Le fonti della moralità sono tre: oggetto, fine e circostanze. Per oggetto si intende la natura dell’atto, cioè il fine immediato/prossimo ricercato dall’agente.
di Tommaso Scandroglio
Riprendiamo un passaggio dell’intervista del 26 settembre scorso rilasciata dal cardinal Christoph Schönborn a padre Antonio Spadaro per la Civiltà Cattolica.
In esso l’alto prelato invita a «guardare e discernere in una coppia, in un’unione di fatto, in dei conviventi, gli elementi di vero eroismo, di vera carità, di vero dono reciproco. (…) Chi siamo noi per giudicare e dire che non esistono in loro elementi di verità e di santificazione?». Pare quindi che nel male ci possa essere del bene.
È un principio non nuovo in casa cattolica quello enunciato dal cardinal Schönborn.
Non solo quindi ci sarebbero elementi di verità nella convivenza, come l’affetto reciproco, ma anche nella fecondazione artificiale. Ad esempio si sostiene che in quest’ultima comunque si dà alla coppia un figlio, che è un bene in sé, oppure nella fecondazione artificiale di tipo omologo, a differenza di quella eterologa, il bambino crescerà con i propri genitori biologici. Proviamo a vederci chiaro.
Le fonti della moralità sono tre: oggetto, fine e circostanze. Per oggetto si intende la natura dell’atto, cioè il fine immediato/prossimo ricercato dall’agente. Così se io incido la cute di una persona al fine di curarlo, l’oggetto è buono, se lo faccio al fine di ucciderlo, l’oggetto è malvagio.
Fine buono e circostanze non hanno il potere di cambiare un oggetto malvagio. Facciamo alcuni esempi. Rubare è malvagio. Il fine buono di farlo per i poveri – elemento buono dell’atto rubare – non cambia la natura dell’atto che rimane malvagia. La condizione di far crescere un bambino, concepito in provetta, con i propri genitori o il fine buono di avere un bambino seppur tramite fecondazione artificiale non muta la malvagità di questa pratica.
Veniamo al tema dei conviventi toccato dal cardinal Schönborn: la condizione di aver instaurato una convivenza ricca di “affetto” non muta la malvagità della convivenza. Quindi un fine buono e una modalità buona (condizione) di compiere un atto malvagio non mutano l’oggetto malvagio dell’atto, ma possono solo mutare la responsabilità soggettiva dell’agente (a volte la condizione fa cambiare specie dell’atto morale malvagio, ma il discorso sarebbe un po’ troppo lungo). E dunque minor responsabilità in capo al rapinatore per aver rapinato con gentilezza rispetto al rapinatore che ha compiuto il medesimo atto ma usando modi bruti; minor responsabilità per il ladro per aver rubato al fine di dare tutto ai poveri; minor responsabilità dei genitori per aver fatto ricorso alla Fivet per avere un figlio e non per venderlo a terzi. La responsabilità dunque può aggravarsi o pesare di meno a seconda del fine perseguito e della circostanza.
È da notare poi che alcuni elementi buoni in astratto possono per paradosso ridondare negativamente sulla responsabilità individuale: rubare con destrezza accresce la responsabilità del ladro; fare il male con astuzia e raggiri è peggio per l’agente perché lo porta a fare il male con più efficacia. È peggio per la persona omosessuale “volere bene” al compagno, perché vive più profondamente l’omosessualità, tendenza intrinsecamente malvagia. Senza tener conto che “l’affetto” omosessuale non è vero affetto. È peggio per i conviventi “volersi bene”, perché consolidano un vincolo che è intrinsecamente malvagio. Senza poi tenere in conto che il vero affetto comporterebbe volere l’oggettivo bene dell’altro e dunque cessare la convivenza perché quest’ultima non è il vero bene dell’altro.
Quindi il valorizzare intelligenza, affetto etc. vale in ambito speculativo, potremmo dire in astratto. In ambito pratico – cioè della morale – un talento se usato male diventa condanna per l’agente, si perverte e diventa un aggravio di colpa. Ed è per questo che San Tommaso dice che per chi è in stato di peccato mortale a nulla vale il bene fatto, perché se l’essenza dell’atto o della condizione di vita è malvagia, tutti gli accidenti dell’atto o della condizione (fine e circostanze) che insistono su di essa non possono mutarne l’essenza.
Quindi bisogna distinguere il piano teoretico/speculativo: il talento dell’intelligenza, della destrezza, l’affetto, etc., come elementi di per se buoni. E il piano pratico-morale: come questi elementi si incardinano su un atto malvagio, mutando solo la responsabilità e non la natura dell’atto. Infatti sul piano speculativo si parla di “verità-menzogna”, sul piano morale di “bene-male”: un elemento di verità introdotto in un’azione concreta può corrompersi in un elemento malvagio. Anche Gesù lodò l’amministratore disonesto (Lc 16, 8), ma era una lode speculativa, riguardante la sua sola abilità nell’alterare i registri. Ma sul piano pratico sarebbe stato meglio per l’amministratore rubare senza destrezza perché avrebbe provocato meno danni (di cui risponderà) e non avrebbe usato di un suo talento per fini diversi da quelli voluti dalla natura e da Dio. In altre parole se la natura dell’atto o della condizione è malvagia avvelena anche tutti i frutti buoni.
In sintesi: gli elementi di verità sono tali sul piano teoretico, invece sul piano pratico-morale non possono incidere su un atto malvagio – perché si sostanziano in “fine” e “circostanze” – ma possono solo mutare, in peggio o in meglio, la responsabilità dell’agente.
© Corrispondenza Romana (21-10-2015)
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