sabato 13 luglio 2024

Se la Liturgia è arbitraria, tutto lo diventa




12 LUG 2024

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by Aldo Maria Valli

Caro Valli,

dire che sono sempre più confusa e sconcertata è dir poco. Di seguito ho buttato giù i miei pensieri, nel tentativo di fare un poco di chiarezza, se non altro dentro di me.

Che differenza c’è tra le varie “comunità”, “fraternità”, “realtà” che ruotano intorno al cosiddetto “rito antico”? E perché tutte ce l’hanno più o meno velatamente con la FSSPX?

La prima risposta che viene in mente è questa: la FSSPX ha una posizione “irregolare” nella Chiesa cattolica, mentre le altre realtà no. Perché? Perché la FSSPX non accetta alcune novità del Concilio Vaticano II (peraltro non dogmatico), che hanno portato monsignor Lefevbre ad agire in “stato di necessità”. Se ne deduce quindi che le altre realtà accettino le suddette novità (almeno sulla carta).

Ricordo che l’interpretazione di tali novità per piegarle alla famosa ermeneutica della continuità è non solo una perdita di tempo ed energie preziose, ma anche un esercizio crudele, oserei dire una tortura nei confronti di chi soffre sulla sua pelle “i frutti spinosi” di tali novità. Infatti, mentre alcuni teologi si spaccano la testa per dimostrare che gli argini hanno tenuto in alcuni punti, il fiume a valle è straripato e ha colmato di fango la vigna.

Ma torniamo al punto: mi stupiscono alcune proposte da parte delle realtà “in regola” nel tentativo di trovare un modo per evadere la censura oggi definita bergogliana, ma nei fatti di origine conciliare, dell’uso del Messale del 1962. Si spera per esempio che venga eretta una circoscrizione ecclesiastica ad hoc per i fedeli legati al Rito antico.

Mi pare che queste realtà, che già godono di una posizione regolare nella Chiesa (quindi sostengono ogni punto del Concilio Vaticano II), facciano di volta in volta acrobazie pazzesche per rimanere in tale posizione, mentre sono costrette a sbilanciarsi abbastanza per ottenere qualcosa che il Concilio non aveva previsto (lo vedrete voi stessi di seguito, con buona pace di coloro che sostengono la sua mala-interpretazione da parte dei mass media e poi di tutti i vescovi e sacerdoti e laici che hanno seguito la mala-informatzione). Cos’è questo qualcosa su cui ci si lacera tanto? La possibilità di continuare a celebrare in Vetus Ordo per quei “fedeli legati alla tradizione liturgica latina” (termine usato nel motu proprio Ecclesia Dei adflicta del 2 luglio 1988).

In altre parole: i poveri fedeli “legati al rito antico” non possono essere lasciati soli; quelli non legati (anche perché del tutto ignari) vadano pure alla deriva…

Come esprimere il mio stupore? Ci proverò di seguito.

Se il Messale del 1962 non era mai stato abrogato (parola di Benedetto XVI), perché fu necessario l'”indulto” di Giovanni Paolo II nel 1988 prima, seguito poi da una sorta di rispolvero della memoria diciannove anni dopo, con il Summorum Pontificum?

Non ci sarebbe bisogno infatti di una concessione se la facoltà fosse già prevista dalla consuetudine o dalla legge.

Eppure non pochi sacerdoti nostalgici, affezionati alla liturgia di san Gregorio Magno, santa Caterina da Siena, san Francesco d’Assisi, san Tommaso d’Aquino, santa Rita da Cascia e tanti tanti altri santi, hanno atteso questo ultimo ossicino per dirsi soddisfatti e voltarsi sprezzanti verso chi non si accontentava. Dopo soli tredici anni, questi stessi fedeli stanno per perdere l’osso, e la loro esultanza si è trasformata in nervosismo, lamentele e paura. E in tutto ciò, spesso se la prendono contro la FSSPX. Invidia? Non lo so e non mi interessa. Riporto solo ciò che vedo.

Ma torniamo al “rito antico” su cui tanto ci si divide…

Nel motu proprio del 2007, Benedetto XVI non parla mai di due riti, ma di due espressioni, o forme, dello stesso rito. Anzi, in tale documento si afferma che il Messale Romano promulgato da Paolo VI è l’espressione ordinaria della “lex orandi” (“legge della preghiera”) della Chiesa cattolica di rito latino.

Per l’allora cardinal Ratzinger (2004) “il rito è la forma di celebrazione e di preghiera che matura nella fede e nella vita della Chiesa, è forma condensata della Tradizione vivente” e “questo insieme vivente della Tradizione fattasi forma non si può strappare in piccoli pezzi, ma deve essere visto e vissuto nella sua totalità”.

