Ratzinger non si è ritirato a vita privata. Ecco perché abbiamo davvero due Papi
Vittorio Messori
«Carissimi Fratelli, vi ho oggi convocati anche per comunicarvi una decisione di grande importanza per la vita della Chiesa. Dopo aver a lungo esaminato la mia coscienza davanti a Dio, ben consapevole della gravità dell’atto, in piena libertà, dichiaro di rinunciare al ministero di vescovo di Roma, successore di San Pietro…».
Del tutto impreviste, dette in latino, a voce bassa, quelle parole furono come una frustata che fece in pochi minuti il giro del globo. E questo anche in Paesi non a maggioranza cattolica e nemmeno cristiana, ma dove si comprese subito la novità storica dell’evento. Non si dimentichi che — stando anche solo alle parole recenti del protestante Obama, dell’ortodosso Putin, dell’anglicano Cameron — il Pontefice romano sarebbe oggi la più alta autorità morale del pianeta.
Per tornare a quell’11 febbraio, ricorrenza di Nostra Signora di Lourdes, chi conosce il mondo cattolico sa che ancora ci si interroga e ci si confronta, anche duramente. Gli schieramenti sembrano essere due: da un lato i custodi della Tradizione, per i quali la «rinuncia» (non dimissione, non avendo il Papa alcuno in terra cui presentarla), malgrado sia prevista dal Codice Canonico, avrebbe costituito una sorta di defezione, quasi che Benedetto XVI considerasse il suo ufficio come quello di presidente di una multinazionale o di uno Stato. E, dunque, fosse necessario ritirarsi a vita privata al declinare dell’età, in nome di considerazioni efficientiste, respinte, invece, dalla lunga agonia in pubblico scelta da Giovanni Paolo II. Dall’altro lato, ecco lo schieramento di coloro che si rallegrano: la rinuncia sarebbe la fine della sacralità del Pontefice, dell’aura mistica attorno alla sua persona e quindi l’adeguamento del vescovo di Roma alla norma comune a tutti i vescovi, voluta da Paolo VI. Rinunciare, cioè, al governo di una diocesi e ad incarichi ufficiali nella Curia romana al raggiungimento dei 75 anni.
Sullo sfondo, comunque, restavano domande che sembravano non avere risposta adeguata: perché non scegliere di chiamarsi «vescovo emerito di Roma» (come suggeriva la stessa Civiltà Cattolica ) bensì «Papa emerito»? Perché non rinunciare all’abito bianco , pur avendo tolto la mantellina e l’anulus piscatorius al dito, segno della autorità di governo? Perché non ritirarsi nel silenzio di un monastero di clausura, invece di restare nei confini della Città del Vaticano, accanto a San Pietro, confrontandosi spesso — seppur privatamente — con il successore, ricevendo ospiti e partecipando a cerimonie e a canonizzazioni come quella recente di Roncalli e di Wojtyla? Confesso che io stesso mi ero posto simili interrogativi, restando perplesso.
Una risposta a quelle domande viene ora da uno studio di Stefano Violi, stimato docente di diritto canonico presso le facoltà di Teologia di Bologna e di Lugano. Vale la pena di esaminare quelle fitte pagine, poiché con la decisione di Benedetto XVI si sono aperte per la Chiesa scenari inediti e in qualche modo sconcertanti. È prevedibile che le conclusioni del professore Violi susciteranno dibattito tra i colleghi, visto che questo canonista ipotizza che l’atto di Ratzinger innovi profondamente e che i Papi viventi siano ora davvero due. Anche se uno di loro volontariamente «dimezzato», per dirla in maniera un po’ semplicista ma, ci pare, non errata. Per capire, vanno sgombrati innanzitutto tutto i deliri di dietrologi e complottisti, prendendo sul serio Benedetto XVI che ha parlato del peso crescente della vecchiaia come motivo primo e unico della sua decisione: «In questi ultimi mesi ho sentito che le mie forze erano diminuite… Le mie risorse, fisiche e intellettuali, per l’età avanzata, non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero…».
