka ha fatto balenare che a Gerusalemme, davanti al muro del tempio, il papa e lui faranno un gesto che entrerà nella storia. Si abbracceranno e pregheranno insieme, con questa profezia di Isaia come guida: “Benedetto sia l’Egiziano mio popolo, l’Assiro opera delle mie mani e Israele mia eredità”. Una musica di pace per quella martoriata regione e per i due popoli dell'Antico e del Nuovo Testamento.

La forte amicizia tra un papa e un ebreo non è una novità. Perfino l'intransigente Pio X aveva per amico l'ebreo Moisé Jacur, possidente terriero nel basso Veneto. Il discusso Pio XII era ammiratissimo dal rabbino capo di Roma, Israel Zolli, che alla fine addirittura si convertì e prese il nome di battesimo del papa, Eugenio.

Ma di ebrei ce ne sono tanti, e non tutti provano per l'attuale papa il medesimo trasporto del rabbino Skorka.

Ad esempio, a molti ebrei non piace affatto che Bergoglio abbia ripreso a chiamarli "fratelli maggiori", come per primo aveva fatto papa Karol Wojtyla.

Benedetto XVI, anche lui amico di un grande studioso ebreo, l'americano Jacob Neusner, aveva avvisato dove stava il pericolo: nella tradizione ebraica il "fratello maggiore", ovvero Esaù, è quello che viene retrocesso e soppiantato dal minore, Giacobbe. Al cui posto vincente si metterebbe oggi la Chiesa.

Papa Benedetto preferiva chiamare gli ebrei "nostri padri nella fede".

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Anche con l'islam Francesco ha un rapporto di luci e ombre.

La prima tappa del viaggio sarà la Giordania, la cui casa reale diede impulso sette anni fa a quella lettera dei 138 saggi musulmani in risposta al memorabile discorso di Benedetto XVI a Ratisbona che segna tuttora il punto più alto nel dialogo tra cristiani e musulmani.

Ma a poca distanza da Amman e dal fiume Giordano nel quale Gesù fu battezzato ci sono la Siria, l'Egitto, l'Iraq, quella mitica "fertile mezzaluna" che è oggi teatro di uno scontro fratricida tra l'islam sciita e sunnita, tra l'Iran e i reami del Golfo, con i cristiani vittima degli uni e degli altri, in disperato esodo da quelle terre che nei primi secoli della Chiesa furono tutte rigogliosamente cristiane.

E più lontano c'è l'Africa, anche lì con i cristiani sotto attacco sistematico non solo di gruppi fanatici musulmani come Boko Haram in Nigeria, ma anche di Stati come il Sudan che danno forza di legge ai precetti più violenti dello stesso Corano.

È rimasto deluso chi si aspettava che papa Francesco alzasse anche lui subito e vigorosamente la voce contro il sequestro fatto da Boko Haram di centinaia di studentesse e contro la condanna a morte in Sudan di una giovane madre di nome Meriam, con un figlio di venti mesi e un altro in grembo da otto, colpevole solo di essere cristiana: due eventi che hanno sollevato fortissime proteste in tutto il mondo.

Bergoglio è cautissimo ad uscire allo scoperto su questo terreno esplosivo. Non solo per una prudenza che vuole evitare di aggravare ancor più la situazione di comunità cristiane già in pericolo estremo, ma proprio per una sua visione del dialogo, tra islam e cristianesimo, come ricerca di ciò che unisce invece che giudizio su ciò che divide. Il rabbino Skorka ha detto d'aver ascoltato da lui che "dobbiamo accarezzare i conflitti".

Nella "Evangelii gaudium", il manifesto programmatico del suo pontificato, Francesco ha reclamato per i paesi musulmani quella libertà di culto di cui i credenti nell'islam godono nei paesi occidentali.

Ma il gesuita egiziano Samir Khalil Samir – l'islamologo che durante il pontificato di Benedetto XVI era tra i più ascoltati dalle autorità vaticane e dallo stesso papa – gli ha obiettato di aver taciuto su quella privazione della libertà di convertirsi da una religione all'altra che è il vero punto dolente del mondo musulmano.





http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1350801


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