Quindi, di fatto, non esistono né un rito esclusivamente antico e né una tradizione liturgica esclusivamente latina a cui essere più o meno legati.

A rigore di logica, si possono ammettere due riti solo se si ammettono due Tradizioni viventi, o una vivente e una che è cadavere, e di conseguenza, a mio parere, due religioni.

L’espediente delle due forme di uno stesso rito mi ricorda molto quello del Papa Emerito, espediente tipicamente e finemente tedesco per risolvere questioni di fatto irrisolvibili senza creare eccessivi turbamenti.

Se fosse vero, come scritto da Benedetto XVI, che esistono due forme dello stesso rito, allora perché tanto caos e tanta lacerazione da tanti anni? Non si può semplicemente scegliere la forma che più aggrada per raggiungere la stessa sostanza? Ma la realtà è ben diversa e Paolo VI lo sapeva bene. Per questo l’espediente ha fallito, come era prevedibilissimo, in quanto ha cercato di piegare la realtà al desiderio (sincero) che la sostanza fosse sempre la stessa. E ciò è una menzogna di cui monsignor Lefevbre si era accorto e che aveva tentato di smascherare in tutti i modi.

Altro problema: se sono semplicemente due espressioni dello stesso rito, come sono da intendersi le parole di Annibale Bugnini della conferenza stampa del 4 gennaio 1967?

Egli parla di “riforma del culto cattolico, di ristrutturazione ex novo di interi riti, di rifacimento, per certi punti di vera nuova creazione, di lavoro a fondo”. Non solo, egli afferma con orgoglio che tutto ciò è necessario perché “completamente diversa da quella di prima è la visione della liturgia che ne dà il Concilio” e continua dicendo che loro (cioè i riformatori) “non lavorano per i musei, ma vogliono una liturgia viva per gli uomini vivi del loro tempo”.

E come si spiegano le parole di Paolo VI stesso, pronunciate il 17 marzo 1965, circa la “grande riforma liturgica”? Egli infatti afferma che la Chiesa ha compiuto il sacrificio della propria lingua, il latino, spingendosi fino a dire che la Chiesa “ha sacrificato tradizioni di secoli e soprattutto l’unità del linguaggio nei vari popoli”.

E come mai sempre lo stesso papa usa parole a dir poco di disprezzo per descrivere coloro che sono “legati alla tradizione liturgica latina”? Egli infatti afferma che “le critiche (alla sua, e da lui più volte definita “liturgia rinnovata”, “grande novità liturgica”) rivelano scarsa penetrazione del senso dei riti religiosi e lasciano intravedere […] una certa indolenza spirituale che non vuol spendere qualche sforzo personale di intelligenza e di partecipazione per meglio comprendere e meglio compiere il più sacro degli atti religiosi, a cui siamo invitati, anzi obbligati ad associarci”. Non solo, poco dopo, durante la stessa catechesi, il papa assicura che assistendo al nuovo ordine della riforma liturgica non si “ritornerà quieti e devoti o pigri, come prima”; […] esso provvederà a “scuotere la passività dei fedeli presenti alla santa Messa;” infatti “prima bastava assistere, ora occorre partecipare; prima bastava la presenza, ora occorrono l’attenzione e l’azione; prima qualcuno poteva sonnecchiare e forse chiacchierare; ora no, deve ascoltare e pregare”.

Capito cari fedeli legati al “rito antico”? Siete affetti da indolenza spirituale, pigrizia, passività, letargia e pure civetteria, proprio come le vostre bisnonne che andavano solo ad assistere la Messa senza parteciparvi!

Inoltre, Paolo VI afferma che “la Messa del nuovo ordinamento è e rimane, se mai con evidenza accresciuta in certi suoi aspetti, quella di sempre”.

Allora perché mai tanta preoccupazione per la soppressione della “forma antica”?

Chi aderisce pienamente al Concilio Vaticano II dovrebbe anche finalmente accettare il fatto che il “nuovo messale è dovuto ad una volontà espressa dal concilio ecumenico” e che “non è un arbitrio, un esperimento caduco o facoltativo, ma una legge pensata da cultori autorevoli della Sacra Liturgia” e che quindi “farebbe bene ad accoglierla con gioioso interesse ad applicarla con puntuale ed unanime osservanza” (parola di Paolo VI).

Ma torniamo ai poveri fedeli nostalgici, “legati” e affezionati alla vecchia epoca della vita della Chiesa (per parafrasare Paolo VI). Se si tratta solo di un legame affettivo o di gusto estetico, Paolo VI, Giovanni Paolo II e Francesco hanno perfettamente ragione quando definiscono (nei fatti, quando non anche a parole) questi fedeli come “nostalgici”, disubbidienti, indietristi e indolenti.