Ma, studiando in modo approfondito il controllatissimo latino con il quale Joseph Ratzinger ha accompagnato la sua decisione, l’occhio del canonista scopre che essa va ben al di là dei pochi antecedenti storici e anche al di là della disciplina prevista per la «rinuncia» dal Codice attuale della Chiesa. Si scopre, cioè, che Benedetto XVI non ha inteso rinunciare al munus petrinus , all’ufficio, al compito, cioè, che il Cristo stesso attribuì al capo degli apostoli e che è stato tramandato ai suoi successori. Il Papa ha inteso rinunciare solo al ministerium , cioè all’esercizio, all’amministrazione concreta di quell’ufficio. Nella formula impiegata da Benedetto, si distingue innanzitutto tra il munus, l’ufficio papale, e la executio, cioè l’esercizio attivo dell’ufficio stesso. Ma l’executio è duplice: c’è l’aspetto di governo che si esercita agendo et loquendo, lavorando ed insegnando. Ma c’è anche l’aspetto spirituale, non meno importante, che si esercita orando et patendo, pregando e soffrendo. È ciò che starebbe dietro le parole di Benedetto XVI: «Non ritorno alla vita privata… Non porto più la potestà di guida nella Chiesa ma, per il bene della Chiesa stessa e nel servizio della preghiera, resto nel recinto di San Pietro». Dove «recinto» non andrebbe inteso solo nel senso di un luogo geografico dove vivere ma anche di un «luogo» teologico.
Ecco, dunque, il perché della scelta, inattesa e inedita, di farsi chiamare «Papa emerito». Un vescovo resta vescovo quando l’età o la malattia gli impongono di lasciare il governo della sua diocesi e si ritira a pregare per essa. Tanto più il vescovo di Roma, al quale il munus, l’ufficio, il compito di Pietro, è stato conferito una volta per tutte, per l’eternità intera, dallo Spirito Santo, servendosi dei cardinali in conclave solo come strumenti. Ecco anche il perché della decisione di non abbandonare l’abito bianco, pur privato dei segni del governo attivo. Ecco il perché della volontà di stare accanto alle reliquie del Capo degli apostoli, venerate nella grande basilica. Per dirla con il professor Violi : «Benedetto XVI si è spogliato di tutte le potestà di governo e di comando inerenti il suo ufficio, senza però abbandonare il servizio alla Chiesa: questo continua, mediante l’esercizio della dimensione spirituale del munus pontificale affidatogli. A questo, non ha inteso rinunciare. Ha rinunciato non al compito, che non è revocabile, bensì alla sua esecuzione concreta». Forse anche per questo Francesco non sembra amare il definirsi «Papa», consapevole com’è di condividere il munus pontificale, almeno nella dimensione spirituale, con Benedetto? Ciò che invece ha ereditato interamente da Benedetto XVI è l’ufficio di vescovo di Roma. È per ciò che questa, come si sa, è la sua autodefinizione preferita, sin dalle prime parole di saluto al popolo dopo l’elezione? Tanto che molti, sorpresi, si chiesero perché non avesse mai usato la parola «Papa» o «Pontefice» in un’occasione tanto solenne, davanti alle tv del mondo intero, e avesse solo parlato del suo ruolo di successore all’episcopato romano.
Per la prima volta, dunque, la Chiesa avrebbe davvero due Papi, il regnante e l’emerito? Pare proprio che questa sia stata la volontà di Joseph Ratzinger stesso, con quella rinuncia al solo servizio attivo che è stato «un atto solenne del suo magistero», per dirla con il canonista. Se davvero è cosi, tanto meglio per la Chiesa: è un dono che ci sia, uno accanto all’altro anche fisicamente, chi dirige e insegna e chi prega e soffre , per tutti, ma anzitutto per sorreggere il confratello nell’ufficio pontificale quotidiano.
Corriere della Sera 28 maggio 2014
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