Il vuoto della proposta della Settimana sociale di Trieste non è improvvisato. Alle sue spalle ha la lunga strada della “svolta antropologica” che consiste nel partire non da Dio ma dall’uomo e comporta non solo un cambio di contenuti, ma anche un cambio di linguaggio.
Stefano Fontana, 03-07-2024
Di cattolici in politica ce ne sono già. Il problema è vedere se facciano bene o no. Se non facessero bene, sarebbe negativo aumentare la loro presenza. Servirà la Settimana sociale dei cattolici italiani che si apre oggi a Trieste a chiarire questo punto? Partecipare non basta e non si risolvono le cose aumentando la partecipazione, bisogna vedere a cosa mira la partecipazione, quali effetti produce. Se la partecipazione dei cattolici ha come esito il voto a favore della legge Cirinnà come fatto a suo tempo da Lupi e altri, oppure l’ammissione dell’aborto, magari negandolo ma nel contempo accettando la 194 che lo permette, come espresso di recente da Marco Tarquinio, allora è preferibile concludere che sarebbe meglio se i cattolici non partecipassero alla vita democratica e la Chiesa dovrebbe dissuaderli dal farlo.
Se i cattolici dovessero riconoscere i cosiddetti “diritti civili”, se accettassero la “fiaba” dell’emergenza climatica come ieri hanno accettato quella pandemica, se puntassero su una Unione Europea alla Macron, se non avessero nessuna visione critica della cosiddetta società multireligiosa che, nel concreto, in Europa significa rassegnazione all’Islam, se non ritenessero più che i Dieci Comandamenti abbiano una funzione in politica, e, soprattutto e prima di tutto, se fossero dell’idea che la fede cristiana non abbia nulla di proprio, di originario e di vincolante da dire alla politica per renderla veramente buona, ben oltre una laicità che non riesce a non diventare laicismo … beh, allora sarebbe meglio che non partecipassero alla politica.
Preoccupa che nulla di tutto ciò verrà detto alla Settimana sociale di Trieste, nella quale, se verrà confermata la linea della fase preparatoria, si punterà tutto sulla partecipazione senza dire nulla sui fini e i contenuti per i quali si dovrebbe partecipare. La fase preparatoria è stata una grande delusione. Prima di tutto il documento preparatorio che non fa alcun riferimento a una visione cristiana della vita politica. Poi il programma e i relatori che, come è stato evidenziato, sono non solo quasi tutti di una parte ideologica, ma addirittura di una sola parte politica: il Partito Democratico.
La cosa è scandalosa e chi conosce bene il contesto triestino sa che ben altro ci sarebbe da dire sulla penetrazione tentacolare di questo partito nelle strutture diocesane e, di conseguenza, nella organizzazione della Settimana sociale, nonostante che cospicui finanziamenti per la Settimana stessa siano stati ottenuti dalla Regione che politicamente batte altre strade.
Gli eventi preparatori, coordinati in sede nazionale da esponenti PD o da persone a loro vicine, e programmati in sede diocesana dal vescovo mons. Trevisi, sono stati impostati con regole precise: nessun riferimento alla Dottrina sociale della Chiesa, accettazione della democrazia liberale procedurale camuffata di sinodalità, assunzione delle tematiche della Settimana dalle tendenze politiche attualmente dominanti, accettazione del voto democratico come legittimazione del potere politico in contrasto con l’insegnamento della Chiesa su questo tema, limitazione dei riferimenti magisteriali a Francesco come se Leone XIII, ma anche Giovanni Paolo II, non fossero esistiti.
La proposta della Settimana sociale è costituita da una serie di concetti dal contenuto molto incerto, come quelli enunciati dal vescovo di Trieste in una recente intervista: «Confronto con l’alterità», «sinodalità», «rispetto reciproco», «essere più protagonisti, più attivi, più partecipi». Tutte le alterità sono da integrare? La sinodalità può avere qualsiasi approdo? Essere protagonisti, attivi e partecipi per che cosa? La Settimana è vista dal documento preparatorio come «un crocevia di persone e progetti diversi, un luogo per condividere il presente e immaginare insieme il futuro, ricercando sempre nuove vie per costruire il bene comune». Sebastiano Nerozzi, segretario del comitato organizzatore, ritiene che la Settimana sarà «un evento popolare, aperto davvero a tutti, in cui usare i linguaggi più diversi per aprire uno spazio di ascolto e di confronto che stimola all’impegno e alla riflessione» (qui). Perché mai, ci si chiede, deve essere la Chiesa ad organizzare qualcosa di così vuoto e in cui di essa, della Chiesa, non c’è traccia? (a meno di non essere intesa propri così, come uno spazio di confronto).
Questo vuoto della proposta della Settimana sociale non è improvvisato, né è frutto di infondata invenzione. Alle sue spalle ha la lunga strada della “svolta antropologica”. Questa consiste nel partire non da Dio ma dall’uomo, non dalla Chiesa ma dalla situazione storica che si sta vivendo. Questo comporta non solo un cambio di contenuti – da quelli spirituali e dottrinali a quelli sociali e fattuali – ma anche un cambio di linguaggio: non bisogna più parlare di Dio ma dell’uomo perché è parlando dell’uomo che si parla di Dio il quale, secondo questa “svolta”, si esprimerebbe solo tramite le vicende umane e i fatti storici.
La democrazia farebbe parte della situazione esistenziale di oggi da cui si deve partire, ritenendosi astratto il partire dalla fede apostolica e dalle verità della Dottrina sociale della Chiesa. Così, si pensa che la democrazia appartenga al mondo dell’esistenza che viene prima dell’essere cattolici o no. La democrazia accomunerebbe prioritariamente i cattolici a tutti, tranne quelli, però, che criticano la democrazia. E se a criticare la democrazia sono stati anche tanti Pontefici, peggio per loro.
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