Se il problema che preoccupa queste persone riguarda “solo” la forma ma non la sostanza (poiché il Concilio li rassicura che essa non è cambiata), allora si tratta di una questione meramente estetica ed è così che l’hanno interpretata i papi da Paolo VI in poi.

Della serie: ogni tanto vado alla messa in latino perché mi piace il gregoriano e adoro il profumo di incenso. Non manco però di partecipare alle catechesi parrocchiali sulla Confessione di Augusta e nel tempo libero animo gli incontri inter-religiosi della mia diocesi. Per ricaricarmi, mi lascio imporre le mani dai “preacher” laici (cattolici o meno non importa) che hanno ottenuto il “battesimo nello spirito” durante l’incontro carismatico del mercoledì. Non sto per nulla esagerando. Questa è la cruda realtà.

Per quanto mi riguarda questa è pura schizofrenia oltre che schizocardia.

A chi tanto critica il comportamento e le parole della FSSPX, per il fatto che non ammettano questa varietà di gusti, vorrei provare a rispondere dal basso della mia ignoranza.

Come cattolica, io credo che non si possa scegliere se essere legati più a Cristo che allo Spirito Santo, piuttosto che al Padre. Non si può spezzare la Santissima Trinità e scegliere di parlare con la Persona che ci piace di più in quel determinato momento della vita (cosa che peraltro mi fu allegramente suggerito durante una catechesi tenuta da frati francescani).

Allo stesso modo, come cattolica, non posso dire che la Tradizione bimillenaria della Chiesa sia ormai roba da museo (Bugnini docet) da poter suddividere in diverse stanze, potendo poi scegliere di visitare solo quelle che mi interessano o che mi fanno comodo. Oltre il fatto che trattare con tale disprezzo i musei, custodi della storia e dell’identità dei popoli, rivela già molto dell’ideologia che sta alla radice dei fautori della cosiddetta Tradizione vivente (in contrasto con quella che per loro è morta e ormai fossile).

Se siamo onesti, non possiamo negare che il disprezzo e gli attacchi alla Liturgia preconciliare hanno fatto germogliare (e crescere costantemente) il disprezzo anche verso i valori e le opere di pietà ad essa legati: la regalità di Cristo (con le sue processioni e altre manifestazioni pubbliche), il credo cattolico niceano (oggi si recita solo quello apostolico) con i suoi frutti anti-ecumenici, l’indissolubilità del matrimonio, la castità, la sacralità della vita, solo per citarne alcuni.

Questi elementi, così come la forma del rito, sono divenuti facoltativi (cioè non più vincolanti) per potersi definire cattolici romani. Oggi non solo si può scegliere il rito o la forma del rito che più ci piace nel supermercato della liturgia (non solo cattolica!), ma si può anche decidere come recitare le preghiere (vedi ad esempio il Padre nostro o i vari tipi di rosari che circolano) a seconda del contesto in cui ci si trova, come interpretare i comandamenti a seconda dei casi, come utilizzare i luoghi di culto (sale concerto, sale mostra…), quali rivelazioni private (con annesse preghiere e immaginette) diffondere, e così via.

Se la Liturgia è arbitraria, tutto lo diventa.

Non è difficile imbattersi in sacerdoti (europei) profondamente odiatori del Vetus Ordo che hanno però ottenuto la possibilità di celebrare una “messa” di novanta minuti nella chiesa parrocchiale in rito greco bizantino insieme ai sacerdoti ortodossi, una tantum (a loro discrezione), usando l’altare nuovo per celebrare ad orientem (anche se quello antico è sopravvissuto al Concilio): ho anche una foto che testimonia questo strano “cortocircuito”. Eh, quel rito è affascinante, quindi è giusto lasciarglielo godere dove e quando vogliono. Gli stessi sacerdoti poi non si tirano mai indietro quando si tratta di “concelebrare” con i “fratelli” protestanti durante le grandi feste di Pentecoste carismatiche. Eh, “si sentono riempire di gioia” durante quelle celebrazioni ecumeniche con luci psichedeliche e musica rock, quindi perché non assecondare anche quel gusto? Ma non è finita: dopo tutte queste emozioni, questi poveri sacerdoti ecumenici si sentono in diritto di riposare, quindi non celebrano la Messa cattolica ogni giorno, specialmente in vacanza. È tutto vero. Non sto inventando nulla. E come dargli torto, poveretti! Se si ascolta con onestà (senza cercare scervellarsi a interpretare) ciò che esce dalla bocca dei viventi (e vivaci) “nuovi tradizionalisti” (cioè i fautori della nuova tradizione vivente), non si può che dar loro ragione. Loro sì che hanno colto il vero spirito del concilio, da cui sono scaturiti tutti gli altri spiriti, da quello di Assisi a quello amazzonico per giungere a quello sinodale.

È in questo clima di tempesta, in cui troppi spiriti soffiano dove vogliono, che io, smarrita e ferita, ho incontrato la FSSPX.

Ed è lì che ho compreso che essa e i suoi “spin off” regolamentati canonicamente celebrano con lo stesso Messale sì una identica Messa, ma hanno una differenza fondamentale: i primi mettono in discussione la radice della “nuova tradizione”, e non accettano l’arbitrio di cui sopra, mentre i secondi la stimano e la perseguono. Quindi, a rigore di logica, non si capisce perché questi ultimi non dovrebbero accogliere con gioia (e senza preoccupazione) i frutti deliziosi e luminosi di tale Tradizione vivente, tra cui “i vantaggi di questa grande riforma liturgica”. È proprio grazie a questa Liturgia rinnovata, infatti, che la Messa, secondo Paolo VI, diventa “più che mai una scuola di profondità spirituale e una tranquilla ma impegnativa palestra di sociologia cristiana. Il rapporto dell’anima con Cristo e con i fratelli raggiunge la sua nuova e vitale intensità”.

Ergo, se si aderisce alle affermazioni della lettera apostolica Ecclesia Dei del 1988, si riconosce il carattere il vivo della Tradizione (con tutti i suoi frutti, compresa la rinascita spirituale germogliata dalla novità liturgica); come si può quindi pretendere di rimanere legati a una Tradizione morta come quella latina? Come non comprendere il pensiero di papa Francesco che è nel solco di quello di Paolo VI? Come e perché criticarlo?

Paolo VI infatti non considerava affatto la riforma come un arbitrio, anzi! Queste le sue parole all’udienza generale del 19 novembre 1969: “La riforma che sta per essere divulgata è un mandato autorevole della Chiesa; è un atto di obbedienza; è un fatto di coerenza della Chiesa con se stessa; è un passo in avanti della sua tradizione autentica […] non diciamo dunque nuova Messa, ma piuttosto nuova epoca della vita della Chiesa”.

Il problema è che non si tratta solo di un’estetica differenza di espressioni, ma della visione della liturgia, anzi della vita stessa della Chiesa. Questa è la posta in gioco. Monsignor Lefebvre lo aveva capito ed ha agito di conseguenza.

Credo che ognuno di noi sia chiamato in qualche modo a fare una scelta ferma davanti a Dio e quindi davanti ai fratelli. Anche questa è carità verso Dio, verso se stessi e verso il nostro prossimo. Non sono necessarie lauree in filosofia o teologia per compiere tale scelta. E non ci si può nemmeno nascondere dietro la banale scusa dell’ignoranza o quella più pericolosa della comodità.

Siamo cattolici se seguiamo gli spiriti scaturiti dal Concilio Vaticano II in poi o siamo cattolici se riprendiamo in mano il Messale, il catechismo e le tradizioni dei nostri bisnonni relegati nei musei o nei mercatini dell’antiquariato?

Chi vorrebbe entrambe le cose insieme non può che soffrire di emicrania, come minimo.

Come si può infatti aprire il Messale Romano del 1962, al giorno 5 maggio, festa liturgica di san Pio V, e leggervi: “O Dio, che per debellare i nemici della tua Chiesa e restaurare il culto divino Ti degnasti scegliere quale Sommo Pontefice il beato Pio, fa’ che siamo difesi dalla sua protezione” e poi aderire ad esempio al decreto sull’ecumenismo Unitatis redintegratio (frutto luminoso del Concilio Vaticano II) con cui si inizia a formulare l’idea che le “chiese divise”, in realtà, sono state sempre unite perché l’unità non è frutto di accordi e compromessi politici, ma un dono che è stato dato da Dio stesso alle Chiese.

È come affermare che Lutero fosse un cattolico incompreso e san Pio V un cattolico incompleto e immaturo.

Oppure come si possono festeggiare i santi Pietro e Paolo quali predicatori della verità tra i popoli pagani e poi aderire all’idea, nata dal Concilio Vaticano II, in base alla quale l’azione dello Spirito santo non è solo nella Chiesa ma anche fuori di essa, e soprattutto nelle altre religioni e che è attraverso il confronto, il dialogo e l’emulazione pacifica con le grandi tradizioni religiose mondiali che noi cristiani cresciamo sotto l’azione dello Spirito nella comprensione della nostra stessa fede e siamo spinti a viverla con una sempre maggiore pienezza di fedeltà e di amore. E questi sono solo due minuscoli esempi scelti tra una miriade di possibili altri.

Si capisce quindi che il termine cattolico ormai non significhi più nulla all’interno di questa chiesa ecumenica e inter-religiosa, quindi non mi preoccuperei troppo del giudizio degli uomini dotti o meno che siano, ma solo di quello di Dio.

Elena





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